Taglia e cuci. Montaggio di spazi discreti e durate disparate, seguendo il filo rosso della fiction, così il cinema prova a restituirci la vera esperienza del mondo. In questo senso, “La Chimera”, di Alice Rohrwacher, propone una serie di immagini capaci di tratteggiare alcuni complessi caratteri della nostra società e del tempo in cui viviamo, rendendoci il senso della storia.
In un periodo volutamente imprecisato, sospeso fra gli anni Ottanta e un eterno presente attraversato da presagi del futuro, e senza dare un’eccessiva importanza al luogo della vicenda (l’immaginaria Riparbella, nella Tuscia), il film racconta delle peripezie di una banda di tombaroli, la quale ha un discreto successo nelle escavazioni delle tombe etrusche, riuscendo a trovare numerosi cimeli grazie al contributo del protagonista (Arthur, una specie di rabdomante), che riesce a percepire l’ubicazione dei tumuli e delle caverne interrati tramite le sue chimere, suscitate dal desiderio di ricongiungersi con il suo amore scomparso (Beniamina), che gli appare in sogno in maniera sfuggente, perdendo dietro di sé il filo dall’orlo scucito del vestito.
Ma quella del tombarolo è una professione del tutto particolare, forse il tipo di vita precario per antonomasia, sospeso fra la libertà e la soggezione assolute date dal non avere vincoli. Così, le vicende dei personaggi, si articolano grazie a espedienti, alternando la gioia della festa estemporanea alla miseria del vivere di stenti e di improvvisazione quotidiana, con un fare che ricorda molto i gitani di Kusturica. Arthur, vive in una baracca adagiata sul crinale di una collina dominata da imponenti mura medioevali, ed ha solo gli abiti che indossa, ma non sembra curarsene; il suo comportamento è un misto di angoscia e cieca determinazione, preso dalla volontà di riprendere continuamente la sua ricerca. La scoperta colma di trepidazione di sarcofagi nascosti, e il ritrovamento di oggetti del passato, veri e densi di significato perché «visti da molti occhi», gli forniscono un senso di pienezza, sostenuta dall’approcciarsi a un’ideale soggettività corale in armonia con la natura delle società arcaiche, e dando libero sfogo all’affettività delle utopie; salvo poi recuperare i caratteri della morte non appena i colleghi irrompono al seguito per fare man bassa del bottino, così che, suo malgrado, i doni dati in corredo ai defunti si trasformano in merce preziosa da rivendere ai collezionisti.
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Una possibile chiave di lettura del film è quindi quella delle possibilità di vita nelle rovine del capitalismo, come descritte dall’antropologa statunitense Anna L. Tsing nel volume The Mushroom at the End of the World (2015), dove illustra la sua etnografia della filiera del matsutake, il fungo più pregiato del mondo, che cresce spontaneamente in aree boschive rinfoltite al seguito di processi si de-forestazione e sfruttamento intensivo del suolo. I raccoglitori, i mediatori, i rivenditori e gli importatori descritti dalla ricerca, ovvero stranieri e derelitti a cui non è permesso assimilarsi con la società, sono così delle figure istituite dalla catena del valore internazionale del fungo, che si sviluppa incidentalmente nelle fratture di modelli sociali consolidati, creata tramite salti e traduzioni, e che richiede perciò delle traiettorie di vita al margine, stimolate dalla ricerca di un contesto di libertà imprecisata e multisfaccettata. Così si genera l’accumulazione di recupero che, lungi dal rappresentare gli scarti, o le disfunzioni, di un sistema globale ordinato e in espansione inesorabile, avviene negli interstizi degli spazi politici e culturali formatisi storicamente e intrecciati in un assemblaggio che fornisce direzioni impreviste agli eventi, insieme a nuovi territori per l’agire sociale.
Questa performance drammatica, in una mescolanza che include una supposta competizione di mercato, non permette riscatto se non al termine della filiera e solo per pochi: il gioco quindi è truccato, funziona a forza di errori, falsità e distorsioni. Non c’è determinismo, non c’è sistematicità, il progresso è una chimera. Ma come sottolinea l’autrice, «gli umani contano in questi paesaggi. E gli umani portano le storie con loro nell’affrontare le sfide dell’incontro. Queste storie, sia umane che non-umane, non sono mai programmi robotici, ma piuttosto delle condensazioni nell’indeterminato qui e ora; il passato che cogliamo, come dice il filosofo Walter Benjamin, è una memoria ‘che brilla nel momento del pericolo’. Noi generiamo la storia, scrive Benjamin, come ‘il salto di una tigre in ciò che è stato’».
La storia così non può essere una successione di fatti. La storia si fa proprio con i “se” e con i “ma”, propri degli esperimenti mentali: la civiltà occidentale sarebbe fiorita se il libero mondo ellenico avesse perso la battaglia di Maratona con la teocrazia persiana? La cultura patriarcale esisterebbe se i Romani non avessero conquistato gli Etruschi? Le nostre valutazioni muovono sempre da insostituibili valori culturali. Conoscere è valutare, è scegliere. «Già il primo passo verso il giudizio storico è quindi – questo dev’essere qui sottolineato – un processo di astrazione, il quale si svolge attraverso l’analisi e l’isolamento concettuale degli elementi del dato empirico – che viene appunto considerato come un complesso di relazioni causali possibili – e deve sfociare in una sintesi della connessione causale ‘reale’. Già questo primo passo trasforma pertanto la ‘realtà’ data, allo scopo di farne un ‘fatto’ storico, in una formazione concettuale: nel ‘fatto’ è appunto implicita, per dirla con Goethe, la ‘teoria’» (Weber, 1922: Il metodo delle scienze storico-sociali).
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L’autenticità è una messa in scena, parziale, situata, biased. Come ricorda l’etimologia di “empirico”, bisogna avere “fede” nell’esperienza, l’una si capovolge nell’altra. «A opporsi alla finzione non è il reale, non è la verità, che è sempre quella dei padroni o dei colonizzatori, ma è la funzione fabulatoria dei poveri, in quanto dà al falso la potenza che ne fa una memoria, una leggenda, un mostro».
Affabulare vuol dire impegnarsi nell’invenzione di un popolo, «allora il cinema può chiamarsi cinema-verità, tanto più che avrà distrutto ogni modello del vero per diventare creatore, produttore di verità: non sarà un cinema della verità, ma la verità del cinema»
(Deleuze, 1985: L’immagine-tempo. Cinema 2).
Autore
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Dottorando in Sociologia all'Università di Pisa. Ha un interesse particolare per la teoria sociale, l'ecologia politica, la filosofia della scienza e l'epistemologia. Nel tempo libero cerca ispirazione dal cinema, dall'architettura e dall'arte contemporanea, cercando di prendere le cose con leggerezza, e in fare questo si impegna molto.