Matematica, filosofia e poetica della frattalità

Il matematico polacco Benoît Mandelbrot (1924-2010) diede per la prima volta nel 1975 una definizione della figura frattale: dall’aggettivo latino fractus, interrotto o irregolare, “frattale” designa un insieme di figure descrivibili dall’esterno ricorrendo a un insieme di proprietà geometrico-matematiche.

La figura frattale è internamente omotetica, le parti assomigliano al tutto. La sua dimensione non è necessariamente intera: un punto in geometria euclidea è di dimensione pari a 0, una linea pari a 1, una superficie pari a 2 e così via. La dimensione frattale può essere un numero frazionario, un numero irrazionale…

È frattale il cavolo romano, è frattale la curva di Koch (Fig. 1),[1] è frattale il gomitolo di lana, a “metà strada” tra la dimensione euclidea di una linea mono dimensionale (la corda di lana) e la dimensione euclidea di un volume (la sfera del gomitolo).[2]

Fig.1

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Quando nasce il concetto di frattale?

Due acerrimi critici della sociologia della scienza come Alan Sokal e Jean Bricmont non hanno avuto dubbi: la frattalità fa parte del dominio delle matematiche. Di conseguenza, se le discipline umanistiche se ne sono appropriate ne hanno perpetrato un “reiterato abuso”.[3]

Teniamoci però a debita distanza: il padre dei frattali - al tempo - si definì “un vagabondo della scienza”.[4] Forse, il 1975 rappresenta una data troppo recente per poterci orientare. Mandelbrot rispose innanzitutto ad un’insufficienza della geometria, fino ad allora “troppo regolare e troppo fredda” per descrivere le insenature di una costa,[5] o i profili plastici e multiformi di una nuvola.[6]

Dove inizia questo vagabondaggio?

È il matematico polacco stesso a chiamare direttamente in causa un passato recondito.

In una lettera del 1695, Leibniz dichiarava a Bernoulli la possibilità di sviluppare una serie infinita mediante l’applicazione di un esponente frazionario a una base differenziale (d/dx)KF, così da “produrre una progressione geometrica, […] un’analogia meravigliosa”.[7]

Altrove, Leibniz fornisce una concezione teofanica e cosmologica della scalarità frattale: non solo è infinita la materia in perenne flusso in un mondo altrettanto infinito, ma sono infinite anche le anime e ciascuna “è uno specchio vivente perpetuo dell’universo”.[8] Ogni anima include l’intera serie del mondo che rispecchia dal proprio punto di vista, ogni punto di vista include oscuramente ogni altro. Sempre il filosofo tedesco, guardando per la prima volta nel microscopio progettato da Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723) si meravigliò della qualità frattale degli organismi: “c’è un mondo di creature - di esseri viventi e di animali, di entelechie e di anime - anche nella più piccola porzione di materia”.[9]

Paolo Portoghesi (1931-2023) fu tra i primi a cogliere la profonda analogia tra le ricerche de Gli oggetti frattali e le architetture della sua amata Roma.[10]

A sua volta, Gilles Deleuze (1925-1995) ha avuto il merito di situare il Barocco a lato di Leibniz, in prossimità di Mandelbrot: l’architettura barocca si sviluppa passando “attraverso un numero infinito di punti angolosi, […] è la curva di Koch”.[11] Si pensi alle ipnotiche geometrie del Borromini (1599-1667) in Sant’Ivo alla Sapienza, alla cappella della Sacra Sindone del duomo di Torino progettata da padre Guarino Guarini (1624-1683) (Fig.2), all’utilizzo del bugnato con la sua qualità cavernosa.

Fig. 2

Possiamo andare ancora più in là, scorgere una qualità frattale nel radicale principio di pienezza di Giordano Bruno (1548-1600) o nei rapporti di autosimilarità astrologica che innervano le analogie micro e macro cosmiche dell’epoca rinascimentale.

Ancora, potremmo procedere a ritroso sino alle geometrie dell’architettura islamica,[12] come nei motivi decorativi dei “Muqarna” (مقرنص) (fig.3), oppure nel tempio di Brihadeshwara in India (fig.4).

Fig. 3

Fig. 4

Guardando alla storia dei giardini ritroviamo un doppia correlazione omotetica: è frattale la morfologia vegetale (le nervature delle foglie), ma qualcosa di frattale struttura le complesse razionalizzazioni arboree dell’orto botanico di Padova costruito nel 1545 (fig. 5),[13] oppure i giardini cinesi e giapponesi in cui la morfologia del paesaggio “in miniatura” dovrebbe rispecchiare il buon ordine del cosmo.[14]


Fig. 5

Cosa fare di tutta questa casistica? Imitazione della natura o sforzo descrittivo? Puro fatto artistico-espressivo? Cimeli di un passato incommensurabile?

Mandelbrot fu capace di sistematizzare sotto un unico nome un “museo degli orrori”[15]: la curva di Peano (fig.6) che passa per tutti i punti di un quadrato - paradosso di una superficie finita racchiusa da un perimetro infinito; la polvere di Cantor; le intuizioni di Jean Perrin che nel 1913 parlava di “curve senza tangente”.[16]

Fig. 6

Da allora la matematica frattale si è sviluppata in ogni direzione: nello studio delle fluttuazioni finanziare e nell’analisi dei dati biochimici, nella modellazione di fenomeni complessi e, non ultimo, nello sviluppo della Chaos theory a cui Henri Poincaré (1854-1912) diede un impulso fondamentale.

Dove collocare quel “reiterato abuso” dei concetti matematici a cui ci siamo precedentemente richiamati?

Si osservi ciò che scrivono Deleuze e Guattari in Mille piani (1980): l’interdimensionalità non è soltanto l’indicatore della dimensione non intera delle figure frattali, ma è anche segno di un divenire, di qualcosa che si muove tra i piani, una “zona di indiscernibilità propria del ‘divenire’”.[17] Un “tra” in cui la variazione prende vita: tutto ciò che è frattale sembra vivere e germogliare.

Parafrasando il matematico italiano Ernesto Cesaro (1859-1906), si potrebbe dire che la curva di Koch, se fosse viva, rinascerebbe in ogni punto dalle sue profondità.[18]

Le figure frattali hanno tuttavia un limite di scala, non vanno dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo: è una legge matematico-empirica che i due filosofi francesi sembrano violare apertamente.[19] È ciò che spinse Sokal e Bricmont ad affermare che la filosofia non aveva compreso il concetto.

Eppure, per un altro verso, Deleuze e Guattari ripropongono con un’espressione nuova le leggi imposte da Leibniz quasi tre secoli prima: l’anima è specchio dell’universo, ma si percepisce soltanto interamente come ininterrotta variazione metamorfica, rispecchiamento in perpetuo divenire dell’universo sin nelle sue più intime e infinite fibre.

É come l’esempio del movimento della mano proposto da Henri Bergson (1859-1941) ne L’evoluzione creatrice (1941): esternamente appare come figura (meccanicismo) o progetto (finalismo), ma a entrambe le visioni “manca l’essenziale: il divenire”.[20] Per Deleuze e Guattari è la rivendicazione di uno spazio dove al predominio della geometria euclidea si sostituisce l’imprevedibile variabilità della Natura, qualcosa di essenzialmente generativo. Pascal, navigando angosciosamente tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, negava a sua volta le leggi imposte dalle vecchie corrispondenze simboliche micro e macro cosmiche a base di un solo infinito trascendente; Bruno contravveniva apertamente a una vecchia questio della scolastica secondo cui una creatura infinita era, per ciò stesso, contraddittoria.

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Dove arrestare questa violazione delle leggi determinate da ciascuna concettualizzazione?

C’è qualcosa di poetico, come scrive Franco Bifo Berardi: bisogna “far scivolare oltre il sistema stabilito dello scambio simbolico”.[21]

È proprio il filosofo italiano ad aver di recente risignificato la frattalità: segno sinistro - ma pur sempre segno - della frattalizzazione dei mercati e dello spazio pubblico (le bolle di cui si è tanto parlato non sono forse frattali?).

Riappare così l’ineliminabile figura di Leibniz: padre del contemporaneo panlogicismo metastabile e autovariante,[22] Berardi osserva che “gli individui sono frammenti di tempo precari, frattali uniformati dal processo di ricombinazione ininterrotta. […] il frattale automatizzato è il significato profondo dell’individualismo neoliberale”.[23]

Michel Serres (1930-2019), formatosi anch’egli su Leibniz, ha dato un nome a questo produttivo slittamento di principi, a questa non-regola dell’intromissione che sembra regnare anche nella storia della frattalità: parassitismo.[24]

Non dovrebbe sorprendere che anche il parassita sia frattale, è a un tempo parassitario e parassitato. Ed è sempre Michel Serres a chiedere: il parassita genera o corrompe il sistema?[25]

 

NOTE

[1] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali (1975), pp. 7-8. La curva di Kock è di dimensione=1,261859.

[2] B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, W. H. Freedman and company, San Francisco 1982, p. 404, p. 10.

[3] A. Sokal, J. Bricmont, Imposture intellettuali (1997), tr. it. F. Acerbi, M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999, p. 18.

[4] P. Portoghesi, Poesia della curva, Gangemi editore, Roma 2020, p. 61.

[5] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., pp. 21-44.

[6] B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, cit., p. 1.

[7] Ivi., p. 404.

[8] G. W. Leibniz, Monadologia (1720), tr. it. S. Cariati, Bompiani, Firenze 2017, p. 85, §56.

[9] Ivi, p. 89, §66.

[10] Si veda P. Portoghesi, Poesia della curva, cit., pp. 61-69.

[11] G. Deleuze, La piega (1988), tr. it. D. Tarizzo, Giulio Einaudi editore, Torino 1990, pp. 26-27. Per Irénée Scalbert anche l’arte gotica è contraddistinta da un principio di autosimilarità, si veda The nature of Gothic, AA Files, n. 72 (2016), pp. 73-77, 79-91, 93-95.

[12] P. Portoghesi, Poesia della curva, p. 62.

[13] Immagine tratta da L’invenzione del giardino occidentale, p. 56.

[14] Si veda P. Grimal, L’arte dei giardini (1974), Donzelli 2000, pp. 91-100.

[15] Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., p. 01.

[16] Mandelbrot, 1977, The fractal geometry of nature, cit., p. 07.

[17] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, p. 666. A p. 664,: “gli oggetti frattali” sono insiemi il cui numero di dimensioni è frazionario, non intero oppure intero, ma con variazione continua di direzione”. Mandelbrot scrive ne Gli oggetti frattali, p. 16, “là dove finora non si vedevano oche zone di transizione, […] io identifico delle zone frattali”.

[18] Si veda P. Portoghesi, Poesia della curva, cit., p. 64.

[19] Si veda B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, p. 783 e Gli oggetti frattali, pp. 21-44.

[20] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, 1941, p. 81. Un esempio degno di nota è proposto da Tim Ingold in Siamo linee, p. 62, dove scrive che “il suolo, nella sua infinita varietà, ha una qualità frattale”.

[21] F. Bifo Berardi, Respirare, Luca Sossella editore, Roma 2019, p. 20.

[22] Ivi, p. 63.

[23] Ivi, p. 77.

[24] M. Serres, Il parassita (1980), a cura di G. Polizzi, Mimesis edizioni, Milano 2022.

[25] Ivi, p. 40.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Bergson, H., L’evoluzione creatrice (1941), tr. it. F. Polidori, Raffaello Cortina editore, Milano 2002.
  • Bifo Berardi, F., Respirare, Luca Sossella editore, Roma 2019.
  • Deleuze, G., Guattari, F., Mille piani (1980), tr. it. G. Passerone, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
  • Deleuze, G., La piega (1988), tr. it. D. Tarizzo, Giulio Einaudi editore, Torino 1990
  • Grimal, P., L’arte dei giardini (1974), tr. it. M. Magi, Donzelli editore, Roma, 2000.
  • Ingold, T., Siamo linee (2015), it. D. Cavallini, Giovanni Treccani, Roma 2020
  • Leibniz, G., W., Monadologia (1720), tr. it. S. Cariati, Bompiani, Firenze 2017.
  • Mandelbrot, Benoît, “Is nature Fractal?”, Science, 1998, vol. 279, n. 5352, pp. 783-786.
  • Mandelbrot, B., Gli oggetti frattali (1975), a cur di R. Pignoni, Giulio Einaudi editore, Torino 2000.
  • Portoghesi, P., Poesia della curva, Gangemi editore, Roma 2020.
  • Scalbert, I., The nature of Gothic, AA Files, n. 72 (2016), pp. 73-77, 79-91, 93-95.
  • Serres, M., Il parassita (1980), a cura di G. Polizzi, Mimesis edizioni, Milano 2022.
  • Sokal, , Bricmont, J., Imposture intellettuali (1997), tr. it. F. Acerbi, M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999.
  • Vercelloni, M., Vercelloni, V., L’invenzione del giardino occidentale, Jaca Book, Firenze 2019.


Knowledge Management - Una visione critica tra antropologia e sociologia

Il concetto di Knowledge Management[1] - che comprende i sistemi e i processi di gestione della conoscenza di un’organizzazione - è un mito aziendale, un oggetto simbolico a cui si attribuisce il potere magico di “mettere a posto le cose”.

Proprio per questa dimensione mitica e magica, rischia di avere limitati spazi di applicazione pratica e di non mantenere le promesse che evoca.

Spesso l’obiettivo del KM è descritto con tre asserzioni che ne riassumono la promessa di valore:

  • “assicurare, in modo efficace, il passaggio del sapere dall’individuale al collettivo”
  • passare “dal sapere individuale al sapere collettivo”,
  • passare “dal sapere tacito al sapere esplicito”

A questa descrizione dell’obiettivo del KM manca solo l’efficienza, categoria di pensiero che, in pratica, significa “fare di più con un costo minore”

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Il percorso che seguo per spiegare perché sostengo che il KM è un mito che promette e che non mantiene, attraversa:

  1. una breve storia del concetto
  2. i suoi assunti di base applicati alle organizzazioni
  3. gli obiettivi e le promesse dei progetti di KM
  4. il corollario di queste promesse, ossia quali pratiche un KMS dovrebbe sostituire
  5. le difficoltà e le distorsioni incontrate in progetti di KM.

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1. Breve storia del concetto di Knowledge Management

Il KM  “è una disciplina aziendale che si riferisce alla gestione e alla condivisione della conoscenza tra esseri umani. Il Knowledge Management si affaccia sulla scena manageriale a partire dagli anni ’90 grazie al lavoro di due studiosi giapponesi: Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi”[2]; esso si focalizza su come poter mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro.

Questa logica spinge il knowledge management a diventare un sorta di “filosofia” della collaborazione e della condivisione negli ambienti di lavoro, tanto che Ikujiro Nonaka lo definisce come “un processo umano dinamico di giustificazione del credo personale, diretto verso la verità”[4].

Nella pratica, si tratta di “strategie e metodi per identificare, raccogliere, sviluppare, conservare e rendere accessibile la conoscenza delle persone che fanno parte di una organizzazione assume la moderna connotazione e prende il nome di knowledge management, o gestione della conoscenza organizzativa, avvalendosi di strumenti delle tecnologie dell’informazione sempre più sofisticati: i cosiddetti knowledge management system”[3].

I Knowledge Management System sono sistemi informatici che permettono di creare una biblioteca di argomenti e di informazioni relative al know-how di una organizzazione, di indicizzarli e di metterli a disposizione dei membri dell’organizzazione stessa con relativa facilità.

2. Assunti alla base

Ritengo che gli assunti più rilevanti alla base del concetto di KM siano:

  • che esista un corpus disciplinare, cioè un insieme di conoscenze, competenze, norme e procedure che descrive “come si fanno le cose”; il corpus disciplinare è necessario, senza di esso non si può fare Knowledge Management
  • che il corpus disciplinare sia completo, formalizzabile e riassuma quanto serve sapere per “fare le cose”
  • che si possa trascrivere il sapere specialistico delle persone in modo stabile, durevole, organizzabile, indicizzabile e leggibile, per renderlo fruibile - come e quando serve - da parte di altre persone, “che non sanno”.

3. Obiettivi e promesse

Si rilevano di frequente alcune promesse di valore del KM che riguardano più da vicino il modo d’essere delle organizzazioni:

  • oggettivare e formalizzare il sapere specialistico delle persone “che fanno un certo mestiere”
  • facilitare il trasferimento e la collettivizzazione del sapere
  • passare da “formare” sulle competenze a “addestrare alla consultazione”
  • ridurre la formazione e i tempi di apprendimento, imparando la funzione “cerca” e saper leggere
  • aumentare l’efficienza operativa grazie alla immediata e contestualizzata disponibilità di informazioni

È evidente che l’orizzonte di valore proposto dal concetto di Knowledge Management converge in questi due punti: ridurre i costi e svincolare l’organizzazione dai singoli attori depositari della conoscenza.

4. Corollario: l’illusione della sostituzione

Il concetto e i progetti di KM promettono, illusoriamente, di ridurre al minimo - con effetti positivi su tempo e costi:

  • la selezione, il reclutamento e l’onboarding di personale secondo criteri di adeguatezza al compito;
  • le sessioni di formazione;
  • l’apprendistato sul campo – con risparmio anche del tempo dell’esperto che fa e spiega;
  • le curve di apprendimento e l’inefficienza dei nuovi addetti;
  • la dipendenza dalle persone più senior con maggiori competenze e costi più elevati

Provo a fare un paio di esempi:

  • un frigorista che fa attività di assistenza e riparazione presso i clienti è “maturo” dopo circa un anno e mezzo di formazione, affiancamento, tentativi, errori, insuccessi. Dopo un anno e mezzo ha imparato abbastanza bene a riconoscere e diagnosticare i principali guasti, i rumori sospetti e le loro cause, i rischi di rottura a breve, i modi con cui tranquillizzare e vendere gli interventi al cliente.
  • un operatore di assistenza telefonica deve comprendere un insieme complesso di stati d’animo, problemi in primo piano e problemi impliciti, rischi di reclamo, esigenze, e discernere le migliori soluzioni da proporre al cliente, al telefono o via chat. La curva di apprendimento può essere di alcuni mesi e richiede sessioni di formazione, ascolto, counseling di colleghi esperti, imitazione comportamentale, errori e figuracce.

Ho visto personalmente manager seri e navigati emozionarsi all’idea che un buon sistema di KM riduca a 2 mesi il tempo di “messa sul campo” del neo-frigorista, ovvero che l’assistente telefonico possa rispondere in modo corretto e completo alle esigenze del Cliente dopo 2 ore di addestramento.

5. Difficoltà e distorsioni

È opportuno esaminare alcune difficoltà che si incontrano nei progetti di KM:

  • gli utilizzatori degli strumenti di Knowledge Management hanno a disposizione una raccolta ampia di informazioni, istruzioni, procedure, ma non sanno cosa cercare. Infatti, consultare una Knowledge Base richiede una conoscenza almeno superficiale del problema da affrontare; trovare risultati davvero pertinenti ed utilizzabili richiede una capacità di discernimento a volte molto elevata;
  • le informazioni messe a disposizione dell’utilizzatore sono spesso sterilizzate dalla formalizzazione; perdono la caratteristica espressione della forma di vita che le ha generate; sono opache rispetto alla realtà che rappresentano; possono essere superficiali o proceduralmente artificiose e burocratiche;
  • il sapere che viene messo a disposizione è – quindi – carente della componente “locale”, “indigena”; non contiene la forma pratica delle cose, quella generata dalla “conoscenza del corpo”[5][6]
  • le carenze e distorsioni vengono amplificate se l’opera di “registrazione e trascrizione” del sapere “di chi sa e sa fare” è affidata a tecnici esperti di metodologie di KM ma esterni al contesto di riferimento della conoscenza
  • tra gli effetti distorsivi nell’utilizzo si ritrovano: l’induzione di comportamenti stereotipati là dove l’intento è di generare degli standard comportamentali efficaci; errori di esecuzione indotti dall’oscurità, dalla formalizzazione o dalla burocratizzazione

Da un punto di vista economico, si presentano spesso due criticità:

  • i costi di realizzazione di un progetto di KM possono essere molto elevati e l’efficienza prodotta si può rivelare di un ordine di grandezza inferiore; il ritorno sull’investimento può essere molto lungo.
  • il costo di manutenzione necessario a garantire l’efficacia del KM può essere molto rilevante a causa del divario tra i contenuti della base di sapere iniziale e la realtà, che emerge con l’utilizzo dello strumento e dell’evoluzione della disciplina e del contesto che generano una attività continua di revisione della base di conoscenza e delle relative connessioni e indicizzazioni;

Queste due criticità possono ridurre in modo significativo i benefici di efficienza attesi, fino ad azzerarli.

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Un tentativo di conclusione

Possiamo quindi sostenere che il rischio di fallimento dei progetti di Knowledge Management sia determinato da:
a) l’illusione di completezza e fruibilità del sapere “riversato” nello strumento;
b) il sovradimensionamento degli obiettivi, come il desiderio di svincolare l’organizzazione dalle impegnative pratiche tradizionali di trasmissione del sapere basate su: la selezione di soggetti “adeguati”, l’onboarding, l’affiancamento, i tentativi, la correzione, la “conoscenza del corpo”;
c) l’affidamento a “espertiorizzontali” là dove il sapere disciplinare, sociale e culturale è palesemente verticale.

Il concetto di Knowledge Management, però, può risultare efficace e di successo se applicato in condizioni controllate, in una organizzazione, o in una rete di persone competenti in una disciplina, per depositare e trasmettere il sapere che sta intorno ai fatti operativi, raccolto in modo aperto, attivando direttamente i detentori, investendo nel loro tempo.

Le “condizioni controllate” sono: il dimensionamento corretto delle aspettative e l’inserimento in un contesto in cui lo strumento può essere valorizzato; la dimensione di valutazione può essere invece qualitativa: quanti e quali “fatti” all’interno di una certa disciplina possono essere catalizzati o facilitati e quanto significativi possono essere.

 

 

Note


[1] Glossario degli acronimi: KM sta per Knowledge Management, indifferentemente il concetto e gli strumenti; KMS per Knowledge Management System, inteso come strumento; KB sta per Knowledge Base, repository delle informazioni che costituiscono la base del KM; alcuni parlano di Knowledge Transfer Process e di Knowledge Transfer Management: mi sembrano assimilabili alla nozione di Knowledge Management.

[2] Knowledge Management: cos’e’ a cosa serve e che strumenti usa, https://www.aryanna.net/knowledge-management-2/#storia-del-km

[3] ibidem

[4] https://hbr.org/2007/07/the-knowledge-creating-company

[5] Nonaka I. (1991) The Knowledge-Creating Company Harvard Business Review, Nov.-Dec. 96-104; Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, The knowledge creating company: how Japanese companies create the dynamics of innovation, New York, Oxford University Press, 1995, p. 284, ISBN 978-0-19-509269-1.

[6] Jackson M., Conoscenza del corpo, tr. it. in Antropologia Culturale, i temi fondamentali, a cura di S. Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018