A debate about Apes - La Teoria della Mente nei grandi primati?

Avete presente gli intrecci delle soap opera televisive, quelli basati su dei malintesi che si gonfiano in maniera spropositata per colpa di false credenze? Di quelli che provocano drammi complicatissimi perché tizio crede che lei creda che l’altro la ami (ma non è così), e così via?

Ecco: questi intrecci non potrebbero esistere se l’essere umano non fosse dotato di una teoria della mente (anche denominata ToM: Theory of Mind), ovvero la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri nonché la capacità di comprendere che gli altri possano avere degli stati mentali diversi dai propri. È un concetto intuitivo, di cui diamo per scontata l’esistenza in ogni nostra interazione quotidiana.

Senza addentrarci negli studi di questa teoria applicata all’essere umano, il concetto risulta poco scontato quando lo applichiamo al mondo degli animali non-umani, interrogandoci sulle loro effettive capacità di astrazione e comprensione degli stati mentali propri e altrui. Il tema è curioso e merita un’analisi propria, specialmente se si considera che il concetto stesso di “teoria della mente” è stato sviluppato all’interno di studi sugli scimpanzé, quindi non di psicologia classica, culminando successivamente in un accesissimo dibattito ancora oggi irrisolto.

LE PREMESSE AL DIBATTITO

  • Partiamo da Darwin (ovviamente). Egli ha fortemente influenzato le premesse teoriche su cui si poggiano gran parte degli studi relativi alle capacità cognitive dei primati, in quanto nella sua opera “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” (1871) sosteneva che non vi fossero differenze fondamentali tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori e che, pertanto, qualsiasi differenza tra queste fosse relativa esclusivamente alla gradazione e non al tipo. Queste riflessioni, come vedremo, hanno condotto vari studiosi a legittimare approcci di ricerca basati sul principio dell’analogia, per cui comportamenti animali simili ai nostri si considerano causati dallo stesso tipo di cause psicologiche che riconosciamo nell’essere umano.
  • Nel 1978 i due studiosi David Premack e Guy Woodruff pubblicarono il celebre articolo “Does the chimpanzee have a theory of mind?”, in cui venivano illustrati una serie di esperimenti condotti su un gruppo di scimpanzé che, a parere degli autori, dimostravano che questi fossero in grado di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri, in particolare per quanto concerne il desiderio, il porsi un obiettivo o anche per le loro attitudini affettive. Fu il primo articolo nella Storia a formulare e spiegare il concetto di “Teoria della mente”, poi ripreso con successo in svariati studi.

IL DIBATTITO

Il lavoro di Premack e Woodruff è stato ripreso e approfondito nel corso degli anni da vari studiosi. In particolare, due gruppi di ricerca si sono dedicati ampiamente allo studio della ToM negli scimpanzé, producendo buona parte della letteratura al riguardo: il gruppo di Michael Tomasello a Leipzig e quello di Daniel Povinelli in Louisiana.

Il primo, in continuità con gli studi precedenti, sostiene che una qualche forma di teoria della mente è effettivamente presente negli scimpanzé, mentre il secondo nega completamente che questa possa mai esistere negli scimpanzé o in altri primati.

Ma come mai vi è un tale disaccordo?

  • Secondo Tomasello molteplici evidenze sperimentali hanno confermato che negli scimpanzé sono presenti dei meccanismi cognitivi e psicologici analoghi a quelli degli esseri umani, specialmente per determinati tipi di cognizione, e che pertanto in questo senso è possibile sostenere che tale specie sia dotata di una teoria della mente. Al tempo stesso, l’autore ha anche specificato che con tale definizione si definisce in realtà uno svariato range di processi mentali, che non sono necessariamente condivisi dalle specie più simili a noi, scimpanzé compresi.
  • Povinelli, al contrario, nega categoricamente che possa esistere alcuna forma di ToM negli scimpanzé poiché ogni forma di esperimento fondata sul principio dell’analogia menzionato in precedenza è incapace di dimostrare efficacemente che un determinato comportamento non solo sia causato da uno specifico processo mentale, ma anche che tal processo mentale sia simile a quello dell’essere umano prima di produrre lo stesso tipo di comportamento. Pertanto, quando nel corso degli esperimenti si rilevano analogie tra scimpanzé ed esseri umani, di fatto si sta solo proiettando sul mondo animale la propria percezione del mondo. L’autore, invece, ritiene che una spiegazione molto più adeguata del comportamento sociale degli scimpanzé sia la semplice capacità di questi animali di rappresentarsi e riflettere sui propri comportamenti, senza alcun’altra considerazione di livello superiore relativa a se stessi o agli altri.

QUALCHE CONSIDERAZIONE

In un paper del 1998 Cecilia Heyes scriveva: “In ogni caso in cui il comportamento dei primati non umani è stato interpretato come un segno di teoria della mente, questo si sarebbe anche potuto manifestare per caso o come il prodotto di processi non mentalistici, come un apprendimento per associazione o qualche inferenza basata su categorie non mentali” (trad. mia). Da quando l’autrice scriveva queste parole le cose non sono granché cambiate. Fa quasi sorridere che degli studiosi affermati arrivino ad accendersi a tal punto da pubblicare vignette di scherno l’uno dell’altro (vedi sotto), eppure questo è solo uno dei tanti casi di disaccordo in ambito scientifico e, come in tanti altri casi, ad uno sguardo più accurato ci si rende conto che una tale divergenza si poggia tanto su considerazioni teoriche di base differenti quanto su un diverso approccio empirico.

In primo luogo, gli autori non sono d’accordo su che cosa sia la teoria della mente (quindi l’oggetto stesso dei loro esperimenti!!): per Tomasello costituisce un variegato gruppo di processi cognitivi e psicologici, mentre per Povinelli è una qualità specifica che una specie o possiede o non possiede.

In secondo luogo, risulta particolarmente difficile comprendere se gli esperimenti dimostrino effettivamente quello che vogliono dimostrare oppure possano essere spiegati e interpretati anche attraverso categorie diverse.

In ultimo, l’assetto sperimentale stesso risulta precario e pieno di fragilità.

È evidente che per poter condurre degli esperimenti in laboratorio con un gruppo di scimpanzé è necessario educare gli esemplari di quel gruppo, così da renderli capaci di poter svolgere un esperimento.

Il raggiungimento di un tale traguardo può richiedere anni, rendendo quindi l’assetto sperimentale di difficile replicabilità e per certi versi troppo “artificiale”.

 

 

 

Bibliografia

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Che bella equazione! – Il ruolo della bellezza nelle scienze

«My work always tried to unite the true with the beautiful;
but when I had to choose one or the other,
I usually chose the beautiful»[1] (H. Weyl)

 

INTRODUZIONE

L’obiettivo di questo articolo è di riflettere sulla bellezza, una tematica apparentemente semplice e ordinaria ma che si rivelerà, nel corso dell’esposizione, un nucleo problematico da indagare attentamente.

Iniziamo la nostra disamina con una sezione filosofica, per sottolineare che siamo davanti a una questione complessa, che presenta sfumature concettuali profonde e antiche. Successivamente, analizzeremo questo tema da un punto di vista scientifico, con l’intento di mostrare come la bellezza entri a pieno diritto nei discorsi della scienza.

Lo scopo di questo scritto è di decostruire una narrazione ingenua, limitante e simil-scientista, che vede bellezza e scienza come due argomenti lontani e slegati, che non si incontrano mai, come due rette parallele. Mostreremo come tale separazione sia puramente convenzionale, contingente.

 

1. BELLEZZA E FILOSOFIA

In filosofia, l’analisi della bellezza ha origini antiche; questo tema viene indagato dall’estetica, una disciplina filosofica di ampio respiro che abbraccia numerose tesi e nuclei concettuali come, per esempio, «la produzione e i prodotti dell’arte»[2] o «il giudizio di gusto su di essi»[3].

Platone (427 ca.-347 ca. a.C.) sostiene che la bellezza è collegata all’ordine, alla proporzione e all’armonia; inoltre, la descrive come «la manifestazione più evidente del bene che permea tutte le cose»[4].

Nel Simposio, sviluppa l’idea secondo cui la bellezza attragga Eros (Amore), indicato come un “demone”, un’entità semidivina «sospesa fra cielo e terra»[5]; quindi, «l’amore viene stimolato dalla bellezza, […]: essa è il fine dell’amore, ciò verso cui l’amore riversa il suo slancio»[6].

Nel Fedro, inoltre, Platone afferma che la bellezza sensibile permette all’anima di ricordare l’idea di bellezza, perfetta e divina, ammirata prima dell’incarnazione. Pertanto, la bellezza del mondo fisico, nonostante sia molto lontana dalla compiutezza dell’idea, permette che lo spirito si elevi: «uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali»[7].

Per Platone esistono diverse tipologie di bellezza, ognuna delle quali occupa una posizione gerarchica distinta: sul gradino più basso incontriamo la bellezza del corpo mentre in cima troviamo la bellezza in sé, «idea eterna e immutabile di cui partecipano tutte le cose belle, sia fisiche sia spirituali»[8].

Plotino (205 ca.-270 ca. d.C.), figura centrale del neoplatonismo, «approfondisce e sviluppa la riflessione platonica sul bello, esposta nel Fedro e nel Simposio, associando il bello alla perfezione del mondo ideale»[9]; inoltre, questo autore dedica due trattati alla tematica della bellezza e la sua visione viene a volte qualificata come una “metafisica del bello”[10].

Nel testo enneadico Sul bello, in disaccordo con Platone, Plotino critica l’idea della bellezza considerata nei termini di armonia e proporzione delle parti, specificando che essa si trovi invece in qualità e oggetti semplici, poiché «ogni allontanamento dall’unità verso la molteplicità equivale a una perdita di perfezione»[11].

D’altra parte, Plotino condivide con Platone l’idea che la bellezza abbia valore anagogico, quando afferma che la bellezza sensibile è una tappa del percorso di purificazione dell’anima, cammino che la deve portare sempre più in alto nella scala dell’intelligibile: «compito dell’anima è […] di distogliere gradualmente la propria visione da quei corpi che non sono altro che “immagini e tracce e ombre” della vera fonte della bellezza, e, rientrando in sé, risalire verso quell’Uno […] circondato da ogni parte dal Bello, un “Bello che dispensa la bellezza a tutte le cose […]”»[12].

Pertanto, «è […] attraverso Plotino che si comprende come, nell’Antichità in generale, sia sempre più difficile, e spesso arbitrario, separare il problema della bellezza […] dalle costruzioni metafisiche in cui esso si inserisce»[13].

Infine, neanche per Edmund Burke (1729 ca.-1797) il bello può essere determinato secondo le categorie di armonia e proporzione, perché «l’ordine e la convenienza tra le parti sono […] qualità colte dall’intelletto, là dove l’effetto della bellezza è molto più immediato e sensibile»[14].

Burke contrappone la bellezza a un altro concetto, il sublime: la prima genera l’amore, «una passione […] sociale, intersoggettiva»[15], mentre il secondo dà origine al terrore, un’emozione collegata «alla tendenza di ogni individuo alla propria autopreservazione»[16]. Le divergenze, però, non terminano qui, in quanto il bello «nasce dalla visione di cose piccole e delicate, e dal contatto con tutto ciò che è liscio, levigato, sinuoso»[17]; al contrario, il sublime si origina, per esempio, dalla visione di spazi molto ampi (oceani, montagne ecc.) o dal «sentimento dell’infinito»[18].

 

2. SEMIR ZEKI E LA NEUROESTETICA: UNO STUDIO

Il neurobiologo Semir Zeki è ritenuto l’iniziatore della neuroestetica, «un filone di ricerca nell’ambito delle neuroscienze che indaga le basi neurali e cognitive dell’esperienza estetica»[19].

In una sua ricerca, pubblicata nel 2014, un gruppo di matematici doveva esprimere il proprio giudizio estetico rispetto a sessanta equazioni, mentre ne veniva registrata l’attività cerebrale per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI). I risultati dell’esperimento hanno mostrato, in particolare, l’attivazione di una specifica area nel cervello dei soggetti analizzati, una zona dove «c’è sempre attività neuronale quando si ha esperienza di bellezza»[20], a prescindere dalla sua fonte (un quadro, un brano musicale, un’equazione ecc.). La regione individuata è connessa alle emozioni e viene indicata come «campo A1 della corteccia orbito-frontale mediale (mOFC)»[21]; specifichiamo inoltre che «più la formula è considerata bella e più intensamente si attiva quest’area»[22].

I risultati dell’esperimento non sorprendono i matematici; per esempio, Colin Adams afferma: «“quando vedo una bellissima costruzione matematica, […], provo la stessa sensazione di quando osservo qualche forma di arte che mi colpisce”»[23]. Gli fa eco Daina Taimina, la quale ritiene che le belle soluzioni matematiche «“suonano come una melodia”»[24].

Infine, l’indagine condotta dal professor Zeki ha rivelato che non tutte le equazioni sono belle allo stesso modo: alcune risultano più attraenti di altre. Infatti, nonostante la soggettività che può intervenire in un qualunque giudizio estetico, i partecipanti alla ricerca hanno mostrato quasi unanimemente la propria preferenza per un’equazione in particolare, l’identità di Eulero[25]:

e + 1 = 0

Secondo Adams, tale formula «“richiede complessivamente non più di sette simboli per essere scritta: è sbalorditivo”»[26]. Per i matematici essa rappresenta «una combinazione irresistibile, perché lega cinque costanti fondamentali con tre operazioni aritmetiche basilari»[27].

 

3. UN «ESTETA DELLA SCIENZA»[28]: PAUL DIRAC E IL “PRINCIPIO DI BELLEZZA MATEMATICA”

Paul Adrien Maurice Dirac (1902-1984) è uno dei più importanti fisici del Novecento. Nato a Bristol, Nobel per la Fisica nel 1933, tra i suoi numerosi contributi ricordiamo, per esempio, la «sintesi tra relatività speciale e meccanica quantistica»[29]; inoltre, la sua equazione[30]

(ið – m) ψ = 0

ha previsto l’esistenza di una nuova particella, il positrone[31], la cui scoperta empirica ha aperto il mondo dell’antimateria alla fisica contemporanea.

In questo articolo ci concentriamo su una delle sue “credenze fondamentali”, ovvero il «principio di bellezza matematica»[32], un concetto che, per Dirac, detiene «una duplice funzione: di guida euristica e di criterio valutativo»[33]. Cosa si intende con “bellezza matematica”? Lo stesso Dirac, in uno scritto del 1939, specifica che essa non si può spiegare con precisione ma aggiunge che, nel coglierla, «gli studiosi di matematica non hanno alcuna difficoltà»[34].

Convinto che i criteri estetici dirigano la ricerca scientifica, il fisico inglese non esita a difendere la bellezza delle equazioni anche in caso di contrasto con i dati empirici: «è più importante che le equazioni siano belle piuttosto che in accordo con gli esperimenti»[35].

Quando in fisica si deve elaborare una nuova teoria, Dirac sostiene che, prima di tutto, bisogna individuarne l’impalcatura matematica, ma questa scelta deve seguire una direzione precisa: «bisognerebbe lasciarsi guidare da considerazioni di bellezza matematica»[36]; in un testo successivo, scrive che «se si lavora con il proposito di ottenere equazioni dotate di bellezza, e si possiede un’intuizione davvero solida, si è sicuramente sulla strada del progresso»[37]. In caso di reiterato disaccordo tra ipotesi ed esperimenti, per Dirac si può modificare la teoria, purché se ne sviluppi una con struttura matematica di ancora maggior bellezza.

Dirac elogia la relatività di Einstein: secondo lui, la teoria einsteiniana «ha introdotto – in una misura che non ha precedenti – la bellezza matematica nella descrizione della Natura»[38]. Lo scienziato di Bristol sostiene come sia stata proprio la sua bellezza a permettere alla relatività di ottenere credito presso i fisici. Inoltre, Dirac afferma che Einstein «era guidato solo da considerazioni relative alla bellezza delle equazioni»[39], e che «tutto il suo modo di procedere tendeva alla ricerca di una teoria bella»[40].

In uno scritto del 1979, Dirac elenca alcuni esperimenti che hanno confermato la teoria di Einstein, ma a un certo punto si chiede come ci si debba muovere in caso di contrasto fra questa concezione scientifica e le sue verifiche empiriche. Egli rifiuta nettamente l’idea che la relatività possa essere errata, perché «chiunque apprezzi la fondamentale armonia che esiste tra il modo in cui funziona la Natura e alcuni princìpi matematici generali non può non sentire che una teoria di tale bellezza ed eleganza deve essere sostanzialmente corretta»[41], a prescindere dal fatto che essa sia in sintonia (o meno) con le osservazioni.

Dirac – secondo il fisico Freeman Dyson – «“ancor più di Newton e di Einstein, usò il criterio di bellezza come un modo per trovare la verità”»[42].

 

CONCLUSIONI

All’inizio del nostro percorso abbiamo usato l’immagine delle rette parallele per illustrare la concezione da decostruire, quella che considera scienza e bellezza come due argomenti disgiunti. Questo lavoro ha mostrato come, anziché conferire di rette parallele, si dovrebbe parlare invece di una vera e propria rete epistemologica per spiegare gli intrecci e i collegamenti che uniscono impresa scientifica e filosofia estetica.

Scienziati e scienziate sono esseri umani e anche loro hanno bisogno di quella cosa tanto familiare eppure così misteriosa, ovvia e sfuggente allo stesso tempo, che è la bellezza. Può sembrare una banalità, ma la visione odierna della scienza ha offuscato simili ragionamenti, col risultato di farci separare ambiti che si arricchiscono a vicenda, se li facciamo comunicare.

A questo punto della trattazione, al lettore o alla lettrice è forse rimasta in sospeso una domanda fondamentale: “dunque, che cos’è la bellezza matematica?”. Rispondiamo a tale quesito avvalendoci della legge di gravitazione universale di Newton:

 

Dove:
“F” designa la forza d’attrazione,
“G” è la costante di gravitazione universale[43],
“m” indica le masse dei due corpi che dobbiamo considerare,
“d” rappresenta la loro distanza (espressa al quadrato).

Questa formula mostra che la forza d’attrazione gravitazionale tra due corpi aumenta al crescere delle loro masse, mentre diminuisce all’aumentare della loro distanza. Semplice e logico, vero? Anche la chiarezza fa parte del fascino di questa legge fisica.

Perché tale equazione è così bella? Prima di tutto, si trova scritta in una forma compatta ed elegante, senza risultare eccessivamente contorta né dal punto di vista del significato, né tantomeno da quello del significante.

La sua ampia efficacia empirica rende questa formula particolarmente versatile, anche al giorno d’oggi. Essa serve a spiegare fenomeni fisici che valgono sia sul pianeta Terra sia nell’Universo, dal momento che unisce le leggi di Galileo (che riguardano i fenomeni terrestri) con quelle di Keplero (valevoli invece per il macrocosmo); inoltre, grazie a questa legge, «Newton è in grado di inquadrare e spiegare un’amplissima serie di fenomeni, […] riuscendo anche a risolvere una gran quantità di questioni fisiche e astronomiche rimaste fino ad allora senza una risposta adeguata»[44].

Studiare le equazioni matematiche nella loro storicità le rende meno enigmatiche, più attraenti e più “umane”, perché sono umani coloro che le hanno formulate nei secoli, con le loro idee e visioni del mondo.

A tal proposito, sarà curioso sapere che Newton si occupò anche di ambiti che attualmente non rientrano nella scienza ufficiale come, per esempio, l’alchimia; questi interessi possono aver influenzato il lavoro scientifico di questo autore. La sua legge di gravitazione universale è, in un certo senso, “magica”; infatti, tale equazione prevede che due corpi interagiscano senza che ci sia contatto diretto tra loro, un’idea inconcepibile per Cartesio o Leibniz e che Newton stesso faticava ad accettare, ma «la nascose dietro al formalismo matematico con la sua indubbia efficacia»[45]. Al giorno d’oggi, grazie al concetto di “campo”, questo fenomeno ci appare come qualcosa di assodato, ma all’epoca era un’intuizione rivoluzionaria.

Semplicità, chiarezza ed efficacia, insieme alle considerazioni espresse fin qui, concorrono a rendere affascinante un’equazione matematica, ne eliminano quell’impressione di freddo distacco e la trasformano in qualcosa di vivo e appassionante.

Chiediamoci ora: un quadro, un brano musicale, una statua o un’equazione sono davvero entità così diverse? Sono magnifiche espressioni che generano bellezza, un sentimento umano profondo e necessario, che influenza il nostro quotidiano, orienta le nostre scelte e, last but not least, ci fa stare bene.

 

NOTE

[1] Dyson, F. (1956). Obituary of Hermann Weyl. Nature 177, 457–458, citato in: Frontiers | The experience of mathematical beauty and its neural correlates (frontiersin.org)

[2] estetica nell'Enciclopedia Treccani - Treccani

[3] Ibidem.

[4] Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di Filosofia, Firenze-Milano, Giunti Editore, 1999-2005, p. 566.

[5] Franco Bertini, Io penso, Bologna, Zanichelli editore, 20222, vol. I, p. 233.

[6] Ibidem.

[7] Platone, Fedro, in Tutte le opere, a cura di E. V. Maltese, premessa di G. Caccia, Roma, Newton Compton editori, 20102, p. 945.

[8] Franco Bertini, op. cit., p. 233.

[9] Riccardo Chiaradonna, Plotino, Roma, Carocci editore, 2009, p. 71. Corsivi dell’autore.

[10] Ibidem.

[11] Paolo D’Angelo et al., Estetica, a cura di E. Franzini e A. Somaini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002, p. 71.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 11.

[14] Ivi, p. 125.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ivi, p. 126.

[18] Ivi, p. 125.

[19] Il senso della mente per la bellezza: intervista con Semir Zeki - Le Scienze

[20] Sesso, bellezza ed equazioni - Il Sole 24 ORE

[21] Ibidem.

[22] La bellezza delle formule matematiche | Lost in Galapagos (corriere.it)

[23] Il senso dei matematici per la bellezza delle equazioni - Le Scienze

[24] Ibidem.

[25] https://sciencecue.it/formula-matematica-identita-eulero/17295/

[26] Il senso dei matematici per la bellezza delle equazioni - Le Scienze

[27] La bellezza delle formule matematiche | Lost in Galapagos (corriere.it)

[28] La fisica tra verità e bellezza - Il Sole 24 ORE

[29] Ibidem.

[30] Questa è la versione corretta, seppur semplificata dell'equazione di Dirac, in cui la derivata parziale è "tagliata" (ð). In notazione più completa può essere scritta così: (iγμμ - m) ψ = 0. La versione popolare (∂ + m) ψ = 0 è errata. Per approfondimenti: https://www.fe.infn.it/~bettoni/particelle/Lezione4-5.pdf

[31] Il positrone è l’antiparticella dell’elettrone; positroni ed elettroni hanno stessa massa e stesso spin, ma le rispettive cariche elettriche sono di segno opposto. Previsto teoricamente da Dirac nel 1928, il positrone è stato scoperto empiricamente da Anderson nel 1932.

[32] Paul A. M. Dirac, La bellezza come metodo, prefazione e a cura di V. Barone, Milano, Indiana Editore, 2013, p. 24.

[33] Ibidem.

[34] Ivi, p. 84

[35] Ivi, p. 104.

[36] Ivi, p. 87.

[37] Ivi, p. 104.

[38] Ivi, p. 84.

[39] Ivi, p. 175.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, pp. 174-175. Corsivo dell’autore.

[42] È la matematica, bellezza! - Il Sole 24 ORE

[43] 6,67⋅10-11N⋅m2kg-2

[44] Newton in "Enciclopedia della Matematica" - Treccani

[45] Entanglement quantistico e viaggi nel tempo? - Controversie

 

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- Treccani, particelle elementari (particelle elementari in "Enciclopedia dei ragazzi" (treccani.it)), Enciclopedia dei ragazzi (2006).

- Treccani, positrone (positrone in "Dizionario delle Scienze Fisiche" (treccani.it)), Dizionario delle Scienze Fisiche (1996).

- Treccani, scientismo (scientismo in "Dizionario di filosofia" (treccani.it)), Dizionario di filosofia (2009).

- Zeki, S., et al., The experience of mathematical beauty and its neural correlates (Frontiers | The experience of mathematical beauty and its neural correlates (frontiersin.org)), Frontiers in Human Neuroscience, 13 febbraio 2014.

- Zeki, S., Sesso, bellezza ed equazioni (Sesso, bellezza ed equazioni - Il Sole 24 ORE), trad. it., Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017.

 


La bellezza come metodo, di Paul A. M. Dirac

La bellezza come metodo, di Paul A. M. Dirac, Raffaello Cortina Editore, 2018

A cura di Vincenzo Barone

“Il ricercatore, nel suo sforzo di esprimere matematicamente le leggi fondamentali della Natura, deve mirare soprattutto alla bellezza.” Così scrive il grande fisico teorico Paul Dirac, le cui riflessioni sono raccolte qui per la prima volta. Il principio di bellezza matematica svolge secondo Dirac una duplice funzione. Nel contesto della scoperta, la bellezza determina la direzione della ricerca, nel contesto della giustificazione – ed è questa la tesi più forte –, la bellezza è la qualità che permette di giudicare una teoria, più ancora dell’accordo con le osservazioni. Nella sua scienza, Dirac usò con impareggiabile efficacia il criterio di bellezza come un modo per trovare la verità.

“Un libro che illustra splendidamente l’estetica matematica di Dirac, un aspetto cruciale del suo modo di pensare la natura.”

Graham Farmelo