La svalutazione delle competenze - Le responsabilità di scienziati e giornalisti

Da molto tempo si parla di “crisi delle competenze” (expertise).

Con questa espressione si intende la tendenza a non dare sufficiente credito e importanza al parere degli esperti, dei tecnici, degli scienziati, dei possessori di conoscenze specifiche. In sostanza, delle persone competenti.

Vi è, quindi, in atto una sorta di delegittimazione dell’autorità intellettuale. L’avevano già evidenziato Collins ed Evans con Rethinking Expertise (2007), Nichols (2017) con The Death of Expertise, Eyal con The Crisis of Expertise (2019).

Responsabili di tutto ciò sono spesso additati, di volta in volta, internet (famosa è l’espressione “doctor Google”, per cui le persone si fanno auto-diagnosi e si curano cercando in rete i rimedi), i social media (dove troviamo gruppi che forniscono pareri su qualsiasi cosa e contestano le affermazioni di scienziati), il populismo che ritiene che gli esperti frenino la democrazia, i politici (come Trump, Bolsonaro ecc.)…

Ma siamo proprio sicuri che essi siano i veri responsabili? Non potrebbe essere che la crisi delle competenze sia (almeno in parte) causata proprio dai… competenti?

Questa ipotesi, apparentemente assurda, emerge da una nostra ricerca sulla fiducia negli scienziati.[1] Come altre ricerche hanno evidenziato[2], dopo l’epidemia di SARS-COV-2, abbiamo assistito a un declino della fiducia nei confronti degli scienziati.

Che era molto alta.

Per cui declino significa che è scesa, non che è sparita (come qualcuno potrebbe frettolosamente pensare).

I risultati della ricerca sollevano dubbi sulle recenti teorie che assegnano un forte ruolo ai social network e alle fake news nella sempre maggior diffusione del cosiddetto ‘antiscientismo’ (Moran, 2020). Sicuramente (e anche il nostro sondaggio lo rileva) le persone più critiche nei confronti della scienza e degli scienziati sono assidui frequentatori dei social network.

Tuttavia, le persone che li utilizzano come fonte primaria sono molto poche (3%).

Da qui, la nostra ipotesi che siano proprio i media tradizionali (TV in primis), nei quali è presente un diffuso scientismo rinforzato anche dalla richiesta di certezze (fatta agli scienziati) da parte dei conduttori televisivi, ad alimentare (indirettamente e inconsapevolmente) un crescente atteggiamento critico nei confronti della scienza, che può sconfinare anche in un sentimento antiscientifico. Questi atteggiamenti sono, in parte, la conseguenza di previsioni (statistiche e non) non avveratisi (Campo et al. 2021); del disorientamento e confusione nell’opinione pubblica a seguito dei conflitti televisivi fra scienziati; della disillusione nello scoprire che alcune promesse d’uscita dall’emergenza non sono state mantenute. Quelli elencati sono peraltro anche alcuni degli annosi nodi irrisolti della medicina (cfr. Lello, 2020; Hornsey, Lobera e Díaz-Catalán, 2020).

A ciò vanno aggiunte le dinamiche conflittuali che, sebbene connaturate al dibattito scientifico, sono state amplificate dai processi di spettacolarizzazione della scienza che hanno avuto luogo durante l’epidemia. Nonostante la visibilità pubblica di alcuni scienziati non sia un fenomeno nuovo, l’epidemia ha dato alla comunità scientifica un’esposizione mediale inedita. Gli stessi media, inoltre, hanno in gran parte “premiato” proprio gli scienziati maggiormente noti e visibili nel dibattito pubblico, nonché tendenti a comportarsi come “attori mediali” (quindi più “televisivi”), inclini all’assertività, alla polemica o alla dichiarazione a effetto (anche a scapito della chiarezza informativa); spesso al mero fine di aumentare l’audience. Inevitabilmente, ciò ha portato a esasperare ulteriormente il livello di conflittualità.

A tal fine, Nucci e Scaglioni (2022) hanno parlato di “iatrodemia”, cioè epidemia di medici in TV: «gettandosi nell’arena tra polemisti, nani e ballerine, hanno portato la medicina sul terreno delle opinioni. Il problema è che la scienza non è un’opinione. E che questa percezione cambia il nostro modo di considerare il rischio e la malattia» (p. 11).

Secondo gli autori, il risultato è la perdita di autorevolezza dei medici, a favore del rafforzamento del pensiero antiscientifico, proprio nel momento in cui la fiducia nella classe medica sarebbe cruciale. Infatti, essi sostengono che dalle prime fasi della pandemia abbiamo assistito, da un lato, alla depoliticizzazione delle decisioni sanitarie, presentate come scelte ‘tecniche’ dettate da ‘esperti’, dunque indiscutibili; dall’altro, alla politicizzazione dei medici, che alle prime opinioni divergenti sono diventati i principali alfieri di questa o quella battaglia. Così arriviamo a oggi, gli autori concludono, con medici onnipresenti in tv, che ormai danno anche chiari segni di appartenenza politica.

 

LO SCIENZIATO PASSE-PARTOUT

Ma c’è ancora un altro fenomeno, ancor più recente: lo scienziato prêt-à-porter o passe-partout.

Infatti, sempre più e soprattutto nelle scienze naturali, fisiche, matematiche e anche mediche, gli scienziati esprimono pubblicamente le loro opinioni a proposito di ambiti che esulano dalla loro specifica area di competenza.

E se un fisico (Giorgio Parisi, ad esempio), anziché un epidemiologo, si mette a parlare di previsioni sul virus; un virologo (Burioni) - e non un medico di famiglia o ospedaliero - parla di pazienti e terapie anti-Covid; una farmacologa (Cattaneo), un virologo (Burioni), un fisico (Parisi) o una immunologa (Viola), un biochimico e biologo molecolare convertito all’analisi di Big Data e Reti Sociali per lo sviluppo biofarmaceutico (Bucci) - e non un agronomo - parlano di agricoltura biodinamica;  una biologa molecolare (Gallavotti) o un neurologo - e non uno psicologo o sociologo - di cosa passa per la mente di un no-vax, i loro interventi potrebbero (indirettamente e inconsapevolmente) veicolare il tacito messaggio che gli stessi scienziati non ritengono le competenze così fondamentali e che ognuno può cimentarsi in temi che sono altri rispetto al suo oggetto di studio.

Questo fenomeno si ripresenta ormai con modalità simili a ogni nuovo tema che conquisti l’agenda setting.

Un tempo erano i sociologi a essere accusati di parlare di tutto; ora il ruolo del tuttologo lo stanno, pian piano, assumendo i fisici e i matematici (Rovelli, Odifreddi) che si esprimono su tutto. Anche sulla guerra in Ucraina o in Israele.

Facendo il verso ai giornalisti, che sono ormai diventati i campioni di tuttologia: lo stesso giornalista ormai scrive di vaccini, guerra, antisemitismo, cambiamenti climatici, femminicidi, patriarcato ecc.

Non ci credete? Fate una prova: prendete il nome di una nota firma, e guardate di cosa ha scritto negli ultimi tre mesi. Scoprirete delle menti enciclopediche in formato tabloid. Per cui, forse, sono proprio loro ad ammazzare la competenza.

In conclusione, la crisi delle competenze e della legittimità dei saperi sembra essere non solo il prodotto di forze esterne alla scienza, ma anche degli scienziati mediali stessi (Gobo e Campo, 2021).

 

 

NOTE

[1] Gobo G., Serafini L., Campo E., e Caserini A. (2022), Covid-19 e fiducia negli scienziati. Uno studio pilota sui lettori di due giornali online, in Comunicazione Politica, 23(1), pp. 19-38.

[2] Di ricerche ce ne sono molte, con esisti opposti. Alcune dicono la fiducia è calata, altre che è cresciuta o è rimasta stabilmente alta. Sono ricerche non comparabili perché condotte con domande molto diverse. In altre parole, sono le domande dei questionari a costruire (almeno parzialmente) le opinioni degli intervistati. Osservazione banale, ma quasi sempre dimenticata.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Campo, E., Gobo, G., Galeotti, M. e Parra Saiani, P. (2021). Limiti e fallimenti dei modelli epidemiologici e previsionali nell’epidemia di SARS-COV-2, in A. Favretto, A. Maturo e S. Tomelleri (a cura di) L'impatto Sociale del Covid-19 (pp. 39-48). Milano: Franco Angeli.

Collins, H. and Evans, R. (2007) Rethinking Expertise, Chicago, University of Chicago Press.

Eyal, G. (2019) The Crisis of Expertise, Cambridge, Polity Press.

Gobo, G. e Campo E. (2021). Covid-19 in Italy: should sociology matter? The European Sociologist, 46 (12).

Gobo G., Serafini L., Campo E., e Caserini A. (2022), Covid-19 e fiducia negli scienziati. Uno studio pilota sui lettori di due giornali online, in Comunicazione Politica, 23(1), pp. 19-38.

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Sostenibilità - Una sfida scientifica, tecnologica e sociale per le aziende

Da qualche anno si parla tantissimo di sostenibilità e di sviluppo sostenibile, ma di cosa parliamo esattamente?

Il concetto di sviluppo sostenibile è stato fissato dalla Commissione Brundtland (Onu) nel rapporto “Our common future” del 1987. In quel rapporto si parlava della necessità di garantire il benessere delle generazioni future, letteralmente: “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

A partire da quegli anni ci si è resi conto che gli squilibri tra il nord e il sud del mondo non erano più accettabili e che il modello di sviluppo del mondo industrializzato non poteva durare per i danni ambientali e sociali che portava con sé.

È nato quindi il concetto di sostenibilità basato su tre pilastri: la sostenibilità economica, ambientale e sociale; tre aree di intervento che sono chiaramente interconnesse fra loro. E dai primi anni 90 in poi l’argomento è diventato sempre più al centro del dibattito internazionale e sempre più diffuso anche tra il grande pubblico.

Vediamo di fare qualche considerazione sull’oggi centrata sul nostro Paese:

  • La sostenibilità è uscita dal recinto del dibattito per tecnici ed è diventata anche un driver di business per le imprese
  • Per le imprese è un elemento di rafforzamento della corporate reputation ma può diventare argomento pericoloso e scivoloso, quelle che sbandierano le loro virtù sostenibili sono anche le più vulnerabili ad attacchi mediatici per come agiscono
  • Se ne parla tanto, forse troppo, se ne parla male, con superficialità o ideologicamente; c’è un interessante rapporto del Marco Frey (un’autorità in materia) che spiega come ci sia saturazione nell’opinione pubblica verso il tema

In altre parole, il sovrautilizzo della parola e dei concetti che rappresenta rischia di svuotare la stessa di significato, rende difficile per il cittadino capire chi opera correttamente e chi fa greenwashing e soprattutto la banalizzazione di certi temi – insieme alle discutibili manifestazioni dell’ambientalismo estremista – fanno sì che l’opinione pubblica si stia dividendo e polarizzando.

Ci sono molti gruppi di attivisti, che spesso operano con una carica emotiva che esclude la razionalità, e c’è una larga parte di popolazione ormai indifferente se non infastidita da un tema che sembra per molti versi lontano dai “problemi reali”. Questa situazione aggiunge incertezza per come affrontare un cambiamento già di per sé è tutt’altro che facile.

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In un interessante intervento al Salone della CSR - che come ogni anno dal 2012 si svolge ai primi di ottobre in Bocconi a Milano - il professor Stefano Zamagni ha illustrato una tesi (che sostiene da tempo) sul concetto di Sostenibilità, che trovo particolarmente interessante.

Zamagni è un economista decisamente poco allineato: laureatosi alla Cattolica di Milano e da sempre vicino al mondo cattolico e del non profit, ha insegnato in università italiane (Parma, Bologna, Bocconi), inglesi e spagnole. Ha collaborato con Joseph Ratzinger prima e dal 2013 con Papa Bergoglio e oggi dirige la Pontifica Accademia delle scienze sociali. Ma Zamagni è conosciuto soprattutto per la riscoperta dei concetti dell’Economia civile che affonda le sue radici nel pensiero della scuola economica napoletana del 700.

In estrema sintesi (mi perdonerete…) l’Economia civile si pone come alternativa all’Economia politica che nasce con Adam Smith nel 700 e che è il paradigma che ha dominato e permeato lo sviluppo del capitalismo in occidente. A differenza del pensiero economico di matrice anglosassone che è sfociato nel liberismo prima e nel neoliberismo di Milton Friedmann negli anni 60 del secolo scorso, l’Economia civile si basa sul concetto di “bene comune” in cui i soggetti economici non lavorano solo per il mero profitto.

Si capisce quindi come delle tre gambe della Sostenibilità, a Zamagni interessi maggiormente quella sociale. Egli pensa che siano le imprese a trainare la riflessione e l’azione su questo tema, anche più delle istituzioni.

Quindi è sulla sostenibilità sociale il challenge maggiore per le imprese oggi.

Infatti la sostenibilità economica non può che essere un prerequisito, impossibile da bypassare, l’unica problematica della sostenibilità economica è creare regole condivise per tutti, ed evitare situazioni di vantaggio per singoli paesi o aziende.

Il caso più classico è la Cina, il maggior produttore al mondo di batterie per la mobilità elettrica per noi europei è anche il più grande inquinatore del pianeta. Il mix energetico cinese infatti si basa per l’85% sulle fonti fossili e per il 15% sulle fonti rinnovabili ed è il maggiore consumatore di carbone al mondo con una quota del 50,2%. (Fonte Crea)

È giusto far notare comunque che certe fughe in avanti prospettate dagli ambientalisti duri e puri prescindono totalmente da valutazioni economiche, come se le risorse finanziarie fossero una variabile indipendente dalla realtà, una situazione questa che è la premessa per creare, appunto, le diseguaglianze di cui si diceva.

Quanto alla sostenibilità ambientale, essa può essere normata e misurata (pur con tutte le difficoltà, le polemiche e la complessità di trovare soluzioni condivise). La sostenibilità ambientale alla fine è un insieme di regole, si tratta di decidere quali applicare e come, ma una volta individuate c’è poco da discutere, si è dentro o fuori dal set definito.

Eccoci quindi alla terza area della sostenibilità, quella sociale, che è senza dubbio quella di cui è più difficile definire i contorni concettuali e le regole, ma è anche quella che impatta in modo più diretto sulla vita delle persone.

L’osservatorio della Fondazione Sodalitas sulla Responsabilità Sociale d’Impresa ha condotto una ricerca su un campione di 100 imprese appartenenti alla Fondazione per capire “a che punto siamo”.

Ne viene fuori un quadro di notevole sensibilità e responsabilità che poggia su alcuni pilastri:

  • l’ascolto degli stakeholder interni ed esterni all’impresa
  • il benessere dei dipendenti
  • l’attenzione e l’integrazione con il territorio
  • l’importanza del fare rete

Certo fa piacere sentire che le aziende sono concentrate su questi temi e che spingono verso una situazione virtuosa, tuttavia è anche facile pensare che si tratti di un’indagine su un campione “drogato” in senso positivo; tutte imprese che fanno parte della Fondazione e che quindi sono molto sensibili al tema.

Ma si potrà dire altrettanto del complesso delle aziende italiane? Non credo proprio di sbagliare se dico che la risposta è no e che c’è ancora molto da fare in questo senso.

Purtroppo, al di là dei molti codici etici, bilanci di sostenibilità, compunte dichiarazioni di CEO molto attenti alla propria immagine, la sostenibilità sociale pare essere un lusso per imprese economicamente molto solide.

Il vero scatto in avanti si farà quando i comportamenti di Corporate Social Responsibility non dipenderanno dalla sensibilità dei singoli ma saranno frutto di una cultura condivisa e di regole riconosciute. Ci vorrà del tempo ma la sfida è questa, non può esistere sostenibilità senza la sua componente sociale.


Distopia tecnoscientifica e immaginazione - Il mondo nuovo di A. Huxley

Non sono un romanziere - soleva dire Huxley - ma un saggista che scrive fiabe.

Perché, allora, affidare alla forma del romanzo una previsione sul futuro?

Per quale ragione proprio la «superorganizzazione» dell’ardito mondo nuovo e dei suoi fantasmagorici prodotti tecnoscientifici, frutto della più fervida capacità immaginativa, sembrano annunciare l’estinzione di quest’ultima?

Perché, infine, il mondo d’Utopia gravita sopra di noi con fare minacciosamente distopico?

 

  1. Utopia, distopia e tecnica

 «Il secolo delle macchine comincia a farsi sentire»[1]. Sono le parole dell’architetto Charles-èdouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (1887-1965). Sempre lui, nel medesimo volume Urbanistica (1925), scriveva con il suo solito ottimismo quasi messianico che «crollava soltanto un mondo vecchio. Su dalle rovine stava arditamente spuntando un mondo nuovo»[2].

È questo lo spirito che anima certe frange avanguardistiche dei primi decenni del secolo scorso, come quando un giovane Antonio Sant’Elia (1888-1916) dichiarava che «come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi - materialmente e spiritualmente artificiali - dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico»[3].

Ancora, è il medesimo mondo che anni più tardi il filosofo Gunther Anders (1902-1992) avrebbe dipinto con tinte fosche e apocalittiche nel

suo L’uomo è antiquato I (1956): «mondo della «matrice»[4] e del «dislivello prometeico»[5], asincronia della psiche umana rimasta irrimediabilmente indietro rispetto alla lineare, efficiente e funzionale perfezione dei «suoi» prodotti tecnoscientifici. Una psiche debole e imperfetta che arranca dietro alla perfezione macchinica, e che modella il suo «umiliante ideale»[6] sulla fredda perfezione che contraddistingue la macchina, «il suo sogno, va da sé, sarebbe quello di diventare uguale alla sua divinità: agli apparecchi, o meglio, di essere compartecipe - in certo modo consustanziale - della loro natura»[7].

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Qualche decennio prima, sempre nella prima metà del secolo scorso, apparve per la prima volta nelle librerie Brave New World (1932) dell’autore inglese Aldous Huxley (1894-1963), racconto fiabesco di una società ideale in cui domina una superorganizzazione di natura tecnoscientifica secondo i tre canoni della «Comunità, Identità e Stabilità»[8]. Utopia o distopia?

 

Di distopie non si è sempre parlato.

La parola stessa, a essere generosi, non ha più di duecento anni. Ma quand’anche facessimo della distopia l’immagine in negativo dell’utopia, ci accorgeremmo, forse con imbarazzo, che neppure di quest’ultima abbiamo una definizione tanto chiara.

È Thomas More a costruire il neologismo e ad affidarlo al suo omonimo racconto del 1516[9].

A seconda dell’etimo l’utopia è un «non-luogo» (U-topia) o un «buon-luogo» (Eu-topia).

Tuttavia, il «non» dell’utopia nulla ha a che spartire con la recente caratterizzazione dell’antropologo Marc Augé (1935-2023)[10]: il «non» di un’utopia definisce il «luogo» come ciò che non è ma dovrebbe essere, «città ideale», come quella descritta dal frate domenicano Tommaso Campanella (1568-1639) ne La città del sole (1623).

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 Huxley aveva a cuore queste distinzioni, tutt’altro che quisquilie o eruditismo da scaffale: egli scrisse una «distopia», Il mondo nuovo, e una «topia»[11], l’isola (1962), ma non si intrattenne mai con l’utopia.

Perché ciò è determinante?

Il «non» dell’utopia, si è detto, non ha alcunché di negativo: è come la storia della tensione amorosa in Platone, immagine a cui tendere.

Perciò, propriamente parlando, l’etimo è una fusione piuttosto che un’alternativa: «non luogo» che, correlativamente, è un «buon luogo».

Si potrà forse obbiettare che un tale racconto è, nonostante tutto, frutto di una mente o di un cervello, che «l’idealità» dell’utopia è frutto della «dannata immaginazione» che ci lega a terra.

Tuttavia, More e Campanella fanno dell’immaginazione un veicolo di purificazione, l’immagine «ideale» dev’essere intimamente legata a una simbologia teologica, garante di un’intima e sacra connessione con il cosmo, «cosmo in piccolo».

In Brave New World nulla di tutto ciò: non è l’immagine della città in armonia con il cosmo, ma piuttosto lo schema di un’ingegnosa macchinazione, di uno schema-mondo, «comunità che grazie all’identità realizza la stabilità»[12].

Non è soltanto l’inversione dell’utopia. Nella narrazione distopica c’è una riformazione della «funzione immaginativa».

Non si tratta più di un veicolo verso l’idealità, ma di un’estensione immaginativa della scienza stessa.

L’immaginazione estende il prodotto tecnoscientifico nelle sue possibilità d’insieme, all’estremo.

Anders da ciò impara il fondamentale principio metodologico dell’«esagerazione», per cui il «dislivello» dell’uomo rispetto ai suoi prodotti richiede, per essere capace di controbattere, una metodologia altrettanto esagerata; insomma «esistono fenomeni che non si possono trattare senza accentuarli e ingrandirli»[13].

L’esagerazione consiste allora nell’estrema immaginazione del prodotto tecnoscientifico: la nascente eugenetica diviene catena di montaggio per esseri umani a base di «ipnopedia» e «persuasione chimica», la nascente farmacologia diviene il soma, «la droga perfetta…euforica, narcotica, gradevolmente allucinante…tutti i vantaggi del Cristianesimo e dell’alcol; nessuno dei difetti»[14].

Ogni prodotto è sviluppato, attraverso l’immaginazione, nella sua singola possibilità utopica: droga senza effetti collaterali, eugenetica senza errori - o quasi -, vita senza tristezza, coraggioso mondo nuovo scevro dal peso del passato; anche la casa, «psichicamente squallida» e fonte degli «attriti della vita che vi si ammucchiavano»[15], è stata scongiurata.

Eppure, di distopia si tratta, e quest’ultima vive un gemellaggio singolare con lo sviluppo tecnoscientifico: che si possa «estendere il presente» è il vago principio comune che li anima.

 

  1. Immaginazione

 Se l’immaginazione tecnoscientifica è indeterminata nel campo del futuro (ragion per cui si «cerca di immaginare cosa accadrà in questo o quel caso»), se l’indeterminatezza è, per così dire, il «campo base» dell’immaginazione, allora Huxley giunge a un esito volutamente paradossale: l’immaginazione approda al tempo futuro della sua estinzione, laddove nulla può essere indeterminato, là, nella «tirannia del benessere di Utopia»[16].

È il tratto più profondo del Mondo nuovo: se il silenzio è potenziale fonte d’indeterminazione[17], allora è necessario sostituirlo con la musica continua e sensuale dei «sessofonisti», con gli spettacoli ipnotici del «cinema odoroso»; se il processo ontogenetico fatto di genitori «vivipari» è fonte d’imprevedibilità, allora bisognerà sostituirlo con un processo di produzione umana che non lasci spazio al dubbio. Osserviamo un altro elemento, altrettanto profondo.

Se uno dei personaggi principali, tale Bernard Marx, è capace di guardare con una dose di sospetto il mondo in cui vive, ciò è dettato dal suo essere «errore» della catena di montaggio: «dicono che qualcuno si sia sbagliato quando era ancora nel flacone»[18].

Possiamo spingerci ancora più in là: nel mondo di Huxley è in atto una sistematica eliminazione del passato, nutrita dalle stesse ragioni di fondo. La «riserva dei selvaggi del New Mexico» dove esseri umani imperfetti e retrogradi «conservano le loro abitudini e i loro costumi ripugnanti»[19] è uno spazio esterno a Utopia.

La riserva sta al di là della città dell’efficienza, percepita da chi vive nel mondo nuovo con un misto di disgusto e timore.

La memoria storica è esternalizzata e rigettata, racchiusa nella riserva che dista diversi giorni di viaggio - non ci sono vecchi nella città ideale. Diversamente, i ricordi custoditi nella città dei civilizzati è pura «memoria operativa», «memoria che ripete senza immaginare», una «memoria priva di passato»[20]; la storia - ripetono i bambini «in training» - «è tutta una sciocchezza»[21].

La vuota memoria fa tutt’uno con l’esclusione dell’imprevedibilità, «la macchina gira e rigira, e deve continuare a girare, sempre. È la morte che si ferma»[22].

Nel mondo nuovo, prendendo in prestito le parole di un saggio apparso di recente, si può dire che «si è liberi di scegliere tutto quello che c’è in menù»[23].

Insomma, tra utopia e distopia avviene una sorta di ritorcimento temporale: il «non luogo» dell’utopia come immagine ideale e principio morale è scivolato nel «non luogo» della distopia come timore che, effettivamente, questa possa realizzarsi.

Perciò, in esergo, Huxley riporta un passo del filosofo Nikolaj Berdjaev (1874-1948), «le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva?»[24]

Se l’utopia è una freccia rivolta verso un futuro ideale, la distopia tecnoscientifica è il tentativo di figurarsi ciò che potrebbe avverarsi già domani, incubo imminente, o come osservava Huxley nella prefazione del 1946, «oggi sembra quasi possibile che l’orrore possa ricadere su di noi nell’arco di un secolo»[25].

Insomma, l’espediente narrativo del genere utopico è sempre stato il «distacco onirico»: è necessario risvegliarsi nel mondo nuovo. Nuovamente, c’è una differenza profonda tra utopia e distopia: se nel primo caso il distacco permette, per così dire, di rendere i piedi leggeri e fare del mondo ideale qualcosa a cui elevarsi, nel secondo caso il sogno si fa angoscioso, rischia di filtrare nello stato diurno.

 

  1. Complottismo e immaginazione

Ecco alcuni fatti curiosi: se Huxley avesse scritto Brave New World nel secolo nuovo, nulla ci impedirebbe di supporre che, come altri, sarebbe finito nel circondario della categoria fittizia di «complottista».

C’è di più, poiché proprio coloro che finiscono per essere gettati, volenti o nolenti, all’interno di questa «categoria», si adoperano per una costante riappropriazione del racconto distopico tecnoscientifico come modo di reazione al presente - «siamo in 1984!»

Ma, se da una parte chi sente l’invivibilità del presente si rifugia nella razionalizzazione che un racconto può fornire, questa stessa azione di appoggio a un auctoritas alternativa rischia di adombrare la «chiamata originale» del racconto distopico, immaginare.

Giungiamo così a una stazione singolare: la militarizzazione della vuota parola «complottismo», ma potremmo inserirvi anche «negazionismo», punta dritto contro il carattere immaginativo che fa di queste forme narrative un’arma contrapposta frontalmente all’utilizzo politico della tecnoscienza a fini di controllo[26].

Anche la scienza - dice il governatore di Utopia in una tranquilla confessione - deve essere imbavagliata, «la scienza è pericolosa»[27] e ancora, «la nostra scienza è una specie di libro di cucina, con una teoria ortodossa dell’arte della cucina che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio»[28].

La «narrazione ufficiale» così precipua in Brave New World - ma vale anche per racconti come 1984 di Orwell, che Huxley elogia profusamente[29] - non solo non sa che farsene dell’immaginazione, deve escluderla sistematicamente. E così, per principio, deve escludere i fuochi d’indeterminazione da cui quest’ultima possa germinare: il silenzio, lo spazio incolto, il discorso svicolato dalla legiferazione; è un «conformismo dinamico», laddove «la riduzione teoretica della molteplicità ingestibile a unità comprensibile si muta in pratica in riduzione della diversità umana a uniformità subumana, della libertà a schiavitù»[30].

Huxley aggiunge: «dobbiamo ritenere più possibile qualcosa che somigli al mondo nuovo e non qualcosa che somigli a 1984»[31]. Infatti, se nel secondo l’immaginazione rimane una possibilità latente di colui che soffre e vuole immaginare qualcosa di diverso - «quando l’individuo sente, la società è in pericolo»[32] -, nel primo la stabilità, alimentata dall’incessante soddisfazione di vuoti piaceri passeggeri, fa dell’immaginazione una scomodità.

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Era il 1958 quando Huxley, in conversazione con Mike Wallace, annunciava l’imminente avverarsi delle sue più fantasiose immaginazioni[33].

Sotto la spinta delle forze impersonali della superorganizzazione e della pressione demografica, prolungate a loro volta dal condizionamento «neopavloviano», chimico e subconscio, il mondo nuovo non sembrava più la fantasiosa fiaba di un futuro remoto.

Eppure, non possiamo fermarci a questo: fare di Brave new world la cartina tornasole del reale significa alzare bandiera bianca.

D’altra parte, ridurre le parole di Huxley a finzione significa misconoscerne l’originale chiamata al prolungamento immaginativo che con tanta insistenza, vediamo tutt’ora scoraggiato.

 

Qual è, quindi, il linguaggio della nostra superorganizzazione?

«Reale», solamente ciò che è stato approvato.

«Possibile e desiderabile», ciò che ne consegue con fredda deducibilità.

«Immaginazione» ciò che vi si adagia sopra come un pacchetto o una copertina,
l’involucro policromo del prodotto perennemente unico.

 

 

NOTE

[1] Le Corbusier, Urbanistica (1925), Il Saggiatore, Milano 2017, p. 92.

[2] Ivi, p. 236.

[3] A. Sant’Elia, Architettura futurista, Abscondita, Milano 2022,  p. 25.

[4] Si veda G. Anders, L’uomo è antiquato I (1956), Bollati Boringhieri editore, Torino 2003,  pp. 97-199.

[5] Ivi, pp. 31-94.

[6] Sulla «vergogna prometeica» si veda Ivi, pp. 40-72.

[7] Ivi, p. 43.

[8] A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), Mondadori Editore, Milano 2015, p. 9.

[9] Secondo Françoise Choay è proprio il racconto di More a inaugurare la letteratura utopica. Si veda F. Choay, La regola e il modello (1980), Officina Edizioni, Roma 1986, pp. 181-220.

[10] Per un testo introduttivo si veda M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi (1997), Bollati Boringhieri editore, Torino 2009.

[11] Per questa distinzione si veda l’intervista del 1958 tra il poeta John Lehmann (1907-1987) e Huxley, disponibile al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=pXS5yWatuE8

[12] A. Maurini, “Il mondo nuovo e i suoi ‘ritorni’, in A. Huxley, Il Mondo Nuovo, cit., p. 364.

[13] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., p. 23.

[14] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 52-53

[15] Ivi, p. 38.

[16] “Prefazione del 1946” in, A. Huxley, Brave New World, cit., p. 246.

[17] Si veda https://www.controversie.blog/indi-gregory-lopzione-del-silenzio/

[18] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 46.

[19] Ivi, p. 94.

[20] R. Ronchi, Bergson, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 127.

[21] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 36.

[22] Ivi, p. 42.

[23] B. Castellane, In terra ostile, Signs Publishing, 2023, p. 14.

[24] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 7.

[25] A. Huxley, “Prefazione del 1946” in, Il Mondo Nuovo, cit., p. 246.

[26] Scrive Huxley ne “Ritorno al mondo nuovo”, in Il mondo nuovo, cit., p. 267, «noi vediamo dunque che la tecnologia moderna ha portato alla concentrazione del potere economico e politico, e alla formazione di una società controllata (spietatamente negli stati totalitari, in modo più pulito e nascosto nelle democrazie».

[27] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 202.

[28] Ivi, p. 204.

[29] si veda A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo, in Il mondo Nuovo, cit., in particolare pp. 265-275.

[30] A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo”, in Il Mondo Nuovo, cit., p. 269.

[31] Ivi, p. 252.

[32] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 87.

[33] Si veda: https://www.youtube.com/watch?v=alasBxZsb40&t=951s