Saggio sul dono - Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss

Saggio sul dono – Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, di Marcel Mauss, Einaudi Editore, 2002

Apparso nel 1923-24, il Saggio sul dono di Marcel Mauss è diventato una vera pietra miliare dell’antropologia. L’individuazione, all’apparenza semplice, ma invece sottile e feconda delle tre caratteristiche del dono, darericeverericambiare, ha posto le basi per la formulazione di una teoria più ampia, quella relativa al «fatto sociale totale». Le relazioni tra gli uomini nascono dallo scambio. Scambio che viene avviato con un dono di una delle parti all’altra, la quale si sentirà in obbligo di contraccambiare tale dono, innescando così una catena di scambi. Ma non sono solo gli oggetti a circolare, dice Mauss, anche lo spirito del donatore viaggia insieme al dono, dando così vita a un legame tra gli individui che va ben al di là del puro scambio economico. Ecco allora che l’atto del donare non si limita a un passaggio di beni, ma mette in gioco la totalità degli elementi culturali che caratterizzano una società.

A ottant’anni dalla sua pubblicazione il saggio di Mauss, che ha influenzato moltissimi antropologi del passato, si presta ancora oggi a interpretazioni attuali che ci fanno scoprire come, anche in una società dominata dal mercato, si annidano ancora molti momenti della nostra vita dove il dono è un protagonista fondamentale.


OpenAI e Sam Altman - Anatomia di un Qomplotto (seconda parte)

Riprendiamo il post della settimana precedente per capire l’intricata vicenda del licenziamento e successiva ri-assunzione di Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI.

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Appena annunciata la notizia della deposizione di Altman, la piattaforma Reddit è stata presa d’assalto da un tumulto di commenti[1] e tentativi di interpretazione del colpo di mano ai vertici di OpenAI, molti dei quali in chiave di Qomplotto. Q* è davvero la culla dell’AI che ci trasformerà tutti in graffette? È il Clippy odioso che abita dentro ciascuno di noi, la nostra anima di silicio?

1. STRUZZI E PAPPAGALLI STOCASTICI

Il 24 novembre prende la parola uno dei protagonisti della storia recente dell’intelligenza artificiale: Yann LeCun. Mitchell (2019) ricostruisce con precisione le ragioni per cui grazie al suo riconoscitore di immagini AlexNet le reti neurali sono diventate dal 2012 quasi sinonimo di AI, imponendosi come paradigma dominante.

In un post su X[2] (ex Twitter) LeCun dichiara: «per favore ignorate il diluvio di completi nonsense su Q*». Possiamo, in prima battuta, spiegare con un paio di esempi la motivazione di fondo per cui LeCun ha sicuramente ragione: sia su Q*, chein generale su qualunque illazione che intenda predire un futuro distopico con l’evoluzione dei paradigmi attuali di AI. In seconda battuta cercherò di chiarire cosa potrebbe essere Q* nella sua lettura delle poche notizie che sono trapelate.

Szegedy et al. (2013) riferiscono gli esiti dell’«attacco avverso» che hanno condotto proprio su AlexNet: l’esperimento di hackeraggio «benevolo» sulla piattaforma di riconoscimento automatico delle immagini si propone di verificare quale sia il grado di comprensione che il software riesce a ricavare dalla percezione delle illustrazioni che gli vengono sottoposte, attraverso l’inserimento di un «rumore informativo» costituito da alcuni pixel inseriti nel corpo delle figure osservate.

 

L’immagine sulla sinistra è quella originale, classificata in modo corretto dall’intelligenza artificiale; quella sulla destra è stata ottenuta attraverso la modifica di alcuni pixel, che non la mutano affatto al giudizio di un occhio umano. AlexNet tuttavia classifica tutte le varianti di destra come «struzzo», attribuendo al nuovo giudizio un grado di affidabilità maggiore rispetto a quello con cui era stata stabilita la valutazione esatta nella versione di sinistra. Ho già mostrato in Bottazzini (2023) come questo risultato possa essere letto sullo sfondo di uno dei dibattiti filosofici più controversi dal Seicento ai nostri giorni: il cosiddetto «Problema Molyneux». Qui basti osservare che l’errore non può essere giustificato come un bug del sistema, o come un difetto che sarà rimosso dall’espansione della potenza di calcolo futura del software.

In nessun caso un’intelligenza – cioè una forma di comprensione della realtà – che aspiri a somigliare a quella umana può ritenere attendibile che un tempio, o uno scuolabus, o un cane, si tramutino di colpo in uno struzzo.

Anche in caso di illusione ottica o miraggio, lo scostamento dalla percezione corretta è solo temporaneo, e la normalità viene ristabilita con un riesame che restituisce il focus dell’impressione al contesto in cui deve essere collocato.

La realtà viene ristabilita nel campo visivo attraverso l’insieme delle operazioni cognitive non tematizzate, che la tradizione fenomenologica definisce intenzionalità fungente (si pensi per esempio a Merleau-Ponty (1945)), da cui si genera il senso del mondo in cui stiamo agendo, nella sua complessità e in ciascuno dei suoi dettagli.

Searle (1995) le definisce competenze di Sfondo: senza alcuna consapevolezza, permettono di viaggiare in autostrada senza domandarci se lo scuolabus che stiamo per superare subirà una metamorfosi improvvisa in uno stormo di struzzi, se il tempio che stiamo contemplando nel mezzo di una vacanza afosa si dissolverà in un vortice di ali sbattute e di piume svolazzanti, o se il cane dei vicini stia deponendo un uovo nel nostro salotto, convertito in un lembo di savana dietro la porta socchiusa.

Gli eventi che sperimentiamo emergono da un orizzonte che rimane stabile, e che regolarizza senza posa i fenomeni con cui interagiamo, perché noi abbiamo un mondo, per usare la concettualizzazione di Heidegger (1983), al contrario delle AI che invece non ne hanno uno (come il resto dei minerali).

In ChatGPT-4 (2023) l’intelligenza artificiale di OpenAI ha stilato una cronaca dell’evoluzione dell’AI e una serie di indicazioni sulla struttura dei principali tipi di software, con un censimento dei personaggi e dei saggi più rilevanti del percorso. Nel §7.3 si presenta un pappagallo stocastico o allucinazione molto illuminante: ChatGPT cita il testo La questione dell’autonomia: gli agenti artificiali possono essere autonomi e avere libero arbitrio? che Mario Rossi avrebbe pubblicato nel 1995: il libro non esiste, né esiste un Mario Rossi in quanto autore del trattato – ma in ogni caso anche il più somaro degli studenti avrebbe evitato di attribuire a questo volume citazioni da Dennett (2003), o descrizioni della partita tra AlphaGo e Ke Jie, disputata nel 2017.

Le intelligenze artificiali sono macchine che calcolano probabilità, soppesando migliaia di miliardi di parametri per ogni passaggio, e rintracciando in questo modo pattern di relazioni che possono sfuggire a sensibilità e misurazioni dell’uomo. AlexNet stima il grado di probabilità che la distribuzione dei pixel nell’immagine possa essere categorizzata con una certa etichetta; ChatGPT conta la probabilità che una certa parola venga subito dopo quella appena stampata, spaziando su 1.700 miliardi di variabili ad ogni nuovo lemma aggiunto alla frase.

Ma nessuna delle due macchine ha la minima idea di cosa stia guardando o di cosa stia dicendo; anzi, non sa nemmeno di stare percependo o affermando qualcosa.

Il cammino verso l’intelligenza, nel senso effettivo di questa parola, non ha mosso ancora il primo passo.

I paradigmi di sviluppo con cui sono state progettate e costruite le AI fino a oggi, non sono in grado di disegnare un’intelligenza che viva in un mondo dotato di senso; quindi nessuna di loro potrà maturare qomplotti contro di noi, né oggi né in alcun futuro possibile; almeno finché non saremo capaci di ideare un nuovo paradigma di programmazione in grado di superare i limiti di oggi.

L’intelligenza non è una proprietà emergente di un sistema di calcolo che oggi non sarebbe ancora abbastanza potente per lasciar affiorare l’homunculus dotato di pensiero e coscienza autonomi, per ora nascosto nelle viscere dei processori e delle schede madri in attesa di tempi migliori. La quantità di parametri sottosposti al processo di calcolo da parte di ChatGPT si è moltiplicata per un fattore 1.000 a ogni nuova generazione del software; ma l’artefatto è stato in grado di articolare testi sempre più lunghi e complessi, mai di capire anche solo una parola di quello che andava componendo.

L’emergenza dell’intelligenza dall’espansione della capacità di calcolo, come l’emergenza del mondo trasformato in graffette, sono utopie e distopie che vivono solo nell’immaginazione di Bostrom e degli altri (numerosi) teorici dell’esplosione dell’AI.

L’intelligenza non somiglia ai comportamenti aggregati della società, o degli sciami di api, o degli stormi di struzzi; commercia invece con una donazione di senso del mondo e degli eventi, che al momento non abbiamo la minima idea di come ingegnerizzare.

È il dominio della lebenswelt da cui secondo Habermas (1981) siamo in grado di lasciar emergere gli aspetti pertinenti per le decisioni sull’azione, senza sapere da dove provengono i contenuti che stiamo tematizzando e che compongono il materiale di dibattito con gli altri – ma che ogni volta siamo in grado di selezionare con una sorta di tropismo verso la verità.

Senso e intelligenza non si nutrono della fugacità con cui si aggregano e dileguano le orme degli sciami di insetti e di uccelli: sono la struttura stessa che rende possibile la società degli uomini e il processo illimitato di interpretazione del mondo e degli altri che si chiama cultura. No lebenswelt, no qomplotto.

Yann LeCun ritiene che Q* debba essere il nome di un progetto che ha raggiunto qualche risultato utile nelle procedure di apprendimento con rinforzo (reinforcement learning), che è il modello di training applicato a ChatGPT. Si consideri che uno degli algoritmi più diffusi in questo ambito si chiama Q-learning, mentre A* è il nome di un importante algoritmo per l’individuazione del percorso più efficace tra due nodi di una rete. Q* potrebbe quindi individuare un algoritmo capace di ottimizzare il processo di apprendimento introducendo un metodo di pianificazione nelle operazioni con cui la rete neurale riequilibra i pesi delle unità di elaborazione, dopo il giudizio che il formatore umano ha espresso al termine di ogni nuova prestazione.

In altre parole, Q* consisterebbe in un dispositivo di ottimizzazione dei calcoli probabilistici con cui l’intelligenza artificiale stima l’occorrenza del prossimo lemma che deve introdurre nella frase, o dell’etichetta che deve stampare come didascalia dell’immagine.

Se siete delusi da questa interpretazione di Q*, siete degli altruisti efficaci.

 

2. UN MONOPOLIO DELL’AI

Lo Sciamano ha guidato una farsa di guerra civile nelle stanze del Campidoglio; ma anche chiedere ai filosofi – soprattutto se sono altruisti efficaci – di condurre un colpo di stato nella governance di un’impresa miliardaria non è una buona idea.

Dopo aver licenziato Sam Altman il 18 novembre, il CDA di OpenAI non ha rilasciato alcuna dichiarazione né alla stampa, né a Satya Nadella, CEO del benefattore Microsoft. Non ha chiarito le ragioni della decisione nemmeno a Mira Murati, nominata CEO ad interim, e non ha risposto a Greg Brockman, presidente della società, quando questi si è dimesso in solidarietà con Altman.

Oltre 730 dipendenti di OpenAI (su 770 complessivi) hanno firmato una lettera il 20 novembre in cui si dichiaravano pronti a lasciare l’azienda se Altman non fosse stato reintegrato; ma anche questa comunicazione non ha ricevuto risposta. Visto che Mira Murati era arruolata nella lista dei dimissionari, è stata sostituita con Emmet Shear. Il disastro di gestione e di comunicazione del board si è risolto il 22 novembre, in obbedienza alle riflessioni meditate attorno alla scrivania di Nadella[3]: «diamo l’incarico di gestione a degli adulti, torniamo a ciò che avevamo».

Altman e Brockmann sono rientrati ai loro posti in OpenAI, mentre il CDA è stato sciolto e ne è stato convocato uno nuovo.

La stupidità del panico per un mondo di graffette ha finito per lasciare le mani libere all’implementazione del Copilot su Office. Agli altruisti efficaci non sono bastati nemmeno i proclami e l’allarmismo suscitato da Altman in prima persona, che invece sa calcolare molto bene gli effetti delle sue dichiarazioni. Il CEO di OpenAI non ha mai risparmiato la sua voce, anche se con meno enfasi di quella di Elon Musk, per sottolineare i rischi futuri dell’intelligenza artificiale. L’ultima volta è accaduto il 30 maggio 2023 con una lettera aperta[4] in cui si elencano i pericoli riconducibili agli usi dell’AI volti a produrre e diffondere informazioni false in qualunque formato.

Yann LeCun, ancora lui, invita a sospettare sia della propaganda «lungotermista» di Musk e degli altri altruisti efficaci, sia della sollecitudine con cui Altman esorta a riflettere sui rischi dei prodotti di cui è egli stesso responsabile.

L’AI Safety Summit, che si è tenuto a Londra per volere del premier britannico Rishi Sunak e a cui hanno partecipato i leader di ventotto paesi (tra cui l’Italia), è stato in realtà dominato da figure come quella di Elon Musk – che ha duettato in un evento mediatico l’ultima sera con il Primo Ministro di Sua Maestà.

L’obiettivo di tutti questi soggetti è convincere la classe politica dell’esistenza di rischi catastrofici connessi allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, da cui sarebbero al riparo solo le imprese che essi controllano.

«Dobbiamo stare attenti a evitare che queste minacce facciano pensare alla politica che sia un pericolo mettere l’intelligenza artificiale nelle mani di tutti e che quindi si impedisca, tramite regolamentazioni, che lo sviluppo di questa tecnologia sia open source», avverte LeCun[5].

La soluzione originaria di OpenAI era quella giusta, ma l’azienda ha virato senza che i controllori prestassero attenzione al rischio reale che si nascondeva sotto lo spauracchio delle graffette. Lo spettro di Clippy si aggirerà per Copilot, ma stavolta sarà molto più accorto.

Aggiunge LeCun: «Immagina un futuro in cui tutte le nostre azioni saranno mediate dall’intelligenza artificiale. Se questi sistemi saranno chiusi e controllati da un piccolo numero di aziende tecnologiche californiane, allora ci esponiamo a rischi enormi. Potrebbero per esempio usare la loro influenza per modificare la cultura o le opinioni politiche delle persone. Di conseguenza abbiamo bisogno di un sistema aperto e open source che permetta di creare applicazioni specifiche basate su di esso».

È ora che gli intellettuali tornino a essere adulti, e ricomincino a farsi carico di problemi seri.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bottazzini, Paolo (2023), Nella caverna di ChatGPT, in ChatGPT-4, Imito, dunque sono?, Milano, Edizioni Bietti, 2023, pagg. 44-45.

ChatGPT-4 (2023), Imito, dunque sono?, Milano, Edizioni Bietti, pagg. 166-167.

Dennett, Daniel (2003), Freedom Evolves, New York, Viking Books.

Habermas, Jürgen (1981), Theorie des kommunikativen Handelns, Francoforte, Suhrkamp, cap.1.

Heidegger, Martin (1983), Die Grundbegriffe der Metaphysik : Welt, Endlichkeit, Einsamkeit, Francoforte, Klostermann, Parte II, cap. 2.

Merleau-Ponty, Maurice (1945), Phénoménologie de la perception, Parigi, Gallimard; trad. it. a cura di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano, Bombiani, 2003: cfr. in particolare Premessa, pag. 27.

Mitchell, Melanie (2019), Artificial Intelligence: A Guide for Thinking Humans, New York, Farrar, Straus and Giroux, cap. 5.

Searle, John (1995), The Construction of Social Reality, New York, Free Press, cap. 6.

Szegedy, Christian, Zaremba, Wojciech, Sutskever, Ilya, Bruna, Joan, Erhan, Dumitru, Goodfellow, Ian, Fergus, Rob (2013), Intriguing Properties of Neural Networks, «arXiv», preprint arXiv:1312.6199.

 

NOTE

[1] https://www.reddit.com/r/singularity/comments/181oe7i/openai_made_an_ai_breakthrough_before_altman/?rdt=54043

[2] https://twitter.com/ylecun/status/1728126868342145481

[3] https://www.newyorker.com/magazine/2023/12/11/the-inside-story-of-microsofts-partnership-with-openai

[4] https://www.safe.ai/statement-on-ai-risk#open-letter

[5] https://www.wired.it/article/intelligenza-artificiale-yann-lecun-meta/


Il dono - Anatomia di una consuetudine, tra libertà e obbligo

Perché ci scambiamo regali? Cosa facciamo, di preciso, quando doniamo? Cosa significa “donare”?

Questi sono interrogativi che ci poniamo di rado, in quanto vediamo l’atto di donare, soprattutto durante una festività, come qualcosa di ovvio e indubitabile; tuttavia, dietro a consuetudini tanto ordinarie e (apparentemente) libere come scambiarci dei regali durante una ricorrenza, esistono meccanismi sotterranei e invisibili, i quali nascondono l’architettura interna di una società.

Per investigare le dinamiche sociali che intervengono nelle pratiche di dono, in questo articolo studieremo le riflessioni di un pensatore di grande importanza: il sociologo francese Marcel Mauss (1872-1950). Esamineremo, in particolare, alcune sezioni di una delle sue opere principali, il Saggio sul dono.

Grazie a questo autore, capiremo come l’habitus di donare non sia solo “nostro”, e che all’interno di altre culture agiscono meccanismi nei quali possiamo identificarci; nel nostro viaggio, pertanto, conosceremo qualcosa di più sia su popolazioni lontane, sia sulla nostra stessa società.

MAUSS E IL “FATTO SOCIALE TOTALE”

Per cogliere al meglio i ragionamenti che analizzeremo a breve, dobbiamo ora soffermarci su un’idea di fondamentale importanza sociologica: il “fatto sociale totale”. Con questo concetto si indica che alcuni organismi sociali sono talmente generali e pervasivi da permettere di spiegare interamente la cultura di un popolo, nonostante siano eventi particolari.

Mauss, nel Saggio sul dono, afferma: «in questi fenomeni sociali “totali”, […], trovano espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali – queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo –, nonché economiche […]; senza contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste istituzioni rivelano»[1].

IL SAGGIO SUL DONO

Il Saggio sul dono, testo fondamentale di Mauss, è stato pubblicato sul primo numero della nuova serie dell’Année Sociologique[2], datata 1923-1924.

L’introduzione è intitolata “Del dono e, in particolare, dell’obbligo di ricambiare i regali”, e inizia con un’epigrafe che riporta alcuni versi dell’Havamal, un poema facente parte dell’Edda scandinava[3]; in particolare, le strofe riportate trattano l’importanza di donare per instaurare e mantenere rapporti sociali e d’amicizia. Questo passaggio iniziale permette all’autore di introdurre il tema principale del libro, indicato come “Programma”: «nella civiltà scandinava e in un buon numero di altre, gli scambi e i contratti vengono effettuati sotto forma di donativi, in teoria volontari, in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente»[4]. Infatti, sotto un’apparenza di disinteresse e generosità, al fondo delle pratiche di dono possiamo trovare «finzione, formalismo e menzogna sociale e, […], obbligo e interesse economico»[5].

Inoltre, Mauss specifica il “fatto sociale totale”, mettendo subito in chiaro che il dono è una delle sue manifestazioni.

Tlingit e Haida

Successivamente, l’autore esamina il caso dei Tlingit e degli Haida, due tribù abitanti la zona nord-occidentale del continente americano; presso di loro e in tutta l’area si riscontra un caso molto particolare di prestazione totale sotto forma di doni: il potlatch.

La specificità di questa cerimonia consiste non tanto in distribuzione di ricchezza ma nella sua distruzione, in quanto le popolazioni che praticano riti potlatch gareggiano senza sosta nello sperpero di beni di prestigio, conquistando tanta superiorità sociale quanto più si dimostrano inclini a privarsi di oggetti di valore, in una continua lotta di disfacimento dalla quale si arriverà a decretare il clan superiore, quello con maggior prestigio nella gerarchia sociale.

Tali fenomeni investono la vita collettiva di tutta la tribù e, nel Saggio sul dono, viene puntualizzato che siamo di fronte a «prestazioni totali di tipo agonistico»[6].

Polinesia

Proseguendo nella sua trattazione, Mauss si concentra poi sull’analisi del dono in Polinesia, affermando che in questi territori non esiste un potlatch compiuto come nel nord-ovest americano; ci sono certamente prestazioni sociali totali organizzate secondo dinamiche di dono ma, a suo dire, non sembrano andare oltre questo primo momento, non sfociando mai, cioè, nella competizione agonistica e nella rivalità esagerata.

Tuttavia, qui Mauss sembra trovare la soluzione al perché si debba obbligatoriamente ricambiare i regali ricevuti: lo hau, o «lo spirito della cosa donata»[7]. È importante specificare che in Polinesia gli oggetti personali, i taonga, sono strettamente legati ai proprietari, veicoli della loro forza spirituale o mana. Lo hau, dunque, è un’energia magica di cui tutti i taonga, proprio in virtù della loro stretta connessione col possessore, sono come imbevuti; quando uno di questi beni viene donato, trasmette con sé una parte sostanziale di chi lo regala, in quanto «la cosa ricevuta non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui»[8]. Al ricevente viene pertanto trasferito un vincolo spirituale, un obbligo che lo costringe a ricambiare il dono, pena la distruzione dell’individuo stesso; secondo la credenza maori è proprio lo hau che desidera tornare al suo luogo d’origine, e ciò può avvenire solo attraverso un controdono.

Tali considerazioni ci fanno quindi capire che «nel diritto maori, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perché la cosa stessa ha un’anima, appartiene all’anima»[9].

Dare, ricevere, ricambiare

A questo punto dell’opera, Mauss spiega la propria catena “dare, ricevere, ricambiare”. Il fatto totale, a suo dire, non solo implica l’obbligo di ricambiare i regali, ma ne determina altri due, di pari livello: da una parte, l’individuo deve necessariamente donare, mentre, dall’altra, il ricevente è costretto ad accettare il regalo. Infatti, «rifiutarsi di donare, […], così come rifiutare di accettare equivalgono ad una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l’alleanza e la comunione»[10].

Tlingit, Haida e Kwakiutl

Tornando ai casi del nord-ovest americano, Mauss approfondisce ora lo studio del potlatch; afferma che presso le popolazioni interessate non esiste forma di scambio diversa da questo cerimoniale di distruzione. In particolare, le tribù prese in esame sono, da una parte, i sopraccitati Tlingit e Haida, abitanti sulle coste canadesi e dell’Alaska, mentre dall’altra vengono analizzati i Kwakiutl, stanziati nella regione canadese della Columbia Britannica e sull’Isola di Vancouver.

Come sappiamo, il potlatch è un esempio di “fatto sociale totale” di tipo agonistico, e viene da Mauss indicato, nei suoi fondamenti, come un semplice sistema di scambio di doni; tuttavia, esso rappresenta un caso etnografico molto interessante, per via della violenza e degli esagerati antagonismi che stimola.

Credito e onore

Per quanto riguarda i meccanismi sociali che sottendono il potlatch, Mauss ne identifica due: il credito e l’onore.

Il primo termine in Europa ha un significato essenzialmente economico ma lo possiamo trovare, con una diversa semantica, anche presso popolazioni e culture non europee. L’autore ritiene che il dono sia collegato al credito, specificando inoltre che «la natura peculiare del dono è […] di obbligare nel tempo»[11]; infatti, i doni non possono essere ricambiati immediatamente (come in un comune scambio di beni) ma in un momento successivo, secondo una dialettica che coinvolge un creditore e un debitore.

La seconda nozione che abbiamo menzionato è quella di onore. Nei potlatch, oltre agli oggetti, vengono messi in gioco il prestigio, la “faccia” di un capo e di tutto il suo clan, in un continuo torneo nel quale «consumazione e distruzione sono veramente senza limiti. In certi potlàc bisogna dare tutto ciò che si possiede, senza conservare niente. Si gareggia nel dimostrarsi i più ricchi e i più follemente prodighi»[12].

Il potlatch in dettaglio

A questo punto, Mauss approfondisce le motivazioni del rituale ed elenca le strutture comunitarie coinvolte. Il potlatch è una cerimonia religiosa, in quanto vengono rappresentati gli dèi e gli antenati attraverso danze e rituali sciamanistici, detiene inoltre un carattere economico, poiché possiamo osservare transazioni di beni di valore anche molto elevato, e costituisce infine un’istituzione di morfologia collettiva, perché i vari gruppi hanno la possibilità di incontrarsi ed esprimere i propri organismi sociali.

L’autore legge poi i dati sul potlatch attraverso la catena “dare, ricevere, ricambiare”, collegandola a tale fenomeno punto per punto.

«L’obbligo di dare è l’essenza del “potlàc”»[13]. Il primo dovere impone a un capo di organizzare questa competizione, sia per i vivi che per i morti, per conservare il proprio rango nella comunità, il suo “blasone”. Invitando gli avversari alla sfida, un leader dimostra la propria forza, in virtù del fatto che «il potlàc, la distribuzione dei beni, è l’atto fondamentale del “riconoscimento” militare, giuridico, economico, religioso»[14]; se un capo non allestisce delle lotte cerimoniali perde il proprio prestigio, l’autorità e l’onore di fronte al suo clan e a quelli rivali. Assumersi questa responsabilità è tassativo: un leader deve invitare gli avversari e dimostrare la propria ricchezza, distribuendola o distruggendola, per elevare la tribù e umiliare i contendenti, «mettendoli all’“ombra del suo nome”»[15]. Se non organizza tali manifestazioni di superiorità, dunque, rischia di perdere tutto ciò che possiede e di non essere riconosciuto all’interno e all’esterno del proprio clan. Mauss racconta che «di uno dei grandi capi mitici, che non usava dare potlàc, si dice che aveva la “faccia marcia”»[16], e precisa che «nel Nord-ovest americano, […], perdere il prestigio è proprio come perdere l’anima: ciò che veramente viene messo in gioco, ciò che si perde al potlàc, o al gioco dei doni, così come in guerra o per una colpa rituale, è la “faccia”, la maschera di danza, il diritto di incarnare uno spirito, di portare un blasone, un totem, è la persona»[17].

«L’obbligo di ricevere non è meno forte. Non si ha il diritto di respingere un dono, di rifiutare il potlàc»[18]. Il secondo anello della catena impone al donatario di accettare l’invito, di partecipare alla gara; una rinuncia dimostrerebbe timore, sottomissione e povertà, ovvero non possedere ricchezze sufficienti per poter entrare nel gioco dei doni. Un rifiuto equivale quindi a una sconfitta totale, con la grave conseguenza di perdere il proprio nome e il proprio potere. Un caso particolare prevede la possibilità per un capo di ricusare un invito senza le pesanti ripercussioni sociali descritte: nel caso in cui abbia offerto, in passato, dei potlatch dai quali ne è uscito vincitore. Tuttavia, tale rinuncia è solo temporanea, in quanto l’individuo che attua questa scelta è comunque obbligato a organizzare feste più ricche di quella che ha respinto.

«L’obbligo di ricambiare è tutto il “potlàc” nella misura in cui non consiste in una mera distruzione»[19]. Il terzo momento chiude il cerchio. Mauss riporta che il potlatch deve essere ricambiato a usura, secondo un tasso di interesse che può raggiungere il 100%. Se un capo non può contraccambiare perde non solo la propria autorità ma anche lo status di uomo libero, poiché «la sanzione dell’obbligo di ricambiare è la schiavitù per debiti»[20].

IL WELFARE SOCIALE COME DONO: UNA CRITICA ALL’HOMO OECONOMICUS

La parte finale del Saggio sul dono si apre con questo ragionamento: «le osservazioni che precedono possono essere estese alle nostre società»[21]; la sezione conclusiva dell’opera è infatti incentrata sull’analisi delle dinamiche di dono all’interno della cultura europea moderna. Secondo Mauss, «una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme, della libertà»[22]; non tutto, pertanto, è ridotto ai soli termini del mercato economico: egli crede che «le cose hanno ancora un valore sentimentale oltre al loro valore venale»[23].

L’autore era socialista e osserva con gioia la realizzazione di ciò che chiama «socialismo di Stato»[24]. Esamina come l’istituzione governativa si prenda cura dei bisogni del lavoratore, spiegando anche questo passaggio storico in un’ottica di dono; infatti, poiché il dipendente, attraverso la propria fatica, ha offerto sé stesso alla comunità e al suo datore di lavoro, è dovere dello Stato ricambiare, in quanto moralmente in debito verso il proprio occupato, attraverso la concessione di «una certa sicurezza durante la vita contro la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la morte»[25].

Dal punto di vista economico, Mauss riflette inoltre su come il dono sia molto diverso dall’utilitarismo, in quanto ciò che in una comunità è davvero importante non si lascia inquadrare nelle astrazioni e nei calcoli degli economisti. Per esempio, nelle culture indigene studiate nel Saggio esistono sicuramente concetti come quello di valore e di bene prestigioso, ma tali denominazioni non hanno alcuna affinità col sistema di mercato occidentale; oltre a ciò, presso queste popolazioni la circolazione dei beni è legata all’aspetto religioso e mitologico, peculiarità assenti nel nostro sistema di mercato. La polemica di Mauss si concentra così contro l’economicismo che vuole inglobare la totalità del reale. Le considerazioni sul dono e sulle società indigene mostrano l’impossibilità di questo progetto totalizzante: «a più riprese, si è visto quanto il sistema economico dello scambio-dono fosse lontano dal rientrare nel quadro dell’economia cosiddetta naturale, dell’utilitarismo»[26]. L’essere umano come “animale economico” sarebbe una costruzione recente ancora non totalmente realizzata, e lo stesso autore scrive che «l’homo oeconomicus non si trova dietro di noi, ma davanti a noi»[27], aggiungendo che «l’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice»[28].

In conclusione, secondo Mauss il dono rappresenta il fondamento sociale primitivo, poiché rendeva possibile lo scambio e la reciprocità prima ancora che potesse esistere il mercato propriamente detto; inoltre, il dono è quel fenomeno che, in virtù della sua capacità di instaurare legami, ha permesso di creare delle società pacifiche ed equilibrate, dove si è potuto deporre le armi e avviare processi commerciali, generando così ricchezza e benessere. Mauss ritiene infatti che «le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti, donare, ricevere e, infine, ricambiare.

Per potere commerciare, è stato necessario, innanzitutto, deporre le lance.

Solo allora è stato possibile scambiare i beni e le persone, non più soltanto da clan a clan, ma anche fra tribù e tribù, fra nazione e nazione e – soprattutto – fra individui e individui»[29].

 

 

BIBLIOGRAFIA

– Mauss, M., Essais sur le don, Paris, PUF, 1950. Trad. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. di Franco Zannino, intr. di Marco Aime, Torino, Einaudi, 2002.

 

PER APPROFONDIRE

– Boas, F., The Social Organization and the Secret Societies of the Kwakiutl Indians, Washington, US National Museum, 1897. Trad. it. L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl, trad. di Christina Scarmato, pref. e cura di Enrico Comba, Roma, Centro Informazione Stampa Universitaria (CISU), 2001.

 

NOTE

[1] Marcel Mauss, Saggio sul dono, trad. it., Torino, Einaudi, 2002, p. 5.

[2] Rivista di sociologia fondata da Émile Durkheim (1858-1917), zio di Mauss e anch’egli sociologo.

[3] Edda, canti dell' nell'Enciclopedia Treccani - Treccani - Treccani

[4] Marcel Mauss, op. cit., p. 4.

[5] Ivi, p. 5.

[6] Ivi, p. 10. Corsivi dell’autore.

[7] Ivi, p. 13. Corsivi dell’autore.

[8] Ivi, p. 15.

[9] Ivi, p. 16.

[10] Ivi, p. 17.

[11] Ivi, p. 44.

[12] Ivi, p. 45. Corsivo dell’autore.

[13] Ivi, p. 48. Corsivi dell’autore.

[14] Ivi, p. 50. Corsivo dell’autore.

[15] Ivi, p. 48.

[16] Ibidem. Corsivo dell’autore.

[17] Ibidem. Corsivi dell’autore.

[18] Ivi, p. 50. Corsivi dell’autore.

[19] Ivi, p. 51. Corsivi dell’autore.

[20] Ivi, p. 52.

[21] Ivi, p. 80.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 83.

[25] Ibidem.

[26] Ivi, p. 88.

[27] Ivi, p. 94. Corsivi dell’autore.

[28] Ivi, p. 95.

[29] Ivi, p. 102.


La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone

Immagine: Incendio della Public Library di Los Angeles del. 29 aprile 1986

Se ancora oggi Platone viene inquadrato come filosofo sradicato dalla concretezza del mondo e proiettato nell’Iperuranio, ciò è dovuto perlopiù alla ormai superata (ma ancora presente) visione diffusa dalla formazione scolastica ordinaria. Invece, la filosofia di Platone è profondamente radicata nel mondo fisico e materiale.

Della “memoria”, in Platone, è noto che ve ne sia un genere immortale, il quale provvede alla reminiscenza (anamnesis) degli oggetti intelligibili. Meno noto e poco esplicito nei dialoghi è invece l’altro genere, quello della memoria “mortale” (non è questo il termine platonico), inteso come proprio della condizione incarnata dell’Anima immortale in un vivente (zoòn).

La Memoria (mneme) è una delle facoltà dell’anima, quella di imprimere, tracciare o racchiudere nella forma di ricordo (hypomnema) le informazioni che otteniamo da oggetti incontrati attraverso l’esperienza empirica. Essa è l’insieme di ciò che si è sedimentato nell’anima a partire dalle sensazioni memorabili, prodotte dall’esperienza, che facciamo di oggetti che esistono fisicamente nel mondo empirico (il processo completo è esposto nel discorso fisiologico contenuto nel Timeo[1]).

Il tema che ci interessa indagare in questo post è quello della “volatilità” del sapere in Platone, per produrre nuovi spunti di riflessione utili nel dibattito odierno.

La reminiscenza (anamnesis) è un’operazione prodotta dalla sola Anima immortale. Più propriamente essa è una forma del ri-memorare oggetti visti nella condizione disincarnata. L’operazione dell’apprendimento (mathesis) di nozioni avviene, invece, durante la vita e il contenuto di una memoria “mortale” (il ricordo) può dissolversi irrimediabilmente. La memoria nella sua totalità cessa definitivamente la propria esistenza con la morte del vivente che lo possiede, perciò con lo scioglimento dei vincoli tra l’anima e il corpo.

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In primo luogo possiamo affermare l’esistenza di una memoria “mortale” nel pensiero di Platone poiché non ci è pervenuta nessuna testimonianza o accenno a proposito della possibilità di reminiscenza di ricordi appartenenti a vite passate - come invece è presente nelle dossografie pitagoriche[2], che Egli conosceva e custodiva gelosamente nella propria biblioteca. In secondo luogo, nei dialoghi che affrontano problemi legati sia alla reminiscenza che alla metempsicosi, troviamo l’idea che a ogni nuova incarnazione debba esservi un “reset” della memoria in relazione alla vita empirica (si veda nello specifico il “Mito di Er”[3])

Parrebbe anche che, sul piano mortale, le conoscenze pratiche e dell’esperienza empirica siano più durevoli rispetto a quelle epistemologicamente superiori (“scientifiche”) del filosofo o del matematico (che hanno come proprio oggetto ultimo gli intelligibili).
Questo lo si può dedurre in particolare da un passo del prologo drammaturgico del Timeo. Qui Crizia il Giovane riporta un racconto che apprese da bambino, in cui Solone incontrò in Egitto un sacerdote che così affermava:

«“Siete tutti giovani d’animo (voi greci)”, rispose il sacerdote, “perché non avete nelle vostre anime nessuna opinione antica trasmessa attraverso una tradizione che proviene dal passato né alcun sapere ingrigito dal passare del tempo».

Prosegue poi con la motivazione di questa brevità della memoria collettiva dei greci:

«ogni cosa viene registrata, fin dall’antichità, nei nostri templi e conservata alla memoria», mentre in Grecia «a intervalli regolari di tempo, come una malattia, torna il flusso del cielo che vi inonda e non lascia illesi fra voi che gli illetterati e i nemici delle Muse (gli incolti), sicché ricominciate nuovamente dal principio, come tornati giovani». Per di più, aggiunge il sacerdote: «nel corso di molte generazioni, i sopravvissuti sono morti senza aver fissato la loro voce nella scrittura». (Tim. 22 d – e)

In questo passo possiamo individuare almeno sei punti ri-attualizzabili al giorno d’oggi:

  1. la scrittura esprime qui il suo ruolo di strumento tecnico corruttibile ma preservabile dalla distruzione, perciò tramandabile;
  2. la scrittura è uno strumento tecnico ausiliario, che richiede una stabilità materiale continuativa della società per essere mantenuto e motivato nell’uso ordinario;
  3. il vivente mortale, se non ha né la possibilità né la premura di tramandare il prodotto della propria conoscenza, non conserverà un sapere collaudato da mettere a disposizione dei posteri;
  4. la condizione del dopo-catastrofe è analoga a un “momento zero” della memoria mortale, un “cominciare nuovamente da principio”;
  5. i saperi pratici “degli illetterati e degli incolti” sopravvivono più facilmente rispetto a quelli di filosofi e scienziati, propedeutici a porre le basi di quella stabilità materiale che rende possibile l’accumulo del sapere;
  6. l’accumulo di un sapere avanzato e complesso, come quello “scientifico” (episteme), non è necessario alla vita, ma è un “in più”.

Platone ci indica anche che, quando si sia memorizzata un’informazione, la sua durevolezza dipenderà non solo dalle condizioni in cui il suo proprietario la custodisce e preserva, ma anche da come egli l’ha ottenuta. Ad esempio, Crizia il Giovane racconta una storia di cui ha acquisito un ricordo “vivido”, in quanto giovane, attento e partecipativo nel momento del suo apprendimento[4]. Un caso diverso è invece quello di Fedro che, nel dialogo omonimo, deve confrontarsi con un’opera scritta che necessita di rileggere più volte per ricordarla “alla lettera” al fine di tenere il proprio discorso[5].

Nel primo caso, quello di Crizia, la qualità del ricordo è dovuta alle caratteristiche che contraddistinguono il momento in cui egli ha appreso un’informazione, ossia la pregnanza dell’esperienza di apprendimento. Nel secondo caso, quello di Fedro, la qualità della formazione del ricordo sarà dovuta all’ausilio di strategie mnemotecniche, quali la rilettura e la ripetizione a voce alta.

Per concludere, il problema della conservazione, del tramandare e della possibile perdita della memoria (nel senso più ampio che comprende storie, tradizioni, tecniche e conoscenze) è un fenomeno oggi ancora più complesso.

In particolare se guardiamo al fenomeno di progressiva sostituzione dei mezzi di trasmissione “tradizionali” dell’oralità e della scrittura manuale in favore della digitalizzazione dell’informazione.

Quante tipologie e forme di “memoria” abbiamo a oggi sviluppato e quali si stanno depotenziando o stanno scomparendo?

Quante forme della scrittura possediamo e quali competenze sono necessarie per farne uso?

Quanti livelli di linguaggio e quante forme di linguaggio esistono per la sola codificazione informatica dell’informazione?

Quali i pericoli a cui si espone la loro conservazione?

Ai cataclismi menzionati dal sacerdote egizio che ha incontrato Solone, evidentemente presenti e comunque imprevedibili ancor oggi, quali si aggiungono?

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Ovviamente, sono domande complesse che richiedono risposte altrettanto articolate. Ad esempio, per i supporti di archiviazione digitale, da cui oramai dipendiamo largamente, sono deleteri i fenomeni elettrici, magnetici ed elettromagnetici, i quali sono tutti in grado di cancellare, corrompere o rendere inaccessibili, se non addirittura irrecuperabili, le informazioni registrate.

La stessa obsolescenza delle tecnologie e delle tecniche di conservazione e riproduzione dell’informazione, giorno per giorno avvia verso la fine la riproducibilità delle precedenti forme di “memoria”, sia collettiva che individuale (foto, video, documenti, scansioni di immagini, etc.). Gli attuali dispositivi che possediamo saranno sempre meno reperibili con l’avanzare di nuove tecnologie e dei relativi sistemi che ne permettono il funzionamento?

I dispositivi attualmente in uso, per quanto collaudati, non saranno un giorno più compatibili con quelli più avanzati, per protocolli di scrittura e lettura?

Saranno reperibili le tecnologie di giunzione che permettono di interfacciare fisicamente vecchi e nuovi dispositivi di archiviazione di memoria?

Le tecnologie di traduzione e conversione reciproca tra vecchi e nuovi protocolli di archiviazione dell’informazione saranno ancora implementate sui nuovi dispositivi o saranno ancora reperibili e adoperabili?

Quali altre problematiche sono riscontrabili o sono di imminente larga diffusione?

 

La memoria è un affare complesso, sia individuale che collettivo.

 

NOTE

[1] Tim. 42 d - segg. e 69 c - segg.

[2] Centrone, B. 1996, Introduzione a i pitagorici, Editori Laterza, Roma-Bari, pp. 52-61

[3] Resp. 614 b - 621 d

[4] Tim. 26 b

[5] Phaedr. 228 a