La conoscenza tecnica - Meditazioni a partire dal pensiero di Platone

In molti conoscono l’esistenza di un dialogo chiamato “Apologia di Socrate”. Al suo interno, oltre al “Socrate che sa di non sapere”, viene reso noto il particolare valore che Platone attribuisce alla conoscenza posseduta dagli artigiani. Ciò avviene nell’ultimo dei tre momenti che Socrate afferma di aver passato alla ricerca degli ateniesi ritenuti “sapienti”.

Dopo aver messo alla prova i politici e i poeti, egli dice:
«Alla fine andai dai lavoratori manuali (cheirotechnas): mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E qui non mi sbagliavo, nel senso che possedevano nozioni a me ignote e in ciò erano più sapienti di me». (Apol. 22 c – d)

Differenza tra “tecnica” e “scienza”

Per Platone esiste un genere di conoscenza unicamente umano, perciò corruttibile1 e quindi di altro genere rispetto alla più famosa forma della reminiscenza,2 un genere di conoscenza analogo a quella del noto essere divino chiamato Demiurgo presente nel dialogo Timeo: una conoscenza che permette “il fare”.

Se il termine “technikoi” indica in generale gli “esperti ”, il termine “demiurgos” indica il “lavoratore pubblico” (l’artigiano libero, non schiavo), mentre i ”cheirotechnas”, quelli di cui parlava Socrate, sono più in generale tutti coloro che producono attraverso le attività manuali. Il loro sapere è tipico dell’essere umano “di ogni giorno”, cioè che interagisce e apprende attraverso la forma di conoscenza che è l’opinione (doxa), di genere meno precisa rispetto a quella dei matematici e dei filosofi, chiamata invece episteme (scienza).

In questi termini, il sapere pratico, come quello scientifico, si genera a partire dall’esperienza del mondo fisico e materiale ma, a differenza del secondo, conclude il proprio percorso nella manipolazione delle cose su questo stesso piano fisico, ponendosi come scopo l’opera di azioni mirate a produrre effetti e oggetti utili sul piano della vita materiale. Diversamente l’episteme procede dall’osservazione e interazione col mondo fisico verso la conoscenza di enti meta-fisici, ambendo a intuirne i modelli,3 i quali comprendono anche le leggi che governano la realtà fisica. Le scienze producono conoscenza sul mondo come insieme complesso e strutturato, dunque prodotti del solo intelletto e non materiali.

Questa differenza è in qualche misura la stessa che ancora oggi troviamo tra “tecnica” e “scienza”. Solo in tempi molto più recenti queste due hanno sviluppato una reciproca interdipendenza quasi senza soluzione di continuità. Ma questo rimarrà per ora solo uno spunto di riflessione suggerito al nostro lettore.

Caratteristiche del “sapere pratico” e particolarità della tecnica

Rimanendo ancora con Platone, l’utilità (opheleia) è sia l’elemento distintivo che il coronamento stesso delle attività produttive proprie delle forme di “sapere pratico”. Agli occhi del Filosofo sono però più le technai  (discipline e arti tecniche) a contraddistinguersi per la «utilità per la vita»4 che le altre forme di conoscenza pratica.

L’insieme completo delle forme di sapere rivolte al mondo materiale è infatti più ampio e comprende anche le empeiria kai tribé, che per semplicità tradurremo come “esperienze frutto della pratica”. Queste sarebbero l’insieme di quei “saper fare” non governati dal rigore disciplinare. Ma ne tratteremo in un post dedicato.
Per ora, a solo titolo di esempio, pensiamo a chi “è bravo a fare”5 ma non per questo è un esperto (technos) del campo in cui sa invece solamente districarsi. Questo “saper fare” nelle sue declinazioni è una forma del sapere “al portatore”, posseduta dai singoli individui che mostrano avere una certa disinvoltura e/o dimestichezza “nel fare” cose specifiche.

Ciò su cui dobbiamo qui focalizzarci è che la differenza tra technai ed empeiria kai tribé risiede nel modo in cui esse procedono a ottenere un risultato. Le prime lo ottengono attraverso un rigore simile a quello scientifico, perciò strutturato e disciplinato attraverso il metodo della misura e del calcolo, mentre le seconde devono la propria efficacia alla semplice pratica di azioni che l’individuo che le compie ha imparato “per esperienza” essere utili all’ottenimento di un effetto desiderato.

Le technai dunque mirano alla produzione del proprio effetto a partire da una conoscenza riflessiva dell’intelletto nella forma della retta opinione,6 tratta, finalizzata e combinata all’esperienza empirica (empeiria).

Le vere discipline tecniche inoltre generano propri modelli su cui basare la produzione e proseguire la propria ricerca sperimentale. Va notato infatti che tutti gli artigiani si avvalgono di progetti-modelli di partenza per realizzare i propri prodotti (sedie, abiti, calzature etc.); come anche l’architetto progetta lo spazio secondo misure e calcoli precisi, vincolato per la sua realizzazione alle proprietà della materia costruttiva.

Quello del “tecnico” in generale è dunque un sapere misto di esperienza, metodo e teoria, che muove tra gli estremi della doxa e della episteme. Ѐ un sapere insegnabile e quindi oggetto di apprendimento, che per essere ottenuto dunque necessita di esercizio, pratica, sperimentazione e possiede uno scopo produttivo: produce utilità sul piano fisico.
Questo processo conoscitivo pratico determina quelle forme del sapere che confluiscono nelle discipline tecniche, ossia quelle che dotano l’esperienza sensibile di un grado di articolazione teorica e strumentale forte, rivolgendosi all’attività pratica.7

Spunti di riflessione sul mondo della tecnica oggi

Venendo ora a noi, possiamo trovare in questa analisi di Platone molti punti in comune con il modo attuale di concepire e intendere gli elementi distintivi della tecnica rispetto alla “scienza pura”, tanto da aprirci diverse prospettive di riflessione.

Con ogni evidenza il contesto della cultura tecnica è oggi ampiamente mutato. Possiamo notare per esempio che il crescente trasferimento della pratica produttiva dalle mani dell’artigiano verso tecnologie e macchine complesse e automatizzate, per la loro capacità di facilitare, razionalizzare e potenziare la produzione, è sicuramente preferito per fornire una risposta migliore in termini di produzione quantitativa e temporale. Ѐ quel valore che che oggi definiamo “volume della produzione”.8

Questi strumenti complessi sono anch’essi un prodotto della tecnica, sono prodotti per l’appunto tecnologici, e la loro complessità cresce con l’accrescersi della complessità tecnica, che ne ha infatti permesso la loro progettazione e costruzione.
Ma, e ci sono diversi “MA”, allo stesso tempo ciò comporta inevitabilmente che, uscendo dal dominio delle mani dell’artigiano o comunque sfuggendogli dalle mani per la loro complessità d’utilizzo (per cui saranno necessari ulteriori nuovi ruoli “tecnici”), questi strumenti sono in grado di soppiantare le forme della conoscenza individuale specializzata precedente, tramandata attraverso l’oralità e tramandabile attraverso il coinvolgimento pratico attivo.

Il tecnico nel senso professionale è dunque oggi sempre più un “technikos”, ossia uno specialista. Nel nostro ultimo esempio è “un esperto” di strumenti, macchine e istruzione di processi complessi, più che un “cheirotechnos” o “demiurgos”, ossia un lavoratore manuale esperto. Ciò sposta il tecnico verso forme di conoscenza specialistica di "pratica teorica" e nel ruolo di esecutore di singoli processi più che un progettista “con le mani in pasta”.

Dall’altro lato, una reazione alla produzione così impostata e spersonalizzata è la nascita da parte dei singoli individui di forme d’interesse per le pratiche manuali contro quelle automatizzate e per quelle analogiche contro la sempre più diffusa cultura digitale.
Queste fascinazioni per l’attività pratica diretta le vediamo spesso in opera sia nel campo artistico che in quello dilettantistico, con le conseguenti e rispettive aperture di nuove nicchie di tendenza. Così sottratte al circuito di tramandamento diretto obbligato dalla necessità produttiva, queste conoscenze pratiche finiscono per far ricadere la tipologia di conoscenze del loro “portatore” più nel campo di quelle empeiria kai tribé a cui abbiamo accennato che in quello delle technai. Proviamo ora a pensare a quanti eventi vengono creati oggi con l’intento dichiarato di introdurci al mondo della auto-produzione manuale attraverso brevissime esperienze temporali, quali sono i corsi o i “workshop”.

La caratteristica corruttibilità del sapere pratico che individua Platone diventa maggiormente evidente oggi, in un’epoca storica in cui si assiste alla continua interruzione della linea di trasmissione continuativa di conoscenze disciplinari appartenenti al mondo pre-industriale.
Individuarne i motivi è sicuramente un lungo lavoro che non possiamo qui affrontare, ma in sintesi possiamo affermare che questa perdita dei saperi pratici si debba non tanto a una loro intrinseca “obsolescenza” o al loro “superamento” sul piano del sapere tecnico, piuttosto ciò parrebbe avvenire sul piano della sostituzione tecnologica dell’artigiano per i motivi preferibili di sopra detti.

Potremmo affermare anche che, questo fenomeno della perdita e corruzione dei saperi tecnici pre-industriali, non possa derivare esclusivamente dal loro superamento sul piano della attendibilità del “sapere” in sé preso, poiché il più di queste forme tecniche del passato possiedono di fatto un percorso di affinamento e collaudo nettamente più lungo e verificato (esperito) rispetto ai metodi, ai materiali, alle tecniche e alle tecnologie che si sono affermate solo recentemente, nella nostra epoca contemporanea.

Altrettanto si può confermare ancora oggi come intrinseca e ineliminabile quella natura corruttibile che Platone affermava essere propria di queste forme del sapere pratico tecnico. Queste, infatti, se non vengono tramandate, muoiono con i singoli esseri viventi umani che ne sono portatori-detentori. Il loro recupero futuro sarà perciò tardivo, debole o esposto al dilettantismo.

In tal proposito possiamo aggiungere che i contenuti di queste forme del sapere, anche se messi materialmente per iscritto, non potranno per loro natura sopravvivere alle singole vite degli stessi uomini che ne sono detentori praticanti e alla loro personale memoria, laddove si perda quella parte “pratica” da parte di nuovi eredi diretti di questi saperi. Diverrebbero così testimoniate ma anche quel che si dice “lettera morta”.

 

 

 


NOTE

1 Gli esseri umani sono mortali e tutto ciò che gli appartiene come attributo umano è di per sé corruttibile. Nel precedente post “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone” sottoponevo a chi ci legge la complessa questione della Memoria e della sua corruttibilità nel pensiero di Platone. In questo presente post emergerà con maggior evidenza il senso della scelta di presentare un tema così complesso. Platone attribuisce infatti ai “saperi pratici” (definizione di comodo e non platonica) la condizione di corruttibilità. Ed è proprio il tema della corruttibilità di un sapere che il lettore dovrà tenere presente mentre affronterà ciò che troverà qui proposto.

2 La reminiscenza o anamnesis è quel processo di risveglio della memoria dell’anima immortale, perciò che rimane identica al di là delle incarnazioni di ciascun vivente mortale. Questa memoria immortale si sopisce con l’unione dell’anima immortale a un corpo fisico (= incarnazione) e il suo contenuto si riferisce a quelle idee di alto grado metafisico, quali sono il Bene, il Bello, la Giustizia etc..

3 “Idea” o “eidos” significa per l’appunto “modello”.

4 Esplicitamente scrive Platone nel Gorgia che «si occupano della nostra vita fisica» (518 a) , costituendo di fatto veri e propri «sistemi che preparano alla vita» (500 b). Ciò emerge anche in particolare nei passi Gorg. 464 b - 466 a; Phil. 58 c, 63 a; Theaet. 177 e.

5 Chi dice cose apparentemente corrette può essere un sofista e non un tecnico o uno scienziato. Chi esegue belle armonie può essere un musico ma non un musicista. Chi sa creare belle pietanze può essere un cuoco ma non un dietologo. Insomma, non sempre chi appare padroneggiare un argomento o una pratica lo fa sulla base di una conoscenza strutturata, rigorosa, “disciplinata”.

6 La “retta opinione” è quella forma di conoscenza che deve la propria corrispondenza al mondo fisico per una corretta intuizione, nel senso che “ci azzecca” rispetto all’oggetto di cui si occupa. In breve, si dà retta opinione quando per “averci visto bene” o “averci dedicato particolare impegno sperimentale” si ottiene un risultato ricercato. Ad esempio, anche i politici che reggono le città in modo retto lo fanno non per scienza ma per retta opinione, afferma Socrate in Men. 99 a – e.

7 Nella lettura che dà Platone, questo sapere misto è in generale quello che esprime la condizione dell’essere umano, del vivente mortale le cui funzioni riflessive, a partire dalla episkepsis («indagine» o «valutazione») e poi col logismos (facoltà del calcolo e della misurazione), sono volte al campo operativo sul solo piano empirico.

8 Il “volume della produzione” è quel valore complessivo di beni e servizi che un'azienda è stata in grado di produrre con le risorse disponibili in un determinato periodo di tempo. Più aumenta, più è possibile abbassare il costo medio di ogni singola unità di prodotto, rendendola più competitiva sul mercato economico.


Newton, Leibniz e il calcolo infinitesimale - uno scontro tra visioni del mondo

Per Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) non furono erette statue o monumenti. Pochi, anzi pochissimi, parteciparono al suo funerale, benché fosse stato per tutta la vita vicino agli alti vertici dei nascenti stati nazione, e sebbene per decenni avesse svolto l’incarico di storico dell’allora casata di Hannover. Dieci anni più tardi, la morte di Isaac Newton (1642-1726) sortì tutt’altra reazione: al funerale presenziò persino Voltaire, poco più che trentenne, e che di lì a pochi anni avrebbe scritto gli Elements de la philosophie di Newton (1738), diventando, al ritorno dal suo esilio in Inghilterra,1 il principale divulgatore del pensiero newtoniano sul continente. Cinquant’anni più tardi l’architetto francese Étienne-Louis Boullée (1728-1799) realizzò in onore di Newton i sei disegni del fantaprogetto del cenotafio. Con lobbiettivo di «donare a Newton limmortale luogo di riposo, il paradiso»,2 Boullée progettò una colossale cupola alta circa centocinquanta metri adagiata su di una zona dappoggio adornata dalberi perfettamente allineati, impossibile da realizzare tecnicamente.

L'accesa rivalità tra due dei più eminenti filosofi e scienziati del proprio tempo è stata spesso semplificata e ridimensionata a una mera contesa. Il che ha comportato la riduzione del problema al solo tentativo di stabilire chi dei due sia giunto per primo alla formalizzazione del calcolo infinitesimale. La morte e i funerali a volte bastano per dichiarare un vinto e un vincitore. Lo scontro tra nazioni – e la correlata tendenza a prendere posizione da una parte o dell’altra dello stretto di Dover, e dunque a stare con Parigi o con Londra – ha ulteriormente alimentato tali opposizioni riduttive.

Dopo più di un millennio in cui il calcolo della superficie e del perimetro di figure curve si era accontentato dell’antico metodo d’esaustione, e dopo i primi vagiti di una nuova matematica che aveva preso forza a cavallo tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo, Leibniz e Newton rappresentarono per l’Europa d’allora gli inventori dell’ analisi infinitesimale che permetteva, a partire dalla curva, il calcolo dell’ «equazione tangente e il valore della sua curvatura in un punto generico, […] la tangente, massimi e minimi»3 tramite ciò che Leibniz chiamò «rapporto differenziale» e Newton «calcolo delle flussioni».

In effetti, tra i due ci fu una contesa circa la paternità del calcolo. Il filosofo di Lipsia sosteneva di aver sviluppato il fulcro delle proprie scoperte ben prima dell’inglese, mentre quest’ultimo affermava di aver consegnato al tedesco una lettera, passata tra le mani dell’amico in comune Oldenburg, dove per la prima volta dimostrava le proprie scoperte.4 Mentre Newton aveva sviluppato il grosso della propria teoria già nel 1669, Leibniz iniziò ad ottenere dei risultati non prima del 1672, pubblicando le prime scoperte nel 1676. Nel 1711, per dirimere la disputa, fu chiamata in causa come parte giudicante la Royal Society, di cui lo stesso Newton era Barone dal 1715. Ne risultarono il Commercium epistolicum (1715) e la Recensio Libri, quest’ultima pubblicata anonimamente ma scritta con ogni probabilità dal fisico inglese, e in cui si condannava definitivamente Leibniz sotto gli occhi di tutto il mondo accademico del tempo.5 Newton, si diceva, aveva inventato il nuovo calcolo infinitesimale.

Riannodiamo i fili, la disputa tra Leibniz e Newton fu, semplicemente, una contesa? La sociologia delle scienze e delle tecnologie ci ha recentemente fornito un’interpretazione originale del concetto di controversia.6 Rivolgiamolo dunque al nostro caso. Ciò che accadde tra Leibniz e Newton fu una contesa o una controversia? Cambia qualcosa?

L’indicazione di Enrico Giusti è rivelatrice: «chi legge i documenti relativi alla disputa fra Leibniz e Newton circa l’invenzione del calcolo infinitesimale, […] ha l’impressione che si stia svolgendo un dialogo tra sordi».7 Non tanto perché i due non si siano voluti ascoltare, il che trasformerebbe nuovamente l’evento in una contesa. Per quanto comunichino e si attacchino, essi non paiono disquisire del medesimo oggetto. Il problema non è certo che «non si è mai capaci di parlare della stessa cosa». Piuttosto, ricostruendo il nugolo di considerazioni intorno al «calcolo infinitesimale» nell’uno e nell’altro autore, e al di là della disputa ufficiale, non ci troviamo più davanti a due oggetti simili che, in fondo, sono conciliabili. Simili - scrive sempre Giusti - «ma irrimediabilmente diversi».8

Se a parità di calcolo le due formulazioni restituiscono risultati pratici sostanzialmente sovrapponibili - dunque a parità di esattezza matematica - concettualmente sono in aspro contrasto, se non addirittura incompatibili. Finché ci si focalizza soltanto nello stabilire la paternità del calcolo, tutta la questione appare come una semplice contesa. Questa peculiarità del concetto di controversia è stata forse sottostimata: perché non ci sia controversia, basta non porsi la questione. Altro lato della medaglia: perché non ci sia controversia, basta ridurla a una contesa, alla morte dell’uno e al trionfo dell’altro, come d’altronde si premurò di fare l’esegesi illuminista che aveva infervorato Voltaire e Boullée, e che avrebbe spinto Immanuel Kant (1724-1804) a essere molto più newtoniano che leibniziano.

Ciò detto, rimane da risolvere il problema inverso. Supposto che una controversia possa differire da una contesa, bisognerà stabilire il senso di questa differenza. Se tra Leibniz e Newton avvenne una contesa, ci riduciamo a determinare storicamente chi è giunto per primo a ciò che chiamiamo «analisi infinitesimale». Il modo della relazione è già definito, ciò che resta da stabilire è unicamente la priorità cronologica di un attore sull’altro. Se, diversamente, tra i due ci fu una controversia - e qui ci viene in soccorso l’etimo della parola - ciò che v’è da stabilire è proprio il modo della relazione dell’uno e dell’altro: in una contesa ci si muove verso l’oggetto comune, in una controversia il moto è appunto «contrario» l’uno rispetto all’altro, per «versi» differenti. Ecco una seconda peculiarità: se il concetto di contesa è fin troppo generalizzabile - tutto può diventare contesa -, il concetto di controversia sembra perdere qualcosa di vitale laddove dovesse venire generalizzato. Una relazione già definita, come quella di contesa, è ipso facto generalizzabile. Al contrario, laddove si debba ancora definire il modo della relazione, non c’è alcunché di generalizzabile, se non tramite una semplice accezione negativa. Infatti, propriamente parlando, che si dica che due elementi sono in rapporto di controversia, è affermare che non è definito il modo di quel rapporto di direzione contraria dell’uno rispetto all’altro.

Torniamo dunque ai contendenti. Dei due, Leibniz è meno ambiguo sul posizionamento generale del calcolo all’interno del suo più ampio sistema di pensiero. Come hanno mostrato Gilles Deleuze ne La piega (1988) e Michel Serres nei due tomi de Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques (1968), il rapporto differenziale dx/dy in combinazione con alcune considerazioni circa le serie convergenti, ossia tendenti verso un limite comune, rappresentano due principi ineliminabili dell’intero sistema matematico-metafisico del filosofo tedesco. A tal proposito, Ludovico Geymonat ha sostenuto, nel suo corso sulla Storia e filosofia del calcolo infinitesimale (1946-1947), che «mentre in Newton l’invenzione del calcolo infinitesimale fu dettata da preoccupazione essenzialmente tecniche, in Leibniz invece essa scaturì da considerazioni essenzialmente filosofiche».9 Il tedesco immaginava un fuscum subnigrum animato e in constante variazione. L’ha ripetuto Michel Serres nel Parassita, «il rumore di fondo è il fondo dell’essere».10 La monade è imperscrutabile qualora non considerassimo ciò che ha rimarcato Deleuze, se «le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire»,11 come recita la famosa VII proposizione de La monadologia, è perché tra monade e mondo c’è un rapporto di rispecchiamento reso possibile proprio dalle considerazioni di Leibniz circa il rapporto differenziale. Il calcolo di Leibniz - scrive sempre Deleuze - è inseparabile da un’anima: se il mondo è una serie infinitamente infinita di cui la monade è l’inversa, la coscienza funziona per integrazione di rapporti differenziali. Se un’infinita schiera di piccole percezioni inconsce si integrano tra di loro - ossia entrano in un rapporto differenziale convergente - divengono coscienti.12 Di conseguenza la soglia della coscienza non è l’effetto di un rapporto differenziale, bensì è il rapporto stesso, un «ripiegamento del mondo», una piega, o come annotava Leibniz nei Principi razionali della natura e della grazia «se fosse possibile dispiegare tutte le pieghe dell’anima, le quali tuttavia si esplicano in maniera evidente solo nel tempo, si potrebbe conoscere la bellezza dell’universo in ciascuna anima. Infatti ogni percezione distinta dell’anima contiene uninfinità di percezioni confuse che implicano tutto luniverso».13

Che dire di Newton? L’analisi infinitesimale ha una posizione ambigua. Se da un lato Newton sostenne sempre la finalità pratica del calcolo, e dunque la parziale estraneità dello strumento rispetto al reale, una ricognizione di ciò che scrisse in fatto di teologia e fisica[14] - caso paradigmatico è lo scolio generale che chiude i Principia[15] - rivela, in fondo, il tentativo di armonizzare la realtà stessa a quello che doveva essere un semplice «calcolo pratico». Insomma, diversamente da come si è ripetuto fino allo sfinimento, e a partire dalle accuse di oscurantismo e filosofeggiamenti che Newton mosse a Leibniz,16 chi dei due sia stato il vero empirico è tutto da vedere. Per riassumere nel modo più contratto la differenza sostanziale, si potrebbe affermare che mentre il sistema di Leibniz, inteso come immagine del reale, postula l’infinito in actu, implicato, come ragion sufficiente del sistema stesso, la teoria di Newton, rappresentazione della realtà-pratica, ostracizza l’infinito a favore dell’atomo e delle quantità «infinitamente piccole» che, tuttavia, rimangono «estese».17 Quello dell’inglese è un calcolo di flussioni, ossia dei movimenti di un punto per grandezze infinitamente piccole. E tuttavia, quest’ultimo sarà obbligato a reintrodurre ciò che aveva precedentemente escluso, così che il materialismo atomistico affermato con tanta dissimulata leggiadria venga calmierato reintroducendo un finalismo che ne giustifichi lunità di base. Lo chiamerà Dio poiché, come confidava in una lettera a Bentley, «il materialismo granulare non potrebbe in alcun modo ‘trasformare il caos in un cosmo’». Per Leibniz, contrariamente, l’atomismo scevro d’infinito è una semplice «debolezza dell’immaginazione»:18 dev’esserci, in fondo, un punto animato. Come ha scritto il sociologo Gabriel Tarde in Monadologia e sociologia (1895), «perfino nella parte solida, se la conoscessimo meglio, dovremmo eliminare quasi tutto. E così di eliminazione in eliminazione, dove arriveremo mai, se non al punto geometrico, cioè al punto nullo, a meno che questo punto non sia un centro?»[19]


NOTE

1 Com’è noto la figura di Pangloss, maestro filosofico di Candido, è una parodia del pensiero di Leibniz. Come si legge in “Candido o l’ottimismo” in Voltaire, Vol. II, tr. it. P. Angioletti, e M. Grasso, RBA, Milano 2017, p. 216, Pangloss, insegnante di «metafisico-teologo-comolonigologia provava in modo ammirevole come non potesse esistere effetto senza causa, e come nel migliore dei mondi possibili il castello del monsignor barone fosse il più bello dei castelli, e la signora la migliore di tutte le baronesse».

2 Da Etienne-Louis Boullée, Architecture: Essai sur l’Art , trans. Sheila de Vallée, in Helen Rosenau, Boullée and Visionary Architecture (London: 1976) in P. L. Ricci, Lux et tenebris: Etienne-Louis Boulé’s Cenotaph for Sir Isaac Newton.

3 L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico. scientifico, Vol. II, Garzanti editore, Milano 1970, p. 378.

4 Si veda il recentemente ripubblicato Disputa Leibniz-Newton sull’analisi, a cura di G. Cantelli, Bollati Boringhieri editore, Torino 2023.

5 Per approfondire la successione cronologica degli eventi si veda A. R. Hall, Philosophers at war, Cambridge University Press, 2009.

6 H. M. Collins, T. Pinch, Il Golem (1993), Dedalo, Bari 1995.

7 E. Giusti, “Introduzione”, in Disputa Leibniz-Newton sull’analisi, cit., XIII

8 Ibidem.

9 L. Geymonat, Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, Bollati Boringhieri editore, Torino 2008, p. 141.

10 M. Serres, Il Parassita (1980), Mimesis edizioni, Milano 2022, p. 77.

[11] G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani editore, Milano 2017, §7, p. 61.

12 Per il rapporto tra coscienza e inconscio differenziale si veda il capitolo VII, “La percezione nelle pieghe” in G. Deleuze, La piega (1988), Giulio Einaudi editore, Torino 2004, pp. 139-162.

13 Ivi, “Principi razionali della natura e della grazia”, §13, p. 51.

14 Si veda I. Newton, Trattato sull’apocalisse, a cura di M. Mamiani, Bollati Boringhieri editore, Torino 2022.

15 Geymonat ne parla in Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. II, Garzanti editore, Milano 1970, p. 524.

16 Scriveva Newton ne lo Scolio, «infatti qualsiasi cosa non si riesca a dedurre dai fenomeni, deve chiamarsi ipotesi; e tutte le ipotesi, siano esse della metafisica, della fisica, della meccanica o delle qualità occulte, non hanno posto nella filosofia sperimentale». Nelle battute conclusive della recensio libri si legge “Si deve senza dubbio ammettere che fra Newton e Leibniz sussiste un enorme differenza nel modo di trattare la filosofia. Il primo procedere solo fin dove lo conduce levidenza dei fenomeni e delle esperienze, [...] il secondo è tutto imbevuto di ipotesi, che avanza non già come proposizioni da doversi esaminare con lesperienza, ma che verità cui si deve credere a occhi chiusi”, Cantelli, p. 80.

17 Scrive Newton nello Scolio generale dei Principia, riportato da L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. II, cit., p. 522, «l’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, a mobilità e la forza d’inerzia delle part del tutto nasce dall’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, dalla mobilità e dalla forza d’inerzia delle parti: di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e Dre, impenetrabili, mobili, e dotate di forza d’inerzia. E questo è il fondamento dell’intera filosofia»

18 G. W. Leibniz, Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanza e dellunione tra lanima e il corpo” (1695), in Scritti Filosofici, vol. I, cit., p. 190, §3.

19 G. Tarde, Tarde, Monadologia e sociologia (1895), tr. it. F. Domenicali, Ombre corte, Verona, 2013, p. 45.


Storie segrete delle scienze - Un viaggio tra scienze, umano e società

Storie segrete della scienza è il titolo intrigante di una raccolta di saggi pubblicata da Mimesis il mese scorso. Al suo interno si trovano tradotti saggi di Jonathan Miller, Stephen Jay Gould, Daniel J. Kevles, Oliver Sacks, e Richard C. Lewontin, originariamente pubblicati a metà anni ‘90. Il lettore viene accompagnato dai racconti lungo la storia più o meno accidentata di alcune importanti scoperte della scienza contemporanea.

Gli autori, capaci narratori, coinvolgono nei percorsi personali delle figure che si sono scontrate nel dibattito delle idee. Ancora più interessante è però la capacità di questi scritti di inoltrarsi sempre più nella complessità dei rapporti tra umano, società e mondo.

 

Così, Miller racconta la storia del magnetismo e di Franz Anton Mesmer che lo scoprì nel XVIII secolo. Le mani imposte sul corpo dei pazienti di Mesmer inducevano in loro trances e convulsioni a cui seguiva la guarigione da vari disturbi mentali e non solo. Da Mesmer si aprono diverse strade. Esoterismo, ricerca, spettacolo e scoperta. Dallo spettacolo delle convulsioni magnetiche nasce come per gemmazione il “sonno nervoso”, l’ipnosi. Si aprono così possibilità di ricerca nella direzione dell’inconscio umano, sotterraneo e pieno di implicazioni politiche. Non solo la scienza è in gioco, ma piuttosto tutto il mondo: i nazionalismi dell’epoca e quelli odierni, le teorie politiche liberali o meno, la libertà dell’umano e Miller nel raccontare mantiene sempre dritta la rotta della scoperta (anche se quella rotta forse l’ha tracciata la storia per lui).

 

La rotta: stupenda metafora per l’esploratore che è in noi. Attenzione però alle metafore, al potere delle immagini, perché se in un primo momento possono aiutare a delineare la strada, a volte chiudono il mondo in quella rappresentazione. È ciò che racconta Gould riguardo alla figura della scala evolutiva. L’idea del progresso, idea potente e schiacciasassi, si è annidata nella storia della rappresentazione dell’evoluzione. Ecco, là in cima, l’uomo. Eretto, bianco, maschio (a volte la donna lo accompagna). Domina su tutte le specie prima di lui e le sovrasta: compimento dell’evoluzione. Gould si oppone. Senza accusare di mala fede chi illustra queste splendide metafore, rimane il fatto che esse non rappresentino adeguatamente quello che sappiamo sull’evoluzione. E il discorso non vale solo per la vita di tutti i giorni e le verità comuni. La comunità accademica e scientifica ha appena appena migliorato l’immagine dell’evoluzione raffigurandola nei manuali come un cono. Ma la diversità conseguente a una delle più importanti esplosioni della vita – quella Cambriana – ancora oggi non viene compresa nell’iconografia tradizionale. I mammiferi classificati in 4000 specie hanno ancora i rami più alti dell’albero e lo spazio più grande del cono, la cima, mentre alle più di 10.000 specie di insetti resta solo l’angusto sottobosco.

 

Che fare della rotta? Andiamo a vedere come si costruisce. Kevles, storico della scienza, racconta con molti e accurati particolari – sempre mantenendo uno stile piacevole – il difficile espandersi della ricerca sugli oncovirusDall’inizio del XX secolo con le osservazioni di un virus che scatena i tumori nei polli, la storia si articola in modo tortuoso, anche se non privo di progresso, scrive Kevles. I fattori in gioco sono tanti e spesso la ricerca si rannicchia nei laboratori di biologia di base, lontano da pressioni indiscrete. Esistono infatti preoccupazioni sociali, questioni “interne” alla struttura della disciplina o importanti influenze politiche. Tutte queste e altre – la sociologia delle scienze ce lo insegna – partecipano all’emergere o meno di una scoperta. 

Così questi studi sui virus vennero osteggiati quando implicavano la possibilità di rendere pericoloso il latte materno. Si pensava infatti potesse essere un vettore di trasmissione e si indagava per riconoscere il “fattore latte”, ma le conseguenze di questa ipotesi erano pericolose per la società. O ancora quando i ricercatori si devono confrontare con il dogma della biologia dell’epoca: non si torna indietro dall’RNA al DNA. Verrà scoperta la transcriptasi inversa e i retrovirus. Kevles osserva come proprio in quei piccoli laboratori la ricerca prosegue. La libertà che è concessa loro permette di sbagliare, di vagare per alcuni anni alla cieca e infine (magari grazie a scoperte concomitanti) riuscire davvero nell’osservazione di qualcosa di importante. 

Nel 1970 quindi viene dimostrata l’esistenza dei retrovirus. 5 anni dopo, per la scoperta, Renato Dulbecco, Howard Temin e David Baltimore riceveranno il Nobel (figura importante sarà anche Marguerite Vogt, che lavorava con Dulbecco). Ma nel frattempo la comunità medica stenta a riconoscere l’importanza di questa linea di ricerca. L’aiuto arriva per altra strada. Alcuni medici, Solomon Garb tra questi, spingono perché si dedichino finanziamenti alla ricerca sul cancro. Scoprire una cura per il cancro potrebbe avere importanti conseguenze nel confronto con l’Unione Sovietica. Nasce l’idea di un grande programma federale per la cura al cancro. Una Guerra al Cancro, che Nixon ha paragonato al Progetto Manhattan e al Programma Apollo. Tutta la società statunitense è movimentata e la ricerca esce dai piccoli laboratori. Lascio al lettore proseguire il racconto, nella speranza di averlo incuriosito. 

 

Come lettori veniamo accompagnati, io credo, non troppo bruscamente a comprendere quanto il sociale (e il personale) si intrecci con lo “scientifico”. La rotta non è mai stata persa però. Come sulle montagne russe ci spaventa pensare alla contingenza della scienza, ma sappiamo di essere assicurati alla linea del progresso e ci divertiamo.

Il saggio di Lewontin è un’affascinante storia della biologia contemporanea e della ridefinizione del ruolo tra vivente e ambiente. Ridimensionato il ruolo dell’adattamento, si riapre la porta alle potenzialità dell’organismo di plasmare il mondo. Le conseguenze pratiche per l’umano sono quelle di una visione ecologica che accetti il suo ruolo, vicina a quella di Timothy Morton che ho raccontato in un altro articolo. Ribaltato il ruolo dell’umano non resta che dare un ultimo colpo alla percezione della scienza come progresso necessario e cercare di capire che cosa rimane in piedi.

 

Nel saggio di Oliver Sacks sono raccolti diversi casi di teorie, scoperte e osservazioni cadute nel dimenticatoio. “Scotoma”, scrive Sacks, è il termine neurologico per queste rimozioni sociali. Qualcosa viene osservato e per motivi che non riusciamo a comprendere ritorna un giorno, in altre condizioni, modificato. Credere che esista una necessità all'emergere di queste idee è semplicistico. Le scienze e le persone che le compongono si incontrano e scontrano in modo “pulito”, nel dibattito delle idee e nella libertà. Ma altrettanto in modo “sporco”, come nel caso di Chandrasekhar che fu osteggiato dagli interessi personali del suo mentore. Non solo. Le due letture sono semplicistiche e permettono di mantenere una divisione ideale tra un campo da gioco con le sue regole e un mondo sporco di interessi personali che non dovrebbe entrarvi. Distinzione che nel quotidiano tende a confondersi, complicarsi, influendo negativamente sulla ricostruzione di una storia della scoperta.

La rotta non è mai scritta. Gli esploratori hanno delle indicazioni dalla realtà, da qualche collega, dai loro sogni. Il grande ruolo della contingenza sta proprio qui. Se si arriva alla scoperta e si torna indietro, alla società, si potrà disegnare una mappa. Al mondo resta la mappa e le nuove rotte di quelli che sono tornati. Di quelli che si sono persi e dei luoghi che avranno scoperto, sapremo forse qualcosa un giorno. In questo senso Sacks ha una visione positiva. Le scienze nell’ultimo secolo si sono spente nella capacità di descrivere il mondo. La medicina, a esempio, è passata dalle dettagliate ed estese descrizioni dei pazienti al tracciare spunte su cartelle cliniche già scritte. Tornare a quelle osservazioni permette di riprendere un’eredità della ricerca con uno sguardo nuovo, in un mondo nuovo e con tecnologie che permettono pratiche nuove. E la medicina non è l’unica a cercare nuove strade.

«Un nuovo tipo di teorizzazione, o di visione del mondo, è apparso un po’ dovunque negli ultimi quarant’anni, dalla nozione di auto-organizzazione in semplici sistemi fisici e biologici all’idea di complessi sistemi adattivi nella natura e nella società, dal concetto di proprietà emergenti nelle reti neurali a quello di selezione dei gruppi neuronali nel cervello. Sta emergendo una nuova “macro”-visione, non solo del carattere integrale della natura ma della natura come innovativa, emergente, creativa».