Strabismi morali – Ogni vivente ha diritto all'integrità

Lo strabismo (o eterotropia) è un difetto di convergenza degli assi visivi dei due occhi che causa una fastidiosa visione binoculare e che può influenzare in maniera negativa la percezione del mondo circostante.

Si parla di strabismo morale quando – ad esempio - si giudica un atto con standard diversi, in modo diverso, a seconda di chi lo compie.

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28 gennaio 2024, Trentino.  Un orso, noto col numero di radiocollare M90, segue – sottolineo: segue, non “insegue” come riportano alcuni media – due persone per circa 10 minuti lungo una strada forestale di 700 metri, adattando la propria andatura alla velocità dei due malcapitati, a una decina di metri di distanza.

L’orso si è poi allontanato quando dei motociclisti, accorsi nel frattempo, l’hanno spaventato col rumore dei motori.

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Un cittadino molisano perseguita da più di un anno una donna sua concittadina. Lo scorso ottobre ha fatto irruzione in casa, a orario di cena, sfondando la porta. L’uomo segue regolarmente la donna, la insulta e di recente l’ha aggredita ferendola ad una guancia.

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L’orso M90 è stato ucciso il 9 febbraio dal personale del Corpo forestale della Provincia autonoma di Trento, su incarico del Presidente della Provincia.

Il molestatore molisano - da tempo sottoposto a divieto di avvicinarsi alla vittima - non ha subito alcuna altra conseguenza.

Strabismo morale: l’atto è analogo (quasi analogo: diversamente dal molestatore, l’orso non ha insultato o  aggredito le persone) ma il giudizio è radicalmente diverso; non credo che il Presidente della Provincia autonoma di Trento avrebbe deciso di far abbattere il molestatore.

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Numeri, Italia:

  • In 9 anni, le aggressioni da parte di orsi sono state 8, con un morto e 8 feriti;
  • In meno di 2 mesi, i femminicidi sono stati 10 e i casi di maltrattamenti e stalking da parte di ex-compagni o ex-compagne si stimano in più di 1.500.

Strabismo morale: la maggior parte dei casi di stalking non arriva all’attenzione dei media; ogni caso di “confidenza” di un orso – dopo la morte di Andrea Papi nel 2023 – occupa le “prime pagine”. Sono più pericolosi gli orsi o gli ex-compagni/e?

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Proviamo ora ad esaminare nel dettaglio la vicenda dell’uccisione dell’orso M90:

  • L’orso è (era) M90, un esemplare già noto al Servizio Faunistico provinciale come “orso problematico” perché aveva più volte dimostrato confidenza con gli umani e con i loro insediamenti: si legge infatti nel Piano d’azione interregionale per la conservazione dell’orso bruno nelle Alpi centro-orientali come M90 fosse stato «ripetutamente segnalato in centro residenziale o nelle immediate vicinanze di abitazioni stabilmente in uso» e «segue intenzionalmente delle persone», con «della sequenzialità e ripetizione dei comportamenti« (criteri soddisfatti quotidianamente da molti umani…);
  • Dopo l’evento del 28 gennaio e secondo questi criteri, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha valutato l’orso M90 «ad alto rischio»: questo avrebbe comportato – secondo il PACOBACE - tre opzioni di intervento: la cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radiomarcaggio; la cattura per captivazione permanente; l’abbattimento;
  • La decisione ultima, per legge nelle mani del Presidente della Provincia autonoma di Trento, è stata l’uccisione dell’orso M90.

Ora, vorrei fare qualche considerazione su come sono andate le cose:

  1. L’ISPRA, che ha deciso di classificare M90 come soggetto “ad alto rischio” e di consigliarne “la rimozione” dall’ambiente in cui vive (senza indicare quale opzione adottare tra le tre possibili) ha preso la decisione secondo una morale procedurale, come ha chiarito in un comunicato dell’8 febbraio, in modo “meccanico”: dati gli indicatori di sicurezza violati, si consiglia la rimozione – senza entrare nel merito della condizione dell’orso M90.
  2. Il Presidente della Provincia ha decretato l’uccisione senza alcuna valutazione del “sentimento” dell’animale, senza cioè, dimostrare che questa uccisione non sia stata “per crudeltà o senza necessità”, cioè non violi la tutela “del sentimento per gli animali” garantita dal codice penale dello Stato.
  3. L’uccisione è stata giustificata -come si legge nel Decreto del Presidente della Provincia autonoma di Trento 6 Febbraio 2024, n.1/Leg- perché «rappresenta la procedura di rimozione dell’esemplare M90 che garantisce la maggior tempestività possibile e conseguentemente persegue massimamente l’interesse connesso alla sicurezza pubblica» e in considerazione del fatto che «lo stato di conservazione dell’orso bruno in Trentino […] la condizione della popolazione [di orsi] trentina risulta in continuo miglioramento» e che «la sottrazione di un esemplare maschio e giovane non incide di per sé sulla demografia della popolazione».
  4. L’uccisione è stata perpetrata prima che chiunque potesse fare ricorso al TAR o qualunque genere di opposizione o manifestazione contraria, ledendo palesemente il diritto al dissenso, il diritto di espressione e il diritto di opposizione agli atti amministrativi.

E vorrei porre, a tutti voi che leggete, qualche domanda, di carattere morale:

  • è giusto pensare che i confini valgano solo per le specie animali non umane e non per gli umani? Che un orso non possa e non debba attraversare il confine che solo noi immaginiamo tra le “sue” zone e le “nostre” zone? Un tentativo di risposta avevo già provato a farlo in un mio post precedente.
  • è moralmente accettabile che un essere vivente sia ucciso perché è un animale e non un umano, a fronte di atti che, se compiuti da un umano, avrebbero comportato al massimo una diffida?
  • è moralmente accettabile che la decisione di uccidere un vivente – con sentimenti, lo ammette anche il Codice Penale – sia presa da un organismo il cui Direttore Generale è una geologa e il cui Consiglio Scientifico non conta nemmeno una persona con expertise etico-morale?
  • è corretto che la decisione ultima sulla vita o la morte di un individuo vivente sia demandata per legge ad un politico, un singolo decisore senza possibilità di confronto, “solo” perché questo vivente porta una giacca di pelo proprio e non fatta dal sarto, non è un umano?
  • una uccisione è meno grave se – statisticamente – non incide tanto sulla numerosità della popolazione?
  • non c’è sproporzione tra atto commesso e punizione?

Strabismi, questo è poco ma sicuro.


Conversazioni sull’I.A. – Corpo e diritto all'integrità

Redazione di Controversie: Riprendiamo il dialogo con Riccardo Boffetti e Paolo Bottazzini sulla soggettività delle intelligenze artificiali, là dove l’abbiamo lasciato il 16 gennaio (Conversazioni sull’Intelligenza Artificiale – Si prova qualcosa ad essere una macchina?), con la domanda che era rimasta in sospeso.

Per riconoscere ad una IA generativa come, ad esempio, Chat GPT, il diritto all’integrità è obbligatorio che sia incorporata in un robot?

Le altre istanze, quelle esclusivamente dialoganti che troviamo sul web, non hanno diritto a questo riconoscimento?

Riccardo: La risposta a questa domanda credo sia sì, per una serie di motivazioni. Credo, innanzitutto, che buona parte della questione si risolva nel fatto che il modo con cui agiamo nel mondo non può che essere antropocentrico e situato, appunto, nel mondo: non siamo (ancora?) degli esseri digitali, piuttosto siamo (ancora) esseri nel mondo. La scala temporale con cui esperiamo ogni situazione è difatti ben definita dalle nostre esperienze terrene e, accantonando per un attimo la velocità dell’immaginazione, questa si esprime in tempi ben più lunghi di quelli dell’elaborazione digitale odierna.

Ciò di cui abbiamo bisogno per poter anche solo concettualmente prendere in considerazione un’inclusione all’interno della sfera della legge di nuovi soggetti è appunto che essi agiscano su una scala temporale a noi comune o che, quantomeno, e in quanto collettivo, si sia in grado di concepire il dispiegarsi delle loro azioni.

Motivo per il quale abbiamo difficoltà sia nel concepire la questione del riscaldamento climatico sia nel prendere atto dell’agentività delle miriadi di specie vegetali e fungine.

Ecco, allora, che l’instanziazione, l’incorporazione, all’interno di un robot, possibilmente non umanoide, può creare quell’orizzonte comune necessario per la costruzione di un collettivo. È proprio il suo agire nel mondo che rende passibile l’hardware e il software di una rappresentazione giuridica: attenzione, non l’hardware e il software di per loro ma ciò che il resto dei partecipanti al collettivo (e cioè gli umani) vedono e possono interpretare come azioni simili alle loro.

Certo, ci rimane sempre l’immaginazione per concepire le esistenze di algoritmi non incorporati in robot. Alexander Laumonier lo fa bene in una sua ricostruzione del mercato dell’HFT (High-Frequency Trading), dove i famosi pit fisici del Chicago Board of Trade sono diventati deserti a favore di un gran movimento nella sfera digitale:

Gli squali allora potranno divertirsi come pazzi. «Che cos’è questa cosa?», domanderà il nipote di un ricco pensionato americano quando uno yacht incrocerà un’isola artificiale zeppa di tecnologia ultramoderna. «È la Borsa», risponderà il nonno, magari un attimo prima che un algoritmo selvaggio riduca a zero la sua pensione.

Probabilmente non potrò mai lavorare su una di queste isole galleggianti. Da qui ad allora gli algoritmi saranno diventati talmente complessi che io sarò ormai solo un vecchio dinosauro.

Per il momento mi accontento di fare il mio lavoro. Sono già le 9.30, e il New York Stock Exchange sta aprendo.

La quiete del mio ufficio climatizzato contrasta con la guerriglia alla quale dovrò prendere parte tutto il giorno, in compagnia di Iceberg, Shark, Blast, Razor e tutti gli altri.

Devo essere vigile, perché probabilmente dovrò sparare un colpo già alle 09:30:00:000:001, GMT-5.

Conto con attenzione i secondi che mi separano dall’apertura dei mercati, poi i millisecondi, i microsecondi, i nanosecondi, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, bingo» (6 | 5, 2018).

 

Come inquadrare, però, nella sfera del diritto simili entità? È chiaro il luogo in cui, e su cui, il diritto può agire è tutto l’ecosistema macchina-macchina che viene a crearsi ad essere , piuttosto che l’integrità dei singoli algoritmi. Quando si parla, però, di agenti autonomi nella sfera terrena mi pare che l’argomento diventi meno controverso da affrontare, proprio in luce del fatto che la loro individuazioni ci appare chiaramente davanti a tutti i nostri sensi.

Paolo: Quando la domanda è stata formulata, mi sarei aspettato da Riccardo una replica coerente con il suo antisciovinismo antropologico: i diritti vanno estesi alle intelligenze non umane, anzi non biologiche, quindi a tutte le intelligenze in generale.

Invece, la sua risposta distingue tra intelligenze veicolate da hardware zoomorfi e intelligenze che agiscono senza essere semoventi. Le sue argomentazioni sono in ogni caso sensate e condivisibili, quindi mi limiterei a osservazioni laterali.

La posizione di Riccardo è condivisibile se si accoglie la prospettiva fenomenologica di Merleau Ponty (1945, Fenomenologia della percezione): l’intelligenza non è solo una questione di calcolo logico, ma è, anzitutto, la regola dell’azione di chi frequenta il mondo come un’esplorazione precategoriale di orizzonti di senso. Mondo e corpo proprio cospirano a formare questo cosmo di significati, prima di qualunque operazione costitutiva dello spirito, e prima che l’universo si presenti già cristallizzato in oggetti. In questi termini, il possesso di un corpo è un attributo necessario non solo per l’intelligenza umana, ma per l’intelligenza in generale. Purtroppo, però, al momento, le intelligenze attive nei robot non contano sul loro hardware nel modo in cui gli uomini ineriscono al mondo con il loro corpo. Il software infatti compie calcoli in tutte le dimensioni che la fenomenologia assegna all’intenzionalità fungente: la conversione dell’AI alla lebenswelt è al limite una prospettiva, o un ottativo, rivolto all’evoluzione futura.

È possibile, poi, che un aspetto zoomorfo renda più incline il pubblico umano a riconoscere un diritto di inviolabilità alle macchine: da un punto di vista psicologico, la percezione di qualche affinità potrebbe aggiungere commozione all’istanza normativa. A questo proposito però un sociologo ispirato ai principi dell’ANT, come Bruno Latour (2005, Riassemblare il sociale), osserverebbe che robot e intelligenze artificiali sono già iscritte in reti di pratiche, di domini di significato, di associazioni, in cui il riconoscimento di un nuovo diritto irromperebbe come una detonazione, o l’invasione di un corpo alieno. L’esame del modo in cui le diverse forme di intelligenza artificiale e di meccatronica collaborano a formare i gruppi sociali dell’industria, della ricerca accademica, dell’hacking, ecc., dovrebbe precedere l’elaborazione di una normativa che regoli la convivenza dei robot con gli altri attori sociali. Ma si tratta di un tema ampio che dovrà essere ripreso.

Redazione: Grazie a entrambi una volta di più. Il tema, suggerito da Riccardo, dell’incorporazione dell’intelligenza artificiale nella dimensione temporale apre un terreno di confronto assolutamente nuovo per questa questione; la riflessione di Paolo - che richiama Merleau-Ponty sulla necessità dell’intelligenza di “contare sul proprio corpo” sembra rinforzare e mettere a terra l’ipotesi di Riccardo.

Ma cosa ne pensa chi l’Intelligenza Artificiale la vede anche nella sua dimensione operativa, pratica? Nella prossima conversazione partiremo da alcune riflessioni di Alessio Panella che sottolinea il necessario dubbio sull’autocoscienza di macchine senza corpo.


L'anima - Origini antiche di un concetto impopolare

I confini dell’anima non riuscirai a trovarli per quanto tu percorra le sue vie.

Eraclito, frammento 45

Premessa

Accennavamo poco tempo fa agli eventi interiori che possono aver luogo nel teatro dell’anima. L’idea di anima non è molto popolare oggi, parlarne crea uno strano imbarazzo. Affascinati dalle immagini della Risonanza Magnetica funzionale, molti neuroscienziati tendono a considerare la coscienza umana come un prodotto del cervello. Un processo nervoso, talmente automatico, che si può tranquillamente escludere il libero arbitrio: qualcuno ha proposto addirittura di abolire il Diritto Penale; se uccido o rubo, non dipende da me, ma da tempeste ormonali e intrecci di neuroni.

Un noto divulgatore scientifico annovera tra i possibili sostituti dell’anima persino il DNA. Dico subito che il DNA non è più attivo e vitale della tastiera di un pianoforte: funziona a seconda di chi lo suona, ma se non viene stimolato rimane inerte. È solo un replicatore di mattoni dell’organismo.

In quanto al rapporto del cervello con la coscienza, è piuttosto difficile spiegare come un ammasso spugnoso di neuroni possa creare la Divina Commedia o la Nona di Beethoven. Un geniale filosofo australiano, David Chalmers, ha giustamente distinto ciò che esce dallo scoppiettio e dalle immagini delle macchine che indagano il cervello, dall’universo insondabile e soggettivo della coscienza umana: il primo è il “problema facile”, il secondo, quello “difficile”.

In effetti, la difficoltà di penetrare nei meandri della coscienza dipende primariamente dal fatto che pretendiamo di conoscere un’entità soggettiva con strumenti oggettivi. Possiamo allora indagare la coscienza tramite la coscienza? Beh, la psicoanalisi si è formata attorno a questa idea e, se la psiche non esiste, allora la psicoanalisi è la scienza del nulla.

Ma come è nata l’idea della psiche ? Le radici del nostro pensiero sono greche. Chiediamolo ai greci.

L’anima

Proiettiamoci in un lontano passato, in un carcere di Atene. Socrate ha lealmente accettato la sentenza di morte, ingiustamente stabilita dal tribunale della città. Gli amici che lo assistono sono disperati: la tua grande anima svanirà nel vento! Ma Socrate risponde con parole inaudite: l’anima non muore con il corpo e io resterò là dove sono sempre stato (Platone, Fedone).

Siamo nell’anno 399 del tempo precristiano e stiamo assistendo alla nascita dell’idea dell’anima. La cultura greca fino a quel tempo poggia sui grandi Misteri di Eleusi: dopo la morte l’anima si disperde nel vento, del resto ànemos (“άνεμος”) vuol dire proprio vento. Quel che resta di questo alito si rifugia in un’ombra pallida, prigioniera dell’Ade, il buio regno di Persefone. Non c’è vita oltre la morte: nella cupa discesa di Ulisse nell’Ade, l’ombra di Achille si dispera: «Vorrei essere un servo da vivo, piuttosto che regnare sui morti» (Omero, Odissea: XI, 489).

Noi ci serviamo delle parole per comunicare, ma guardate come il senso di un vocabolo può radicalmente mutare significato ed esperienza interiore. Fino a questo istante dell’anno 399 la parola pneuma (πνεύμα) indica un alito di vento, gli allievi di Socrate temono che il maestro morendo si dissolva come un soffio nel vento.

Ma da qui in poi πνεύμα diventa lo spirito immortale: qualche secolo più tardi, Giovanni il discepolo di Gesù, dirà al nobile fariseo Nicodemo: «Lo Spirito [Το πνεύμα] soffia dove vuole e tu odi la sua voce, ma non sai da dove viene, né dove va» (III, 8).

Socrate non si basa sulle dottrine di Eleusi, è un iniziato dei Misteri orfici del nord, portatori dell’idea rivoluzionaria dell’immortalità dell’anima. «Resterò dove sono anche dopo la morte» è la parafrasi di un pensiero ricorrente per Socrate, che può attardarsi a meditare anche prima di varcare la soglia di un amico che lo ha invitato a un festeggiamento (Platone, Il Simposio).

Il filosofo si interroga costantemente sul continuo mutare del mondo: «Perché ogni cosa si genera, perché si corrompe e perché esiste» ( Platone, Fedone 96 A, 9). Svela così il suo percorso di meditazione, che lo conduce a indagare a fondo le pieghe nascoste della coscienza, la sua logica, la sua mutevolezza, la sua incoerenza. L’anima assomiglia a una biga alata, trainata da due cavalli che vorrebbero seguire direzioni opposte (Platone, Fedro, 246).

Socrate non si limita a rivelare che l’anima è immortale, ma ne tratteggia le qualità: la capacità di apprendere, di ricordare, di formare concetti; descrive le sue lotte interiori, insegna come curarla. «Prendersi cura dell’anima» è un invito che il filosofo ripete spesso: proprio come ci prendiamo cura degli occhi fisici, perché possano vedere correttamente, così dobbiamo prenderci cura dell’occhio dell’anima, perché sensazioni ed emozioni siano chiare.

Per forza non crediamo più all’esistenza dell’anima: stiamo guardando dalla parte opposta! Gli occhi fisici non vedono la natura delle cose, ma solo il loro aspetto esteriore. Sono le emozioni che possono percepire oltre, ma devono essere pure, non mescolate con quelle del corpo. La rivelazione del Simposio è tutta qui, nel saper ascoltare intensamente, “eroticamente”, ma rinunciando al fisico.

La vera essenza delle cose non si manifesta in pensieri, ma in immagini; queste, però, sono sfumate, indefinite. Ecco che nell’attività del pensiero sorge la dimensione del dubbio. Socrate dice di «non sapere», ma è ricco di immagini. Questo è il motore della ricerca scientifica.

La prossima volta parleremo dei dubbi di Newton.