L'argomento fantoccio (dall'inglese straw man argument o straw man fallacy) è una fallacia logica che consiste nel confutare un argomento, proponendone una rappresentazione errata, distorta o addirittura ridicola.

Senza tentar di scrivere nulla di originale, possiamo affidarci al relativo articolo di Wikipedia, che recita:

« 

in una discussione una persona sostituisce all'argomento A un nuovo argomento B, in apparenza simile. In questo modo la discussione si sposta sull'argomento B. Così l'argomento A non viene affrontato. Ma l'argomento B è fittizio: è stato costruito espressamente per mettere in difficoltà l'interlocutore (ecco perché “fantoccio”). Se l'operazione retorica riesce sembrerà che l'avversario sia riuscito a smontare l'argomento A. Tutto sta nel far sembrare che A e B coincidano.

L'argomento fantoccio è generalmente un argomento più debole di quello iniziale e per questa ragione più facile da contestare.

L'argomento può essere costruito:

    • estremizzando l'argomento iniziale;
    • citando fuori contesto parti dell'argomento iniziale;
    • inserendo nella discussione una persona che difenda debolmente l'argomento iniziale e confutando la difesa più debole dando l'impressione che anche l'argomento iniziale sia stato confutato;
    • citando casi-limite dal forte impatto emotivo;
    • citando eventi avvenuti sporadicamente e/o accidentalmente e presentandoli come se fossero la prassi;
    • forzando analogie fra argomenti solo apparentemente collegati tra loro;
    • semplificando eccessivamente l'argomento iniziale;
    • inventando una persona fittizia che abbia idee o convinzioni facilmente criticabili facendo credere che il difensore dell'argomento iniziale condivida le opinioni della persona fittizia.

Esempi

A un argomento fantoccio si può fare riferimento per deviare una discussione nel corso di un dibattito.

    • A: Il proibizionismo non è lo strumento migliore per evitare il diffondersi dell'alcolismo.
    • B: Soltanto persone senza un'etica potrebbero proporre di consentire a tutti, compresi i minori, un accesso indiscriminato all'alcool.

La persona A non aveva proposto di offrire un accesso indiscriminato all'alcool, ma di tentare un approccio diverso da quello basato solo sulla proibizione e la repressione. La fallacia sta nell'estremizzare la posizione adottata da A fino a trasformarla in qualcosa di diverso da ciò che A intendeva dire e di molto più attaccabile nella discussione.

    • A: Bisognerebbe ridurre gli investimenti in campo militare e aumentare gli investimenti nella ricerca.
    • B: A vuole lasciarci indifesi contro i nemici.

La persona B ha estremizzato l'argomento della persona A che parlava di ridurre, non eliminare, gli investimenti in campo militare. 

» 

Questa lunga citazione ben introduce il terrapiattismo come argomento fantoccio per delegittimare la critica sociale.

Molti giornalisti, filosofi, sociologi, politologi e psicologi (nelle loro argomentazioni) amano inserire nella categoria dei complottisti un guazzabuglio di soggetti: no-vax, vegani, no-TAV, negazionisti climatici, 5G, antivivisezionisti, biodinamici, omeopati ecc. e terrappiattisti. Che cosa abbiano in comune queste persone non è dato saperlo, però il minestrone è sempre un piatto (intellettualmente) povero che sfama tutti.

Un fenomeno irrisorio

 Ebbene, se tutti gli altri soggetti hanno al loro interno scienziati (anche di grande qualità e, a volte, anche più famosi di quelli che li denigrano), non mi risulta esistano scienziati terrapiattisti.
Se tornate su Wikipedia, dove si parla della Flat Earth Society (“Associazione della Terra Piatta”), nata in Inghilterra, che sostiene il mito della "Terra piatta" e che conta membri (quanti?) sparsi in tutto il mondo, non troverete un solo scienziato. Così anche in Italia.

Inoltre, chi il 24 novembre 2017 è andato (in un hotel della periferia milanese) al convegno dei terrapiattisti italiani, ha affermato che in sala «erano presenti 40-50 persone: togliendo relatori, giornalisti e curiosi, i terrapiattisti convinti tra il pubblico erano forse una ventina. Non molti, considerando che siamo in una grande città».

“Nel 2018, Le Iene e Vice Italia si spingono in un ristorante di Agerola, in provincia di Napoli per assistere a un convegno nazionale di terrapiattisti e contano meno di cinquanta persone. L’anno seguente, Wired e lo youtuber Barbascura li raggiungono in un hotel di Palermo: rilevano la stessa affluenza e sono entrambi convinti che almeno la metà dei presenti sia lì per ridere o contestare” (Lolli 2023, Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, pp.240-1).

Sempre Alessandro Lolli racconta anche che nel 2021 il Censis fece una ricerca da cui risultava che il 5,8% della popolazione italiana (cioè circa 3.400.000) era terrapiattista. Un numero enorme. Significa che ogni 100 persone che conosciamo, 6 sono terrappiattisti. E siccome io non ne ho mai incontrato uno, il mio collega (certamente un complottista) ne conosce 12.

Ma dove stanno tutti ‘sti terrapiattisti? Tutti nascosti? Ma al Censis non è sorto il dubbio che gli intervistati forse lo stavano prendendo in giro (perculà dicono a Roma)?

In conclusione, di che cosa stiamo parlando? Del (quasi) nulla.

Perché, allora, si dà grande spazio (sui mass media e in accademia) a questo fenomeno praticamente inesistente? Scomodando nientepopodimeno che il fisico Luciano Maiani (ex direttore del Cern a Ginevra e del Cnr a Roma, professore di Fisica Teorica alla Sapienza di Roma, socio linceo), che scrive addirittura una lettera a un terrapiattista.

Con tutte le cose importanti da fare, proprio dei terrapiattisti ci si deve occupare?

E perché mescolarli con un fenomeno di critica scientifica e sociale ben più consistente (sia numericamente che qualitativamente)?

Cui prodest? avrebbero detto gli antichi latini… loro sì convinti terrapiattisti.

Il libero arbitrio oltre il dibattito filosofico – Incontri con le scienze empiriche

L’idea che l’essere umano disponga di una volontà libera e che, quindi, possa autodeterminarsi e controllare le proprie azioni, fa parte del bagaglio di intuizioni su cui poggiano le nostre pratiche quotidiane.

Si può certamente sostenere che l’idea del libero arbitrio non solo condizioni il senso che attribuiamo alla nostra esistenza, ma soprattutto guida le nostre pratiche sociali quotidiane, arricchendole di significato.

Dal punto di vista del “senso comune” il libero arbitrio è un concetto utilizzato per definire la libertà di agire di cui gode l’essere umano, concetto che permette di dire che «noi siamo liberi e non possiamo non esserlo» e che «è semplicemente ovvio che noi godiamo della libertà. Secondo questa intuizione, non c’è dubbio che noi controlliamo, in molti casi, le scelte e le azioni che compiamo, che di esse portiamo la responsabilità e che, dunque, possiamo dirci arbitri del nostro destino» (De Caro 2004, Il libero arbitrio - Una introduzione, p. 3).

Si tratta, secondo il senso comune della libertà di un soggetto che si percepisce come causa delle proprie azioni, che si autodetermina, in termini di possibilità di iniziare, mettere in atto e controllare dei comportamenti adeguati a produrre un’azione, sia nel senso che le azioni sono manifestazione di un’individualità, di un Sé costituito da un insieme di valori che guidano coerentemente le decisioni e, pertanto, le azioni.

Tuttavia, molti pensatori hanno messo in discussione tale intuizione, in quanto apparentemente incompatibile con le conoscenze che abbiamo del mondo naturale, spianando così la strada ad un dibattito che mantiene vivo l’interesse speculativo.

Ad esempio, in aperto contrasto con il senso comune troviamo la teoria del determinismo causale, che sostiene l’idea che ogni evento sia necessitato da eventi e condizioni antecedenti ad esso, in accordo alle leggi di natura (Hoefer 2016, Causal Determinism). Ogni evento dell’universo sottostà, quindi, a processi deterministici, è il prodotto di una concatenazione causale che non lascia spazio ad alcuna incertezza.

In quest’ottica, anche l’essere umano dovrebbe essere soggetto a tali processi deterministici ed essere inserito in una concatenazione causale definita.

In modo molto radicale e polarizzato, «la questione del libero arbitrio si può dunque porre come un’alternativa tra due scenari: uno nel quale gli esseri umani sono vincolati in modo ferreo, come fossero automi, ad agire e a scegliere in un certo modo; l’altro, nel quale gli esseri umani sono agenti che hanno la possibilità di determinare il proprio destino» (De Caro 2004, p. 6).

Tra le principali posizioni a favore di una concezione ampia del libero arbitrio c’è quella libertaria: il libertarismo è «la concezione secondo la quale la libertà è possibile soltanto in un mondo indeterministico» (De Caro 2004, p. 89). La posizione libertaria non solo sostiene l’esistenza del libero arbitrio, ma rappresenta anche la posizione teorica considerata più vicina all’immagine pre-filosofica della libertà offerta dal senso comune.

Oggi proviamo a vedere in che modo la riflessione filosofica si è avvicinata alla meccanica quantistica, e come abbia tentato una interpretazione dei risultati empirici come giustificazione dell’indeterminismo libertario.

La meccanica quantistica fu sviluppata nel 1900 a partire dalla teoria dei quanti di Max Planck. Secondo questa teoria «l’energia delle radiazioni non viene emessa o assorbita dalla materia per valori continui ma solo per multipli interi di una certa quantità, data dal prodotto della frequenza della radiazione per una costante, detta di Planck» (Benanti, 2018, Un secolo di novità complesse, p. 19).

Da qui, Niels Bohr sviluppò una descrizione dei fenomeni subatomici che non poteva che portare all’inevitabile rottura con la meccanica classica, poiché – secondo questa descrizione - i fenomeni subatomici non possono essere studiati secondo un modello deterministico ma solo probabilistico.

Emerge, inoltre, l’idea che la realtà stessa non abbia una natura stabile e univoca, poiché le modalità di osservazione incidono significativamente sul comportamento degli oggetti osservati.

Il tentativo di utilizzare la meccanica quantistica per legittimare l’indeterminismo libertario si basa proprio sull’idea che in natura vi siano dei fenomeni che si realizzano sulla base di meccanismi stocastici e, quindi, non deterministici.

Tuttavia, affinché tale proposta sia sottoscrivibile bisogna chiarire due questioni:

  • in primo luogo, se l’indeterminismo descritto a livello microscopico sia effettivamente tale ed abbia qualche effetto a livello macroscopico;
  • in secondo luogo, in che modo tale indeterminismo riesca a garantire il libero arbitrio nell’essere umano. Infatti, che gli eventi del mondo si realizzino su base probabilistica e non deterministica, non implica affatto che anche la nostra mente funzioni secondo un meccanismo di questo tipo.

1. Possibili effetti a livello macroscopico dell'indeterminismo microscopico

Per affrontare il primo punto dobbiamo ricordare che l’approccio probabilistico alla descrizione del comportamento di particelle subatomiche può essere interpretato in almeno tre modi:

  • secondo l’interpretazione più diffusa, definita “interpretazione di Copenaghen”, le equazioni della meccanica quantistica descrivono integralmente come funziona la realtà fisica, ovvero «sono probabilistiche perché il mondo è fondamentalmente indeterministico» (Levy 2007, Challenges for the 21st Century, p. 224).
  • Al contrario, interpretazioni alternative affermano che il carattere probabilistico di tali equazioni deriva dalla mancanza di osservazioni adeguate o della conoscenza di variabili nascoste. Pertanto, l’universo sarebbe interamente regolato da meccanismi deterministici, ma i nostri strumenti non sono adeguati a coglierli (Ibid).
  • Altri autori, invece, hanno evidenziato il fatto che, pur ammettendo che i processi indeterministici postulati dalla meccanica quantistica siano veri, probabilmente questi non hanno «ricadute significative al livello macroscopico» e, pertanto, «è ragionevole ritenere che al livello macroscopico la tesi deterministica sia approssimativamente vera e che, dunque, gli eventi macroscopici in genere, e le nostre azioni in particolare, manifestino comportamenti sostanzialmente deterministici» (De Caro, p. 18).

Pertanto, sebbene la meccanica quantistica si sia rivelata uno strumento efficace per predire accuratamente certi fenomeni osservabili, è difficile affermare che possa essere una dimostrazione della verità dell’indeterminismo.

Addirittura, De Caro ci mette in guardia sul fatto che – se pure si trovassero dei riscontri a favore della tesi dell’indeterminismo nella meccanica quantistica - non «è impossibile (come ci ha insegnato la storia della scienza) che in futuro tale teoria venga abbandonata e rimpiazzata da una teoria esplicitamente deterministica» (2004, p. 18).

2. L’indeterminismo può essere una garanzia per il libero arbitrio?

Proviamo ora ad affrontare il secondo punto: in che modo la meccanica quantistica possa rappresentare un sostegno per le teorie indeterministiche del libero arbitrio.

Anche su questo troviamo opinioni contrastanti: una volta, infatti, accettate le premesse che il mondo sia regolato da processi indeterministici e che questi abbiano una qualche influenza causale anche al livello macroscopico, non è chiaro in che modo sia giustificabile il libero arbitrio.

Infatti, se anche le nostre azioni fossero causate da processi probabilistici condizionati dall’indeterminismo subatomico, questo non implica necessariamente che siamo liberi di fare ciò che vogliamo. Addirittura, il fatto che le nostre azioni possano essere condizionate da eventi randomici sembra piuttosto indebolire, e non rafforzare, il nostro libero arbitrio poiché non c’è possibilità di controllare le proprie azioni (Levy 2007, p. 224). Detto in altre parole, «se fosse vero l’indeterminismo le azioni umane, al pari di tutti gli altri eventi, sarebbero fisicamente indeterminate; nulla, dunque, ne determinerebbe il verificarsi – a fortiori, nemmeno gli agenti» (De Caro 2004, p. 19).

Una strategia alternativa consiste di servirsi della meccanica quantistica per costruire un’analogia con il libero arbitrio. Di fondo, per chi si occupa della questione della libertà dell’essere umano, poco importa «se la tesi del determinismo scientifico universale sia vera» (Ivi, p.16). Ciò che conta è se la nostra mente funzioni sulla base di processi deterministici o meno.

Evidentemente, la questione è ben lontana dall’essere risolta.

Quello che viene suggerito dall’evidenza empirica è che sembrano essere presenti - a diversi livelli dell’attività cerebrale - meccanismi sia deterministici che stocastici e questo non mette la discussione su un binario univoco ma, al contrario, sembra alimentare la controversia.


Seveso, 1976 - Il Comitato tecnico scientifico popolare attraverso le fonti orali e d’archivio

Nell’articolo Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere di qualche settimana fa avevo brevemente introdotto che cosa accadde il 10 luglio 1976 a Seveso-Meda, che cos’era l’Icmesa e alcuni problemi nati con il “disastro”, che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante la mia ricerca etnografica a Seveso. Nelle prossime righe mi concentrerò sulle vicende del “Comitato tecnico scientifico popolare” che nacque all’indomani del “disastro”.

Con l’evento del 10 luglio 1976, a Seveso sorsero nuovi gruppi organizzati di abitanti e nuove soggettività sociali e politiche. Il rovesciamento della dimensione quotidiana e l’affacciarsi di una «crisi della presenza»1 avevano portato all’emergenza di coaguli di persone che «non si limitavano al ruolo di vittime, come dicevamo noi, ma appunto hanno cercato di costruire dei legami e dei rapporti e di darsi degli strumenti di comprensione critica»2 e la cui sede principale a Seveso era il Circolo del Vicolo. Stefano, un ragazzo di vent’anni nel 1976 che lavorava in una falegnameria e aveva l’intenzione di iscriversi all’università, ricorda nel documentario «Seveso, Memoria di parte» il momento di fondazione del circolo.

«

Ci si è trovati in un momento in cui la gente era estremamente preoccupata per la propria salute, ma avevano a che fare con un tossico impalpabile, inodore, incolore, invisibile. Il momento della fuoriuscita, che era il momento evidente, era passato. Il tossico ormai era depositato sui tetti, sui muri, sui pavimenti lastricati, sui terreni, ma non si vedeva. Per cui la gente iniziava ad avere la preoccupazione per la propria salute, ma andava esorcizzata perciò ci si appellava al matto di turno che diceva “non è successo niente, io vado a mangiare l’insalata lì dentro”, perché questo abbassava la tensione. Questo è servito per molti in buona fede, per molti altri ne hanno avuta un meno di buona fede dicendo le medesime cose, serviva per tenere moderata la tensione che vivevano quotidianamente. Abbiamo costruito questo che si chiamava Circolo del Vicolo perché la sede si trovò in una via che di chiamava Via del Vicolo, da lì Circolo del Vicolo.3

  »

Stefano racconta che l’ingente lavoro politico e culturale prodotto dal circolo nasceva dalla necessità di rispondere a bisogni e desideri che riguardavano l’esistenza intera. Per lui è stato un periodo nel quale la gente discuteva dappertutto e vi era un’adesione sociale molto elevata a qualsiasi tipo di situazione per un «trascinarsi probabilmente di quello che era la partecipazione alle lotte operaie»[4].

Il Circolo del Vicolo, nella sua dimensione locale, era un’espressione di questa stagione dei “movimenti” e, come sottolinea Stefano, il movimento operaio e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici per il salario e la salute in fabbrica trascinarono e crearono momenti di mobilitazione estesi e partecipati. Tra i gruppi che attraversarono il laboratorio politico del Circolo del Vicolo vi era il “Comitato tecnico scientifico popolare”.

Per Davide, fu il gruppo più importante nel ciclo di lotte locali a seguito del “disastro” dell’Icmesa.

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Il [gruppo, N.d.R.] più importante sicuramente è stato il Comitato tecnico scientifico popolare che era stato creato quasi subito da alcuni lavoratori dell’Icmesa, anche membri del consiglio di fabbrica, da giovani del territorio di allora e si è avvalso subito del supporto appunto di Medicina democratica che era a sua volta collegata alle lotte per la tutela della salute nelle fabbriche. In particolare, erano arrivati quelli del gruppo di Castellanza dove c’era un grosso stabilimento Montedison, dove si erano sviluppate delle esperienze molto interessanti di lotta ma anche di autotutela da parte dei lavoratori. E quindi diciamo sono arrivati qui e si sono messi in contatto con le realtà locali e appunto poi non solo, sono nati anche gruppi per esempio legati al movimento femminista il “Gruppo donne Seveso-Cesano”. E successivamente nacquero altri gruppi più piccoli come il “Comitato di controllo zone inquinate”. Insomma, erano nate diverse realtà spontanee che erano collegate un po’ da una serie di volontà di comprensione critica e di avere un ruolo nella tutela della propria salute e anche di verità rispetto a quanto accaduto e alle responsabilità rispetto a quello che era accaduto.5

»

Il comitato era un organismo di base di contro-informazione e di lotta e aveva relazioni con altri soggetti politici della sinistra extra-parlamentare o delle componenti meno allineate alla politica di solidarietà nazionale del Pci degli anni Settanta. In particolare, vi erano dei collegamenti con “Medicina democratica movimento di lotta per la salute” e con la consigliera regionale del Pci, Laura Conti.

Fin dai primissimi giorni successivi alla fuoriuscita della nube tossica, il CTSP assunse fondamentali funzioni di informazione, controllo e organizzazione nei confronti degli operai dell’Icmesa e della popolazione sevesina. Il suo primo impegno a circa otto-dieci giorni dallo scoppio del reattore fu quello di fornire una prima sommaria ricostruzione dell’accaduto sulla base del materiale documentario raccolto e fornito dal confronto con i lavoratori dell’Icmesa. Fu così esaminato il ciclo produttivo del triclorofenolo all’interno della fabbrica per comprendere le cause che avevano portato al fatto-tragedia-disastro di Seveso. Questo lavoro fu realizzato dal confronto tra gli operai della fabbrica medese e il Gruppo P.I.A della Montedison di Castellanza, congiuntamente a Bruno Mazza dell’Istituto di chimica, fisica, elettrochimica, metallurgia del Politecnico di Milano e Vladimiro Scatturin dell’Istituto di chimica generale e inorganica dell’Università degli studi di Milano. Il documento prodotto dal titolo “Contributo del CTSP costituitosi in seguito all’inquinamento prodotto dall’ICMESA, in appoggio ai lavoratori e alla popolazione colpita” fu presentato nell’assemblea organizzata dalla Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil nelle scuole medie di Cesano Maderno il 28 luglio 1976. La ricostruzione del ciclo produttivo è stata in seguito pubblicata come primo articolo[6] nel numero monografico di «Sapere» dedicato a Seveso. Comprendere l’eziologia del “disastro” era un passaggio fondamentale per riflettere e agire sulle conseguenze dello stesso e per farlo era imprescindibile il coinvolgimento di chi nella fabbrica passava le sue giornate. Nella ricerca si evidenziò che l’Icmesa aveva introdotto delle varianti nel ciclo produttivo con lo scopo – secondo il Gruppo P.I.A., Mazza e Scatturin – di ridurre radicalmente i costi di produzione, scegliendo di operare in condizioni sempre più pericolose. La logica adottata dalla multinazionale svizzera era volta alla massimizzazione del profitto e faceva tendere all’infinito il «coefficiente di rischio» della produzione di sostanze ad alto rischio di tossicità, trasformando – quindi - in una certezza la possibilità di un “incidente”.

Lo scopo dell’approfondito lavoro di ricostruzione del ciclo produttivo realizzato da un’apposita commissione del CTSP metteva in questione l’astrattezza dei concetti di «univocità» e «oggettività» del ciclo produttivo e di scienza.

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Va detto, in conclusione, che il gruppo operaio non accetta in modo astratto la «univocità» e la «oggettività» del ciclo produttivo e della scienza e tecnologia che lo hanno imposto.7

»

Il documento racchiudeva e metteva al centro la soggettività operaia riferita al ciclo stesso di produzione per fornire uno strumento utile alla comprensione del rischio vissuto quotidianamente e per partire dal punto di vista degli operai stessi.

Nelle conclusioni dell’articolo, vengono evidenziate due tipi di culture e di progresso: quella «del capitale» e quella dello «sviluppo sociale». Se la prima, spinta dalla molla del profitto economico privato, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dai poteri privati, la seconda è portatrice di istanze critiche nei confronti del “progresso” inteso come fine ineluttabile delle società umane.  Al contrario, la “cultura sociale” si proponeva di azzerare  il «coefficiente di rischio» attraverso lo sviluppo di una diversa forma di sapere avente come linea portante un inedito rapporto tra tecnici-operai-popolazione. Il CTSP si proponeva come esempio di tale relazione tra l’interno e l’esterno della fabbrica. Davide ricorda proprio questo passaggio come centrale nello sviluppo della lotta sevesina.

«

Mentre nello stesso periodo le autorità sanitarie balbettavano, non sapevano cosa dire, non potevano forse dire tutto. Quindi per una fase iniziale nei primi mesi sì, [il CTSP, N.d.R.] era molto ascoltato, poi magari non tutti erano d’accordo, ma sicuramente molto ascoltato. E devo dire che inizialmente questo rispecchiava anche un legame che si stava un po’ instaurando tra territorio e fabbrica, tra territorio e lavoratori della fabbrica. Ora non la faccio troppo lunga, ma per come si era sviluppata l’industria nel territorio, nel nostro territorio c’era molto uno distacco tra la fabbrica e il territorio agricolo-artigianale di quegli anni. Tra chi lavorava in fabbrica e gli altri erano mondi un po’ strani, convivevano, ma senza proprio incontrarsi. Per un attimo quella vicenda nella sua drammaticità aveva costruito un legame perché per la prima volta quelle nocività uscivano sul territorio. Quelle nocività che non solo nella fabbrica, erano percepite come un problema della fabbrica si riversano in modo traumatico sul territorio. Quindi è la prima cosa che fa la popolazione non operaia andare a dire bah, chissà, forse chi ci lavora dentro qualcosa sa. C’è un’intervista a un lavoratore del Consiglio di Fabbrica dell’ICMESA, che racconta che alcuni genitori di bambini con la cloracne hanno contattato loro perché le autorità risposte sembravano non darne o comunque non ne parlavano volentieri e quindi si rivolgono ai lavoratori. Tra l’altro è da lì che anche i lavoratori prendono coscienza definitiva della gravità di quello che è accaduto e sospendono la produzione. Proclamano lo sciopero ad oltranza. È praticamente la fine dell’Icmesa.8

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Gli obiettivi del comitato furono esplicitati nel bollettino pubblicato nel settembre del 1976 e si posero in contrapposizione con l’operato delle istituzioni locali, regionali e nazionali che – secondo il CTSP – avevano coperto e soffocato ogni tipo di protesta e di organizzazione degli abitanti della zona, non fornendo sufficienti informazioni sulla situazione per fare maturare una consapevolezza collettiva del rischio.

Nel prossimo articolo sul CTSP, partirò proprio da qui per scendere nel sottobosco dei documenti conservati dall’Archivio Seveso. Memoria di parte e della storia del comitato.

 

 


NOTE

1 Per «crisi della presenza» si intende una situazione in cui un individuo o un gruppo umano si trovano ad affrontare un particolare evento, come per esempio la malattia o la morte, durante il quale si sperimenta un’incertezza, una crisi radicale della possibilità di esserci nel mondo e nella storia, tanto da scoprirsi incapaci di agire e di determinare la propria azione. Si veda, E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977.

2 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.

3 Archivio Seveso Memoria di parte (Asmp), b. CTSP, Interviste-documentario “Seveso, Memoria di parte”. Si tratta di un documentario autoprodotto dall’ “Archivio Seveso Memoria di parte”.

4 Ibidem.

5 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.

6 Si veda, Gruppo P.I.A., B. Mazza, V. Scatturin, “ICMESA: come e perché”, in «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, pp. 10-36.

7 Ivi, p. 34.

8 Intervista a Davide, 27 gennaio 2024.