La politica dopo l’emergere di Gaia, il migliore dei mondi possibili

«
Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza piú per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma piú vergognoso non adoperarsi per fuggirla. […] Sola infatti, tra le città del nostro tempo, si dimostra alla prova superiore alla sua stessa fama ed è pure la sola che al nemico che l’assale non è causa di irritazione, tale è l’avversario che lo domina; né ai sudditi motivo di rammarico, come sarebbe se i dominatori non fossero degni di avere il comando. Con grandi prove, dunque, non già senza testimoni, avendo noi conseguito tanta potenza, da contemporanei e da posteri saremo ammirati; non abbiamo bisogno di un Omero che ci lodi o di altro poeta epico che al momento ci lusinghi, mentre la verità toglierà il vanto alle presunte imprese, noi che abbiamo costretto ogni mare e ogni terra ad aprirsi al nostro coraggio; ovunque lasciando imperituri ricordi di disfatte e di trionfi
»

Con il celebre epitaffio di Pericle (Tucidide 1971, La guerra nel Peloponneso, vol. 1, pp. 121-128) si può dire che la natura faccia il suo primo ingresso nella politica.

O, meglio, in questo discorso, in cui il politico ateniese tesse le lodi della costituzione proto-illuminista e liberale della propria città ed elogia le virtù dei suoi cittadini, confrontandole con quelle dei nemici spartani, educati al rispetto dell’ordinamento castale della propria monarchia arcaica e conservatrice, emerge in maniera inedita una matrice retorica che imposta l’argomentazione politica come uno scontro fra civiltà, un conflitto in-group/out-group, o fra amico e nemico come direbbe Carl Schmitt, in breve, la politica come un inevitabile scontro fra nature opposte e inconciliabili.

Infatti, è improprio dire che siano stati i movimenti ambientalisti e i partiti verdi dell’ultimo quarto del secolo scorso ad introdurre la natura nella politica. Niente è mai stato più politicizzato della natura, e viceversa nessuna politica ha mai potuto prescindere dal ricorrere alla naturalizzazione per legittimarsi (Latour B. 2000, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze).

La circolarità della logica emerge chiaramente dal discorso di Pericle, dove la potenza e le conquiste di Atene, addirittura nella stessa frase, divengono fatti necessari, poiché rispecchiano la Verità che eventi storici accidentali non avrebbero potuto impedire, ma soltanto ostacolare o ritardare dall’affermarsi.

La politica della natura, in analogia con la concezione del sacro della tradizione cristiana, ha prodotto così una biforcazione del mondo fra le peripezie e i conflitti di opinioni degli umani, sul piano dell’azione storica e contingente, e il regno dei fini, collocato su quello ultraterreno, o metafisico, della Verità e della Giustizia (con la maiuscola), emanate dal fondo eterno e immutabile dell’universo o stabilite dal verbo divino. Esattamente come delle icone religiose acheropite, che sono rivelate, e non realizzate dal lavoro umano.

Ancora oggi, che si tratti di “Make America Great Again” oppure, più surrettiziamente, di “affermare i diritti umani”, non siamo in grado di fare a meno di ancorare la nostra politica ad una forma qualsiasi di giusnaturalismo (laico o volontaristico è indifferente). In altre parole, non rinunciamo all’immagine della caverna platonica, secondo la quale deve essere intrapresa la ricerca, o la progressione, verso la luminosa realtà delle cose in sé, uscendo da una condizione di illusione, o momentanea deviazione, rispetto a ciò che sarebbe vero e giusto.

Così possiamo distinguerci intellettualmente da quello che, senza mezzi termini, consideriamo un esercito di stupidi di riserva, che si crogiola in una falsa rappresentazione del mondo. Per inciso, spesso e volentieri, nella politica progressista come in quella reazionaria, fa la sua comparsa come espediente retorico “l’uomo ad una dimensione”, il “servo dei poteri forti”, così “banale nella sua malvagità”, che tiene al proprio vestito culturale, rimanendo incurante dei fatti della natura, la realtà dietro l’apparenza.

Ebbene, come diceva Eco, «la critica della cultura di massa è il peggior prodotto della cultura di massa» (1964, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa), il cliché più trito e ritrito che esista.

Tuttavia, adesso abbiamo l’occasione di redimerci da questo classismo tascabile, dato l’avvento dell’Antropocene, o quello che Chakrabarty chiama l’emergere del planetario (2021, The Climate of History in a Planetary Age): questa etichetta per una nuova era geologica, in cui l’attività umana supera, letteralmente, quella delle altre biomasse, fino a sconvolgerne completamente la costituzione, segnala non già “la ribellione di madre natura”, ma proprio la morte della natura stessa. Infatti, con questa svolta, non si può piú fare riferimento a un fuori di alcun tipo.

Date le ingenti trasformazioni dell’ambiente, esso non può più essere ripreso come invariante naturale, cioè come posizione terza nella ripartizione fra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, all’interno del quale ci andremmo a posizionare, compiendo delle azioni e delle scelte dentro a delle condizioni prestabilite. In altre parole, si tratta di scoprire ciò che abbiamo sempre saputo, ma al tempo stesso ignorato perché troppo impegnati a separare la natura dalla cultura: a pensarci bene, che senso ha dire che le formiche nel formicaio da loro costruito, o gli uccellini nel loro nido, si trovano nel loro habitat? È chiaro che invece l’habitat non è che un’estensione degli esseri viventi e della loro attività. Per cui non è davvero possibile ordinare il mondo come una matrioska, il contenuto non appartiene al contenitore: sono proprio la stessa cosa.

Questo è l’avvincente cambio di prospettiva suggerito dalla teoria di Gaia, sviluppata dai lavori di James Lovelock e Lynn Margulis, le cui scoperte contestano l’idea che la vita sulla terra si sia sviluppata perché erano già presenti le condizioni adatte, il famoso contesto: al contrario, sarebbero stati i primi microrganismi, attraverso la cooperazione, e non la competizione, a plasmare l’ambiente adatto alla propria sopravvivenza. Ciò significa che la natura ha una storia, essa non è un sistema indipendente di cui avremmo turbato l’equilibrio (tipo il mercato autoregolantesi).

Ma allora, come possiamo passare dall'essere al dover essere, se «Dio, fra tutti i mondi possibili, avesse scelto proprio il migliore, ovvero quello col maggior grado di perfezione»? Cioè se dovessimo restare nel mondo che abbiamo, rinunciando ad andare altrove? Come possiamo essere nel vero e nel giusto senza riferimenti a valori assoluti? In questo caso, dobbiamo ricordarci, come dice Deleuze, che aldilà del bene e del male non vuol dire aldilà di buono e cattivo. L’esistenzialismo infatti non ha niente a che vedere col nichilismo, ma con la trasformazione di tutti i valori: noi possiamo sempre odiare la guerra e amare la pace, avversando le forze che reprimono la vita e cospirando con quelle che la favoriscono. E se la vita è un collettivo di cui prendersi cura, un condivenire multispecie (Haraway, 2023, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto), il suo benessere è rimesso alla risonanza fra le entità, umane e non-umane, che sanno vivere attraverso le une attraverso le altre, accogliendone le esigenze in unità sempre provvisorie e discutibili.

Allora, ci occorre una nuova definizione del bello, una nuova costituzione assurda e controversa: l’estetica potrebbe essere intesa come l’esercizio della sensibilità alle altre modalità di vita, altri modi possibili di articolare, modificare ed espandere la società, oltre la distinzione fra natura e cultura. Così più “nemici” e “stranieri” saremo in grado di includere nel nostro mondo, più saremo pluralisti e rappresentativi con esigenze aliene alle nostre, e più quello che potremo costruire sarà solido, vero e giusto (con la minuscola).


La cattura del regolatore - Come l’industria piega le regole alle proprie necessità

Per cattura del regolatore si intende quella pratica attraverso la quale un settore regolato dell’industria si impossessa del regolatore, e lo piega alle proprie necessità.

Per l’economista Ernesto Dal Bó, «la cattura del regolatore è quel processo attraverso il quale interessi particolari influenzano l’intervento dello stato in ciascuna delle sue forme, in aree diverse come l’imposizione di tasse, le scelte di politica estera o monetaria, o le leggi che regolano la ricerca e lo sviluppo».

L’attività regolatoria viene studiata in economia seguendo due diverse scuole di pensiero. La prima è quella dell’Interesse Pubblico e la seconda quella della Cattura del Regolatore.

Secondo la prima scuola il mercato fallisce nel conseguimento di politiche orientate al bene comune, per esempio per la formazione di monopoli, ed è quindi necessaria una istituzione, il regolatore appunto, che difenda i cittadini ed i consumatori.

All’estremo opposto la seconda scuola vede l'istituzione di un meccanismo di regolazione come il risultato di una cattura istituzionale: gli interessi industriali ed economici favoriscono essi stessi la creazione di un regolatore che li difenda dalla concorrenza. La seconda scuola non vede questa creazione come risultato di un fallimento dei mercati.

Il lettore italiano ricorderà il motto di Giovenale: ‘Quis custodiet ipsos custodes’, cioè chi custodisce i custodi, a significare che se il regolatore deve regolare, ci si deve accertare che non venga esso stesso regolato a seguito di un fenomeno di cattura.

Il fenomeno osservato da Giovenale nel secondo secolo dopo Cristo è probabilmente antico quanto lo stabilirsi di prime forme di controllo tese ad assicurare il corretto svolgimento della vita pubblica. Tanto ciò è vero che la cattura del regolatore viene considerata come ineluttabile in entrambe le scuole summenzionate.

George J. Stigler, esponente della scuola della cattura del regolatore, e uno dei padri fondatori della Chicago School of Economics, ritiene che «la regolamentazione viene richiesta principalmente dall’industria ed è disegnata ed operata principalmente per il beneficio della stessa». Questa teoria si occupa dei meccanismi che conducono a leggi di regolamentazione identificando i gruppi che traggono profitto dagli effetti redistributivi della legislazione medesima.

Anche per gli economisti Marver H. Bernstein e Beryl R. Crowe la cattura è ineluttabile. Questi prevedono l’esistenza di cicli, laddove una agenzia regolatrice viene creata inizialmente per rispondere ad un allarme o preoccupazione sociale, in seguito gruppi di interesse ben organizzati ne prendono il controllo con la conseguenza che l’operato dell’agenzia li favorisce. Nella fase finale del ciclo l’agenzia regolatrice fornisce rassicurazioni e soddisfazioni simboliche al pubblico mentre “l’attività e le decisioni giornaliere dell’agenzia contribuiscono, rafforzano e legittimano le richieste di piccoli ma ben organizzati gruppi".

In conclusione, per Stigler, meglio non creare affatto i regolatori e lasciare al mercato mano libera, nell’ottica di small government tipica della scuola di Chicago, mentre i sostenitori della regolamentazione insistono sulle strategie di controllo per evitare la cattura – quali ad esempio migliori compensi per i regolatori, maggiori controlli governativi e la creazione di gruppi di interesse pubblico fra i cittadini che si occupino di monitorare l’azione delle agenzie.

La cattura può anche essere culturale: in tal caso il regolatore non viene sedotto dalle offerte dei lobbisti, ma finisce per vedere il mondo come lo vedono i settori regolati. La scienza al servizio degli interessi privati può giocare un ruolo importante in questo tipo di cattura. Secondo alcuni, un caso evidente degli effetti della cattura culturale, politica e cognitiva è proprio l’ultima recessione, resa possibile dalla conquista delle autorità di supervisione finanziaria da parte delle banche medesime.

Un concetto più recente è quello del capitalismo della regolamentazione, come parte di un mondo globalizzato all’interno del quale l’esistenza di regole e standards favorisce il potere degli incumbents (cioè di coloro che dominano il mercato al momento dato)  – si parla in questo caso anche di tragedia della mercificazione. Un esempio di questo tipo di evoluzione trova la sua dimostrazione nel passaggio della tutela della conoscenza da organizzazioni quali UNESCO e la UNCTAD all’Organizzazione per il Commercio Mondiale, World Intellectual Property Organization ed al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), dove la conoscenza è trattata come un bene privato da proteggere per consentirne il commercio.

Un importante caso di cattura è quello relativo alla scienza aperta, dove aspirazioni ad una democratizzazione della conoscenza sono state catturate dalla potente macchina lobbistica degli editori scientifici, finendo per aggravare disuguaglianze e squilibri globali nord-sud e favorire – a detta di alcuni – una ulteriore concentrazione del potere delle mani di pochi giganti del settore.


Papa Francesco e l'Ideologia Gender - Uno scivolone etico e politico?

Papa Francesco si è recentemente scagliato contro la cosiddetta “ideologia gender”, apostrofandola come «il pericolo più brutto del nostro tempo». A suo dire, essa abolisce le differenze e «rende tutto uguale», dichiarando inoltre, in modo lapidario, che «cancellare la differenza è cancellare l’umanità».

Ma che cos’è il gender? E poi, cos’è tale “ideologia gender”?

Gender e sesso biologico

In prima approssimazione e a grandi linee, è possibile intendere il genere (in inglese “gender”), come «orientamento psicosessuale che l’individuo acquisisce su basi culturali»; pertanto, esso è una costruzione sociale che investe, e condiziona, i nostri corpi, le nostre identità e le nostre vite.

Il genere è quel dispositivo che viene attivato a partire dal nostro sesso anatomico e ci indirizza verso i ruoli che la società ha già preparato per noi. Infatti, «mentre il termine sesso viene […] usato per indicare la dimensione biologica dell’essere donna o uomo, [genere] implica la variabilità delle interpretazioni che culture, tra loro diverse, hanno costruito a partire dal dato di partenza biologico». Pertanto, sesso e genere sono distinti: anatomico-biologico il primo, culturale-sociale il secondo.

Prendiamo, come esempio, i sessi femminile e maschile. La società impone a donne e uomini di conformarsi a quello che si ritiene essere il modo “naturale” di esser femmine e il modo “naturale” di esser maschi; l’assegnazione alla nascita dell’uno o dell’altro sesso, dunque, indirizza da subito verso un genere definito.

La costruzione sociale è decisamente pervasiva; è facile pensare subito a temi e oggetti destinati a un pubblico femminile e i relativi equivalenti che, invece, sono indirizzati a un pubblico maschile, con rigide distinzioni e confini che non devono essere superati per non incappare nella discriminazione, nell’esclusione sociale, nel giudizio negativo. Infatti, ha una connotazione di genere un numero considerevole delle cose con cui entriamo in contatto ogni giorno, sia concrete che astratte: capi d’abbigliamento, accessori, giocattoli, interventi sul corpo, desideri, professioni ecc.

Tuttavia, affrontare il tema del genere in modo critico è una via che può permettere la decostruzione dei condizionamenti sociali, in quanto porta a riflettere sui rapporti che distinguono tra femminile e maschile, aprendo così a diverse narrazioni e a maggiori libertà individuali.

Infatti, «il [genere] si inscrive in un più ampio ripensamento dei temi legati all’identità, al soggetto, alla sessualità, alla corporeità, che si coniugano con possibilità di espressione e trasformazione, in rapporto critico e innovativo con categorie che tendono a fissarsi e ad assumere forza regolativa e normativa». Non dimentichiamo che le costruzioni sociali sono rinegoziabili.

Dunque, sembra chiaro che il genere è un dispositivo costruito in parte dai condizionamenti sociali e in parte dalle scelte e dalle storie personali, [1] con tutte le possibilità che ne derivano.

LA COSIDDETTA "IDEOLOGIA GENDER"

L’oggetto dell’invettiva papale, l’Ideologia Gender, è, in realtà, un concetto-ombrello nato verso la fine degli anni ’90 nell’ambiente cristiano cattolico conservatore statunitense, e precisamente ad opera del “Family Research Council, una lobby familiarista cattolica statunitense, attivista dell’Opus Dei, e vicina ai Narth (Associazione nazionale per la ricerca e terapia dell’omosessualità) cioè ai sostenitori delle terapie riparative per l’omosessualità”.

Perché questi gruppi di cattolici conservatori hanno “inventato” questo concetto-ombrello?

Il fine – abbastanza evidente nella prima pubblicazione, “The Gender Agenda: Redifining Equality” di Anne O’Leary  – è quello di comprendere sotto lo stesso termine e contrastare l’ampio spettro di pensieri e pratiche di quegli anni, pensieri e pratiche che non rientravano nelle posizioni cristiano-cattoliche più tradizionaliste; in questo spettro troviamo, secondo gli estensori della “Gender Agenda”, chi “si occupa del controllo della popolazione; i libertari della sessualità; gli attivisti dei diritti dei gay; i promotori multiculturali del political correct; la componente estremista degli ambientalisti; i neo-marxisti/progressisti; i decostruzionisti/postmodernisti.”

Una crociata “contro”, insomma, in cui la componente di contrasto verso delle pratiche di tolleranza e di normalizzazione sociale degli orientamenti sessuali e di genere “non tradizionali” è solo una piccola parte.

L’Ideologia Gender sembra, quindi, non esistere se non nelle intenzioni di chi non ne fa parte.

Sembra essere un altro argomento fantoccio, creato per sostenere teoreticamente un’operazione di rafforzamento di confini molto ampi, tra il tradizionale e “l’altro”, di esclusione di ciò che è “strano”.

Sotto questo concetto-ombrello, però, si riparano dalla pioggia delle posizioni “strane” anche, nell’ordine:

  • i vertici della dottrina cristiano-cattolica, il Consiglio Pontificio pubblica un corposo testo, il “Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche” (2003), che studia e critica la fantasmatica “Teoria del Genere”;
  • alcune frange dell’associazionismo cattolico;
  • il cardinale Ratzinger;
  • militanti conservatori e associazioni familiariste cattoliche come «Manif pour Tous-Italia», «Sentinelle in piedi», «Hommen-Italy»;
  • il Forum delle Associazioni familiari [2] e un’ampia serie di soggetti tradizionalisti.

Dall’altra parte, sono invece seri e ampi studi sociologici, psicologici e medici sul genere, sulla sessualità e sulla relazione tra persona e orientamenti comportamentali, affettivi e sessuali.

LA POSIZIONE DI PAPA FRANCESCO

Ora, sull’affermazione di Jorge Mario Bergoglio, è opportuno fare delle puntualizzazioni preliminari:

  • Bergoglio parla nella veste di Papa, massima autorità della Chiesa Cattolica;
  • il contesto in cui parla è quello del Convegno Internazionale "Uomo-Donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni" promosso dal Centro di Ricerca e Antropologia delle Vocazioni (CRAV); [3]
  • la famiglia tradizionale uomo-donna-figli è, secondo la dottrina cristiano-cattolica, un pilastro, la cellula fondamentale della società. [4]

Non credo, quindi che ci si possa scandalizzare se il Papa difende questo elemento, storicamente alla base della dottrina della religione di cui è massima autorità.

Né, tantomeno, credo che si possa criticarlo se lo fa di fronte ad una platea di cattolici che si appresta a riflettere sul ruolo dei cristiani cattolici nella società contemporanea, sulla vocazione e sulle relazioni che i cristiani e la chiesa devono intrattenere con posizioni “altre”, diverse e variegate, non allineate all’ortodossia dottrinale.

Ancora meno, credo, che si possa lamentare una discrasia, una contraddizione, tra queste affermazioni e le recenti aperture nei confronti delle relazioni affettive e delle coppie “in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso”: il mondo cattolico è ampio, complesso, poliedrico e ci vuole un ombrello molto grande per contenerlo tutto.

Quello che sembra fare Bergoglio, con quelle parole e in quel contesto, è un’operazione – me lo si passi – di marketing affiliativo, di legittimazione della propria autorità di fronte ai partecipanti al convegno, richiamandosi alle posizioni dottrinali tradizionali. Posizioni da cui ritengo normale, direi quasi opportuno, che una organizzazione inizi per pensare il confronto con la diversità.

Insomma, il papa Francesco fa il suo mestiere e lo fa, mi pare, abbastanza bene.

Stupiscono, però, due fatti, che sembrano veri e propri scivoloni di Bergoglio:

  • L’uso del concetto dell’Ideologia Gender che, seppur strumentale all’operazione di auto-legittimazione, ha esposto il capo della chiesa cattolica ad ampie critiche da parte dei media e di tutti coloro che ne conoscono genesi e storia: Bergoglio, di fatto, ha attaccato un prodotto della chiesa, il cui referente empirico è fumoso;
  • Il secondo scivolone, a mio avviso moralmente più grave, è il comparativo di maggioranza associato all’Ideologia Gender: “il pericolo più brutto del nostro tempo”; riesce difficile pensare che il fantasma delle minacce alla famiglia tradizionale siano, in questo momento, più pericolose e più  brutte – ad esempio - della strage di famiglie israeliane compiuta da terroristi nei cosiddetti territori occupati il 7 ottobre del 2023 e il successivo massacro di dimensioni spropositate di altre famiglie, palestinesi questa volta, ancora in corso, nella striscia di Gaza.

 


NOTE

1 Nel parlare di scelte individuali, assumo una posizione neutrale rispetto alla questione che vede contrapposti il libero arbitrio e il determinismo materialista, con tutte le posizioni e sfumature intermedie. In questa posizione, pertanto, mi disinteresso temporaneamente della genesi della scelta e ne osservo solo il risultato.

2 Il quale ha diffuso via internet un «vademecum strumenti di autodifesa dalla teoria del gender per genitori con figli da 0 a 18 anni».

3 L’obiettivo del convegno è di discutere apertamente della vocazione al sacerdozio cristiano, della “trasmissione del patrimonio culturale e spirituale dei cristiani richiede ai credenti di tutto il mondo di riposizionarsi di fronte a un ambiente che è diventato estraneo, indifferente o addirittura ostile, anche nei Paesi tradizionalmente cattolici”. “Dobbiamo pensare in altri termini al futuro del cristianesimo, in un contesto che si aspetta che i cristiani trovino un nuovo paradigma per testimoniare la loro identità”. Obiettivo e scopo del Simposio a cui parteciperanno specialisti internazionali di Sacra Scrittura, filosofia e teologia, scienze umane e pedagogia, è “offrire una visione aggiornata dell’antropologia cristiana in un’epoca di pluralismo e dialogo tra le culture, per sostenere il significato della vita come vocazione” (Cardinale Ouellet, vedi qui).

4 «La Famiglia è costituita dall'unione indissolubile tra un uomo e una donna, aperti al dono della vita. Questa istituzione ha il suo fondamento nel disegno di Dio, ovvero nella legge naturale e perciò precede qualsiasi riconoscimento da parte della pubblica autorità. Per questo è considerata la "cellula fondamentale della società"», recita Cathopedia, l’enciclopedia cattolica.


Quando un esperimento non basta: il regresso dello sperimentatore

Un risultato sperimentale da solo è sufficiente per dare credibilità ad a un asserto scientifico?

Sì, secondo l’epistemologia classica. La conoscenza prodotta in un laboratorio è “la realtà” perché gli scienziati, seguendo il metodo scientifico, riescono a cogliere la rappresentazione esatta del mondo. Ma chiunque abbia messo piede in un laboratorio di biologia, fisica, chimica ecc. si accorge che questa è una rappresentazione idealistica e normativa della scienza ideologica. Basti pensare a quante volte all’interno di un gruppo di ricerca gli scienziati discutono davanti a un esperimento, prodotto da loro o da altri laboratori, o si confrontano di fronte a un risultato sperimentale che non è in linea con quanto si aspettavano.

Dunque, cosa succede nel momento in cui risultati di un esperimento sono in disaccordo con una teoria già consolidata?

Secondo il sociologo della scienza Harry Collins, un risultato sperimentale non è sufficiente per dare credibilità a un asserto scientifico. Nel suo libro Changing Order (1985) ha analizzato una controversia scientifica avvenuta verso la fine degli anni ’60 e inizi degli anni ‘70 sulla rilevazione delle onde gravitazionali.

Collins osserva come nel 1969 il fisico Joseph Weber affermò di essere riuscito a rilevare grandi quantità di radiazioni gravitazionali. Progettò personalmente il suo rilevatore, costituito da una grossa barra in lega di alluminio sulla quale poteva misurare le deformazioni e le vibrazioni provocate dalle onde attraverso dei rilevatori. Molti scienziati non credettero alle affermazioni di Weber, perché in quel periodo la maggior parte della comunità scientifica era d’accordo nel sostenere che i corpi massivi in movimento producessero onde gravitazionali ma con intensità molto deboli, dunque difficilmente rilevabili. Non solo. Lo strumento progettato da Weber presentava alcune criticità. Un primo aspetto critico era che rilevatori registravano delle vibrazioni e non le onde gravitazionali; dunque, non erano in grado di distinguere fra vibrazioni causate da radiazioni gravitazionali e vibrazioni causate da altre forze o fonti di disturbo. Nel 1969 Weber affermò di aver rilevato sette picchi al giorno non generati da fonti esterne di rumore. Queste affermazioni furono accolte con scetticismo dalla comunità scientifica perché si trattava di una quantità troppo alta di radiazioni rispetto alle teorie cosmologiche dell’epoca. Nonostante ciò, Weber riuscì comunque a convincere altri scienziati a prendere seriamente in considerazione i suoi risultati, anche se non ufficialmente accreditati. Dunque, non basta semplicemente riportare i risultati di un esperimento per trasformarne l’esito in un fatto scientifico consolidato in grado di “uscire dai confini” del laboratorio che lo ha prodotto. Infatti, nel 1972 altri laboratori avevano costruito altre barre in lega di alluminio per captare le radiazioni gravitazionali: in questo momento inizia quello che Harry Collins chiama regresso dello sperimentatore, ovvero un ciclo di interdipendenza tra teoria ed evidenza.

Lo scienziato che proverà a replicare l’esperimento di Weber dovrà alla fine confrontarsi con una serie di iscrizioni grafiche su carta prodotte da un registratore. Il problema sarà capire se fra quelle iscrizioni ci sono dei massimi che rappresentano impulsi di onde gravitazionali, oppure semplicemente segni prodotti dal rumore. La posizione maggioritaria della comunità scientifica dell’epoca riteneva che quei picchi non fossero causati da onde gravitazionali, e per accettare questa tesi bisognava replicare l’esperimento di Weber.

Se però le repliche dell’esperimento avessero dato un risultato negativo, sarebbe stato giusto pubblicare i risultati sperimentali e affermare che non c’erano grandi flussi di gravità da trovare? E di conseguenza dichiarare errate le affermazioni di Weber?

La risposta non è semplice, perché il risultato negativo di un esperimento potrebbe essere dovuto anche a ragioni diverse (per così dire “esterne”) da quelle relative al contenuto dell’asserto scientifico stesso, che l’esperimento vorrebbe provare. Ad esempio, l’amplificatore utilizzato nella replica dell’esperimento potrebbe essere diverso, o meno potente, rispetto a quello utilizzato da Weber. Infatti Weber sosteneva che i suoi rivali non avessero preparato l’esperimento nel modo più appropriato per lo studio di un fenomeno così sfuggente. Anzi, la mancanza di risultati poteva essere dovuta all’imperizia dei rivali di Weber, che non potevano certo vantare la sua esperienza nella progettazione di strumenti così sofisticati

In questo caso le onde gravitazionali esisterebbero realmente ma lo strumento usato in quel particolare esperimento potrebbe non essere in grado di rilevarle e lo scienziato, nel registrare la non esistenza dei flussi gravitazionali, mostrerebbe la propria incompetenza a livello tecnico-sperimentale.

Dunque, se non si conosce il risultato, il corretto svolgimento dell’esperimento non può essere valutato facendo riferimento soltanto al risultato sperimentale perché non c’è un consenso su cosa sia considerato un “risultato corretto” o sull’esistenza di un fenomeno. Per cui la domanda da porsi diventa “qual è il risultato corretto?”.
Afferma Collins:

« 

La conoscenza del risultato corretto non può fornire la risposta. Il risultato corretto è la rivelazione delle onde gravitazionali o la non rivelazione delle onde gravitazionali? Dal momento che l'esistenza delle onde gravitazionali è il punto in questione, è impossibile conoscere la risposta all'inizio. Quindi, quale sia il risultato corretto dipende dal fatto che ci siano o no onde gravitazionali che colpiscono la Terra attraverso flussi rivelabili. Per scoprirlo, dobbiamo costruire un buon rivelatore di onde gravitazionali e guardare. Ma non sappiamo se abbiamo costruito un valido rivelatore fino a che non lo abbiamo messo alla prova e ottenuto il risultato corretto. Ma non sappiamo quale sia il risultato corretto fino a che... e così via, ad infinitum (Collins e Pinch, 1995, Il Golem. Tutto quello che dovremmo sapere sulla scienza, p. 132).

»

L’attività sperimentale può essere valutata facendo riferimento al risultato soltanto se si riesce ad interrompere questa spirale. Nella maggior parte dell’attività scientifica (che Kuhn chiamerebbe “scienza normale”) questa catena circolare viene interrotta perché sono già noti i limiti entro cui un esperimento si può considerare “corretto”. Invece, nelle controversie in cui il regresso dello sperimentatore non può essere evitato, gli scienziati ricorrono ad altri criteri per valutare la qualità di un esperimento, che sono indipendenti dal risultato stesso dell’esperimento. Collins, intervistando gran parte degli scienziati coinvolti nell’attività di ricerca sulle onde gravitazionali, ha messo in luce gli elementi che entrano in gioco per valutare gli esperimenti e i risultati sperimentali degli altri scienziati:

1- fiducia nelle capacità sperimentali e nell'onestà dello scienziato, basata su una precedente collaborazione di lavoro;
2- la personalità e la capacità intellettiva degli sperimentatori;
3- la fama dello scienziato ottenuta attraverso la gestione di un grande laboratorio;
4- l’aver o meno lavorato nel settore dell'industria o in un ambiente universitario;
5- il curriculum di uno scienziato, in relazione ai suoi eventuali precedenti fallimenti;
6- «Informazione confidenziale», cioè riservata e non destinata ad essere divulgata all’intera comunità scientifica;
7- lo stile dello scienziato e la sua capacità di presentare i risultati;
8- l'«approccio psicologico» dello scienziato all'esperimento;
9- l'importanza e il prestigio dell'università d'origine dello scienziato e di quella dove lavora;
10- il grado di integrazione dello scienziato in svariate reti di collaborazione scientifica;
11- la nazionalità dello scienziato.

Dunque, quando i risultati di un esperimento sono in disaccordo con una teoria consolidata, la pratica scientifica non segue mai soltanto criteri metodologici nel decidere se a essere sbagliato sia l’esperimento o la teoria. Ma anche criteri sociologici, come quelli appena elencati. Dunque, fare scienza richiede sia un’abilità retorica che tecnica (Collins 1995). ). Al termine di una controversia vengono definiti quali sono gli “esperimenti validi” – ad esempio gli esperimenti che rilevano le onde gravitazionali o quelli che non le rilevano – stabilendo così la competenza di alcuni scienziati a discapito di altri. In altre parole,

« 

Riuscire (...) a definire che cos'è un buon rivelatore di onde gravitazionali, e determinare se le onde gravitazionali esistono, sono lo stesso processo. Gli aspetti sociali e scientifici di questo processo sono inscindibili. È questo il modo in cui viene risolto il problema del regresso dello sperimentatore (ivi, p. 136).

» 

In conclusione, il concetto di regresso dello sperimentatore ha il merito di aver messo in luce come la veridicità di un asserto scientifico dipenda anche da “meccanismi di risoluzione” (ivi, p. 143)(in grado di chiudere una controversia) che generalmente non vengono considerati come costitutivi dell’attività scientifica, perché non fanno parte di argomentazioni di natura tecnica, ma elementi sociali. Tuttavia, senza questi la scienza non potrebbe esistere.

Come andò a finire la controversia sulle onde gravitazionali?
In questo modo: Joseph Weber e le onde gravitazionali – Vittime illustri di modi ideologici di fare scienza.