Classificazioni e standardizzazioni - Come cambiano la medicina contemporanea

Nell’articolo precedente abbiamo visto come la creazione di nuovi standard e classificazioni richieda complesse negoziazioni tra molteplici attanti. Questo processo di standardizzazione caratterizza diversi mondi sociali come ad esempio la medicina contemporanea.

Infatti, secondo Timmermans e Berg all’interno della medicina gli standard raggiungono una universalità locale (1997). I due autori osservano come la costruzione dei protocolli medici e la loro applicazione non sia universale e valida per tutti i contesti, ma il protocollo si adatta alle singole comunità di pratica attraverso una serie di adattamenti e accordi. Dunque, uno standard viene costruito localmente ma non per questo perde la capacità di mettere in relazione i diversi elementi delle infrastrutture. 

Inoltre, Timmermans e Berg (2003) analizzano l'effetto degli standard nella pratica medica, mostrando come questa venga modificata da essi. Secondo i due autori gli standard non sono neutrali. Ad esempio, l’adozione di linee guida nella pratica clinica o di nuove nomenclature, generano nuove forme di vita che modificano la pratica medica e degli attori:

«Gli standard sono intrinsecamente politici perché la loro costruzione e applicazione trasformano le pratiche in cui si inseriscono. Cambiano le posizioni degli attori: alterando i rapporti di responsabilità, enfatizzando o deenfatizzando le gerarchie preesistenti, cambiando le aspettative dei pazienti» (2203, p. 22)

In particolare, i due autori si focalizzano su come la medicina basata sull’evidenza cambi la pratica medica sia a livello micro che macro. La medicina basata sull’evidenza è caratterizzata da uno stretto legame tra clinica e ricerca scientifica, con lo scopo di generare cure più efficienti, migliorare i processi sanitari, coordinare in modo più efficace le attività di ricerca e un’istruzione migliore per medici e assistenti. 

Verso la fine degli anni Ottanta si fece strada un impulso alla standardizzazione nel campo sanitario, inizialmente come un libero scambio di informazioni, standardizzazione di competenze, strumenti e strutture, e più recentemente con la prescrizione del contenuto del lavoro medico, attraverso la creazione di linee guida. La medicina basata sull'evidenza interviene nel processo decisionale medico: nonostante i pazienti non presentano mai situazioni identiche, una delle abilità dei medici è quella di tradurre una serie di osservazioni molto specifiche o di frasi di linguaggio comune in linguaggio specialistico. Un tempo il medico, attraverso l’utilizzo della propria conoscenza tacita, era in grado di applicare autonomamente le conoscenze scientifiche; ma ora la medicina basata sull’evidenza tenta di elaborare e uniformare i risultati della ricerca scientifica, delineandone l’applicazione, codificando sequenze di attività e azioni uniformi per rispondere a una determinata situazione. L’introduzione di uno standard ha però degli effetti anche a livello macro; infatti, affinché i dati medici diventino comparabili, è necessario uniformare le terminologie, creare nuove nomenclature in modo che i sistemi informativi di diversi contesti organizzativi riescano a comunicare facilmente.

Bowker e Star (2003) nel libro Sorting Things Out, cercano di capire come gli attori progettano e utilizzano i sistemi di classificazione, mettendo in luce come ogni meccanismo di classificazione sia caratterizzato dal contesto sociale, politico, filosofico e sociotecnico, ma anche da aspetti cognitivi, burocratici e formali. Gli autori prendono come caso di studio la Classificazione internazionale delle malattie (ICD), ovvero uno strumento statistico-epidemiologico, analizzandone le genesi, le trasformazioni e gli usi che ne vengono fatti. Attraverso un approccio pragmatico agli standard, essi riprendono e ri-adattano il teorema di Thomas (1928): le cose percepite come reali lo sono nelle loro conseguenze. Pertanto, anche se gli attori considerano le classificazioni puramente mentali o formali, cercheranno di adattare il loro comportamento a quelle concezioni. Anche se ogni classificazione è sotto-determinata dalla realtà (Bloor 1976; Barnes, Bloor, e Henry 1996), scrivono i due autori:

«Sebbene sia vero che le mappe non catturano completamente i terreni, sono tecnologie potenti. Aiutano a trovare la propria strada, come originariamente previsto formalmente. E servono come risorse per strutturare tutti i tipi di azioni collettive: sogni di vacanze, soluzioni di cruciverba, spiegazioni della distanza sociale.» (Bowker e Star 1999, p. 54) 

Il primo volume dell’ICD era principalmente un lungo elenco di numeri con nomi di malattie o cause di morte. Verso la fine degli anni Quaranta diventa uno strumento per codificare e classificare le malattie che rappresentano una minaccia per la salute pubblica. Tutto ciò ha una dimensione performativa e delle implicazioni pratiche: l’obiettivo è quello di creare uno schema di classificazione generale all’interno di più discipline (medicina, epidemiologia e statistica) in rapida evoluzione. Nel momento in cui vengono decise delle categorie, queste influiscono sugli sviluppi futuri della disciplina; ad esempio, le informazioni che verranno raccolte si focalizzeranno su particolari malattie escludendo quelle rare o non contagiose. 

Uno dei principali usi dell'ICD è la registrazione delle cause di morte da parte di medici legali, ospedali e medici. In uno dei testi dell’ICD si elencano diverse tipologie di “insufficienza cardiaca”: congestizia, ventricolare sinistra e una generica insufficienza cardiaca non specificata. Queste tre categorie acquisiscono rilevanza e diventano degli standard di riferimento. Ciò implica che la successiva raccolta di informazioni verrà fatta alla luce di quelle categorie. 

Ad esempio, le insufficienze cardiache causate da guasti meccanici o rotture di protesi o di pacemaker che prima rientravano nella categoria “insufficienza cardiaca”, andranno ri-classificate e ri-significate all’interno delle nuove categorie esistenti. Dunque, il processo di classificazione non ha a che fare solamente con categorie astratte, ma si tratta di un processo pratico inerente al modo in cui le persone classificano gli oggetti che incontrano nella vita quotidiana:

«Quando guardiamo ai modi in cui cultura e pratica si intrecciano nel testo dell’ICD, non stiamo smascherando un falso pretendente alla corona della scienza; stiamo attirando l'attenzione su una caratteristica esplicita, positiva e pratica della progettazione dell'ICD: “L'ICD si è sviluppato come una classificazione pratica, piuttosto che puramente teorica”» (cit. p. 71)

L’intento dell’ICD non è quello di catturare l’intera pluralità di situazioni o di essere una rete in grado di rappresentare tutta la conoscenza, ma piuttosto uno strumento epidemiologico utilizzabile all'interno di un contesto di pratica organizzativa. Inoltre, l’ICD si è evoluto nel tempo in base ai cambiamenti della medicina e delle tecnologie mediche; ad esempio, negli anni Quaranta, l’introduzione di nuove tecnologie diagnostiche provocò una nuova categorizzazione della tubercolosi. L’IDC non rappresenta uno strumento epidemiologico elastico, infatti viene modificato anche in base allo sviluppo di nuove o vecchie malattie, alcune si trasformano come il GRID (Gay-Related Immune Deficiency) si trasformò in AIDS, altre perdono di importanza come l’isteria, altre invece scompaiono come il vaiolo negli anni Ottanta. In altre parole, i cambiamenti che avvengono nel mondo si riflettono, modificando, lo schema di classificazione. 

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In conclusione, all’interno della medicina contemporanea gli standard sono usati ma anche modificati e prodotti. Bisogna uscire da una visione dello standard come “imposto dall’alto” che, una volta adottato, è in grado di modificare qualsiasi pratica. L’invito è quello di guardare lo standard come qualcosa prodotto nella pratica da un insieme eterogeneo di attanti, in grado di regolare le pratiche; ma allo stesso tempo le pratiche possono generare degli standard modificando quelli già esistenti o producendone di nuovi. Si tratta di un processo di co-produzione tra standard e pratiche. 

 

Bibliografia

Bowker, G. C., e Star S. L. Sorting Things out: Classification and Its Consequences, 1999, Cambridge, Mass.: MIT Press Cambridge, Mass.

Thomas, W.I, and Swaine Thomas D., The Child in America: Behavior Problems and Programs, 1928. Knopf.

Timmermans S. e Berg M., «Standardization in Action: Achieving Local Universality through Medical Protocols». in Social Studies of Science, 1997, 27(2):273–305. doi: 10.1177/030631297027002003.

Timmermans S. e Berg M., The Gold Standard, 2003. Temple University Press.


Che gusto ha studiare il cannibalismo? - Un punto di vista sociologico (prima parte)

“La conoscenza (…) comincia con la tensione tra sapere e ignoranza: non c’è problema senza sapere – non c’è problema senza ignoranza. Poiché ogni problema nasce (…), dalla scoperta di un’apparente contraddizione fra quello che riteniamo nostro sapere e quelli che riteniamo fatti”.

Con queste parole si conclude il mio secondo saggio, Cannibalismo, questioni di genere e serialità (2023) edito dalla casa editrice Tab edizioni di Roma nell’aprile dello scorso anno. Non mi sarei mai aspettato che un tema così pregno di timore, tanto da essere annoverato come uno dei più grandi tabù, potesse suscitare tanto interesse… Eppure, è successo! Questo saggio ha vinto una menzione di merito dalla giuria del concorso nazionale Caffè delle arti; è stato collocato al terzo posto tra i migliori saggi sul tema da Notizie scientifiche; è stato attenzionato da testate giornalistiche e culturali di respiro nazionale, etc.

Ricordo, però, che appena mi misi all’opera, molti tra docenti e amici mi chiedevano “che gusto ci trovi a studiare questo tema?”. La mia risposta era, ed è, molto semplice: mi piace tutto ciò che è poco attenzionato, ciò che è di nicchia, perché è in queste intercapedini del sapere che si ha la possibilità di portare alla luce qualcosa di nuovo, o semplicemente qualcosa di cui si conosce molto poco… Ed è proprio il caso del cannibalismo, che per quanto sia stato studiato dall’antropologia, dalla criminologia e dalla stessa psicoanalisi, e vedremo brevemente in che modo, da parte della sociologia, invece, non vi è stato molto interesse.

Gli argomenti trattati in questa opera sono tanti: dall’analisi transdisciplinare del cannibalismo l’antropologia, la sociologia, la criminologia e la psicoanalisi; allo studio di 5 casi di soggetti cannibali Leonarda Cianciulli, Andrei Chikatilo, i coniugi Baksheev, Jeffrey Dahmer, Armin Meiwes, nonché alcune divinità antropofaghe come Śiva, per poi giungere ad una ipotesi  secondo la quale i tratti comuni tra il modus operandi dei serial killer studiati e i culti cannibali vi sarebbe, in soggetti di questo tipo e non solo, un istinto atavico di tipo sociopsicologico e śivaista.

Da notare il fatto che negli ultimi anni il tema del cannibalismo è tornato in auge grazie sul grande e il piccolo schermo, pensiamo alla pellicola cinematografica Bones and Hall, adattamento cinematografico di Luca Guadagnino dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis; la serie tv Dahmer - Monster: The Jeffrey Dahmer Story e molto recentemente La Società della Neve il cui soggetto principale è il caso del disastro aereo sulle Ande in cui vennero praticati atti di cannibalismo per sopravvivenza.

Ma innanzitutto cosa si intende per cannibalismo?

In generale potremmo definirlo come l’atto con il quale un individuo si ciba di un altro suo simile, cioè appartenente alla sua stessa specie. Si tratta di un comportamento presente in molte specie animali, comprese le scimmie, ma anche nella storia del genere umano sia da un punto di vista evolutivo che simbolico. Questo aspetto, infatti, lo considero il grande paradosso del cannibalismo perché da un lato, anche solo menzionarlo stimola sensazioni e reazioni di assoluto ribrezzo e intolleranza, dall’altro però le prove storico-archeologiche sono inconfutabili: il cannibalismo ha accompagnato l’evoluzione della specie umana.

A questo proposito, da un punto di vista antropologico, il cannibalismo sembrerebbe che sia apparso più di 70.000 anni fa. La tendenza cannibalistica dei Neanderthal è stata identificata principalmente grazie all’analisi di teschi su cui erano presenti delle manipolazioni. Famoso è il teschio del Circeo in cui sono stati individuati segni di pratiche rituali funerarie di tipo cannibalistico. Anche sui teschi di Homo pekinensis, risalenti al Pleistocene medio (circa 350.000-450.000 anni) sono state trovate delle fessure e tagli; la prova più evidente del fatto che i nostri antenati fossero dediti al cannibalismo sarebbe il cosiddetto foramen magnum, cioè il foro presente sull'osso occipitale allargato manualmente per estrarre e mangiare il cervello.

Ma il cannibalismo, noto anche come antropofagia, ha caratterizzato anche epoche successive: è stato considerato come uno degli atti tipici della stregoneria, l’accusa con la quale condannare eretici, ma anche uno strumento terapeutico, definito tecnicamente come cannibalismo medico o terapeutico Si tratta di una forma peculiare di cannibalismo dove cuore, midollo e sangue umani venivano ritenuti veri e propri presidi terapeutici, e quindi molto usati nelle pratiche medico-sanitarie. Questa forma di cannibalismo era già nota agli antichi romani i quali erano convinti che l’epilessia si potesse curare succhiando il sangue dalle ferite dei gladiatori. Tale usanza venne mantenuta fino al XVIII secolo. In particolare, si prescriveva l’assunzione di carne umana, generalmente proveniente da morti per decapitazione o impiccagione, per il trattamento dell’epilessia. In Gran Bretagna, addirittura, nacquero i cosiddetti mummy shop, ovvero farmacie che vendevano carne umana mummificata. E sullo scopo terapeutico del cannibalismo, nel suo ultimo saggio Siamo tutti cannibali, uno degli antropologi più autorevoli, Lévi-Strauss, ha sostenuto che il cannibalismo non solo sia presente quotidianamente ma che gran parte delle tecniche terapeutiche che altro non sono che la forma più evoluta del cannibalismo: il trapianto di organi, le trasfusioni, l’impiego di ormoni ipofisari, innesti cutanei o di altre parti del corpo provenienti da cadaveri, ecc. L’obiettivo di Lévi-Strauss, a differenza di altri suoi colleghi, è quello di esorcizzare il concetto di cannibalismo, sottolineando come sia necessario considerare questo fenomeno come “normale” e non come fattore di discrimine fra società selvagge e società civilizzate. Altri suoi colleghi, invece, hanno considerato il cannibalismo o come la manifestazione più evidente della differenza tra i popoli civilizzati e meno civilizzati, o ancora come un mero mito con quale etichettare popoli considerati inferiori.

Nel caso della psicoanalisi, invece, il cannibalismo assume altri significati. Freud lo definisce come la manifestazione più evidente dell’aggressività repressa, che si manifesta, appunto, mediante l’attacco orale, che sarebbe alla base della storia umana e della sua evoluzione, ma al tempo stesso considera l’antropofagia come l’espressione dell’impulso con il quale si intende introiettare l’altro per appropriarsene. Parte di questi atteggiamenti si rilevano nel bambino, durante la fase orale o cannibalica dello sviluppo psichico. L’uomo, ricorda Freud, sin dalla nascita si attacca al seno materno e finché non svilupperà i denti, si limiterà alla suzione, che è comunque fonte di appagamento sessuale per l’infante.

Secondo la criminologia, invece, il cannibalismo rientra nelle cosiddette parafilie ossia condizioni in cui si sviluppano interessi sessuali atipici. In questo ambito il cannibalismo, è correlato ad atti commessi da serial killer, ossia individui, che nella maggior parte dei casi, commettono almeno 3 omicidi, spinti da istinti sessuali deviati.

Da un punto di vista sociologico il cannibalismo ha avuto scarsa attenzione, questo perché la stessa sociologia dell’alimentazione ha avuto un suo riconoscimento formale solo di recente. Uno dei pochi tentativi di analisi sociologica dell’antropofagia è stato proposto da Georges Guille-Escuret e nella sua trilogia Sociologie comparée du cannibalisme, in cui il cannibalismo viene analizzato come un evento sociale endogeno alla società. Il concetto di cannibalismo, da questo punto di vista, ricorda quello di incorporazione della cultura, cioè l'introiezione di ciò che proviene dalla società dentro ciascuno di noi. Ma mangiare in generale è un “fatto sociale”, per dirla in termini durkheimiani, rappresenta, cioè, il massimo grado di espressione del volere collettivo e dell’esigenza di relazionalità. Così la rilevanza sociale dell'alimentazione e del suo ruolo relazionale lo si ritrovano già nel termine compagno, dal latino companio, composto da cŭm, con e pānis, pane; letteralmente, quindi, compagno significa "chi mangia il pane con l'altro". Mangiare diventa essenziale per stare in relazione, ecco perché la nutrizione viene considerata in sociologia come uno dei mediatori più importanti, nonché a fattore di incremento e di strutturazione del capitale sociale, cioè dell’insieme più ampio di relazioni di cui ciascuno gode. Ma il cannibalismo ha anche altri significati sociologici: quelli riconducibili al rito, per esempio pensiamo al processo di transustanziazione e al precetto cristiano di cibarsi del corpo e sangue di Cristo; è all’interno di molti miti, leggende, fiabe, si pensi a: Pollicino, Hänsel e Gretel, il conte Ugolino, ecc.

Nel titolo del mio saggio un altro termine chiave è questioni di genere, da intendere semplicemente come la variabilità con la quale si viene definiti uomo o donna e correlata all’orientamento sessuale. Questi due aspetti sono stati essenziali per il mio lavoro, poiché sono stati utilizzati per scegliere ed analizzare 5 soggetti cannibali: Leonarda Cianciulli la Saponificatrice di Correggio, Andrej Romanovič Čikatilo il Mostro di Rostov, Dmitry Baksheev e Natalia Baksheeva la Coppia cannibale, Jeffrey Lionel Dahmer il Mostro di Milwaukee e Armin Meiwes il Cannibale di Rotenburg an der Fulda, di cui vi parlerò dettagliatamente nella seconda parte di questo post.


Deus absconditus. Note sull’emancipazione di Homo “sacer”

Nel passaggio mai definitivo dal regno della credenza e della superstizione a quello del sapere laico, razionale e scientifico, ha avuto un ruolo cruciale la progressiva sfiducia nei confronti delle pratiche magiche e religiose, sacrificio compreso. Meno acclarato è il fatto che, nel secolare mondo occidentalizzato, le antiche istanze di homo “sacer” riemergono volentieri sotto mentite spoglie, camuffate da rituali emancipati e tecnologicamente avanzati. In realtà, esse non ci hanno mai abbandonato, in barba alle distinzioni tra sacro e profano, alle diatribe sul primato di struttura e sovrastruttura, al senso della storia in quanto lineare processo di secolarizzazione. Attraverso una moltitudine di pratiche quotidiane apparentemente neutre si rinnovano culti rivolti a divinità misconosciute, le quali donano e tolgono la vita come ogni divinità che si rispetti. Non si tratta di cedere alle fallacie dell’analogia, tali per cui il presente storico è reso anacronistico da una sovrapposizione efficace ma surrettizia con il mondo arcaico. Al contrario, occorre prendere coscienza che tra sacro e laicità non passa alcuno iato necessario. Senza scomodare casi probatori eclatanti quali lo sforzo ingegneristico nazista o l’attacco alle Torri Gemelle, è alla quotidianità che occorre guardare per scongiurare il bias dell’evento, il quale rischia di relegare il sacro contemporaneo all’eccezione in un quadro di normalità. Tre esempi tratti dalla vita di tutti i giorni restituiscono la nemesi in oggetto.

Il centro commerciale

L’isolato centro commerciale, a cui giungono in pellegrinaggio migliaia di devoti ogni giorno, non rappresenta affatto un “nonluogo”. Si tratta, invece, di un’area sacra votata all’odierna religione del consumo. Tempio e Granaio, tradizionalmente distinti, hanno finito per coincidere senza avvicendarsi. Oggi come un tempo, la divinità dona prosperità in cambio di prelievi di sostanza vitale. In luogo del sangue sacrificale, scorre copioso il risparmio finanziario. Se i sacerdoti dei vari templi amministrano offerte equivalenti, i Numi si spartiscono i reparti: ad Afrodite quello della bellezza, a Dioniso i vini e liquori, a Demetra il settore ortofrutticolo, ad Asclepio i prodotti farmaceutici, a Efesto quelli tecnologici, ad Apollo le dispense musicali, ad Atena le librerie, e così via per le varie divinità. Contrassegnate ciascuna dai rispettivi marchi di fabbrica, scambiano le loro merci divine con pellegrini giunti a omaggiarle sulla scia della pubblicità, l’equivalente laico della propaganda religiosa. I doni “in offerta”, degni delle ossa taroccate di Prometeo rifilate alla divinità, ingannano consumatori evidentemente indiati. I sacrifici animali veri e propri, celati sotto l’eufemistica promessa di “carne”, avvengono in un altrove così inattingibile, da evitare di contaminare l’area sacra anche solo con l’immaginazione. Ciò denota ulteriormente il desiderio di identificazione del consumatore con le divinità che viene a venerare, le quali tuttavia sono parzialmente a portata di mano, ché altrimenti non potrebbe tendervi. Rinnovare il gesto d’appropriazione identificante, moltiplicarlo per ogni reparto e condividerlo con l’intera comunità, è renderlo rituale.

I mezzi di trasporto

Un’altra divinità misconosciuta è quella delle quattro ruote. Ad essa sono immolate quotidianamente migliaia di vittime in tutto il mondo, umane e non. Il quadrupede della velocità, munito di occhiacci luminosi e prognatismo aerodinamico, è avido di sangue quanto una divinità Azteca. Gli altarini sui cigli delle strade ne sono fedele testimonianza mentre i non umani, si sa, non omaggiano i malcapitati. Gli incidenti da mezzi di trasporto sono tali solo agli occhi di spiriti non avvezzi al sacro ineluttabile. Ancorché inconsci, si tratta di sacrifici umani in piena regola, con le vittime scelte a sorte secondo un copione sacrificale noto e documentato. Non solo i candidati all’immolazione non sono disposti a rinunciare al culto della velocità, ma molti di loro si offrono entusiasti al dio calcando l’acceleratore oltre misura, sovente aiutati dalle stesse sostanze psicoattive che usavano nell’autosacrificio arcaico. Si osserva giustamente come i giovani d’oggi più non pratichino i riti di passaggio all’età adulta, ma si dimentica di aggiungere che sballo e velocità rivestono esattamente tale funzione. Il calcolo utilitaristico dovrebbe convincere iniziati e navigati che la loro fede universalistica va mietendo più vittime delle due guerre mondiali messe assieme, eppure tale verità scandalosa permane inopinata nel diniego collettivo. Ai morti sull’asfalto si sommano quelli di aerei, navi, sottomarini, treni, funivie: un pantheon di divinità zoomorfe adattate ai loro habitat specifici. Se la convergenza evolutiva contempla i veicoli umani, al dio della velocità volentieri si accompagna la dea di altezza e profondità, detta Ubiquità. Così alcuni si schiantano a bordo di uccelli metallici stipati di guano infiammabile, mentre altri si inabissano dentro cetacei a motore che non riemergeranno più, o più prosaicamente scivolano nelle tane degli ascensori.

Archeologia della morte

Un terzo esempio di revival sacrale è dato dall’archeologia della morte. Una volta si andava sottoterra a seppellire i propri cari in loculi più o meno accoglienti, in un misto di nostalgia e terrore che potessero ritornare tra i vivi colmi di risentimento, tanto che prima di sigillare l’accesso venivano forniti di ogni comfort. La nostalgia odierna, viceversa, usa disseppellire quegli stessi resti per riportarli in vita. C’è perfino chi si adopera in preistorici contorcimenti volti a espugnare recessi ancestrali scelti appositamente per l’oblio. L’iter speleologico è identico, ma a ritroso; le torce elettriche. Il ritorno dei morti viventi non fa più paura e anzi sono i benvenuti, quantomeno dal XIX secolo in giù. Antenati immortali lo divengono nuovamente sub specie di mummie e scheletri di progenitori sottoposti all’imperitura ammirazione del pubblico nei musei di storia e scienze naturali. Qui i devoti sono acculturati, la religione ufficiale è quella del sapere storico e scientifico. La collocazione delle suppellettili a fianco delle reliquie è bene che sia la stessa di sottoterra, così la cura certosina nel disporle. Le teche di vetro echeggiano per contrasto l’oscurità delle camere sepolcrali, il controllo dell’umidità è affidato a guardiani tecnologici, i neon evocano la luce dell’aldilà. Un perfetto rovesciamento del culto precedente, allorché erano gli inferi a dover specchiare il mondo supero.

Provvidenza, Immolazione, Velocità, Ubiquità e, dulcis in fundo, Immortalità, sono contrassegni inconfondibili della divinità. Ulteriori marcatori sacrali, per altrettanti culti della contemporaneità, sono rinvenibili nelle odierne società tecnologiche. Rimandiamo la loro investigazione a successivi appuntamenti.