Celebrare la natura e le sue leggi - Roma Barocca, il Cenotafio di Boullée e la scala di Nervi

Perché possiamo parlare di nesso tra l’architettura, in particolare tra i monumenti, l’architettura celebrativa, e le scienze?

Perché il monumento – che è il culmine dell’architettura di celebrazione – non celebra esclusivamente il suo soggetto, ad esempio il cavaliere della statua equestre, ma spesso amplia la celebrazione verso ampie parti della società, al creato, alle leggi di Dio o a quelle della scienza, e, infine, alle capacità generative e di manipolazione delle scienze e delle tecniche.

1. LA ROMA BAROCCA DEL XVII E DEL XVIII SECOLO

Il piano urbano della Roma barocca che si formò tra il XVII e il XVIII secolo trascende la dimensione monumentale dei palazzi e della loro disposizione e magnificenza: è un piano «urbanistico-monumentale» (Schultz, C. N. Architettura Barocca, città: casa editrice, 1979).

I monumenti, come l’Obelisco della Minerva, posto dal Bernini nell’omonima piazza, come il dialogo creato da Pietro da Cortona tra la chiesa di Santa Maria della Pace e la piazza antistante, Piazza Navona, voluta da Papa Innocenzo X della famiglia Pamphili, la Fontana dei Quattro Fiumi progettata da Bernini per la medesima piazza, la chiesa di S. Agnese, disegnata dal Borromini, sempre in piazza Navona, sono posizionati per spiccare — l’accentramento nelle piazze, la magnificenza, la mole massiccia, i materiali – e, nello stesso tempo, per celebrare la grandezza della controriforma, delle famiglie papali che ne furono i principali fautori,

Ma non tutti i monumenti di questo barocco romano celebrano la stessa cosa.

Le opere di Borromini e Guarini – ad esempio, le conchiglie custodite da Borromini nella sua casa[1] e ispirazione per la lanterna di Sant’Ivo alla Sapienza, oppure i lavori teoretici di Guarini sul carattere vibratorio del reale, che si ritrovano in tutta la sua opera architettonica[2] - celebrano la grandiosità del creato, una natura intessuta di leggi divine, di leggi nuove che alla staticità del vecchio mondo chiuso rispondono con il dinamismo del nuovo mondo aperto e infinito.

Quello romano è un Barocco che mima «la natura», i rapporti complessi del creato, le sue fluttuazioni dinamiche, per restituire una sorta di «spiritualità naturalistica»[3], specchio spirituale della nuova scienza Newtoniana.

 2. IL CENOTAFIO DI NEWTON

Un cenotafio, monumento sepolcrale privo dei resti mortali della persona in onore della quale è stato eretto è nello stesso tempo un oggetto monumentale, commemorativo e un segno che richiama dei caratteri della persona onorata.

Quello in onore di Isaac Newton, disegnato nel 1784 da Etienne Boullée ma mai realizzato, celebra il rapporto tra il «misterioso e sacro turbinio della natura» e l’intelligibilità delle leggi naturali: ciò che prima era mistero e inquietudine, ora è conoscenza e chiarezza.

Ne è prova, ad esempio, la trattazione della luce. Nell’illuminismo, che toccò profondamente Boullée, la luce è chiarezza e rappresentazione auto evidente dell’intelletto umano.

Infatuato dal mondo che era nato in seguito a Newton, Louis-Etienne Boullée realizzò sei disegni a inchiostro per raffigurare il fanta-progetto del cenotafio in onore dello scienziato inglese.

Si trattava di un’enorme sfera, che in quel tempo non sarebbe stato possibile realizzare tecnicamente, adagiata su una base circolare che le avrebbe fatto da immenso piedistallo, sul cui bordo esterno sarebbero stati piantati – a tre altezze differenti – una moltitudine di cipressi ben ordinati in file e colonne.

All’interno sarebbero stati posizionati soltanto un sarcofago romano vuoto e un enorme astrolabio sferico posto a mezz’altezza. L’astrolabio - attraverso una lanterna posizionata al centro – avrebbe riprodotto, durante le ore notturne l’impressione della luce diurna e, inversamente, durante le ore diurne molte piccole fessure distribuite sulla porzione superiore della sfera avrebbero restituito la posizione delle stelle, dei pianeti e della luna durante le ore notturne.

Pochi elementi essenziali. Le fessure e l’astrolabio riproducono, inversamente, le tracce del cosmo: la notte dentro con il giorno di fuori, il giorno dentro con la notte di fuori.

In aggiunta, l’enorme sfera non «è» solamente un microcosmo ma sta per la forma della terra, per come l’aveva concepita lo stesso Newton, una sfera schiacciata ai poli.

Anche il senso di immensità dovuto all’altezza complessiva della struttura di oltre 146 metri, così come l’utilizzo di forme elementari e platoniche come la sfera, non celebrano direttamente «il naturale», quanto la possibilità da parte dell’intelletto di conoscere le leggi della natura.

A sua volta, la distribuzione ordinata e schematica delle piante, una semplificazione dello schematismo sovrabbondante del barocco, non soltanto avrebbe rievocato le antiche sepolture e i primi paradisi persiani[4], ma avrebbe mostrato la chiarezza matematica e la lucidità schematica del nuovo pensiero illuminista.

A dirla tutta, piuttosto che un’obiezione, il fatto che l’opera fosse tecnicamente irrealizzabile, sembra parlare a favore della ferma convinzione che, un giorno, la scienza avrebbe permesso ogni fantasticheria.

3. IL FUTURISMO DI SANT’ELIA E LA SCALA ELICOIDALE DI PIER LUIGI NERVI

Il Futurismo italiano inaugurò un generale sentimento anti-monumentale che avrebbe attraversato tutto il ‘900. Antonio Sant’Elia nel suo Manifesto dell’architettura futurista dichiarava un odio viscerale per i monumenti imperituri, per ciò che non varia e che s’accontenta di tornare, con stanchezza, alle origini.

Preferiva di gran lunga la variazione repentina e l’esistenza effimera di ciò che ogni giorno deve essere rifatto ex novo - ogni generazione deve rifare da capo la propria città.[5]

Sant’Elia rinnega il monumento forma-tipo, come ciò che si allaccia al passato e non smette di tornarci, ma non rinnega la capacità «celebrativa» di ciò che è monumentale.

Piuttosto esalta la dimensione comune di ciò che celebra e che viene celebrato: la velocità - per fare un esempio - non celebra null’altro che la velocità e le scienze che la rendono possibile.

La piega futurista suggerisce che, con l’impiego di diversi stratagemmi, ciò che è monumentale ha sempre esaltato anche le tecniche che ne rendevano possibile la sua realizzazione.

È esemplare, in questo senso, la scala elicoidale di Pier Luigi Nervi dello stadio di Firenze: l’intento celebrativo «sta» per la realizzazione stessa dell’opera, la dimostrazione del calcestruzzo; non c’è più celebrazione della natura, e neppure celebrazione della capacità intellettiva di carpire le sue leggi; ma auto celebrazione delle capacità manipolative della tecno-scienza.

 

NOTE

[1] Cfr.: Barillier, E., Francesco Borromini: il mistero e lo splendore, Casagrande Editore, 2011

[2] Cfr.: Assunto, R., Un filosofo nelle capitali d’Europa: la filosofia di Leibniz tra. Barocco e Rococò, Storia della critica d’arte annuario della s.i.s.c.a.,2020

[3] Cfr.: D’Ors, E., Del Barocco, SE Editore, 1999

[4] Cfr.: P. Grimal, P., L’arte dei giardini, Feltrinelli Editore, 2014

[5] Cfr.: Sant’Elia, A., Manifesto dell’architettura futurista, 1914


Scoperte giuste, spiegazioni sbagliate: il caso del telegrafo senza fili

Una visione ingenua della scienza, che questo blog cerca di mettere in discussione, è convinta che ci sia sempre coerenza tra scoperte e spiegazioni. In altri termini, quando si scopre qualcosa è perché c’è dietro una corretta individuazione delle cause.

Ma non sempre è così, e una scienza aperta dovrebbe essere tollerante con le scoperte che non hanno (ancora) spiegazioni e non emarginarle soltanto perché non sono in grado di fornirle in modo adeguato o convincente. O sono contrarie alle credenze consolidate in un settore scientifico. E’ il caso del telegrafo senza fili di Marconi.

Nel 1894 Guglielmo Marconi, studente di fisica a Bologna, andò dal suo docente Augusto Righi, famoso per lo studio delle radiazioni elettromagnetiche. Marconi annunciò: “Professore, con le onde elettromagnetiche che lei ha scoperto, faccio il telegrafo senza fili da qui all’America”. Righi rispose: “Ma che stupidaggini. Esca fuori di qui prima che io la prenda a calci!”. Poco dopo un giornale di Parigi intervistò, sullo stesso argomento, Henri Poincarè, il massimo fisico teorico dell’epoca. Egli rispose ironicamente: “Marconi lo sa che la terrà è tonda o pensa ancora che la terra sia piatta?”. 

Infatti le onde elettromagnetiche si propagano in linea retta. Per cui, se forse potevano superare una collina, certamente non la curvatura terrestre.

Incurante di questa impossibilità teorica, Marconi installò un’antenna in Cornovaglia (UK) e una a Terranova (Canada). Il 12 dicembre del 1901, fece l’esperimento e il segnale raggiunse Terranova. Come mai? 

Perché esiste la ionosfera (una fascia dell'atmosfera terrestre, composta da gas), che agisce come uno specchio. Per cui l’onda emessa dalla Cornovaglia andava effettivamente in linea retta (conformemente alla teoria di Righi), ma poi raggiunta la ionosfera veniva rimbalzata nuovamente verso la terra. Ma né Righi né Marconi erano a conoscenza dell’esistenza della ionosfera, che fu attestata solo nel 1924.

Ma allora come faceva Marconi a prevedere il fenomeno della diffrazione delle onde elettromagnetiche? Perché era… ignorante! Nel senso che lui credeva (erroneamente) che le onde elettromagnetiche si propagassero parallelamente alla superficie terrestre. Infatti Marconi la laurea in fisica non la prese mai. Prese solo… il Nobel per la fisica (nel 1909).

Per cui non sempre accade che chi sa le cose vede giusto e chi non le sa vede sbagliato.

 

NOTA

Da una conferenza https://www.youtube.com/watch?v=46iHx2ydTdw di Emilio del Giudice (1940-2014), grande fisico (emarginato) ed eccellente divulgatore. https://it.wikipedia.org/wiki/Emilio_Del_Giudice


Il “doppio click”, ovvero l’atteggiamento blasé nel turismo e nella scienza

«Si riscosse sentendosi quasi chiamato e interrogato dalle ultime parole di Settembrini, ma, come quando quest’ultimo aveva voluto costringerlo solennemente a decidersi fra “Oriente e Occidente”, atteggiò il viso all’espressione di chi pone riserve e non si vuole arrendere, e tacque. Spingevano tutto all’estremo, quei due, come è forse necessario quando si viene ai ferri corti, e litigavano accaniti per un’alternativa suprema, mentre a lui sembrava che nel mezzo, tra le esagerazioni contestate, tra il retorico umanesimo e la barbarie analfabeta, ci doveva pur essere quello che si potrebbe chiamare l’umano». (Mann T. (1924), La montagna incantata, Corbaccio, Milano, 2015, p. 500)

Fra i personaggi più straordinari della letteratura possiamo annoverare sicuramente Lodovico Settembrini e Leo Naphta, i due precettori di Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann.

In questo romanzo di formazione infatti, il giovane ingegnere tedesco è costantemente sollecitato sul profilo intellettuale da queste due figure che – con fenomenale, e a tratti assurda, coerenza – lo invitano a scegliere fra visioni del mondo radicalmente contrapposte: da un lato, il massone italiano lo esorta ad abbracciare i valori illuministici del progresso, il culto della ragione, l’universalismo cosmopolita, l’arte classica e il liberalismo; dall’altro, il gesuita est-europeo lo spinge verso il socialismo, la relatività esistenziale del sapere e la sintesi idealista del corpo e della mente, sulla falsariga delle dottrine radicali teocratiche del medioevo.

La ricostruzione degli elementi e dei valori culturali propri di questi due personaggi, e dei loro partiti idealtipici, è talmente precisa e dettagliata, così completa nella presentazione fattane dall’autore, da far nascere costantemente dubbi nel lettore a proposito delle proprie convinzioni personali, una volta che queste vengono adeguatamente ricondotte a quello che Fleck[1] chiamerebbe il loro “stile di pensiero” originario.

Non solo, ma lo portano anche a dissociarsi dall’integralismo con cui i due personaggi difendono le proprie posizioni, talmente esasperato da sfidarsi a duello per affermarle nei confronti del rispettivo avversario.

La genialità e l’attualità dell’opera di Mann, a 100 anni dalla pubblicazione del libro, sta nel fatto che Settembrini e Naphta sono personaggi di fantasia, assolutamente improbabili, pur essendo caratterizzati ciascuno come un insieme di elementi di dettaglio estremamente reali e storicamente ben definiti. Altro che il Signore degli Anelli!

Piuttosto, suggerisce l’autore, è secondo un’ambigua convivenza di “ragione” e “sentimento” che l’uomo moderno, l’ingegnere - e noi che ci impersoniamo in lui - verosimilmente costruisce il proprio percorso di vita: come un coacervo di idee eterogenee, e talvolta in conflitto.

Per esempio, un accostamento inusuale è quello che associa la formazione della cosmologia moderna – nel senso antropologico di insieme di codici che definiscono e regolano l’ordine sociale – alla nascita del turismo, avvenuta fra il XVIII e il XIX secolo.

Infatti, nelle scienze sociali e nel senso comune si tende, generalmente, a derubricare superficialmente l’argomento, come se fosse meno rilevante della razionalizzazione, dell’individualizzazione e di altri cambiamenti di natura politica ed economica avvenuti nello stesso periodo (del resto, abbiamo giusto un paio di settimane di ferie l’anno purtroppo).

Eppure, come mostra lo storico Alain Corbin, nel suo libro L’invenzione del mare (Corbin A. (1988), Le territoire du vide. L’Occident et le désir de rivage, 1750-1840, Flammarion, Paris), all’emergere della prassi del turismo deve essere assegnato un ruolo di primaria importanza, poiché essa istituisce ex abrupto il movimento di ricerca verso l’ignoto, e lo consolida come consuetudine sociale che poi va sempre più generalizzandosi nel corso del tempo.

Il mare, dice appunto provocatoriamente, è stato inventato nel periodo contemporaneo, poiché precedentemente non esisteva, come, ad esempio, secondo il Verbo, esso non è nemmeno previsto nel giardino dell’Eden.

La società “pre-moderna” (qualunque cosa voglia dire questo ambiguo concetto) è una società esclusivamente di pianura, che acquisisce il “desiderio di riva”, la volontà di esplorare i territoires du vide, come un fatto inedito, saldato alla pratica di distinzione sociale dei rampolli dei ceti emergenti di quel periodo che, un po’ come Darwin alle Galapagos, Malinowski nelle Trobriand o Booth negli slum della Londra vittoriana, tenevano dei diari a proposito delle loro “robinsonate”, le gite esplorative delle coste e delle isole ignote che visitavano nel tempo libero.

Quello turistico è quindi, per prendere in prestito un’espressione bourdieusiana, un principio di visione e divisione sociale, un modo di vedere e organizzare la società, un tipo di sguardo sulle cose, una maniera di arrangiarle da un punto di vista materiale, che certamente è concomitante all’industrializzazione, ai processi di democratizzazione e secolarizzazione.

All’affermarsi del turismo possono essere quindi ricondotte tutta una serie di biforcazioni di cui ancora oggi ci avvaliamo: come quella fra natura e cultura, che rispecchia la suddivisione dello spazio in luoghi antropizzati e incontaminati; come la ripartizione economicista fra l’utile (il lavoro) e l’inutile (lo svago); e come la suddivisione dei ruoli sociali in essenze che appartengono, da un lato, ad un tempo passato - quello della campagna, o delle terre esotiche[2], immobili e unicamente da conservare e visitare come reliquie (è sempre, maledettamente, vietato toccare!), e dall’altro ad un futuro appropriabile, ma già ipotecato, quello della città - che chiede di essere imitata, stabilendo la direzione, ma senza offrire reali speranze.

Ma soprattutto[3] al turismo deve essere associato il nuovo modo in cui determiniamo ciò che è vero e ciò che è falso: tutti sanno benissimo che, quando un qualcosa è “per turisti”, significa che è “inautentico, fasullo, o ingannevole”, e che solo i “veri viaggiatori” sanno distinguere e apprezzare ciò che invece è “autentico”.

Come dice Goffman, nel mondo moderno -  in cui la struttura della società supera in estensione e per differenziazione quella familiare e comunitaria, dove la verità rimane nettamente distinta dalla menzogna, come il giorno dalla notte - è attraverso un’ipertrofia di apparati di intermediazione, tutta una serie di dispositivi e costruzioni, che viene assemblato l’ordine sociale.

Nella società contemporanea, la verità è una messa in scena, che deve essere costantemente performata, ed è sempre esposta al rischio di fallire[4] .

Le verità di cui ci avvaliamo sono sempre artefatte, ma, ciononostante, questo ci suona come un paradosso.

Il palcoscenico dove avvengono le rappresentazioni, infatti, lo consideriamo come un piano sostanzialmente illusorio e sovrastrutturale rispetto al retroscena che nasconde (con buona pace dei cuochi che non possono più tirarsi le padelle, visto che ora tutte le cucine sono a vista). La mediazione implica quindi l’istituzione di due dimensioni, una front region e una back region, dove la prima sarebbe come un manto di apparenze che avvolge la vera essenza delle cose nascoste della seconda: «hai finito con le chiacchiere e i sofismi? Vai al sodo, lascia parlare i fatti!».

Come epitomato dal flâneur di Baudelaire, il turismo ha affermato un modo di esistenza che ci spinge ad assegnare un valore al disinteresse, ad apprezzare il mondo e a considerarlo tanto più veritiero quanto più è libero ed irresponsabile nei confronti di un sistema di media, come se questi non operassero altro che distorsioni: si dimentica così della sua massima più famosa, perché ciò che vediamo nelle immagini da cartolina è sempre la meta, e mai la strada per arrivarci.

Mentre solo l’accesso diretto, come quello che pare procurarci il “doppio click” del mouse, consentirebbe una vera esperienza delle cose; poco importa poi che una ricerca scientifica disponga di strumenti e finanziamenti e un'altra solo della buona volontà, la natura è lì in ogni caso!

Come sentenzia Latour, noi moderni siamo incapaci di pronunciare con una sola emissione di voce la frase “è costruito, perciò deve essere vero”[5] .

Tuttavia, dice Cézanne, «guarda la montagna, una volta era fuoco!», troppo concentrati dalla vetta, ci dimentichiamo infatti che la strada per arrivarci dipende dalla nostra formazione, e il sentiero che sapremo aprirci sarà molto diverso se siamo guide alpine attrezzate o escursionisti domenicali, ma non necessariamente uno sarà più vero dell’altro. Piuttosto, essi differiranno nel grado di realtà che saranno in grado di mobilitare e trasformare a proprio vantaggio.

Così, conclude ironicamente Latour: «L’etnologo trova sempre comica l’eterna lamentela inventata dalla critica: “poiché accediamo alle cose conosciute tramite un percorso, questo significa che queste cose sono inaccessibili e inconoscibili di per sé”. Vorrebbe rispondere: “ma di cosa ti lamenti, visto che comunque puoi accedere ad esse?” “Sì” – continuano a piagnucolare – “ma ciò significa che non le cogliamo ‘in sé stesse’, non vediamo come sarebbero ‘senza di noi’. “Bene, ma visto che vuoi approcciarle, se vuoi che siano come sono ‘senza di te’, perché non smettere semplicemente di provare a raggiungerle?” Ancora in modo più lagnoso; “perché così non avremmo alcuna speranza di conoscerle”. Sospira esasperato l’etnologo: “è come se vi congratulaste con voi stessi che c’è un percorso per il monte Aiguille, ma poi vi lamentaste che vi ha permesso di arrampicarvi fino in cima…” La critica si comporta sempre come i turisti blasé, che vorrebbero sempre raggiungere i territori più incontaminati senza difficoltà, e senza incappare in altri turisti». (Latour B. (2013), An Inquiry into Modes of Existence. An Anthropology of the Moderns, Harvard University Press, p. 85)

 

 

NOTE

[1] Cfr. Fleck L. (1935), Genesis and Development of a Scientific Fact, Foreword by T. S. Kuhn, The University of Chicago Press.

[2] Cfr.: Said E. W. (1978), Orientalism, Pantheon Books, New York

[3] MacCannell D. (1976), The Tourist: A New Theory of the Leisure Class, Schocken Books, New York.

[4] Oltre alla ripartizione fra il mondo della pianura e il clima dell’altitudine, per dirla con Mann -  come ha intuito Dean MacCannell, in uno dei più importanti saggi di antropologia del secolo scorso ; Cfr.: Goffman E. (1959), The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, Garden City

[5] Cfr. Latour B. (2013), An Inquiry into Modes of Existence. An Anthropology of the Moderns, Harvard University Press.