Nello specchio dell’Intelligenza Artificiale - The Eye of the Master

Specchi

Con consueta indiscrezione Oscar Wilde rivela che Dorian Gray si è immunizzato dai sintomi dell’invecchiamento e del degrado morale della sua condotta, proiettandone i sintomi su un ritratto che custodisce in soffitta. Solo puntando lo sguardo sul dipinto è possibile scorgere la verità che l’aspetto del personaggio sta mascherando. Cosa vediamo quando fissiamo gli occhi sull’intelligenza artificiale, che in qualche modo abbiamo costruito come un ritratto tecnologico della nostra umanità? Le scienze cognitive e gran parte delle pubblicazioni divulgative affermano che i dispositivi informatici riflettono la forma della nostra mente, anche se ancora in modo parziale e talvolta alterato. Nei computer riverbera la verità dello spirito, anche se ancora solo per speculum et in aenigmate, un po’ come secondo Agostino di Ippona e Paolo di Tarso la nostra esperienza ci permette di scorgere il volto di Dio in uno specchio, non ancora faccia a faccia – con tutte le contraffazioni che ai tempi dell’impero romano le superfici riflettenti praticavano sulle immagini.

Ma è possibile che nell’intelligenza artificiale si mostri quello che il lavoro collettivo della storia della tecnologia vi ha introdotto in fase di progetto e di sviluppo, più che la struttura o le funzioni della mente nella loro presunta universalità e immutabilità. La tesi che Matteo Pasquinelli dimostra in The Eye of the Master rende omaggio all’evidenza che nei dispositivi informatici troviamo quello che ci abbiamo messo più che quello che siamo, in una prospettiva che ha il pregio di muoversi in direzione opposta all’opinione comune, e con una strategia di argomentazione tutt’altro che triviale. I passaggi focali della sua ricostruzione sono due.

Ragazze che contano

Il primo si colloca all’origine della storia dell’informatica, o comunque in uno dei momenti considerati come essenziali per la nascita della disciplina: qui Pasquinelli sfida il presagio di noia dei lettori esperti, soffermandosi sugli studi condotti nella prima metà dell’Ottocento dal matematico Charles Babbage per la realizzazione della «Macchina Differenziale» (ed esponendo me ora allo stesso rischio). Il dispositivo non è mai stato portato a compimento, e si distingue dai computer progettati e costruiti nel Novecento per il fatto che non prevede una distinzione tra hardware e software: la macchina, anche nella sua veste definitiva, sarebbe stata in grado di processare un solo programma – quello del calcolo delle tavole logaritmiche. Babbage ha anche elaborato i piani per una «Macchina Analitica», che avrebbe potuto eseguire una pluralità di compiti diversi, ricorrendo a schede meccaniche paragonabili a quelle utilizzate nei telai Jacquard per l’esecuzione dei ricami. In questo caso però la pianificazione non ha condotto nemmeno al prototipo con azionamento manuale, che invece è stato messo a punto per la Macchina Differenziale. 

Il primo progetto è stato sollecitato da esigenze commerciali e militari, ottenendo anche un finanziamento pubblico di 1.500 sterline: le tavole logaritmiche sono essenziali per il tracciamento delle rotte, e sono state quindi uno strumento fondamentale per la solidità dell’impero coloniale costruito dagli inglesi fino dal Settecento. Il procedimento seguito da Babbage, da cui discende la tecnica moderna della programmazione, si fonda sulla nozione di divisione del lavoro divulgata da Adam Smith cinquant’anni prima e approfondita in due direzioni. 

La prima è quella della riduzione delle operazioni di calcolo ai passaggi meccanici di cui sono composte. Turing ripete lo stesso esercizio più di un secolo dopo, quando in piena Seconda Guerra Mondiale elabora il modello matematico per decrittare i messaggi in codice della marina tedesca. Computer ai tempi di Babbage, e ancora ai tempi di Turing, non è il nome di una macchina, ma l’etichetta di una professione esercitata per lo più da ragazze, che eseguono lunghe sequenze di calcoli meccanici in cui sono stati segmentati algoritmi predisposti da ingegneri e da matematici, per la misurazione di rotte, di distribuzioni statistiche, ecc. La riduzione di questa varietà di competenze a singoli passaggi automatici permette di organizzarli in una macchina, che quindi non è un oggetto ma la cristallizzazione di una configurazione di relazioni sociali e della divisione del lavoro che la governa.

La seconda direzione proviene dagli studi di Babbage in ambito di management aziendale, e dalla sua conapevolezza che la divisione del lavoro permette di calcolare il costo di ogni fase della produzione, e di abbatterlo attraverso l’assegnazione dei compiti più semplici a personale non qualificato, o a macchine che lo rimpiazzino. Babbage non coincide con l’immagine di apostolo dalla purezza della curiosità scientifica che l’agiografia dipinge da sempre, né è stato una figura isolata nella sua austerità accademica – né la sua invenzione è neutrale da un punto di vista morale e politico. Il computer cristallizza la piramide di competenze e le prestazioni dei matematici, degli ingegneri, delle signorine calcolatrici, riflettendo le gerarchie sociali e le strutture etiche che ne governano la divisione del lavoro: la macchina non è moralmente meno compromessa del ritratto di Dorian Gray. 

Autonomia, parzialità e fallibilismo

L’ordinamento gerarchico piramidale della cultura industriale si rispecchia nella tecnica di programmazione inaugurata da Babbage, che implementa una struttura di comando verticale in cui l’ingegnere del software definisce tutte le fasi di elaborazione, e i processi le eseguono in modo automatico. La società contemporanea non può essere controllata nello stesso modo, a causa della complessità delle interazioni, e del livello di distribuzione e di autonomia degli agenti coinvolti. I freelance che lavorano con il coordinamento delle imprese della gig economy, come gli autisti di Uber o i rider di Glovo, i creatori di contenuti che pubblicano sui social media, i webmaster che producono le pagine digitali indicizzate da Google, gli attori e i prodotti del mercato finanziario globale, sono alcune espressioni della mereologia tra organicità e frammentazione locale del mondo contemporaneo. I soggetti che lo abitano dispongono sempre di una conoscenza parziale dell’ambiente in cui operano, e sviluppano una comprensione della realtà che è stimata per congettura, con rappresentazioni che devono essere aggiornate o rivoluzionate sulla base dell’esperienza. 

Pur senza approfondire il modo in cui funzionano le intelligenza artificiali costruite con reti neurali, è possibile osservare che, dai primi esperimenti del Perceptron di Frank Rosenblatt nel 1957 alle attuali AI generative trasformative, i principi essenziali rimangono due: ogni unità di calcolo, ogni «neurone», accede ad una quantità di informazione limitata, che può essere persino sbagliata; il software nella sua totalità dispone di una rappresentazione statistica complessiva del fenomeno processato, in cui si bilanciano gli output di ogni «cellula» di calcolo. La natura probabilistica del risultato deriva dall’autonomia delle singole unità di processamento, e dall’adeguamento per tentativi ed errori con cui la macchina interagisce con l’ambiente: se la risposta esterna è negativa, il sistema rimodella la propria configurazione per migliorare l’output. Il secondo passaggio strategico dell’argomentazione di Pasquinelli consiste nella ricostruzione del debito che lega il progetto di Rosenblatt a The Sensory Order (1952) di Friedrich von Hayek. In questo testo l’autore proietta le tesi economiche e sociali del neoliberalismo – di cui è uno dei padri fondatori, insieme a von Mises e a Schumpeter – sul dominio della psicologia connessionista: il modello di apprendimento fondato sui principi di collegamento in rete dei neuroni corrisponde all’autonomia degli individui economici come agenti dotati di conoscenza limitata del mercato, e del sistema sociale come equilibrio tra le rappresentazioni probabilistiche e congetturali dei soggetti. L’assunto di una conoscenza completa delle necessità e delle transazioni sociali non è reputato solo impossibile, ma condannato come moralmente deprecabile. Il ritratto insegna a Dorian Gray non solo cos’è diventato, ma anche che è giusto che sia così.

Pasquinelli riprende il metodo e l’orientamento della scuola del Max Planck Institute di Berlino, con la capacità di rendere perspicuo il radicamento dei paradigmi tecnologici e di quelli scientifici nelle condizioni politiche e sociali in cui hanno visto la luce. Sarebbe stato interessante un approfondimento del modo in cui l’intelligenza artificiale di ultima generazione sta riplasmando l’ambiente materiale in cui è attiva, e la società che la circonda. Se c’è qualcosa di vero nel fatto che nella tecnologia possiamo osservare anche ciò che siamo, oltre a quello che ci abbiamo messo, è perché noi stessi siamo rimodellati dagli artefatti che produciamo: nella tecnica ritrattiamo in continuazione ciò che l’essenza della nostra umanità è stata per i nostri predecessori: eroismo aristocratico, telescopio eidetico, anima immortale, monade rappresentativa, macchina a stati finiti, rete connettiva. E ora?


Scienze sociali in scena: un rapporto fecondo tra sociologie e teatro

«Il teatro è così infinitamente affascinante perché è così casuale. È come la vita…»
(Arthur Miller)

 

Teatro, persona, maschere, ruoli e palcoscenico… Sono da sempre interconnessi. Non è un caso se nel linguaggio comune vi siano molti riferimenti al teatro: «il ruolo di genitore», «le persone hanno molte maschere», «è calato il sipario», e così via.

Anche nelle scienze sociali vi sono molti riferimenti a questa realtà: dal concetto stesso di rappresentazioni sociali, all’approccio drammaturgico dello scienziato sociale Erving Goffman (1945, The Presentation of Self in Everyday Life) che analizza le istituzioni sociali, quelle della vita quotidiana e quelle professionali, come vere e proprie rappresentazioni teatrali, in cui gli individui sono considerati come degli attori e che, a seguito di un periodo variabile e differente di preparazione in un contesto sociale definito retroscena, interpretano pubblicamente dei ruoli, in un altro spazio pubblico, ovvero la ribalta. Anche in un’altra disciplina di grande interesse, si ha un forte richiamo al teatro, ossia l’antropologia teatrale che analizza le interazioni degli individui e/o delle collettività all’interno di una forma di drammatizzazione organizzata. Quindi diventano interessanti i rapporti dell’attore teatrale/sociale con i gesti e le parole portati in scena. Uno degli studiosi più importanti di questa sub-disciplina, Eugenio Barba (1993, La canoa di carta) la definisce come «lo studio del comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive».

A partire da queste premesse (intrecciate sia con il mio bagaglio culturale e di ricerca, che a sua volta interseca antropologia, criminologia e sociologia, che con la mia passione per l’arte, il teatro e il cinema) è nato il progetto di divulgazione scientifica in chiave teatrale, Scienze sociali in scena. 

Gli obiettivi del progetto

Il progetto, dunque, ha diversi obiettivi: innanzitutto quello di trasmettere gli elementi caratterizzanti le scienze sociali di cui mi occupo attraverso il teatro, inteso come uno dei migliori strumenti per acquisire conoscenza; al tempo stesso affrontare i problemi della società contemporanea; ma soprattutto accomunare l’esperienza della ricerca scientifica e il mondo delle arti sceniche attraverso uno scambio reciproco di saperi e di sostegno per la divulgazione scientifica con una impostazione e un linguaggio alla portata di tutti.

Il logo

L’identità di una qualsiasi entità, per affermarsi, necessita innanzitutto di simboli. Proprio per queste ragioni il logo ingloba le tante “dualità” che sottendono questo progetto. Innanzitutto, i colori: il bianco e il nero, come richiamo sia alle zone di luce ed ombra dell’agire umano, ma anche correlati alla contrapposizione tra il retroscena e la ribalta, ma più in generale si riferiscono alle varie forme di ambivalenza che accompagnano l’uomo. I simboli: sulla sinistra sono presenti le classiche maschere che rappresentano il teatro, ma hanno anche un altro significato, ovvero quello proposto da Jung che «prende in prestito il termine dal latino Persōna Persōnam, ovvero la maschera che gli attori solevano indossare durante le rappresentazioni sceniche. La Persona era solo un riflesso dell’immagine del personaggio interpretato dall’attore, ne riprendeva i lineamenti, lo caratterizzava, lo inseriva in un ruolo».  A destra, invece, ritroviamo un network, e quindi una simbologia che richiama l’attitudine umana di entrare in relazione con i suoi simili. 

La strutturazione di Scienze sociali in scena

Il progetto ha una strutturazione particolare. Innanzitutto, si apre con dei video con sottofondo musicale, da me realizzati, perché ho anche l’hobby, seppur del tutto amatoriale, del video editing. Questa fase ha un duplice compito: sia di creare un’atmosfera densa e volta ad attirare l’attenzione, ma al tempo stesso, essere una vera e propria scenografia visuale. Dopodiché inizia la fase teatrale propriamente detta, in cui vengono interpretati passaggi delle mie ricerche, ma anche eventuali personaggi analizzati. Si tratta di un momento essenziale, perché ha il compito di portare lo spettatore “all’interno” della tematica trattata. 

Il passo successivo consiste nella fase intervista al personaggio, il cui scopo consiste nel mostrare come si conduce un’intervista dal punto di vista delle scienze sociali, per far comprendere come sia complicato rimanere, per esempio, avalutativi rispetto a determinate tematiche; ma, al tempo stesso, è utile per dare il via all’ultima fase ossia quella dell’analisi di tutto ciò che è stato portato in scena, con un linguaggio semplice ed accessibile, in modo tale da trasmettere forme di conoscenza utili non solo ai fini dell’evento, ma anche nella vita quotidiana.

Curiosità

Scienze sociali in scena interseca le scienze sociali non solo con la recitazione, ma anche con l’arte. Infatti, un elemento centrale di questo progetto sono sia la realizzazione di fotografie, che la presenza di installazioni artistiche in scena, in linea con la tematica trattata. 

Il progetto [1] è totalmente autonomo e autofinanziato, perché i realizzatori credono che soltanto nell’autonomia si possa erogare un prodotto di ricerca libero da qualsiasi forma di influenza politica, economica, o di altra natura. 

In questo modo, è possibile che si rafforzi la figura del divulgatore teatrale: ossia uno scienziato sociale in grado di trasmettere il proprio sapere, la propria esperienza sul campo, i propri prodotti scientifici nel contesto teatrale. 

Speriamo che questo progetto possa avere una crescente attenzione e impatto in diversi contesti ed ambiti, ricordando sempre che nel grande teatro della vita, cerchiamo sempre le sedie dello stupore, dell'innovazione, della diversità e perché no anche del sano dissidio... Si tratta di sedute quasi sempre libere... Quelle dell'ovvio, invece, sono già tutte occupate.

 

 

NOTE

[1] A questa avventura partecipano: Anna Rotundo (per la fotografia, le installazioni artistiche e, in collaborazione con me, l’adattamento delle mie ricerche in chiave teatrale); Maria Novella Madia (attrice); lo staff tecnico (Rita Rotundo e Arturo Obizzo), l’autore di questo post.
Il progetto è stato inaugurato a Catanzaro, con l’adattamento teatrale del Cannibalismo questioni di genere e serialità, e ha ottenuto un numero elevatissimo di presenze!
Per approfondimenti, si può fare riferimento alle pagine Facebook e Instagram.
Sono già in fase di programmazione altri eventi sotto l’effige di Scienze sociali in scena.


Perché il progetto di un’Unione Europea è fallito - Un'analisi socio-linguistica

Tra qualche giorno, metà di noi si appresterà ad andare a votare per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Metà perché, nella tornata precedente, non andò a votare il 49% degli aventi diritto, con rilevanti differenze tra i singoli Stati che compongono l’Unione Europea: la palma d’oro (si fa per dire) dell’astensionismo andò alla Slovacchia (75%); l’Italia si collocò poco sotto la media europea (45%); il più “virtuoso” il Belgio (11%). E per questa tornata i sondaggi danno l’astensionismo in aumento.

Le politologhe, nel corso degli anni, hanno indicato diverse cause. Prima fra tutte, la “crisi della rappresentanza”. Per cui l’astensionismo alle elezioni europee è in linea con una tendenza più generale, che tocca anche gli Stati nazionali, le elezioni regionali e locali.

Ma c’è anche un’altra ragione. Più profonda. E l’averla trascurata sin dall’inizio ha decretato il fallimento dell’intero progetto dell’Unione Europea. Tracollo che nessun curatore fallimentare ha ancora certificato, ma che (a me) pare evidente nelle pratiche dei singoli Stati e dei partiti presenti in essi.

Non sono un politologo o un sociologo politico. Per cui le mie riflessioni non nascono da quelle competenze (che non ho) ma da un’analisi socio-linguistica (approccio che insegno nei miei corsi).

Le grandi potenze

L’Unione Europea aspira ad essere una grande potenza, al pari degli USA, Cina, Russia. Altre nuove (potenziali) grandi potenze si stanno affacciando: Brasile, India, e forse Mondo Arabo.
Cos’hanno in comune queste grandi potenze che l’Unione Europea non ha? Una lingua comune.
In questi Paesi, le persone possono (potenzialmente) intendersi perché (quasi) tutte parlano l’inglese, il cinese, il russo, il portoghese, l’hindi e l’arabo moderno standard (che non è mai madrelingua di nessuna arabofona, ma il suo apprendimento avviene seriamente nella scuola). In India, paese con una grandissima diversità culturale, pur avendo ventuno lingue a livello dei singoli stati federati, ha sempre la possibilità di usare l’hindi oppure l’inglese (come lingua ufficiale sussidiaria).
Senza una lingua comune non può esistere a lungo uno Stato o una Confederazione. Si dissolverà a breve.
Ci sono ovviamente delle (piccole) eccezioni: la Svizzera non ha una lingua comune; tuttavia, quando due svizzere si incontrano parlano in francese oppure in tedesco (lingue che hanno imparato seriamente a scuola).

Una lingua comune

Nella (breve) storia dell’Unione Europea non ci sono mai stati tentativi seri di dotare questa federazione di una lingua comune. I tentativi seri sono andati in altre direzioni: legislative (leggi comuni), economiche (mercato comune), politiche (parlamento europeo). Per cui si è ritenuto (in modo miope) più importante costruire una moneta comune (l’euro) piuttosto che una lingua comune. Decisioni guidate da un pensiero solo razionale, che si scontra con le caratteristiche delle culture.
A suo tempo, le decisore politiche avevano davanti a sé almeno due strade per costruire una lingua comune: puntare su una lingua pianificata (l’esperanto) oppure adottare una lingua commerciale (l’inglese).

La prima, sviluppata tra il 1872 e il 1887 dal medico e linguista polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, aveva “lo scopo di far dialogare i diversi popoli cercando di creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice, ma espressiva, appartenente all'umanità e non a un popolo. Un effetto di ciò sarebbe stato quello di proteggere gli idiomi "minori", altrimenti condannati all'estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti. Per questo motivo l'esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la democrazia linguistica (…) Dopo rapida espansione del movimento esperantista in molti Paesi, esso subì vari duri colpi nel corso della Prima guerra mondiale, ma soprattutto nella Seconda guerra mondiale a causa di Hitler, che riteneva l'esperanto la lingua degli ebrei (Zamenhof era ebreo), ma anche nella Russia di Stalin (e più recentemente, nell'Iraq di Saddam Hussein). Nel secondo dopoguerra (eccetto dove gli esperantisti erano ancora perseguitati) il movimento riprese vigore, ma subendo la forza a livello internazionale del francese prima e soprattutto dell'inglese poi, data la forza e l'influenza degli Stati Uniti d'America sulla scena internazionale”.
Oggi l’esperanto, nonostante i tanti proclami e risoluzioni dell’UNESCO, non sembra aver nessuna possibilità.

A questo punto, potrebbe essere l’inglese ad assumere il ruolo di lingua unificante.
Tuttavia, nell’Unione Europea solo il 10-20% parla l’inglese in modo fluente (requisito necessario per intendersi reciprocamente) e per lo più sono persone altamente scolarizzate.
Se l’Unione Europea facesse ora un investimento serio scolasticamente, forse tra 50 anni avremmo una federazione con una lingua comune, come le grandi potenze. Ma a parte il fatto che, con la velocità dei cambiamenti attuali, è inimmaginabile un tempo di attesa così lungo, ci sono molte forze che remano contro questo progetto (che comunque sarebbe discutibile, dal sapore neo-coloniale): le popolazioni degli Stati membri (in primis francesi e italiane) non sono così innamorate di questa lingua, anzi sono abbastanza restie ad impararla; inoltre, lo stato membro (UK) in cui l’inglese è madrelingua ha da poco… abbandonato l’Unione. Una beffa.

Le conseguenza dell'assenza di una lingua comune

La mancanza di una lingua comune, la base principale su cui intavolare una discussione, uno scambio di idee, una comprensione reciproca, rinforza le identità nazionali. E, a cascata, produce tante conseguenze nefaste. Che sono un po’ sotto l’occhio di tutte:

  • 3 parlamenti (Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo) al posto di 1 solo;
  • la possibilità di veto da parte di uno stato membro (e come se la Florida avesse potere di veto alle decisioni internazionali degli US);
  • nessuna politica estera comune su conflitti come (ad esempio) Libia, Bielorussia, Grecia-Turchia, Israele-Palestina; ad eccezione (chissà per quanto?) dell’Ucraina-Russia). In quei conflitti gli Stati membri appoggiano contendenti diversi, a tal punto che pochi giorni fa Spagna e Irlanda hanno riconosciuto lo Stato della Palestina (l’avrebbe fatto la Florida?);
  • nessuna politica militare comune (ogni Stato dell’UE si arma e vende armi per conto proprio);
  • nessuna politica fiscale comune (regimi fiscali diversi a Malta, Irlanda, Paesi Bassi… — questo, a onor del vero, avviene anche negli US);
  • nessuna politica commerciale comune (ogni Stato UE compete con gli altri per vendere i propri prodotti e stipula contratti commerciali in modo indipendente);
  • ecc.

Per cui l’Unione Europea, come progetto culturale, è fallita.
Rimane il progetto economico, legislativo e politico. Ma senza una lingua comune sarà sempre in affanno e non potrà competere con le altre grandi potenze.

Io comunque, a scanso di equivoci, andrò a votare.

P.S. Ho usato il femminile sovraesteso, “per vedere l’effetto che fa”.