Il contagio corre su internet - Malattie social-media-mente trasmissibili

Melanconie

Secondo Agamben (1979) non si sono mai aggirati per l’Europa tanti fantasmi come nel Medioevo. Il problema non è da ricondurre alle superstizioni del periodo, ma alle regioni più elevate della scienza del periodo Scolastico: alla fantasia e ai suoi prodotti, i fantasmi, spetta un ruolo centrale nella teoria della conoscenza. Sono immagini quelle che i sensi catturano dalla realtà, ma è compito della fantasia trattenerle e svilupparle nel sistema di specchi che in cui si articola la parte più spirituale della razionalità – quella speculativa. Il Medioevo era, quindi, più ossessionato dall’immagine di quanto lo sia la nostra epoca; ha anche elaborato una riflessione raffinata sull’ossessione, tanto che la nozione stessa di «idea fissa» è in debito con le concezioni medievali della «melanconia», e con il potere degli spiriti intermedi (o dei demoni) di imprimere un’immagine nella fantasia senza permetterle di focalizzare più alcun’altra figura. Il suo oggetto non esiste, ma questa evidenza non le impedisce di sbarrare la strada verso la propria realizzazione, che è l’imitazione di Cristo, e di riconoscere la vera felicità, che è Dio.

Le fibre dell’isolamento

Il testo di Leslie Jamison - Esami di empatia - mostra che, in età contemporanea, le immagini continuano a fissarsi nello stesso modo, con la sola differenza che l’agente non è più un demone ma Internet, e il gioco degli specchi coinvolge anche gli altri soggetti che condividono la stessa monomania, e che con la loro approvazione rendono l’ossessione abitabile, oggettiva, invalicabile, meglio di quanto potessero fare i vecchi spiriti.

Tra i fantasmi descritti da Jamison, due evidenziano meglio il carattere autodistruttivo dell’ossessione: due malattie che contagiano in prevalenza le donne, due epidemie che hanno cominciato a espandersi dopo il 2001 e che hanno trovato nei canali di Internet il veicolo principale, anche se con due destini del tutto diversi.

La prima delle due è stata tenuta a battesimo su un forum online da Mary Leitao, una biologa tecnica di laboratorio, che l’ha etichettata «morbo di Morgellons», sulla base dei sintomi censiti in una rivista medica francese del Seicento. Una dermatite che può originare anche dolore e irritazioni, e che costringe il paziente a grattarsi fino all’escoriazione, è l’anamnesi della malattia di cui soffre anche il figlio della Leitao, e che nessun medico è riuscito a ridurre ad una diagnosi convincente. Nelle piaghe provocate dagli strofinamenti per lenire il prurito, come aveva pronosticato Thomas Brown mentre esaminava i ragazzi (i «Morgellons») della regione di Languedoc, la biologa ha rintracciato fibre sottili e granelli scuri. A questi corpi estranei si dovrebbe imputare l’infezione e il dispiegamento dell’intera collezione di sofferenze connesse; ma la rivelazione che la filologia ha consegnato alla Leitao è rimasta una scoperta malinconica, una verità ripudiata e stigmatizzata come eresia dalla comunità medica. Secondo la scienza istituzionale le cause del morbo risalgono ad una sindrome di «Münchausen by proxy», una reazione auto-immune ipertrofica indotta da paranoie di vario genere, insieme al bisogno di ottenere attenzioni.

Dalla metà degli anni Duemila la Fondazione Charles Holman convoca una volta all’anno ad Austin, nella Chiesa di Westoak, i pazienti di Morgellons che si sentono traditi dalla medicina ufficiale, per sviluppare colloqui tra malati e ricercatori. Quando Jamison ha partecipato all’evento nel 2012 ha incontrato persone con un’immagine di sé stesse del tutto distorta – ma adeguata all’isolamento sociale cui sono consegnate dalla loro condizione economica, lavorativa, famigliare. La malinconia che opprime queste conversazioni – interviste, o saggi di empatia – riesce a far coincidere i confini del concetto medievale con la nostra nozione di prostrazione emotiva. Le pazienti, anche quelle che a giudizio della giornalista godono di un aspetto attraente, si percepiscono sfigurate dalle macchie e dalle piaghe della dermatite, e accettano la conseguenza di consegnarsi ad un destino di clausura, il cui unico contenuto è l’ispezione delle proprie ulcere, alla ricerca di filamenti e di micro-frammenti scuri. Al convegno di Austin i «morgi» ritrovano un’identità nel nome proscritto del loro morbo, nella censura che è ad un tempo dannazione e salvezza della loro comunità. Il riconoscimento reciproco si ferma a questa assenza o a questo esilio, e la compresenza nella Chiesa di Westoak è una giustapposizione di solitudini che non si parlano, separate dalla varietà dei sintomi e delle convinzioni sulla natura del contagio, ma soprattutto dall’introversione dell’autoesame, dall’ossessione per gli specchi e le lenti di ingrandimento.

La sindrome dell’influencer

Decine, se non centinaia di migliaia di Morgellons sono stati curati dai medici con una combinazione di antinfiammatori e di ansiolitici: alcuni si sono fatti guidare dalla terapia e sono guariti, altri sono rimasti imprigionati dalla sindrome. Una sorte del tutto differente è toccata all’altra malattia, che nelle pagine della Jamison è ancora senza un nome ufficiale: la vulvodinia non è una sindrome per diseredati, ed è stata sostenuta dalla testimonianza di numerose influencer sui social media. La legge presentata nel 2022 In Italia al Senato vantava come ambassador Giorgia Soleri, influencer su TikTok e – a quel tempo – fidanzata di Damiano dei Måneskin. Sui media istituzionali le pazienti vengono contate con percentuali di vaste proporzioni (10%-15% di tutte le donne), senza mai citare la fonte del dato: denunciano una sofferenza nell’area genitale, per la quale i medici non riescono a risalire ad una causa fisiologica univoca.  In questo caso però le testimoni sono di riguardo, e come ricostruisce Fontana (2024), qualunque contestazione della loro posizione viene stigmatizzata come un rigurgito di patriarcato che ancora scuote l’inconscio della comunità scientifica. Gli influencer non possono essere accusati di Schwärmerei, la possessione fanatica che Lutero imputava ai contadini ribelli di Melantone (sostenitori della Riforma luterana ma antagonisti dell’aristocrazia feudale con cui Lutero aveva stretto un’alleanza politica), e che i medici rintracciano nei Morgellons: non li si può accusare di non essere padroni della loro parola, di essere solo il veicolo della voce dei demoni che li abitano. Quindi l’OMS ha riconosciuto la formazione di questa nuova identità morbosa, e della comunità di cittadini che ne soffre, e l’ha iscritta nell’ICD-11, con il nome in cui si riconoscono i suoi pazienti.

Il potere di dire la verità

La comunità scientifica è incompatibile con i Morgellons ma compatisce la vulvodinia. Nel primo caso occorre liberare l’anima da un demone, che assoggetta gli individui a immagini capaci di fissare un discorso eretico nella mente, e di trasformare il corpo nel teatro che lo mette in scena. Nel secondo caso i pazienti sono peer reviewer di un discorso scientifico che, attraverso la diagnosi della malattia, contribuisce a liberare l’identità femminile (e l’intera società, che nella soggettività femminile trova la sua espressione più avanzata) dai pregiudizi riemergenti del patriarcato. Jamison presenta una galleria di saggi di empatia, in cui tenta di restituire a questo termine un contenuto sperimentale, una comprensione dell’altro attraverso l’adesione alla sua identità, la partecipazione alle condizioni che imprimono sulla sua vita la forma della sua individualità, con una pressione che è passione e patologia. Nelle sue pagine la vulvodinia si afferma come il dolore che la tradizione occidentale incide nel corpo delle donne nell’assegnarle al genere femminile: una forma di potere di coesione sociale che è congruente e accessibile al regime classificatorio del potere di veridizione da parte della comunità scientifica. I Morgellons sono l’espressione di un’esclusione, l’introiezione di un esilio sociale che li isola anche l’uno dall’altro: un esercizio congruente con la pratica del potere scientifico di rimuovere ciò che non deve appartenere alla tassonomia dell’oggettività, di rigettare la soggettività chi non ha abbastanza forza per partecipare alla peer reviewing

O forse la vulvodinia è uno degli ultimi compromessi che le comunità di internet cercano di stabilire con le procedure e gli attori delle istituzioni tradizionali, in attesa che le identità modellate online non abbiano più bisogno di altro credito se non l’autonomia della propria fondazione per abitare il proprio mondo, sovrapposto e incompatibile, anempatico, con quelli posseduti dagli altri.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Agamben, Giorgio, Stanze, Einaudi, Torino 1979.

Fontana, Laura, Il complesso mondo delle malattie “Internet-based”, «Link», 19 febbraio 2024.

Jamison, Leslie, The Empathy Exams, Graywolf Press, Minneapolis 2021.


La costruzione sociale della bicicletta - Ovvero, le tecnologie non sono neutrali

Figura 1: “ordinary bicycle”. “Ariel” di J. Starley e W. Hillman, brevettata nel 1870 (Bijker 1995, p.31)

Provate ad immaginare una di quelle volte in cui avete deciso di fare un giro in bicicletta, magari in una bella giornata di primavera. Dopo esservi preparati e aver preso quello che vi serve, entrate finalmente in garage per prendere la bici ed uscire. Tuttavia, invece di trovare la bici che usate di solito trovate una di quelle bici con la ruota anteriore molto grande (figura 1) e diffuse alla fine dell’Ottocento. Pensate ad un mondo in cui tutto è uguale ad oggi, ma invece che utilizzare la bici moderna tutti usano queste bici. Partire da questa immagine strampalata e apparentemente senza senso permette di porre in rilievo una questione: le cose potrebbero essere andate diversamente da come le conosciamo? Oggi potremmo avere una bici diversa da quella che ci risulta apparentemente come normale? Infatti, come vedremo, “non c’è un solo modo possibile o un solo modo migliore di progettare un artefatto” (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p.40 trad. mia), come nel caso della bici. È da questi interrogativi che parte anche l’approccio SCOT (Social Construction of Technology) allo studio della tecnologia, e attraverso cui Wiebe Bijker (1995) ricostruisce la traiettoria di sviluppo che ha portato alla bici moderna.

 

Figura 2: célerifère nel 1791, poi in seguito vélocifère nel 1793 (Bijker 1995, p. 22)
Figura 3: il vélocipède costruito da Pierre Michaux nel 1865 (Bijker 1995, p.27)

Un primo prototipo risale ad un disegno del 1493, attribuibile a Leonardo Da Vinci, in cui viene rappresentato un biciclo con due ruote delle stesse dimensioni, pedali e manubrio. Dunque, Bijker (ibidem) si chiede: perché si è dovuto aspettare fino al XIX secolo per l’affermazione della bici moderna? Questo mostra come per avere un’innovazione tecnologica non basta che ci sia un inventore isolato dal mondo e con una buona idea (Magaudda e Neresini 2020). Infatti, si è dovuto attendere fino al Settecento per la costruzione del primo célerifère (figura 2), un biciclo con una struttura di legno e due ruote della stesse dimensioni, e senza la possibilità di sterzo. Per spostarsi era necessario spingere a terra con i piedi, il più della volte infangandosi. Per questo motivo, iniziarono ad emergere una serie di varianti, tra le quali ebbe particolare successo il vélocipède (figura 3): aveva una struttura di ferro, il manubrio, la sella e i pedali regolabili. In questo caso, i problemi erano principalmente legati alle troppe vibrazioni e allo slittamento laterale del mezzo. In seguito, con l’ordinary bicycle (figura 1) venne introdotta una posizione di guida rialzata sopra la grande ruota anteriore, la quale permise di attenuare i colpi e di non infangarsi, evitando il contatto diretto con il terreno. Inoltre, questo biciclo fu reso più leggero con l’impiego di raggi di filo metallico per la struttura delle ruote.

L’ordinary bicycle fu pubblicizzata dai suoi ideatori attraverso un’impresa ciclistica in cui venne percorsa la tratta che va da Londra a Coventry in un solo giorno. Questo evento contribuì alla costruzione dell’immagine della bici a ruota alta come mezzo sportivo, veloce ed efficiente. Non a caso, in un primo momento i principali utilizzatori di questo biciclo furono i “giovani atletici e danarosi” (Bijker 1995), per i quali era un mezzo sportivo per andare veloce e per manifestare la propria virilità e machismo. Infatti, viste le grandi dimensioni, l’ordinary bicycle richiedeva una serie di doti fisiche e atletiche per essere utilizzata, non era un mezzo sicuro e accessibile a tutti.

Se da un lato i giovani atletici erano i principali utilizzatori dell’ordinary, dall’altro lato, diversi individui rimanevano esclusi dalla possibilità d’impiego del biciclo, per cui si può parlare anche di una serie di gruppi di non-utilizzatori. Nello specifico, per le persone anziane e per chi non aveva una certa prestanza fisica l’ordinary non era un mezzo sicuro con cui potersi muovere: c’era un forte rischio di cadute ed infortuni. Inoltre, veniva escluso dall’utilizzo del biciclo anche chi non aveva la disponibilità economica per acquistarlo. Infine, alle donne non era consentito utilizzare questo mezzo perché entrava in netto contrasto con i codici di abbigliamento femminile dell’epoca. In relazione a ciò, in quel periodo si sviluppò la Rational Dress Society, una società di donne che rivendicava il diritto di vestirsi in maniera più libera evitando corsetti, tacchi e gonne pesanti, in modo da poter accedere anche all’utilizzo della bici.

Figura 4: il modello “Ariel” da donna progettato da J. Starley e W. Hillman nel 1874, con pedalata laterale (Bijker 1995, p.44)

Se da un lato i giovani atletici erano i principali utilizzatori dell’ordinary, dall’altro lato, diversi individui rimanevano esclusi dalla possibilità d’impiego del biciclo, per cui si può parlare anche di una serie di gruppi di non-utilizzatori. Nello specifico, per le persone anziane e per chi non aveva una certa prestanza fisica l’ordinary non era un mezzo sicuro con cui potersi muovere: c’era un forte rischio di cadute ed infortuni. Inoltre, veniva escluso dall’utilizzo del biciclo anche chi non aveva la disponibilità economica per acquistarlo. Infine, alle donne non era consentito utilizzare questo mezzo perché entrava in netto contrasto con i codici di abbigliamento femminile dell’epoca. In relazione a ciò, in quel periodo si sviluppò la Rational Dress Society, una società di donne che rivendicava il diritto di vestirsi in maniera più libera evitando corsetti, tacchi e gonne pesanti, in modo da poter accedere anche all’utilizzo della bici.

Come sottolinea Bijker (1995), questa prima fase di sviluppo della bicicletta si caratterizzata per la presenza di diversi “gruppi sociali rilevanti” (giovani atletici e danarosi, donne, anziani); ovvero, gruppi di attori che condividono al loro interno la medesima interpretazione di un artefatto tecnologico come la bici. In tal senso, si parla di una “flessibilità interpretativa” tra i vari gruppi: se per i giovani atletici l’ordinary è un mezzo sportivo e virile, per il gruppo degli anziani rappresenta qualcosa di poco sicuro, mentre, per il gruppo delle donne diventa un campo di rivendicazione dei diritti alla libertà di abbigliamento e all’utilizzo della bici. Queste diverse interpretazioni riguardano una serie di problemi e soluzioni che vengono poste dai vari gruppi rispetto al funzionamento di un particolare artefatto tecnologico e che lo rendono utilizzabile. Va precisato che questa flessibilità non riguarda solo il “modo in cui le persone pensano o interpretano gli artefatti, ma anche la flessibilità nel modo in cui gli artefatti sono progettati” (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 40 trad. mia). Dunque, è in relazione alle interpretazioni dei diversi gruppi social che prendono materialmente forma differenti modelli di bici. Ad esempio, per rispondere al problema del codice di abbigliamento femminile vennero sviluppate delle bici con la pedalata laterale (figura 4); mentre, per rispondere al problema della sicurezza vennero progettati modelli come la Lawson bicycle (figura 6) e la xtraordinary (figura 5), delle varianti della Ordinary in cui venne ridotta la grandezza della ruota anteriore e la trazione venne spostata sulla ruota posteriore. In questo senso, si vede bene come la tecnologia incorpori una serie di aspettative sociali da parte di chi la progetta e, al contempo, essa contribuisca a stabilizzare e dare forma alle relazioni tra i vari gruppi di utilizzatori.

 

Figura 5: xtraordinary bicycle del 1878 (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 43).
Figura 6: Lawson bicycle del 1879 (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 39).

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 7: Safety bicycle del 1886 (Bijker 1995, p. 91).

Quindi, com’è stato poi possibile passare da questa molteplicità e varietà di bicicli differenti a quella che noi riteniamo essere la bici moderna? Per Bijker (1995) la risposta è da trovare nello pneumatico ad aria. Quest’ultimo inizialmente era visto come qualcosa di esteticamente ridicolo e poco funzionale. Tuttavia, la situazione cambiò nel maggio del 1889, quando il ciclista W. Hume vinse una gara dimostrando la validità degli pneumatici ad aria e della Safety bicycle (figura 7). È in questo momento che per Bijker (ibidem) c’è il momento di “stabilizzazione e chiusura” nella traiettoria di sviluppo tecnologico della bici: c’è una soluzione tecnica che permette di far convergere le interpretazioni dei vari gruppi sociali, rispondendo ai diversi problemi che essi pongono. In questo senso, la safety bicycle permette di rispondere sia alla necessità di andare veloce del gruppo dei giovani atletici, sia all’esigenza di una certa guida in sicurezza da parte di persone anziane e meno prestanti fisicamente, inoltre, permette un allineamento dei codici di abbigliamento femminile con l’utilizzo della bicicletta. Con la fase di stabilizzazione e chiusura la bici diventa quello che gli STS (Science and Technology Studies) definiscono una “scatola nera”; ovvero, una tecnologia pronta all’uso, disponibile per essere impiegata e che non è necessario problematizzare ulteriormente. Per questa ragione, quando ci riferiamo alla bicicletta nella vita di tutti i giorni non dobbiamo specificare che ha due ruote della stessa misura, i pedali, il manubrio, la catena; questi sono degli elementi che assumiamo come certi.

Da questa storia può essere fatto emergere quello che è il modello analitico dell’approccio SCOT per guardare allo sviluppo e all’innovazione tecnologica, il quale si articola principalmente in tre fasi (Bijker, Hughes e Pinch 1987; Bijker 1995): inizialmente c’è una “flessibilità interpretativa” di quelli che possono essere particolari dispositivi tecnologici, i quali vengono progettati con forme e caratteristiche diverse per rispondere ai problemi posti dai vari gruppi sociali; in una seconda fase avviene la “chiusura interpretativa”, l’artefatto tecnologico e le interpretazioni dei gruppi si stabilizzano arrivando a convergere tra loro; infine, questa chiusura va ricollegata e spiegata in un contesto sociale più ampio.

In conclusione, riprendendo gli interrogativi da cui siamo partiti, le cose potrebbero essere andate effettivamente in modo diverso? Gli STS, e in particolare l’approccio SCOT, ci insegnano che la traiettoria dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico è qualcosa di aperto, incerto, e non deciso a priori. Come nel caso della bici, le tecnologie vengono progettate in relazione alle aspettative dei gruppi sociali e, al contempo, contribuiscono a dare forma alle stesse relazioni tra gruppi e individui. In altri termini, tecnologia e società co-evolvono e si danno forma a vicenda in un tessuto unico e senza cuciture, un saemless web (Bijker 1995). Per questa ragione, il percorso che porta all’affermazione di una tecnologia non è qualcosa di lineare e già scritto: non è sufficiente che ci sia un inventore o una scoperta scientifica per sviluppare automaticamente una tecnologia più sofisticata, la quale finirebbe per impattare sulla vita quotidiana delle persone. In tal senso, le tecnologie che si affermano non sono quelle “più efficienti” o che “funzionano meglio”, ma quelle che si configurano come tali in particolari contesti d’uso. Per questa ragione, la bici moderna non si è affermata perché era la migliore da un punto di vista tecnico e di costruzione rispetto alle concorrenti, ma perché ha permesso di far convergere le interpretazioni dei vari gruppi sociali rispondendo ai loro problemi d’uso. Questo discorso può essere esteso per l’analisi di altre tecnologie e mostra come il processo di sviluppo tecnologico sia un processo non lineare e mai dato per scontato, in cui gruppi di attori e artefatti tecnologici si costruiscono reciprocamente.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bijker, W. E. (1995). Of Bicycles, Bakelites, and Bulbs. Toward a Theory of Sociotechnical Change. The MIT Press.

Bijker, W. E., Hughes, T. P., Pinch, T. J. (1987). The social Construction of Technological Systems. New Directions in the Sociology and History of Technology. The MIT Press.

Magaudda, P., Neresini, F. (2020). Gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia. Il Mulino.

 


Quando è nata la Scienza? - Dall'antica Grecia all'epoca dei lumi

Fino a qualche decennio fa, quando la scienza era considerata un corpus di idee sul mondo naturale, i suoi albori venivano collocati nel contesto del pensiero filosofico della Grecia Antica (Popper 1972). È ragionevole? Vediamo.

Partendo da Platone…

Platone nel Teeteto usa il termine epistêmê con il significato (ampio) di conoscenza: epistêmê non sarebbe altro che sensazione (151 E). Un concetto quindi non sovrapponibile all’attuale concetto di scienza, solitamente esibito come alternativo alla (semplice) conoscenza. Infatti, nel Teeteto la conoscenza scientifica sarebbe una specie particolare della conoscenza più generale, non una conoscenza alternativa. Per cui non sarebbe corretto tradurre epistêmê con ‘scienza’.

Invece, alla fine del Libro VI della Repubblica, nella celebre immagine della linea divisa (509 D-511 E), Platone parla di due tipi di conoscenza: chiara (saphenêia) e oscura/indeterminata (asapheia). Per Platone, però, ‘chiara’ non vuol dire ‘certa’. La conoscenza chiara pertiene al mondo intellettuale (anima); quella oscura deriva dai sensi e riguarda il mondo sensibile. Per Platone abbiamo sapere o scienza solo nel mondo intellettuale, non di quello sensibile perché le osservazioni empiriche non aggiungono nulla alla conoscenza piena (o conoscenza in senso stretto). Viene così introdotta una distinzione netta tra ‘epistêmê’ (che diviene la conoscenza chiara, basata sulla logica, che sta in piedi da sola, da epi + istemi) e doxa (le credenze, che possono essere dogmatiche perché poggianti sull’autorità, oppure basate sulle opinioni, sia vere che false, credibili o meno). Infine, Platone distingue anche due tipi diversi di ‘epistêmê’ o conoscenza chiara: quella (come la matematica e la geometria) che si sviluppa a partire da ipotesi e deduce attenendosi alle conseguenze che ne derivano; e quella (la dialettica) che si interroga e spiega anche i fondamenti delle ipotesi stesse. Per cui, anche se le scienze matematiche sono epistemai, tuttavia solo la dialettica è in grado di raggiungere la conoscenza piena, perché si interroga sulle ipotesi di partenza.

Aristotele: un passo avanti…

Aristotele, nel libro Analitici Secondi (II 2, 71b9-15), compie un ulteriore passo, sviluppando una teoria della "conoscenza scientifica", che chiama… epistêmê. Questo diverso significato della parola epistêmê l’avvicinerebbe maggiormente al concetto di scienza. In questo testo, Aristotele sostiene che abbiamo episteme (cioè, conoscenza scientifica) di X quando si danno le seguenti condizioni: conosciamo Y, sappiamo che Y è la ragione/causa (aitìa) di X, e questa relazione tra X e Y è necessaria. Per Aristotele epistêmê implica quindi dare spiegazioni, trovare le cause/ragioni. Necessità e spiegazione causale sono i due ingredienti fondamentali della conoscenza scientifica, che è una forma molto precisa di conoscenza.
Per cui la nostra domanda iniziale (quando è nata la scienza?) sembrerebbe trovare risposta nella proposta di Popper. Ma non è così.

Dal Medioevo al 1600

La tradizione latina medievale ha poi tradotto epistêmê in ‘scientia’. In questo senso c’è una dipendenza diretta tra il testo degli Analitici Secondi e l’epistemologia medievale. Tuttavia, il termine ‘scientia’ significava solo conoscenza, sapere, notizia; almeno fino al XVII secolo. Ciò non di meno, il termine ‘scientia’ ha significato cose molto diverse in epoche diverse e culture diverse. Perciò le cose si complicano nuovamente.
Infatti, a quel tempo, lo studio della natura cadeva invece sotto l'espressione "filosofia naturale". Essa comprendeva al suo interno tutti quei campi di ricerca che noi oggi chiamiamo geologia, astronomia, chimica, ottica, biologia e botanica, ma anche la filosofia e la teologia. Inoltre, a differenza della scienza contemporanea, la filosofia naturale non si basava sulla sperimentazione (ritenuta invece successivamente l’elemento centrale della scienza), ma sulla speculazione intellettuale e la tradizione. Infine, tutti coloro che investigavano la natura si identificavano comunemente con l'espressione "filosofo naturale".
Il "metodo scientifico" - sperimentale e quantitativo - che diede origine alla scienza sperimentale, venne sistematizzato solo tra il XVI e XVII secolo, durante il periodo della cosiddetta Rivoluzione Scientifica. Secondo alcuni (per esempio Whitehead 1920) il merito di questo cambiamento andrebbe attribuito a poche illustri figure come quella di Francis Bacon o Galileo Galilei; secondo altri, invece, il processo di formalizzazione del metodo scientifico richiese ancora diversi decenni e il contributo di molte scoperte in molti campi differenti, dall'astronomia alla geologia.

Il padre di tutti i fraintendimenti: l’essenzialismo

Entrambe le prospettive, però, partono da un presupposto essenzialista, cioè che possano essere identificate delle caratteristiche costitutive della scienza come categoria di pensiero, e che queste rimangano immutate nel tempo. Tuttavia, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, la scienza non ha caratteristiche fisse e immutabili ma, in quanto istituzione, essa coincide con la comunità che ne riproduce le convenzioni e così facendo la pone in essere. Se così non fosse non si potrebbero spiegare molte figure ‘ibride’, se viste con gli occhi di oggi: ad esempio Newton, da alcuni considerato il fondatore della fisica classica e la figura con la quale la rivoluzione scientifica raggiunse il culmine, non solo intitolò la sua opera più celebre Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (1687) (e non utilizzò quindi la parola “scienza”) ma benché oggi poco ricordato, scrisse copiosamente anche di teologia, occultismo e soprattutto di alchimia.
Invece il termine ‘scienziato’ (scientist) è stato introdotto solo nel primo Ottocento. Tant’è che personaggi come Galileo o Newton erano ancora chiamati ‘filosofi naturali’ (natural philosophers). Il termine ‘scienziato’ fu coniato per la prima volta dallo studioso inglese William Whewell nel 1834, in una sua recensione all’opera di Mary Somerville On the Connexion of the Physical Sciences. Ma la diffusione di questo termine non fu immediata. Infatti, il britannico Lord Kelvin (1824-1907), più di tre decenni dopo, nel 1867, intitolava ancora la propria opera Trattato sulla Filosofia Naturale.
Infine, il termine platonico epistêmê non ha avuto fortuna nei secoli ed è stato reintrodotto come ‘epistemologia’ soltanto a metà dell’Ottocento, a opera dello studioso scozzese James Frederick Ferrier nel suo libro Institutes of Metaphysics (1854), con il significato (però) di teoria della conoscenza (che oggi chiameremmo gnoseologia). Peraltro, il termine epistemologia ha oggi significati un po’ diversi nei paesi anglosassoni e nell’Europa continentale.

Concludendo…

Come si può vedere, da questa breve disamina, la domanda iniziale è destinata a rimanere inevasa.
Se invece adottiamo la strategia costruttivista del boundary work, possiamo dire che la scienza, in quanto istituzione, nasce quando comincia a venire riconosciuta come un campo a sé stante, distinto, e quando gli scienziati cominciano a identificarsi come tali e quindi a rivendicare autorità a partire dalla categoria di scienza. A questo si aggiunga il fatto che oggi si tende a privilegiare una diversa prospettiva, che considera la scienza come un insieme di pratiche (anziché di idee). Per cui le attività dei filosofi della Grecia Antica, così lontane dalle pratiche scientifiche odierne, non sarebbero rubricabili sotto il concetto di ‘scienza’ (Bowler e Morus 2005). L'istituzione della scienza moderna viene invece fatta coincidere con l'emergere di una certa organizzazione istituzionale, di pratiche, di strumenti. In base a questa diversa prospettiva, la scienza avrebbe inizio all'epoca dei lumi, quando il metodo scientifico venne sistematizzato e la scienza istituzionalizzata in organizzazioni come l’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma (1603), l’Academie des Sciences di Parigi (1666), La Real Academia de Ciencias y Artes di Barcellona (1764), la Royal Society di Londra (1768) o l’Academia das Ciências di Lisbona (1779).

 

NOTE

Articolo tratto da: Gobo, G. e Marcheselli, V. (2021), Sociologia della scienza e della tecnologia, Roma: Carocci, pp. 149-151.

 

BIBLIOGRAFIA

Bowler P. J. e Rhys Morus I. (2005), Making Modern Science. A Historical Survey, University of Chicago Press, Chicago, London.

Popper, K. (1972), Objective Knowledge: An Evolutionary Approach, Oxford University Press, New York (trad. it. Conoscenza Oggettiva, Armando Editore, Roma 1972).

Whitehead A. N. (1920), The Concept of Nature, Cambridge University Press, Cambridge.