La fine del futuro - I.A. e potere di predizione

1. Terapie del discorso

«La predizione è difficile, specie se riguarda il futuro», è un’arguzia attribuita al fisico Niels Bohr, ad altri fisici, ma anche a letterati come Mark Twain. La riflessione che Gerd Gigerenzer elabora nel libro Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi riguarda l’efficacia dei sistemi di intelligenza artificiale e i costi sociali che siamo disposti a sostenere per svilupparli e utilizzarli. Questo compito si traduce in due strategie di terapia del pensiero: una è rivolta al modo in cui percepiamo i risultati dei software, l’altra alla comprensione delle policy dell’infosfera, al fine di comprendere i modi e i fini della razzia di dati personali che alimenta le banche dati delle AI. 

Il titolo del saggio sembra suggerire che sia in corso un’aggressione, o almeno una sfida, da parte delle macchine. Lo sviluppo dell’argomentazione invece non segue questa traccia, perché sotto la lente dell’analisi finiscono le promesse del marketing (e le attese del pubblico) sulle potenzialità dei software, senza che a questi venga attribuita alcuna intenzione di competizione: unici protagonisti sono i discorsi che gli uomini si scambiano sui dispositivi digitali. Gli interventi di terapia sono condotti anzitutto sul nostro linguaggio e sull’archivio di enunciati con cui vengono descritti i servizi digitali: si sarebbe potuto scegliere come titolo del libro Perché si può sempre tentare di curare l’intelligenza umana dalla propria stupidità, ma in questo modo sarebbe mancata l’evocazione del Golem elettronico, che nelle vetrine delle librerie esercita sempre il suo (stupido) fascino.

2. Prevedere il passato

Gigerenzer illustra al lettore una galleria di attività realizzate dall’AI, dalla selezione dei partner sessuali alla guida autonoma, dalla traduzione automatica alla polizia predittiva, dal riconoscimento dei volti alla profilazione marketing. In tutte queste pratiche le narrazioni dei produttori (spesso poi rilanciate dai media istituzionali) tendono a esagerare i risultati raggiunti dal software sulla base di una costruzione argomentativa che viene etichettata «fallacia del cecchino texano». Immaginiamo un cowboy che spari da grande distanza sulla parete del fienile, e vada poi a disegnare i cerchi del bersaglio attorno all’area in cui si raggruppa buona parte dei fori che ha prodotto nel muro. L’adattamento dell’obiettivo ai buchi dei proiettili comporta un’ammirazione nei confronti della mira del cecchino che è molto inferiore a quella che avrebbe conquistato se i fori si fossero concentrati dentro il perimetro di un bersaglio già tracciato. Quello che accade nella descrizione delle prestazioni delle macchine è molto simile: i risultati che vengono divulgati e commentati riguardano la capacità del software di adeguare la capacità predittiva a fatti avvenuti in passato: gli eventi trascorsi sono gli unici di cui si conoscono già gli effetti, sui quali può essere condotto il training delle AI, e su cui può essere misurata la loro efficacia. 

I modelli di calcolo riuscirebbero però garantire la replica della loro accuratezza profetica sui casi futuri soltanto se si potesse verificare che gli ambiti delle relazioni umane, quello dei comportamenti individuali, quello della storia, persino quello del traffico stradale, obbedissero sempre agli stessi parametri di decorso. Se l’amore tra le persone scoccasse sempre per le stesse ragioni, se il piano di una rapina o di un omicidio derivasse sempre dagli stessi moventi, se la circolazione di mezzi e pedoni ripetesse sempre le stesse traiettorie e non violasse mai il codice – il grado di successo registrato dalle I.A. in fase di test sarebbe una promessa affidabile per il futuro. Ma nelle situazioni di complessità, quali sono quelle sviluppate dalle azioni degli uomini, l’adattamento di un modello agli effetti del passato tramite la selezione e l’interpretazione dei parametri opportuni, e il talento profetico per il futuro, non si sovrappongono con alcuna ragionevole certezza. Il mondo dovrebbe essere di una stabilità (e di una noia) meccanica per corrispondere a requisiti simili; invece la realtà sociale continua a essere mutevole, e la predizione dei software molto meno affidabile di quanto venga propagandato. 

I giochi come gli scacchi, la dama e il Go, inquadrano alcune condizioni ideali per il miglior funzionamento dell’I.A.. Le situazioni cambiano sempre, ma l’ontologia dentro i confini delle partite è stabile come quella dei pianeti e delle stelle, di cui si calcolano le orbite con determinismo assoluto: le dimensioni e la forma della plancia, il valore dei pezzi, le regole di movimento, le finalità degli spostamenti, rimangono costanti. Non ci sono bambini che attraversano la scacchiera all’improvviso, alfieri caratteriali che decidono di muovere in verticale, regine con appetiti segreti che mangiano il proprio re. Per decenni si è ritenuto che l’abilità nel giocare a scacchi esprimesse l’essenza dell’intelligenza, ma le prove empiriche sembrano smentire questo assunto: le doti per vincere una partita contro il campione del mondo non permetterebbero alla macchina di sopravvivere nel traffico delle vie di Milano – o di assicurare l’incolumità dei milanesi. Una delle soluzioni del problema potrebbe essere quella di riservare le strade alla sola circolazione delle automobili guidate da I.A., ma non sembra un’ipotesi percorribile a breve. Le attese non migliorano quando si passa all’assortimento di coppie con lo scopo che non divorzino entro un anno, o al riconoscimento di volti sospetti senza il rischio di arrestare innocui passanti – o ancora peggio, la divinazione di profili psicologici per le sentenze di libertà sulla parola (o per la personalizzazione dei messaggi marketing).

3. Euristiche e stabilità del mondo

Gigerenzer insiste sull’opportunità di confidare in software costruiti su euristiche trasparenti. Il successo delle I.A. è stato sostenuto da due pregiudizi che ciascuno di noi coltiva in favore della complessità e dell’opacità, visto che ci sentiamo più sicuri dei risultati di una macchina complicata e incomprensibile. Invece una «lista di decisione» con poche regole permette di ottenere predizioni che, nel confronto empirico, funzionano meglio delle I.A.: Angelino et al. (2018) mostra che è quanto che accade con i tre parametri e le tre clausole del software CORELS, in grado di prevedere se l’imputato sarà arrestato nei prossimi due anni con un’accuratezza del 65%, la stessa dell’I.A. COMPAS acquistata dal governo americano, che calcola innumerevoli combinatorie su 137 parametri.

L’autorità di Kahnemann ha squalificato le euristiche equiparandole al «pensiero veloce», che tende ad affrettarsi verso soluzioni inquinate da errori e pregiudizi, pur di trovare un criterio per la condotta nell’immediatezza della situazione. Gigerenzer invece consacra il repertorio delle nostre regole pratiche come una «cassetta degli attrezzi» che ha superato la selezione dell’ambiente in cui viviamo, ed è quindi adeguata alla razionalità dei compiti che ci attendono. Una delle sue missioni più importanti è cementare la stabilità del mondo, che le intelligenze artificiali faticano a evincere tra i molti pattern di relazioni che si allacciano nei dati con cui si svolge il loro training. Le reti neurali peraltro amano nascondersi, come la natura di Eraclito, e dopo poche generazioni di addestramento diventa impossibile anche ai loro sviluppatori comprendere quali siano i segnali intercettati ed elaborati: si può scoprire solo con test empirici sugli output se il software ha imparato a riconoscere i tank russi, o se li distingue da quelli americani  perché nel dataset delle foto per caso il cielo sullo sfondo dei mezzi corazzati slavi è sempre nuvoloso mentre è soleggiato negli scatti USA. Ancora più difficile è spiegare perché l’introduzione di pochi pixel colorati converta la percezione di uno scuolabus in quella di uno struzzo. Se il mondo deve essere noiosamente stabile, anche per il bene dei bambini che viaggiano sugli scuolabus, almeno che la noia sia quella dei nostri pregiudizi, e non quella di un mondo possibile sorteggiato a caso.

 

Bibliografia

Angelino, E., Larus-Stone, N., Alabi, D., Seltzer, M., Rudin, C., Learning certifiably optimal rule lists for categorical data, «Journal of Machine Learning Research», n. 18, 2018, pp. 1-78.

Gigerenzer, Gerd, How to Stay Smart in a Smart World Why Human Intelligence Still Beats Algorithms, Penguin, New York 2022.

Kahnemann, Daniel, Thinking, Fast and Slow, Farrar, Straus and Giroux, New York 2011


Intelligenza artificiale e creatività - I punti di vista di tre addetti ai lavori

Ancora solo pochi anni fa, tutti sapevamo che nei laboratori della Silicon Valley – ma non solo, anche in laboratori di Paesi meno trasparenti – si lavorava a forme di intelligenza artificiale; ma in fondo, se non si faceva parte della schiera degli addetti ai lavori, tutto questo tema rimaneva confinato come una questione ancora lontana e più adatta alle fiction.

E invece, come una bomba, nel dopo pandemia l’AI è esplosa nelle vite di tutti noi – lasciando i più attoniti e frastornati – e di certo andrà a cambiare professioni e modi di lavorare che abbiamo sempre ritenuto di esclusiva pertinenza dell’intelligenza umana.

L’intelligenza artificiale non si limita a processare a velocità inconcepibili da mente umana miliardi di dati, con l’AI si possono creare immagini, testi. Insomma, sconfinare nei territori di pertinenza dell’arte, anche se è difficile definire in modo certo e univoco cosa sia l’arte.

Abbiamo quindi pensato di chiedere a tre persone che fanno parte del gruppo di Controversie e che usano l’intelligenza artificiale per creare immagini, quale sia il loro rapporto con la “macchina” e con il processo creativo.

La prima specifica domanda fatta è la seguente: Creare un’immagine con l’AI è un atto creativo?

Vediamo le risposte…

 

Matteo Donolato – Laureando in Scienze Filosofiche, professore e grafico di Controversie

Credo proprio di sì: dal punto di vista umano, la generazione di immagini con l’Intelligenza Artificiale non è un atto così passivo come forse potremmo pensare, in quanto rappresenta un vero lavoro artistico e creativo. Inoltre, in questa interazione tra macchina e persona in carne e ossa non c’è una protagonista assoluta, ma entrambe collaborano per il raggiungimento dell’obiettivo finale: le due intelligenze, dunque, operano insieme, senza una preponderanza di una sull’altra. Tuttavia, a prima vista si può ritenere che l’I.A. sia la vera “artista”, e si potrebbe inoltre immaginare che esegua tutto il lavoro, con l’essere umano che semplicemente impartisce dei comandi e aspetta che essa “faccia la magia”. Ragionando così, sottovalutiamo (e di molto) il nostro potere di intervento, concedendo tutto il credito della prestazione creativa alla macchina; le cose, in realtà, non sono così semplici, in quanto è l’artista umano a dettare le regole del gioco. Infatti, questi stabilisce tutta una serie di fattori molto importanti come, per esempio, il comando iniziale (o prompt), lo stile che avrà la sessione immagini, il tempo dedicato a essa, il numero di tentativi, le eventuali variazioni o i dettagli che tali rappresentazioni devono possedere, con la macchina che esegue. Alla fine del lavoro, quando l’I.A. avrà realizzato le proprie opere, è l’artista umano che garantisce l’adesione di essa a ciò che si era stabilito nel prompt; inoltre, è nuovamente lui (o lei) a decretare se il risultato ottenuto sia soddisfacente, in linea con le volontà iniziali. Insomma, l’intelligenza umana è la prima e ultima arbitra dell’immagine, colei che inizia e orienta la sessione di lavoro e che, alla fine, giudica l’operato dell’I.A.; siamo noi, quindi, a tessere i fili, a stabilire la qualità artistica e creativa del prodotto restituito dalla macchina. Quest’ultima costituisce, pertanto, il mezzo attraverso cui la nostra creatività e la nostra immaginazione si possono esprimere. In conclusione, l’I.A. rappresenta uno strumento, come tanti altri, a supporto dell’intelligenza e della fantasia umane...

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Paolo Bottazzini – Epistemologo, professionista del settore dei media digitali ed esperto di Intelligenza Artificiale

Credo sia legittimo attribuire un riconoscimento di creatività alla generazione delle immagini con IA in ugual misura a quanta ne è stata riconosciuta agli artisti degli ultimi decenni. Il ruolo dell'artista, come è stato incarnato da personaggi importanti come Hirst o Kapoor, consiste nell'elaborazione del modello concettuale dell'opera, non nella sua realizzazione pratica, che per lo più è affidata ad operatori artigianali specializzati. Anche la produzione con l'IA richiede una gestazione concettuale che prende corpo nel prompt da cui l'attività dell'IA viene innescata. Si potrebbe discutere del grado di precisione cui arriva il progetto degli artisti "tradizionali" e quello che è incluso nelle regole che compongono il prompt: ma credo sarebbe difficile stabilire fino a che punto la differenza sia qualitativa e non semplicemente quantitativa. Più interessante sarebbe valutare se il risultato dell'operazione condotta con l'IA sia arte, al di là dei meriti di creatività: anche i pubblicitari si etichettano come "creativi", e di certo lo possono essere - però difficilmente saremmo disposti a laureare tutti gli annunci pubblicitari come "arte".

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Diego Randazzo – Artista visivo

Molto semplicemente: dipende.

Penso che anche rimanendo ancorati alla tradizione, addentrandosi nella miriade di produzioni odierne, realizzate con le canoniche tecniche artistiche (la pittura, la scultura, la fotografia, etc.) sia piuttosto difficile trovare “l’opera d’arte”. Semplificando, ma non troppo, oggi anche le risultanze di tecniche storicizzate spesso si avvicinano più alle forme della ‘tappezzeria', o anonimo complemento d’arredo, che al manufatto artistico, testimone di senso.

Il semplice atto creativo non ha nulla a che fare con l’elaborazione e produzione artistica, se non ambisce a costruire un percorso di senso e di ricerca progettuale.

Questa piccola premessa vuole essere una provocazione per far riflettere su un principio ancora oggi saldo e indissolubile: la tecnica e lo strumento in sé sono ‘oggetti monchi’, se privati di un valore che solo il radicamento concettuale nella contemporaneità può attribuirgli. Non mi piace snocciolare citazioni, ma credo che Enzo Mari, quando nel 2012 sentenziava ‘’Non esiste oggi parola più oscena e più malsana della parola creatività. Si produce il nulla, la merda con la parola creatività’’ aveva plasticamente intercettato certe tendenze che, di lì a poco, avrebbero preso il sopravvento. La creatività, intesa come paradigma vincente e performante per risolvere ogni questione di non facile risoluzione.

Sgombrato quindi il campo dalle generalizzazioni, su cosa sia o non sia un atto di creatività, si può sicuramente affermare che l’IA sia uno strumento potentissimo e, se usato finemente, con intelligenza e cura, può condurre alla creazione di un’opera d’arte.

Ma cerchiamo da subito di fare dei distinguo: l’IA deve rimanere uno strumento e non una finalità. Nello specifico - e questa è una mia personalissima teoria - il creativo/artista di turno non può pensare di fermarsi, dopo qualche interrogazione, all’output grezzo generato dall’IA, convincendosi di aver dato vita a qualcosa di unico, affascinante e interessante.

Come avveniva già nella tradizione classica della pittura, le influenze e lo studio sono fondamentali; una volta si viaggiava, gli artisti si incontravano, si contaminavano scambiandosi tecniche e saperi, mentre oggi si può attingere ad un patrimonio di dati sconfinato in rete. Il rischio omologazione è altissimo, perciò è fondamentale conoscere e confrontarsi con il passato, il presente ed immaginare un possibile futuro che tenga insieme tutto. Quindi passato, presente e futuro sono i fondamentali per poter imbastire una progettualità, non finalizzata a costruire ‘immagini nitidissime di mondi impossibili e surreali’ - come vediamo nel repertorio più di tendenza nella generazione di immagini con l’IA - bensì volta a costruire delle riflessioni sui processi narrativi e sulla storia delle immagini stesse.

E chi è che oggi può fare tutto questo con consapevolezza, senza farsi ingabbiare dall’effetto decorativo, dal rischio tappezzeria? Senza ombra di dubbio è l’Autore, l’unica figura che può padroneggiare questi strumenti, mettendoli al servizio della propria poetica.

Riprendo brevemente il tema sull’autorialità tratto da una precedente intervista rilasciata sempre su questo blog:

‘’Autore è colui che interroga e, soprattutto, rielabora e reinterpreta secondo la propria attitudine il risultato dellIntelligenza artificiale. La macchina fa le veci del ricercatore: mette insieme e fonde tantissimi dati e, in ultima istanza, restituisce un abstract grezzo. Quellabstract non può rimanere tale. Deve essere decostruito e manipolato dallartista per assurgere ad opera darte. LIA, come processo generativo, è quella cosa che sta in mezzo, tra il pensiero, lidea iniziale e lopera finale. Tutto qui. Non è semplificazione, è come dovrebbe essere inteso il ruolo dellintelligenza artificiale nella creazione artistica.’’

Quest’opera dal titolo 24 intime stanze è un esempio pratico della mia idea di utilizzo di Ai in campo artistico e soprattutto della necessità di far emergere una concatenazione virtuosa tra passato, presente e futuro: dall’utilizzo della cianotipia (antica tecnica di stampa a contatto) e la pittura ad olio, all’uso dell’I.A. per elaborare le referenze del soggetto protagonista.

24 intime stanze / dalla serie ‘Originali riproduzioni di nuovi mondi’ (Opera finalista al Combat Prize 2024, nella sezione pittura), Cianotipia e pittura a olio su tela grezza, 120x100x2 cm, 2024

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Non c’è dubbio che queste tre risposte siano estremamente stimolanti e che vi si possa rintracciare un minimo comune denominatore che le lega: l’idea che l’IA sia solo un mezzo, per quanto potente, ma che l’atto creativo resti saldamente appannaggio di colui che ha nel suo animo (umano) l’obiettivo concettuale.

Ottenere un risultato con l’IA si delinea, qui, come un vero atto creativo, che, però e ovviamente, non è detto che si trasformi in arte, ovvero in una manifestazione creativa in grado di dare emozione universale.

In termini più concreti: molti di noi, forse, potrebbero avere “nella testa” La notte stellata di Van Gogh (giusto per fare un esempio), ma la differenza tra la grandissima maggioranza di noi e il genio olandese è che non sapremmo neppure lontanamente “mettere a terra” questa intuizione.

Con l’IA, a forza di istruzioni che la macchina esegue, potremmo invece, avvicinarci al risultato di Vincent?

Se fosse così, in che modo cambierebbe l’essenza stessa dell’artista?

 


Tecnologia e controllo - Una ricerca sul lavoro da remoto

Da quando il lavoro da remoto si è affacciato con prepotenza nelle vite di molti lavoratori sono sorte molte domande sul ruolo della tecnologia, non solo nello svolgimento delle diverse mansioni, ma soprattutto nell’evoluzione dei meccanismi di controllo a disposizione dei datori di lavoro.

L’esperienza del lavoro da remoto emergenziale è avvenuta infatti in un momento storico già fortemente caratterizzato dalla pervasività delle tecnologie informatiche in molti ambiti della nostra vita quotidiana (servizi, media, sanità, istruzione…). E se è vero che il tema del controllo non è nuovo (ha da sempre avuto un ruolo rilevante nella sociologia del lavoro e delle organizzazioni), è anche vero che siamo in un periodo in cui il controllo esercitato sui lavoratori e in generale sui cittadini è in aumento e sempre più visibile.

Pertanto, ci siamo domandate se l’accelerazione tecnologica che ha accompagnato la transizione al lavoro da remoto durante il periodo pandemico possa aver rappresentato un’ulteriore occasione per estendere forme pervasive ed estrattive[1] di controllo sui lavoratori, nel suo lavoro sul capitalismo della sorveglianza.

Tuttavia, la direzione della relazione fra tecnologia e controllo non è predeterminata[2]: l’impatto che l’introduzione della tecnologia ha sull’organizzazione del lavoro non è univoco ma situato all’interno dei contesti culturali, organizzativi e istituzionali in cui le tecnologie vengono impiegate e, vi è una profonda ambiguità insita nelle tecnologie informatiche[3]: «l’informatica propone di continuo nuove possibilità per l’asservimento della persona, non meno che opzioni per affrancarla» e gli esiti che l’introduzione di una certa tecnologia può generare in termini di qualità e organizzazione del lavoro «e ancora una questione di scelta».

Se da un lato la tecnologia può «liberare» il lavoratore da alcuni vincoli spazio-temporali, aumentare l’autonomia e ridurre il coinvolgimento in operazioni rischiose, dall’altro lato molte delle tecnologie utilizzate si fanno più pervasive e pongono le basi per un aumento del controllo da parte del management.

Non è, infatti, la tecnologia in sé a determinare un incremento del controllo, ma è, semmai, il modello economico sottostante che definisce obiettivi volti a estrarre valore dall’esperienza personale quotidiana, anche attraverso un monitoraggio serrato dei comportamenti dei lavoratori[4].

Di fronte a questi interrogativi abbiamo quindi cercato di indagare questo tema  nell’ambito di una ricerca[5] avviata proprio durante il lockdown imposto dalla pandemia da Covid-19.

Per tentare di valutare come il lavoro da remoto nella sua forma emergenziale possa aver influito sulle modalità di controllo siamo partite dalla letteratura organizzativista classica[6] che individua tre forme di controllo: a) la supervisione diretta e il controllo gerarchico; b) il controllo degli output secondo un approccio al lavoro per obiettivi; c) il controllo sugli input, attraverso l’interiorizzazione delle norme e dei valori dell’organizzazione da parte dei lavoratori.

Queste tre forme di controllo, applicate alla situazione dello smart working emergenziale - in tempi rapidi, spesso senza pianificazione né concertazione - hanno mostrato diverse possibilità di remotizzazione, ed un diverso rapporto con la diffusione delle tecnologie digitali.

Il nostro lavoro, quindi, ha avuto l’obiettivo di ricostruire, a partire dall’esperienza di lavoratori e lavoratrici, i sistemi messi in atto dalle organizzazioni per coordinare le attività svolte a distanza, come è cambiato il controllo esercitato sul lavoro da remoto e che ruolo hanno giocato le tecnologie digitali.

I risultati[7] sono stati almeno in parte diversi da quanto ci saremmo aspettate.

Innanzitutto, la maggior parte dei lavoratori dichiarava di non aver percepito differenze nel controllo lavorando da remoto piuttosto che in presenza: quasi l’80% degli intervistati riteneva infatti che il controllo fosse “rimasto uguale”. Emergevano tuttavia alcune differenze fra i rispondenti. Erano soprattutto le persone che svolgevano mansioni esecutive nel lavoro di ufficio che dichiaravano un aumento nella percezione del controllo, mentre coloro che svolgevano professioni intellettuali o professioni nel commercio e nei servizi alla persona dichiaravano con più frequenza una diminuzione del livello di controllo percepito.

Questi dati ci hanno suggerito di guardare con più attenzione agli effetti che il lavoro da remoto può avere sulle diverse attività che possono essere svolte a distanza, e agli strumenti che le organizzazioni hanno a disposizione e di fatto applicano.

Iniziamo a vedere quali sistemi di controllo sono emersi dalla nostra rilevazione.

Il timore per il controllo tramite strumenti digitali rimanda spesso all’utilizzo di software esplicitamente dedicati al monitoraggio dei lavoratori, che consentono al responsabile di osservare le attività svolte con il personal computer, di registrare la cronologia, a volte persino i movimenti del mouse. La nostra rilevazione mostra tuttavia che questi strumenti vengono utilizzati in modo molto limitato: appena il 7% del campione dichiara di avere in uso programmi di questo tipo.

I sistemi di controllo più diffusi sono invece i programmi che servono a registrare le presenze, utilizzati in sostituzione della timbratura del cartellino. Un’alternativa all’utilizzo della timbratura online è la consegna di report quotidiani o settimanali che rendano conto del lavoro svolto, e che coinvolge quasi un terzo dei rispondenti.

I meccanismi formali per il controllo dei tempi, dei modi o dei risultati del lavoro non esauriscono però la questione dei processi organizzativi dedicati alla supervisione dell’operato del personale.

Nel corso della ricerca è emerso, ad esempio, l’utilizzo frequente di programmi che consentono di visualizzare lo “stato” di una persona, che può essere ad esempio “presente”, “assente”, “occupata” o “non attiva”. Si tratta di software finalizzati prevalentemente all’interazione in tempo reale, come Skype, Meet o Teams, che offrono contestualmente quello che si rivela come un ulteriore meccanismo di controllo. Il controllo in questo caso non avviene necessariamente da parte del responsabile, capo o supervisore, ma può anche assumere una direzione “orizzontale”, ed avvenire quindi tra pari, tra colleghi. Lo stesso avviene quando si utilizzano programmi per la condivisione online di documenti, come Google Drive, Dropbox o, per le scuole, Classroom, usati da oltre la metà del campione. Anche in questo caso si tratta di tecnologie indispensabili per replicare da remoto le diverse forme di collaborazione che avvenivano in presenza. Allo stesso tempo si tratta di una sorta di vetrina che consente a tutti coloro che accedono al documento di tenere traccia di quanto viene fatto dai vari membri con cui interagiscono. In questo senso, anche questi strumenti digitali di collaborazione diventano meccanismi impliciti di controllo, di tipo verticale oppure orizzontale.

Questi ultimi esempi sono indicatori del fatto che il senso e il ruolo delle tecnologie non sono intrinseci agli strumenti, ma si costituiscono con il loro utilizzo. Un programma progettato per le comunicazioni dirette può trasformarsi in uno strumento per il controllo da parte di un responsabile o, più spesso, per il controllo reciproco tra i lavoratori, spesso senza essere percepito come tale da chi ne fa uso.

I sistemi di controllo che abbiamo descritto sono utilizzati in modo diverso da diverse categorie di lavoratori. Possiamo quindi aspettarci che l’intensificarsi del controllo tramite tecnologie abbia conseguenze diverse per diverse categorie di lavoratori.

Per le professioni esecutive, le tecnologie tendono a replicare le forme di controllo attive nel lavoro in presenza (registrazione delle presenze, relazioni sulle attività svolte, controllo della quantità di lavoro completato a fine giornata/settimana/mese). In alcuni casi, l’utilizzo di software per il monitoraggio puntuale del lavoratore può aumentare il senso di supervisione diretta e con esso lo stress (ma abbiamo visto che si tratta di pratiche relativamente poco diffuse).

Nella nostra ricerca è emersa con frequenza l’idea che il controllo (diretto) non sia necessario perché il supervisore “si fida” del lavoratore.

In questo riferimento alla fiducia è compresa, a nostro avviso, oltre ad un riferimento alle relazioni personali, la tranquillità che proviene dalla certezza che il lavoratore operi secondo le norme standardizzate che ha appreso sul luogo di lavoro. La questione che si pone per immaginare il futuro del lavoro da remoto è allora relativa ai sistemi di riproduzione di questi meccanismi di formazione e trasmissione di norme (e valori) aziendali. I processi di reclutamento nelle aziende che ormai utilizzano in modo ordinario il lavoro da remoto hanno messo in luce la necessità di prevedere periodi più intensi di lavoro in presenza nelle fasi di inserimento, proprio perché alcune modalità di acquisizione di informazioni non sempre formalizzabili sono difficilmente replicabili da remoto.

Per le professioni intellettuali, invece, che prevedono interazione e lavoro di gruppo, le tecnologie digitali possono far emergere il controllo orizzontale tra colleghi, rendendo qualsiasi attività visibile per tutto il team. A questo si aggiunge il fatto che, come sottolineano ormai molte ricerche, la crescente autonomia nella gestione dei tempi produce nei fatti un aumento delle ore di lavoro, oltre ad una maggiore “porosità” tra i tempi di vita, con il lavoro che tende ad invadere momenti tradizionalmente dedicati ad altre attività. La combinazione di queste dinamiche può portare a nuove forme di “autosfruttamento” da parte dei lavoratori, per via di quello che è stato definito il “paradosso della flessibilità”: anziché fornire maggiore libertà e autonomia, la flessibilità produce nei fatti una tendenza ad autoimporsi ritmi e tempi di lavoro crescenti.

 

 

 

Per un approfondimento, si veda Goglio V., Pacetti, V., Tecnologia e controllo nel lavoro da remoto, in “Meridiana: rivista di storia e scienze sociali”, n.104, 2, 2022, 47-73.

NOTE

[1] Per utilizzare i termini identificati da Zuboff, Zuboff, S. (2019). The age of surveillance capitalism: The fight for a human future at the new frontier of power (First edition). PublicAffairs.

[2] Si veda il contributo di Gasparini https://www.controversie.blog/le-tecnologie-non-sono-neutrali-la-lezione-dimenticata-del-determinismo-tecnologico/

[3] Gallino, L. (2007). Tecnologia e democrazia: Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici. Einaudi.

[4] Cfr Zuboff, cit. nota 1

[5] La ricerca è stata avviata ad aprile 2020 con un ampio piano di interviste in profondità (189 rispondenti, metà dei quali intervistati una seconda volta a circa 8-10 mesi di distanza), seguita poi da una rilevazione tramite questionario (circa 900 risposte) nel 2021.

[6] Mintzberg, H. (1989). Mintzberg on Management: Inside Our Strange World of Organizations. Free Pr.

[7] Goglio, V., & Pacetti, V. (2022). Tecnologia e controllo nel lavoro da remoto. Meridiana, 104, 47–74.

[8] Cfr. ancora Zuboff, cit. nota 1