Stiamo ritardando la prossima glaciazione? Sì.

Sia il lettore più attento che quello più frettoloso avranno notato che nel titolo è già contenuta la risposta. Per quanto sinteticamente perfetta, ad entrambi, anche al più frettoloso, risulterà una risposta troppo breve ed interesserà perciò comprendere il perché di questo “Si”.

Questa evidenza emerse da una serie di studi che iniziarono negli ultimi anni del XX secolo e che si svilupparono lungo il primo decennio del XXI.

Il primo riscontro della disattesa partenza di una nuova era glaciale fu uno studio diretto dal paleoclimatologo William Ruddiman che coinvolse i meteorologi John Kutzbach e Steve Vavrus.

Essi cercarono, e trovarono – grazie a un modello di simulazione matematica che il climatologo Larry Williams creò negli anni ’70 - la conferma di quanto negli anni ‘80 aveva scoperto il geologo John Imbre: l’ultima fase interglaciale doveva essere terminata tra i 6.000 e i 5.000 anni fa.

Questo modello sul comportamento climatico venne impostato escludendo, tra i fenomeni che influenzano l’alternanza tra ere glaciali e interglaciali, le emissioni anomale di gas serra, iniziate quasi esattamente nello stesso periodo di fine dell’ultima fase interglaciale.

Secondo i risultati del modello, da allora i ghiacciai avrebbero dovuto iniziare ad accrescersi progressivamente, per via di un raffreddamento medio globale di 2°C (tantissimo in soli 6-5.000 anni) e il punto di massimo raffreddamento avrebbe dovuto presentarsi a Nord della Baia di Hudson, toccando un calo medio invernale di 5-7°C.

Però, ciò non è avvenuto.

Ancor più precisamente, lo studio rivelò che nell’Isola di Baffin (Canada) si sarebbe dovuto instaurare uno stato di glaciazione incipiente, ossia la presenza di un manto nevoso perenne, contro la sua attuale assenza per 1-2 mesi ogni estate.

In più, ai giorni nostri, avremmo dovuto assistere a qualcosa di analogo nell’altopiano del Labrador, il penultimo luogo in cui si sciolsero i ghiacciai dell’ultima glaciazione; il primo era per l’appunto l’isola di Baffin.

Lo studio generò sia plausi che critiche, e da queste ultime Ruddiman fu stimolato a fare ulteriori approfondimenti che lo portarono a studiare una glaciazione intercorsa ben 400.000 anni fa, che presentava variazioni della radiazione solare e delle emissioni naturali di gas serra analoghe a quelle della fase odierna.

L’approfondimento confermò quanto previsto dallo studio precedente e mai avvenuto perché interrotto cinque millenni fa: si sarebbe dovuto registrare un progressivo decremento fino ai valori minimi della concentrazione in atmosfera di metano (CH₄) e anidride carbonica (CO2).

Questi ulteriori studi, in sostanza, riconfermavano quanto ipotizzato: siamo oggettivamente all’interno di una fase glaciale, ma climaticamente ritardata. La causa del ritardo è da ricondursi prevalentemente a questa anomala alta concentrazione di gas serra.

PERCHÉ “OGGETTIVAMENTE” ALL’INIZIO DI UNA NUOVA FASE GLACIALE?

Se nel brevissimo periodo, anche di poche ore, è difficile prevedere localmente quale sarà il comportamento meteorologico, questo può essere, invece, fatto per il comportamento climatico globale nei tempi più lunghi delle decine e centinaia di migliaia di anni.

I paleoclimatologi hanno infatti già da tempo scoperto l’esistenza di veri e propri cicli climatici. Lo hanno potuto fare incrociando i dati geologici e paleontologici (soprattutto dai carotaggi oceanici) con quelli chimici (presenza di molecole e atomi con isotopi specifici presenti nei ghiacci e nei sedimenti fossili dei fondali marini) assieme alle leggi astronomiche ormai note dei moti terrestri detti “millenari”.

Su questi ultimi possiamo basare la “oggettività” che cercavamo.

I MOTI MILLENARI DEL PIANETA TERRA.

Se il moto orbitale della Terra attorno al Sole causa l’avvicendamento delle stagioni in circa 365 giorni, le cosiddette “ere” glaciali e i periodi interglaciali, fenomeni molto più lunghi nel tempo, sono invece principalmente conseguenza della variazione della quantità di radiazione solare ricevuta dal Pianeta, dovuta a tre movimenti che la Terra compie in decine di migliaia di anni.

1. Il primo è quello dell’oscillazione dell’asse di rotazione terrestre: scoperta dal matematico e astronomo francese Urbain Jean Joseph Le Verrier nel XIX secolo, è una lenta variazione dell’angolo di inclinazione dell’asse, che compie il proprio ciclo oscillatorio tra 22° 20’ e 24° 50’ in 41.000 anni circa.

Essa influisce direttamente sulla quantità di radiazione solare che raggiunge le latitudini più elevate del Pianeta (dai 45° N in su).
In termini più semplici: minore è il grado d’inclinazione dell’asse terrestre, minore sarà la quantità di radiazione che ricevono i poli terrestri, minori dunque saranno le temperature del clima globale e viceversa.
Attualmente l’inclinazione è di 23° 50’ circa, in fase di risalita verso la gradazione minima.

I restanti due moti influiscono invece sulla variazione della distanza della Terra dal Sole, che in termini empirici equivale alla sensazione che possiamo esperire d’inverno nel variare di pochi centimetri la nostra distanza dal tanto amato calorifero (i più freddolosi sanno bene quanto pochi centimetri facciano la differenza tra felicità e sofferenza).

2. L’eccentricità dell’orbita del Pianeta attorno al Sole: varia in un ciclo di circa 100.000 anni ed è quel fenomeno per cui l’orbita della Terra tende ad essere ellittica e solo ad avvicinarsi a un’orbita circolare (il cerchio ha eccentricità pari a 0).

Sempre scoperta da Le Verrier, questa variazione influisce sulla distanza media che il Pianeta mantiene rispetto al Sole (ripensate alla vostra distanza dal calorifero nelle giornate invernali e all’invidia che avete provato verso i compagni di classe o i colleghi che gli stavano più vicino durante l’intera giornata).

Le sue oscillazioni periodiche sono molto più irregolari rispetto a quelle dell’asse terrestre e attualmente si attesta a 0,0167, in un raggio di variazione totale tra il valore minimo di 0,0033 e quello massimo di 0,0671. In termini pratici parliamo di variazioni nell’ordine dei milioni di chilometri di differenza di distanza dalla fonte di calore che è il Sole.

3. Per ultimo abbiamo il moto di precessione, dal ciclo più breve di 25.000 anni, ossia il moto conico dell’asse di rotazione della Terra dovuto all’attrazione reciproca con la Luna e gli altri pianeti.

Scoperto nel XVIII secolo dal famoso enciclopedista francese Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert, questo fenomeno è meno intuitivo da immaginare e viene spesso spiegato attraverso il moto di una trottola, la quale non solo gira su sé stessa ma possiede anche un movimento che la porta ad ondeggiare e inclinarsi da una parte all'altra: il moto di precessione.

Gli effetti che questi moti hanno sul clima sono anche chiamati Cicli di Milanković, dal nome dall'ingegnere e matematico serbo Milutin Milanković che li ipotizzò e studiò ai primi del XX secolo.

CONCLUSIONI

Anche se il clima è il risultato di un sistema complesso le cui variabili generano altrettanti e complessi meccanismi di feedback, in generale possiamo immaginare che valga la regola per cui ogni fenomeno che modifica per lungo tempo il comportamento della radiazione solare ricevuta dalla Terra, è determinante sul lungo tempo per il clima globale del Pianeta; i suoi effetti, però, saranno sempre riscontrabili con leggero ritardo.

La relazione tra i vari moti millenari determina dunque, oltre alla ricorrenza dei periodi glaciali, anche l’intensità con cui essi si presenteranno ciclicamente.

I dati raccolti dai paleoclimatologi ci rivelano inoltre che la storia delle glaciazioni è in realtà molto recente. È da 3 milioni di anni che la Terra si sta lentamente raffreddando, con la comparsa dei primi ghiacciai, solamente stagionali, risalente a circa 2,75 milioni di anni fa nelle regioni settentrionali del Pianeta.

È invece da “soli” 0,9 milioni di anni che hanno iniziato ad esistere i ghiacciai permanenti.

Nel periodo delle decine e centinaia di migliaia di anni, il clima globale è dunque prevedibile grazie ai modelli fisici ed astronomici confermati dagli studi di geologi, paleologi e paleoclimatologi: abbiamo la certezza che, anche basandosi esclusivamente sul moto di precessione, ci troviamo già dentro l’inizio di una nuova era glaciale - che non è però mai iniziata.

Quasi certamente questo inizio disatteso è da attribuirsi alle emissioni in atmosfera dei cosiddetti “gas serra”, che, come è ormai accettato dalla quasi totalità delle comunità scientifiche, non permettono la naturale dispersione della quantità di radiazione solare ricevuta dal pianeta che invece continua a riscaldarsi.

Inoltre, secondo i modelli climatici, questi gas sarebbero dovuti diminuire anziché aumentare, ostacolando l’innescarsi dei feedback positivi e naturali di innesco della prossima glaciazione.

Stiamo ritardando la prossima glaciazione? Si.

 

 

PER APPROFONDIMENTI

William Ruddiman, “L’aratro, la peste, il petrolio - L’impatto umano sul clima”, UBE Paperback, 2015

William Ruddiman, “Earth’s Climate”, Freeman, 2001


Individuare il sesso, una storia infinita

Dopo aver notato che nella cosiddetta “natura” l’ermafroditismo e la transizione sessuale all’interno di un medesimo attante sono delle possibilità e che nell’antichità l’ermafroditismo non era considerato un errore di natura, vediamo ora come i criteri di individuazione sessuale (contrariamente a ciò che comunemente si pensa) siano cambiati nel corso del tempo, e più volte (almeno 5 – cfr. Montanari 2018).

1. IL FENOTIPO

Per secoli la determinazione del sesso (riconoscimento e assegnazione), e poi del genere, fu basata sul fenotipo, ovvero sui caratteri morfologici/fisici empiricamente accertabili come la barba, la distribuzione del grasso corporeo, il pomo d’Adamo, le ghiandole mammarie, ecc. Tuttavia, a parte (forse) il pomo d’Adamo, questi caratteri non sono sempre presenti in un uomo. Infatti, esistono persone glabre, con massa corporea che può essere simile a una donna ecc. Lo si nota sui mezzi pubblici o per strada, quando a volte (osservando alcune persone) non siamo certi delle nostre classificazioni.

2. I GENITALI

Successivamente si passò a inserire nel fenotipo anche caratteristiche fisiche meno visibili, come ad esempio i genitali. Tuttavia, siccome nella vita quotidiana i genitali sono quasi sempre coperti e nascosti, l’attribuzione del sesso diviene un ragionamento probabilistico, perché la prova mediante ispezione quasi sempre (e per fortuna) non ci è permessa. Inoltre, spesso non sappiamo qual è lo standard di un genitale per essere considerato tale. E nemmeno che forma hanno i genitali de* altr*, neanche de* nostr* più car* amic* se non abbiamo avuto con loro una relazione intima oppure non abbiamo praticato qualche sport collettivo che prevedeva il rituale delle docce (di adolescenziale memoria, per chi scrive).

Perciò si può anche parlare di genitali sociali, ovvero la forma di genitali che presumiamo che una persona abbia in base alla sua apparenza, ossia al suo genere sociale. 

Ma anche con i genitali le cose non sono così semplici come invece pensava l’onorevole Daniela Santanché, che in almeno un paio di occasioni (27 gennaio e 11 marzo 2019) ebbe a dire:

Con la replica di un’altra onorevole, Vladimir Luxuria, che prontamente rispose: «Non mi parli di natura proprio lei, che ha fatto molti più interventi chirurgici di me per motivi estetici. Sei più trans di me, Dany». Invocare la natura - l’abbiamo già visto in La costruzione di un’identità (Prima parte) - è sempre una pericolosa arma a doppio taglio…

Peraltro, l’apparato genitale è costituito sia da organi esterni (o visibili), ma anche organi interni (non visibili). Nel fenotipo maschile più comune, il pene e lo scroto formano gli organi esterni. La prostata, l’uretra, i testicoli, le vescicole seminali, le vie spermatiche (dotti eiaculatori) e il dotto deferente sono invece interne/non visibili. Nel fenotipo femminile più comune gli organi esterni/visibili sono il monte di Venere, il clitoride, le grandi labbra e le piccole labbra. Quelli interni/non visibili sono la vagina, l’utero, le tube o trombe di Falloppio, l’endometrio, la cervice e le ovaie.

Per dare un’idea di quante fusioni ci possano essere tra gli organi, ora sappiamo che il clitoride e il pene si sviluppano della stessa materia, anche se hanno diversi ruoli nella riproduzione e la vita sessuale. Oppure che nell’antichità si credeva che la vagina fosse un pene introflesso (ripiegato verso l'interno), un po’ simile a un capezzolo introflesso. 

Purtroppo, la forma e grandezza del genitale esterno è ancora tra i fattori primari nell’assegnazione del sesso… alla nascita. 

Tuttavia, ci chiediamo: in un neonato, quanti cm deve avere una protuberanza per essere considerata un pene oppure una clitoride?

Quando parliamo di genitali cosiddetti “ambigui” intendiamo una variazione di grandezza e forma proprio tra quello che consideriamo la clitoride e il pene. Anche perché essi sono (esternamente) molto simili:

3. LE GONADI

Tuttavia i due precedenti criteri risultarono ancora non sufficienti e si passò a un terzo criterio: le gonadi.

Infatti, nel 1876, il patologo tedesco E. Klebs inventò un nuovo sistema di classificazione basato sulla struttura delle gonadi (dal greco gone seme e aden ghiandola) organi anatomici che producono i gameti, ovvero le cellule riproduttive). Le gonadi femminili sono le ovaie (organi interni, situate nella pelvi) e producono gli ovociti. Quelle maschili sono i testicoli (organi interni, nello scroto) e producono gli spermatozoi. Come si può vedere, si procede sempre più verso l’interno e quindi sempre più verso il meno visibile.

Secondo questa classificazione, un individuo (uomo o donna che fosse) con i testicoli era indubitabilmente un uomo, non importa quali mascheramenti potessero avvenire a livello fenotipico; specularmente un individuo con le ovaie era indubitabilmente una donna. 

Dregen (1998) sostiene che la scoperta delle gonadi sessuali soppiantò il criterio di valutazione in base ai genitali esterni per la determinazione sessuale, fino a diventare l’unico attributo/metro per dirci a quale sesso si appartiene. Le cose piccole e nascoste (come le ghiandole) soppiantarono, quindi, le cose grandi e visibili. Il pene e la vagina non contavano più (qualcuno lo dica all’onorevole)… 

Tuttavia, nell’embrione (che per molte persone è già un essere umano) le gonadi si sviluppano partendo da una gonade indifferente, cioè un organo che ha la potenzialità di diventare sia testicolo che ovaio. La differenziazione avviene solo… al 2º mese di gravidanza. 

Infine, le gonadi sono anche il maggiore produttore di 3 ormoni sessuali nel corpo: estrogeni, progestinici e androgeni.

Ma perché concentrarsi sulle gonadi (l’apparato genitale interno)? 

Probabilmente perché sono organi riproduttivi e l’ideologia del tempo assegnava alla riproduzione il valore più alto. Tuttavia, anche questa classificazione scricchiolava. Infatti, una persona può: avere gli organi riproduttivi e decidere di non utilizzarli; non averli; o averli di un genere diverso rispetto al proprio corredo cromosomico… senza che questo impatti sulla propria identità di genere. Ad es. uno potrebbe dire “gli uomini non hanno l’endometrio: ecco la differenza tra maschi e femmine”!
Risposta: certo. Ma questa è solo in una prospettiva riproduttiva. Se a una donna tolgono l’endometrio, oppure subisce un’isterectomia totale (asportazione dell’utero intero e le strutture circostanti cervice, ovaie, tube di Falloppio ecc.) o parziale non è più una donna? 

4. I CROMOSOMI: IL GENOTIPO (O DNA)

Per ovviare la debolezza della classificazione gonadica, si passò allora (la faccio breve) ai cromosomi, che sono strutture all'interno del nucleo delle cellule. Essi contengono i geni di una persona. 

Il cromosoma contiene da centinaia a migliaia di geni. Ogni cellula umana normale contiene 23 coppie di cromosomi, per un totale di 46 cromosomi (23 del padre e 23 della madre), ovvero 22 coppie di autosomi (presenti in entrambi i sessi) e una (!!!) di eterosomi cosiddetti sessuali: XX per il sesso femminile e XY per il sesso maschile. 

Dall’epoca della “scoperta” scientifica dei cromosomi sessuali (prima metà del ‘900), le coppie cromosomiche XY e XX sono state rapidamente adottate come indicatori canonici del sesso biologico, mediante il cariotipo (o patrimonio o mappa cromosomica): se un individuo ha 1 cariotipo XY + i testicoli è un uomo; se possiede 1 cariotipo XX + le ovaie è una donna.

Cioè l’UNICO cariotipo diverso tra uomini e donne… sarà dirimente, e andrà a fare la differenza!!! E si chiamerà cariotipo femminile 46 XX e il cariotipo maschile 46XY. 

In altre parole, la minoranza (1 sola delle 23 coppie di cromosomi) ha vinto sulla maggioranza!

In politica questo creerebbe qualche problema…

4.1. PROBLEMI CON I CROMOSOMI

Questa distinzione però non regge il confronto con la fenomenicità del reale. Se la concezione ordinaria dell’anatomia e fisiologia umana immagina una concordanza tra i marcatori di genere chiaramente dimorfici (cromosomi, genitali, gonadi, ormoni), i biologi sanno che tale concordanza a volte non si manifesta. Come nel caso degli/lle intersessuali. E’ stato infatti riconosciuto che la differenziazione sessuale a livello biologico non agisce secondo una logica dicotomica e non produce solo due tipologie di corpi uniformi.

All’incirca una persona su 1000 sviluppa un corpo in cui NON tutti i componenti corrispondono al genere dei cromosomi di sesso e questo senza particolare complicazione in termini di salute fisica. Inoltre, la maggioranza degli/lle ermafrodit* con corredo cromosomico XX, ha materiale Y presente sui cromosomi X
in quantità sufficiente a produrre i tessuti di entrambi i sessi (cioè testicoli e ovaie). E ancora, ci sono anche ermafrodit* con presenza di cromosomi sessuali in parte maschili e in parte femminili nelle diverse cellule del corpo: 46,XX/46,XY oppure 46,XX/47,XXY. Alla base si trova uno “sbilanciamento” tra i geni che regolano lo sviluppo dell’ovaio piuttosto che del testicolo, molti dei quali sono stati identificati, mentre ne esistono altri probabilmente ancora non noti.

4.2. MARIA JOSÉ MARTÍNEZ-PATIÑO

In previsione delle Olimpiadi del 1988, all’atleta spagnola Maria José Martínez-Patiño il comitato olimpico aveva richiesto un test genetico, una procedura standard per verificare che non si presentassero in gara atleti uomini. Pur avendo un aspetto femminile convincente e una chiara identità di genere femminile, risultò tuttavia che Maria presentava un cariotipo XY maschile. In più non aveva né le ovaie né l’utero. Per i commissari lei era un uomo! La diagnosi fu di sindrome da insensibilità agli androgeni (AIS). Per cui fu esclusa dalla competizione e radiata dalla squadra olimpica spagnola. I commissari fecero prevalere l’autorità dei cromosomi sugli altri marcatori di genere. La sua, una vita completamente rovinata.

Oggi, però, il comitato Olimpico non utilizza più come criterio di controllo il test genetico (cfr. Fausto-Sterling 2000: 1-3). Magra consolazione per lei…

5. GLI ORMONI

Si passò così (la faccio nuovamente breve e lineare) agli ormoni. L’ormone (dal greco όρμάω “mettere in movimento”) è un messaggero chimico che trasmette segnali da una cellula o un tessuto a un’altra cellula o altro tessuto. Gli ormoni sono stati concepiti e poi scoperti a inizio ‘900. 

Gli ormoni sessuali sono divisi in tre macro categorie: 

  1. Androgeni, come il testosterone, prodotto in maggior parte dal gonadi e dalle ghiandole surrenali; 
  2. Estrogeni, tra i più importanti c’è l’estradiolo; 
  3. Progestìnici, tra i più noto il progesterone prodotto dalle gonadi. 

Gli estrogeni ed androgeni sono ormoni presenti in tutt*, ma in quantità diverse nei maschi o nelle femmine. Gli estrogeni sono presenti in quantità superiori nelle donne, gli androgeni sono presenti maggiormente negli uomini. I progestinici (pro-gestazione), invece, sono ormoni sessuali femminili che stimolano la secrezione dell’endometrio, favorendo così le condizioni adatte alla fecondazione dell’uovo e al suo annidamento nella mucosa uterina.

Per cui, a parte i progestinici, non abbiamo ormoni specificatamente femminili o maschili… 

E qui nascono ancora problemi classificatori…

5.1. CASTER SEMENYA

Caster Semenya è una mezzo-fondista. Nel 2009 a soli 18 anni fece molto parlare di sé, fino a diventare un caso internazionale, dopo aver vinto la medaglia d’oro negli 800 metri femminili ai Mondiali di atletica leggera di Berlino, distanziando la seconda classificata di oltre 2 secondi. 

La vittoria però è stata subito messa in discussione a causa dei suoi tratti mascolini, uniti all’impressionante potenza con la quale ha demolito le sue rivali. Caster Semenya fu così accusata di essere un uomo. Dopo aver effettuato dei test di DNA (mai rivelati al pubblico per rispetto della sua privacy) è stata poi riammessa alle competizioni e, nel 2012, ha vinto la medaglia l’oro alle Olimpiadi di Londra (800 metri femminili). 

Lei è affetta da iperandrogenismo: il suo corpo produce naturalmente una eccessiva quantità di ormoni androgeni, come il testosterone, rispetto alla media. La IAAF – l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera, oggi World Athletics – per tutelare ogni atleta e rendere le competizioni sportive il più possibile “ad armi pari”, nel 2011 ha imposto una regola che obbliga le donne con iperandrogenismo a sottoporsi a una terapia ormonale per abbassare la produzione di ormoni androgeni, che ritengono possano falsificare le competizioni sportive.

Con la Federazione sudafricana, Caster Semenya ha però fatto ricorso al TAS – il Tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna. Il TAS ha respinto il ricorso dell’atleta sudafricana. Per cui l’atleta sudafricana non poté difendere il titolo mondiale ai Mondiali di Doha nel settembre 2019. L’atleta era stata esclusa da alcune competizioni sportive per essersi rifiutata di assumere farmaci che riducessero il suo alto livello di testosterone. Lei dice: "Alla fine, so di essere diversa. Non mi interessano i termini medici e quello che mi dicono. Essere nata senza utero o con testicoli interni. Non sono meno una donna. Queste sono le differenze con cui sono nata e le accetto. Non mi vergognerò perché sono diversa”. 

L’11 luglio 2023, la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) di Strasburgo ha sentenziato che il TAS e la World Athletics hanno violato i diritti dell’atleta sudafricana Caster Semenya.

Tuttavia, la decisione di Strasburgo non invalida le regole dettate dalla IAAF e, quindi, non ha permesso a Semenya di poter gareggiare gli 800m (senza alcun trattamento sanitario) alle olimpiadi di Parigi 2024.

5.2. BARBRA BANDA

Barbra Banda è una calciatrice zambiana, a cui sono stati rilevati livelli di testosterone più alti del consentito dopo il suo exploit alle Olimpiadi 2020 (tenutesi nel 2021). Il testosterone porta un vantaggio in termini di prestazioni, rendendo gli atleti più veloci e più forti. Banda ha rifiutato una cura ormonale poiché temeva i potenziali effetti indesiderati. Alle Olimpiadi ha avuto ottime prestazioni ed è stata la prima donna a segnare due triplette in un torneo olimpico. L’attaccante dello Zambia è stata ritenuta da più parti un uomo. La Confederazione Africana di Calcio (CAF) non le ha permesso di giocare alla Coppa d’Africa del 2022. Il CAF ha regole molto più stringenti rispetto a quelle delle Olimpiadi. Invece, la massima istanza calcistica (la FIFA), si è pronunciata sul “caso Barbra Banda”, permettendo la sua partecipare ai Mondiali in Australia e Nuova Zelanda del 2023. E alle Olimpiadi di Parigi 2024 ha segnato un’altra tripletta (4 goal in totale). Insomma, nemmeno ricorrendo agli ormoni si riesce a risolvere la questione…

Comunque, non sarebbe il caso che CIO, FIFA, CAF, World Athletics e tutte le altre federazioni sportive utilizzassero gli stessi parametri per giudicare se un’atleta possa o meno gareggiare o giocare con le donne?

Ma soprattutto, è possibile trovare questi parametri?

Ne parliamo la prossima volta, trattando anche di Imane Khelif, la pugile algerina il cui caso tanto ha fatto discutere la scorsa estate.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Dreger, Alive (1998), Hermaphrodites and the medical invention of sex, Harvard University Press, Cambridge, Mass.

Fausto-Sterling, Anne (2000), Sexing the body: Gender politics and the construction of sexuality, New York: Basic Books.

Montanari, Enrico (2018), La permeazione felice. Stati intersessuali e nuove prospettive, Tesi di laura in Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Milano.


Il mito della specie e della sua evoluzione

1. PARLARE DI SPECIE E DI EVOLUZIONE

I concetti di selezione, di evoluzione e di conservazione delle specie sono entrati, dalla formulazione che ne fece C. Darwin nel 1872[1], nel linguaggio corrente e scientifico ma, a volte, vengono usati in modo improprio, distorcendone il senso originale.

Una distorsione frequente dell’idea darwiniana è quella secondo selezione e evoluzione sono soggetti che agiscono con l’obiettivo di migliorare la specie per renderla più resistente ed adeguata al contesto in cui vive.

Ad esempio, Donald Hoffmann[2], stimato cognitivista americano, nel suo libro sulla percezione e sulla conoscenza della realtà, L’illusione della realtà – come l’evoluzione ci inganna sul mondo che vediamo (Bollati Boringhieri, 2020) sostiene noi e gli altri animali percepiamo la realtà in modo distorto, che vediamo[3] quello che ci conviene vedere per avere maggiori possibilità di sopravvivere e di riprodurci – di perpetuare la nostra specie.

È un punto di vista interessante dal lato filosofico e cognitivo e ripropone – in termini e linguaggio scientifici attuali – il concetto cartesiano di “grande illusione”[4], affinandolo e arricchendolo di esempi anche divertenti e appassionanti. È verosimile pensare che in alcune occasioni percepiamo[5] le cose in modo tale da metterci in guardia contro i pericoli, che ci orientiamo in modo immediato, senza ragionare, verso comportamenti che aumentano la nostra possibilità di sopravvivere, che ci nutriamo con alimenti che ci danno maggiore energia se dobbiamo fare sforzi o fatiche, e così via, che la nostra cognizione sia modulata in modo tale da garantire il massimo risultato.

Tuttavia, Hoffman suggerisce che - al centro di questa distorsione percettiva - sia proprio l’evoluzione[6] ad agire come soggetto, ad ingannarci per garantire la sopravvivenza del singolo individuo e la conservazione, la perpetuazione e il progressivo miglioramento della sua specie attraverso la riproduzione.

In questa visione la specie è un oggetto coerente, con confini ben definiti, in cui si ascrivono categorie di animali con caratteri omogenei, in cui questi animali si potrebbero riconoscere; e, l’evoluzione ha il carattere di soggetto, agisce con un fine, riconosce la specie, i suoi punti di forza e di debolezza, e ne orienta i meccanismi adattativi.

Questa concezione, ancora, si trova in alcuni schemi ecologisti e ambientalisti, in cui la specie è oggettivizzata ed elevata a valore da preservare, la natura è un soggetto che agisce, l’evoluzione, di nuovo, è un soggetto e ha un fine, quello di affinare e preservare le specie.[7]

2. DARWIN NON SAREBBE D’ACCORDO

Una prima sorpresa, per chi legge il trattato di C. Darwin sulla origine e selezione delle specie, è che - effettivamente - utilizza il termine specie e lo fa “come se” la specie fosse un unicum coerente e ben definito ma – nello stesso tempo – mette in guardia esplicitamente sul fatto che usa

«il termine di specie come applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza, a gruppi di individui molto somiglianti fra loro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termine varietà, il quale è riferito a forme meno distinte e più variabili. Anche il termine di varietà, per quanto riguarda le semplici differenze individuali, è applicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza.» (Darwin C., L’origine delle specie, 2019, Bollati Boringhieri)

Ancora più sorprendente può risultare che Darwin non intendesse affatto la “selezione naturale”, la “lotta per l’esistenza”, l’”evoluzione”, la “natura” come soggetti che agiscono ma – al contrario – come «azione combinata e risultato di numerose leggi[8]» (Cit., p. 154), e scrivesse che «nel senso letterale della parola, il termine selezione naturale è erroneo» (Cit., p. 154), lo ritenesse una espressione metaforica (cfr. ibidem):

«Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono» (Cit. p. 157).

Allo stesso modo, Darwin annota (cit. p. 154) che per alcuni «il termine selezione naturale implica una scelta cosciente da parte degli animali che vengono modificati», sottolinea il senso metaforico di questa espressione e – di fatto – anticipa una interpretazione che diventerà corrente, quella della personificazione delle forze selettive.

E quando (cit., p. 157), tratta metaforicamente la selezione come un soggetto,

«silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l'opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita»,

evidenzia che il fenomeno selettivo riguarda il miglioramento delle capacità di sopravvivenza del singolo individuo nel contesto in cui vive.

In sintesi, appare chiaro che - nella accezione darwiniana originale – la specie non è né un soggetto né un oggetto coerente e ben delimitato, e che la selezione, l’evoluzione e la conservazione delle specie non sono soggetti che agiscono ma processi risultato di condizioni di vita e – in definitiva – di fenomeni guidati dal caso, dal contesto e senza finalismi

«si può dire che le condizioni di vita non soltanto causano la variabilità, o direttamente o indirettamente, ma altresì includono la selezione naturale, poiché le condizioni determinano se questa o quella varietà sopravviverà» (Cit., p. 203).

Il ruolo del caso nel processo evolutivo può essere reso in modo chiaro con questo esempio: tra due individui qualunque, quello più adatto all'ambiente in cui si trova – cioè, quello che ha sviluppato in modo maggiore, nel corso della sua breve vita, le competenze e capacità più efficaci per quell'ambiente - ha più probabilità dell’altro di vivere abbastanza a lungo; vivendo abbastanza a lungo ha anche più probabilità di avere rapporti sessuali con individui che hanno sviluppato altrettante caratteristiche adeguate all'ambiente, se, casualmente, ne incontra.

Come conseguenza di questa casualità di vita lunga e di occasioni di rapporti sessuali, questo individuo ha maggiore probabilità di riprodursi e i nuovi nati hanno (o, perlomeno, potrebbero avere) le stesse caratteristiche di adeguatezza all'ambiente dei genitori.

Allo stesso modo si può proporre una riflessione sulla presenza di organi sessuali complementari che, per chi pensa a meccanismi finalistici nella selezione, sono "dedicati" all'accoppiamento a fini riproduttivi: proviamo a fare un esperimento mentale collocato nella notte dei tempi, in cui ipotizziamo un gruppo di 40 individui della stessa varietà, di cui 10 senza organi sessuali, 10 con organi sessuali senza capacità riproduttiva, 10 con organi sessuali con capacità riproduttiva e forma complementare e 10 con organi sessuali con capacità riproduttiva ma con forma non complementare, dopo qualche anno che tipo di individui ritroviamo? Certamente quelli che – casualmente – sono nati con organi sessuali complementari e che – sempre casualmente – si sono incontrati.

In estrema sintesi: in un ampio gruppo di individui diversi, quelli che sono, casualmente, più adeguati al contesto hanno più opportunità di vivere a lungo e riprodursi. La generazione successiva vedrà più individui con quelle caratteristiche di adeguatezza e meno di quelli meno adeguati. E, dopo alcune generazioni, troveremo solo individui del tipo "più adeguato".[9]

3. LA SELEZIONE NON È TELEOLOGICA E LA SPECIE NON ESISTE

Quando parliamo di selezione, di evoluzione e di conservazione delle specie è opportuno ricordare che questi concetti sono esenti da personificazione e da suggestioni finalistiche, che essi sono metafore per rappresentare il risultato di occorrenze casuali per cui gli individui che si trovavano al posto giusto, nel momento giusto e con le caratteristiche giuste sono sopravvissuti più a lungo e hanno avuto l’occasione di generare discendenti.

Al contrario, indulgere nella personificazione di questi concetti comporta il rischio di distorsioni socialmente pericolose, come, ad esempio, la giustificazione della “legge del più forte” e l’uso della selezione naturale per legittimare il carattere naturale di discriminazioni sociali, sessuali e razziali.

Allo stesso modo, considerare le specie come oggetti internamente coerenti o – addirittura – come soggetti, può essere il fondamento di pericolosi ragionamenti specisti o di atteggiamenti ecologisti i cui risultati sono discutibili, come la reintroduzione[10] di una varietà di animali in un territorio, oppure – ne ho già scritto recentemente – uccidere un grosso carnivoro “problematico” sia moralmente accettabile poiché quella morte non incide sulla conservazione della specie nel territorio in cui essa vive.

 

 

NOTE

[1] L’edizione di On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favoured races in the struggle for life che C. Darwin considerava definitiva è la sesta, pubblicata – appunto – nel 1872

[2] Cfr. Wikipedia - Donald Hoffman

[3] E sentiamo, e odoriamo, in sostanza percepiamo con i sensi

[4] Secondo Descartes l’immagine della realtà esterna che viene proposta dai sensi alla mente potrebbe essere del tutto illusoria, con poco o senza attinenza con la realtà com’è veramente; l’unica garanzia che abbiamo che questa percezione è veridica risiede in Dio, che non ci inganna, che è garante della veridicità della percezione.

[5] Uso qui il “noi” esteso a tutte le specie animali senzienti, dotate di sensi e di percezione.

[6] Uso evoluzione e specie in corsivo per sottolinearne la soggettivazione

[7] Di questo – e delle distorsioni morali sul tema delle specie - ne parlerò in un prossimo articolo

[8] Per C. Darwin, molto sull’onda humiana, le leggi sono «la sequenza di fatti da noi accertati» (Cit. p. 154)

[9] Se proprio vogliamo parlare di specie come oggetto coerente, è bene evitare di dire "la specie ha sviluppato quelle caratteristiche" e – invece –dire "la specie si è trovata con quelle caratteristiche" come risultato di singole storie di singoli individui che hanno, singolarmente, sviluppato quelle caratteristiche; dire: la specie "è " quelle caratteristiche. Questo perché la "specie" non esiste. Similmente la "selezione" non opera, "l'evoluzione" non seleziona; non fanno nulla perché non esistono, non sono soggetti che agiscono, sono solo fenomeni che sono accaduti. Così ci salviamo dall'equivoco finalista, teleologico, dell'evoluzione.

[10] Presto un articolo sulla discutibilità, sia scientifica che morale, della reintroduzione degli orsi bruni in Trentino