Nell’articolo Le nuvole scrivono il cielo di Seveso – Il crimine di pace, la scienza e il potere di qualche settimana fa avevo brevemente introdotto che cosa accadde il 10 luglio 1976 a Seveso-Meda, che cos’era l’Icmesa e alcuni problemi nati con il “disastro”, che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante la mia ricerca etnografica a Seveso. Nelle prossime righe mi concentrerò sulle vicende del “Comitato tecnico scientifico popolare” che nacque all’indomani del “disastro”.
Con l’evento del 10 luglio 1976, a Seveso sorsero nuovi gruppi organizzati di abitanti e nuove soggettività sociali e politiche. Il rovesciamento della dimensione quotidiana e l’affacciarsi di una «crisi della presenza»1 avevano portato all’emergenza di coaguli di persone che «non si limitavano al ruolo di vittime, come dicevamo noi, ma appunto hanno cercato di costruire dei legami e dei rapporti e di darsi degli strumenti di comprensione critica»2 e la cui sede principale a Seveso era il Circolo del Vicolo. Stefano, un ragazzo di vent’anni nel 1976 che lavorava in una falegnameria e aveva l’intenzione di iscriversi all’università, ricorda nel documentario «Seveso, Memoria di parte» il momento di fondazione del circolo.
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Ci si è trovati in un momento in cui la gente era estremamente preoccupata per la propria salute, ma avevano a che fare con un tossico impalpabile, inodore, incolore, invisibile. Il momento della fuoriuscita, che era il momento evidente, era passato. Il tossico ormai era depositato sui tetti, sui muri, sui pavimenti lastricati, sui terreni, ma non si vedeva. Per cui la gente iniziava ad avere la preoccupazione per la propria salute, ma andava esorcizzata perciò ci si appellava al matto di turno che diceva “non è successo niente, io vado a mangiare l’insalata lì dentro”, perché questo abbassava la tensione. Questo è servito per molti in buona fede, per molti altri ne hanno avuta un meno di buona fede dicendo le medesime cose, serviva per tenere moderata la tensione che vivevano quotidianamente. Abbiamo costruito questo che si chiamava Circolo del Vicolo perché la sede si trovò in una via che di chiamava Via del Vicolo, da lì Circolo del Vicolo.3
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Stefano racconta che l’ingente lavoro politico e culturale prodotto dal circolo nasceva dalla necessità di rispondere a bisogni e desideri che riguardavano l’esistenza intera. Per lui è stato un periodo nel quale la gente discuteva dappertutto e vi era un’adesione sociale molto elevata a qualsiasi tipo di situazione per un «trascinarsi probabilmente di quello che era la partecipazione alle lotte operaie»[4].
Il Circolo del Vicolo, nella sua dimensione locale, era un’espressione di questa stagione dei “movimenti” e, come sottolinea Stefano, il movimento operaio e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici per il salario e la salute in fabbrica trascinarono e crearono momenti di mobilitazione estesi e partecipati. Tra i gruppi che attraversarono il laboratorio politico del Circolo del Vicolo vi era il “Comitato tecnico scientifico popolare”.
Per Davide, fu il gruppo più importante nel ciclo di lotte locali a seguito del “disastro” dell’Icmesa.
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Il [gruppo, N.d.R.] più importante sicuramente è stato il Comitato tecnico scientifico popolare che era stato creato quasi subito da alcuni lavoratori dell’Icmesa, anche membri del consiglio di fabbrica, da giovani del territorio di allora e si è avvalso subito del supporto appunto di Medicina democratica che era a sua volta collegata alle lotte per la tutela della salute nelle fabbriche. In particolare, erano arrivati quelli del gruppo di Castellanza dove c’era un grosso stabilimento Montedison, dove si erano sviluppate delle esperienze molto interessanti di lotta ma anche di autotutela da parte dei lavoratori. E quindi diciamo sono arrivati qui e si sono messi in contatto con le realtà locali e appunto poi non solo, sono nati anche gruppi per esempio legati al movimento femminista il “Gruppo donne Seveso-Cesano”. E successivamente nacquero altri gruppi più piccoli come il “Comitato di controllo zone inquinate”. Insomma, erano nate diverse realtà spontanee che erano collegate un po’ da una serie di volontà di comprensione critica e di avere un ruolo nella tutela della propria salute e anche di verità rispetto a quanto accaduto e alle responsabilità rispetto a quello che era accaduto.5
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Il comitato era un organismo di base di contro-informazione e di lotta e aveva relazioni con altri soggetti politici della sinistra extra-parlamentare o delle componenti meno allineate alla politica di solidarietà nazionale del Pci degli anni Settanta. In particolare, vi erano dei collegamenti con “Medicina democratica movimento di lotta per la salute” e con la consigliera regionale del Pci, Laura Conti.
Fin dai primissimi giorni successivi alla fuoriuscita della nube tossica, il CTSP assunse fondamentali funzioni di informazione, controllo e organizzazione nei confronti degli operai dell’Icmesa e della popolazione sevesina. Il suo primo impegno a circa otto-dieci giorni dallo scoppio del reattore fu quello di fornire una prima sommaria ricostruzione dell’accaduto sulla base del materiale documentario raccolto e fornito dal confronto con i lavoratori dell’Icmesa. Fu così esaminato il ciclo produttivo del triclorofenolo all’interno della fabbrica per comprendere le cause che avevano portato al fatto-tragedia-disastro di Seveso. Questo lavoro fu realizzato dal confronto tra gli operai della fabbrica medese e il Gruppo P.I.A della Montedison di Castellanza, congiuntamente a Bruno Mazza dell’Istituto di chimica, fisica, elettrochimica, metallurgia del Politecnico di Milano e Vladimiro Scatturin dell’Istituto di chimica generale e inorganica dell’Università degli studi di Milano. Il documento prodotto dal titolo “Contributo del CTSP costituitosi in seguito all’inquinamento prodotto dall’ICMESA, in appoggio ai lavoratori e alla popolazione colpita” fu presentato nell’assemblea organizzata dalla Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil nelle scuole medie di Cesano Maderno il 28 luglio 1976. La ricostruzione del ciclo produttivo è stata in seguito pubblicata come primo articolo[6] nel numero monografico di «Sapere» dedicato a Seveso. Comprendere l’eziologia del “disastro” era un passaggio fondamentale per riflettere e agire sulle conseguenze dello stesso e per farlo era imprescindibile il coinvolgimento di chi nella fabbrica passava le sue giornate. Nella ricerca si evidenziò che l’Icmesa aveva introdotto delle varianti nel ciclo produttivo con lo scopo – secondo il Gruppo P.I.A., Mazza e Scatturin – di ridurre radicalmente i costi di produzione, scegliendo di operare in condizioni sempre più pericolose. La logica adottata dalla multinazionale svizzera era volta alla massimizzazione del profitto e faceva tendere all’infinito il «coefficiente di rischio» della produzione di sostanze ad alto rischio di tossicità, trasformando – quindi – in una certezza la possibilità di un “incidente”.
Lo scopo dell’approfondito lavoro di ricostruzione del ciclo produttivo realizzato da un’apposita commissione del CTSP metteva in questione l’astrattezza dei concetti di «univocità» e «oggettività» del ciclo produttivo e di scienza.
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Va detto, in conclusione, che il gruppo operaio non accetta in modo astratto la «univocità» e la «oggettività» del ciclo produttivo e della scienza e tecnologia che lo hanno imposto.7
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Il documento racchiudeva e metteva al centro la soggettività operaia riferita al ciclo stesso di produzione per fornire uno strumento utile alla comprensione del rischio vissuto quotidianamente e per partire dal punto di vista degli operai stessi.
Nelle conclusioni dell’articolo, vengono evidenziate due tipi di culture e di progresso: quella «del capitale» e quella dello «sviluppo sociale». Se la prima, spinta dalla molla del profitto economico privato, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dai poteri privati, la seconda è portatrice di istanze critiche nei confronti del “progresso” inteso come fine ineluttabile delle società umane. Al contrario, la “cultura sociale” si proponeva di azzerare il «coefficiente di rischio» attraverso lo sviluppo di una diversa forma di sapere avente come linea portante un inedito rapporto tra tecnici-operai-popolazione. Il CTSP si proponeva come esempio di tale relazione tra l’interno e l’esterno della fabbrica. Davide ricorda proprio questo passaggio come centrale nello sviluppo della lotta sevesina.
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Mentre nello stesso periodo le autorità sanitarie balbettavano, non sapevano cosa dire, non potevano forse dire tutto. Quindi per una fase iniziale nei primi mesi sì, [il CTSP, N.d.R.] era molto ascoltato, poi magari non tutti erano d’accordo, ma sicuramente molto ascoltato. E devo dire che inizialmente questo rispecchiava anche un legame che si stava un po’ instaurando tra territorio e fabbrica, tra territorio e lavoratori della fabbrica. Ora non la faccio troppo lunga, ma per come si era sviluppata l’industria nel territorio, nel nostro territorio c’era molto uno distacco tra la fabbrica e il territorio agricolo-artigianale di quegli anni. Tra chi lavorava in fabbrica e gli altri erano mondi un po’ strani, convivevano, ma senza proprio incontrarsi. Per un attimo quella vicenda nella sua drammaticità aveva costruito un legame perché per la prima volta quelle nocività uscivano sul territorio. Quelle nocività che non solo nella fabbrica, erano percepite come un problema della fabbrica si riversano in modo traumatico sul territorio. Quindi è la prima cosa che fa la popolazione non operaia andare a dire bah, chissà, forse chi ci lavora dentro qualcosa sa. C’è un’intervista a un lavoratore del Consiglio di Fabbrica dell’ICMESA, che racconta che alcuni genitori di bambini con la cloracne hanno contattato loro perché le autorità risposte sembravano non darne o comunque non ne parlavano volentieri e quindi si rivolgono ai lavoratori. Tra l’altro è da lì che anche i lavoratori prendono coscienza definitiva della gravità di quello che è accaduto e sospendono la produzione. Proclamano lo sciopero ad oltranza. È praticamente la fine dell’Icmesa.8
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Gli obiettivi del comitato furono esplicitati nel bollettino pubblicato nel settembre del 1976 e si posero in contrapposizione con l’operato delle istituzioni locali, regionali e nazionali che – secondo il CTSP – avevano coperto e soffocato ogni tipo di protesta e di organizzazione degli abitanti della zona, non fornendo sufficienti informazioni sulla situazione per fare maturare una consapevolezza collettiva del rischio.
Nel prossimo articolo sul CTSP, partirò proprio da qui per scendere nel sottobosco dei documenti conservati dall’Archivio Seveso. Memoria di parte e della storia del comitato.
NOTE
1 Per «crisi della presenza» si intende una situazione in cui un individuo o un gruppo umano si trovano ad affrontare un particolare evento, come per esempio la malattia o la morte, durante il quale si sperimenta un’incertezza, una crisi radicale della possibilità di esserci nel mondo e nella storia, tanto da scoprirsi incapaci di agire e di determinare la propria azione. Si veda, E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977.
2 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.
3 Archivio Seveso Memoria di parte (Asmp), b. CTSP, Interviste-documentario “Seveso, Memoria di parte”. Si tratta di un documentario autoprodotto dall’ “Archivio Seveso Memoria di parte”.
4 Ibidem.
5 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.
6 Si veda, Gruppo P.I.A., B. Mazza, V. Scatturin, “ICMESA: come e perché”, in «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, pp. 10-36.
7 Ivi, p. 34.
8 Intervista a Davide, 27 gennaio 2024.
Autore
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Dottoranda a La Sapienza di Roma, laureata in Antropologia all’Università degli Studi di Milano Bicocca e assidua ricercatrice dell’off-stream. Ha sempre pronto il punto di vista politico dei fenomeni sociologici e scientifici. Perde facilmente la strada. Poi la ritrova, ma diversa. Nel tempo libero si diletta a tirare calci e pugni e a giocare a briscola con la nonna.