«Si riscosse sentendosi quasi chiamato e interrogato dalle ultime parole di Settembrini, ma, come quando quest’ultimo aveva voluto costringerlo solennemente a decidersi fra “Oriente e Occidente”, atteggiò il viso all’espressione di chi pone riserve e non si vuole arrendere, e tacque. Spingevano tutto all’estremo, quei due, come è forse necessario quando si viene ai ferri corti, e litigavano accaniti per un’alternativa suprema, mentre a lui sembrava che nel mezzo, tra le esagerazioni contestate, tra il retorico umanesimo e la barbarie analfabeta, ci doveva pur essere quello che si potrebbe chiamare l’umano». (Mann T. (1924), La montagna incantata, Corbaccio, Milano, 2015, p. 500)
Fra i personaggi più straordinari della letteratura possiamo annoverare sicuramente Lodovico Settembrini e Leo Naphta, i due precettori di Hans Castorp, il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann.
In questo romanzo di formazione infatti, il giovane ingegnere tedesco è costantemente sollecitato sul profilo intellettuale da queste due figure che – con fenomenale, e a tratti assurda, coerenza – lo invitano a scegliere fra visioni del mondo radicalmente contrapposte: da un lato, il massone italiano lo esorta ad abbracciare i valori illuministici del progresso, il culto della ragione, l’universalismo cosmopolita, l’arte classica e il liberalismo; dall’altro, il gesuita est-europeo lo spinge verso il socialismo, la relatività esistenziale del sapere e la sintesi idealista del corpo e della mente, sulla falsariga delle dottrine radicali teocratiche del medioevo.
La ricostruzione degli elementi e dei valori culturali propri di questi due personaggi, e dei loro partiti idealtipici, è talmente precisa e dettagliata, così completa nella presentazione fattane dall’autore, da far nascere costantemente dubbi nel lettore a proposito delle proprie convinzioni personali, una volta che queste vengono adeguatamente ricondotte a quello che Fleck[1] chiamerebbe il loro “stile di pensiero” originario.
Non solo, ma lo portano anche a dissociarsi dall’integralismo con cui i due personaggi difendono le proprie posizioni, talmente esasperato da sfidarsi a duello per affermarle nei confronti del rispettivo avversario.
La genialità e l’attualità dell’opera di Mann, a 100 anni dalla pubblicazione del libro, sta nel fatto che Settembrini e Naphta sono personaggi di fantasia, assolutamente improbabili, pur essendo caratterizzati ciascuno come un insieme di elementi di dettaglio estremamente reali e storicamente ben definiti. Altro che il Signore degli Anelli!
Piuttosto, suggerisce l’autore, è secondo un’ambigua convivenza di “ragione” e “sentimento” che l’uomo moderno, l’ingegnere – e noi che ci impersoniamo in lui – verosimilmente costruisce il proprio percorso di vita: come un coacervo di idee eterogenee, e talvolta in conflitto.
Per esempio, un accostamento inusuale è quello che associa la formazione della cosmologia moderna – nel senso antropologico di insieme di codici che definiscono e regolano l’ordine sociale – alla nascita del turismo, avvenuta fra il XVIII e il XIX secolo.
Infatti, nelle scienze sociali e nel senso comune si tende, generalmente, a derubricare superficialmente l’argomento, come se fosse meno rilevante della razionalizzazione, dell’individualizzazione e di altri cambiamenti di natura politica ed economica avvenuti nello stesso periodo (del resto, abbiamo giusto un paio di settimane di ferie l’anno purtroppo).
Eppure, come mostra lo storico Alain Corbin, nel suo libro L’invenzione del mare (Corbin A. (1988), Le territoire du vide. L’Occident et le désir de rivage, 1750-1840, Flammarion, Paris), all’emergere della prassi del turismo deve essere assegnato un ruolo di primaria importanza, poiché essa istituisce ex abrupto il movimento di ricerca verso l’ignoto, e lo consolida come consuetudine sociale che poi va sempre più generalizzandosi nel corso del tempo.
Il mare, dice appunto provocatoriamente, è stato inventato nel periodo contemporaneo, poiché precedentemente non esisteva, come, ad esempio, secondo il Verbo, esso non è nemmeno previsto nel giardino dell’Eden.
La società “pre-moderna” (qualunque cosa voglia dire questo ambiguo concetto) è una società esclusivamente di pianura, che acquisisce il “desiderio di riva”, la volontà di esplorare i territoires du vide, come un fatto inedito, saldato alla pratica di distinzione sociale dei rampolli dei ceti emergenti di quel periodo che, un po’ come Darwin alle Galapagos, Malinowski nelle Trobriand o Booth negli slum della Londra vittoriana, tenevano dei diari a proposito delle loro “robinsonate”, le gite esplorative delle coste e delle isole ignote che visitavano nel tempo libero.
Quello turistico è quindi, per prendere in prestito un’espressione bourdieusiana, un principio di visione e divisione sociale, un modo di vedere e organizzare la società, un tipo di sguardo sulle cose, una maniera di arrangiarle da un punto di vista materiale, che certamente è concomitante all’industrializzazione, ai processi di democratizzazione e secolarizzazione.
All’affermarsi del turismo possono essere quindi ricondotte tutta una serie di biforcazioni di cui ancora oggi ci avvaliamo: come quella fra natura e cultura, che rispecchia la suddivisione dello spazio in luoghi antropizzati e incontaminati; come la ripartizione economicista fra l’utile (il lavoro) e l’inutile (lo svago); e come la suddivisione dei ruoli sociali in essenze che appartengono, da un lato, ad un tempo passato – quello della campagna, o delle terre esotiche[2], immobili e unicamente da conservare e visitare come reliquie (è sempre, maledettamente, vietato toccare!), e dall’altro ad un futuro appropriabile, ma già ipotecato, quello della città – che chiede di essere imitata, stabilendo la direzione, ma senza offrire reali speranze.
Ma soprattutto[3] al turismo deve essere associato il nuovo modo in cui determiniamo ciò che è vero e ciò che è falso: tutti sanno benissimo che, quando un qualcosa è “per turisti”, significa che è “inautentico, fasullo, o ingannevole”, e che solo i “veri viaggiatori” sanno distinguere e apprezzare ciò che invece è “autentico”.
Come dice Goffman, nel mondo moderno – in cui la struttura della società supera in estensione e per differenziazione quella familiare e comunitaria, dove la verità rimane nettamente distinta dalla menzogna, come il giorno dalla notte – è attraverso un’ipertrofia di apparati di intermediazione, tutta una serie di dispositivi e costruzioni, che viene assemblato l’ordine sociale.
Nella società contemporanea, la verità è una messa in scena, che deve essere costantemente performata, ed è sempre esposta al rischio di fallire[4] .
Le verità di cui ci avvaliamo sono sempre artefatte, ma, ciononostante, questo ci suona come un paradosso.
Il palcoscenico dove avvengono le rappresentazioni, infatti, lo consideriamo come un piano sostanzialmente illusorio e sovrastrutturale rispetto al retroscena che nasconde (con buona pace dei cuochi che non possono più tirarsi le padelle, visto che ora tutte le cucine sono a vista). La mediazione implica quindi l’istituzione di due dimensioni, una front region e una back region, dove la prima sarebbe come un manto di apparenze che avvolge la vera essenza delle cose nascoste della seconda: «hai finito con le chiacchiere e i sofismi? Vai al sodo, lascia parlare i fatti!».
Come epitomato dal flâneur di Baudelaire, il turismo ha affermato un modo di esistenza che ci spinge ad assegnare un valore al disinteresse, ad apprezzare il mondo e a considerarlo tanto più veritiero quanto più è libero ed irresponsabile nei confronti di un sistema di media, come se questi non operassero altro che distorsioni: si dimentica così della sua massima più famosa, perché ciò che vediamo nelle immagini da cartolina è sempre la meta, e mai la strada per arrivarci.
Mentre solo l’accesso diretto, come quello che pare procurarci il “doppio click” del mouse, consentirebbe una vera esperienza delle cose; poco importa poi che una ricerca scientifica disponga di strumenti e finanziamenti e un’altra solo della buona volontà, la natura è lì in ogni caso!
Come sentenzia Latour, noi moderni siamo incapaci di pronunciare con una sola emissione di voce la frase “è costruito, perciò deve essere vero”[5] .
Tuttavia, dice Cézanne, «guarda la montagna, una volta era fuoco!», troppo concentrati dalla vetta, ci dimentichiamo infatti che la strada per arrivarci dipende dalla nostra formazione, e il sentiero che sapremo aprirci sarà molto diverso se siamo guide alpine attrezzate o escursionisti domenicali, ma non necessariamente uno sarà più vero dell’altro. Piuttosto, essi differiranno nel grado di realtà che saranno in grado di mobilitare e trasformare a proprio vantaggio.
Così, conclude ironicamente Latour: «L’etnologo trova sempre comica l’eterna lamentela inventata dalla critica: “poiché accediamo alle cose conosciute tramite un percorso, questo significa che queste cose sono inaccessibili e inconoscibili di per sé”. Vorrebbe rispondere: “ma di cosa ti lamenti, visto che comunque puoi accedere ad esse?” “Sì” – continuano a piagnucolare – “ma ciò significa che non le cogliamo ‘in sé stesse’, non vediamo come sarebbero ‘senza di noi’. “Bene, ma visto che vuoi approcciarle, se vuoi che siano come sono ‘senza di te’, perché non smettere semplicemente di provare a raggiungerle?” Ancora in modo più lagnoso; “perché così non avremmo alcuna speranza di conoscerle”. Sospira esasperato l’etnologo: “è come se vi congratulaste con voi stessi che c’è un percorso per il monte Aiguille, ma poi vi lamentaste che vi ha permesso di arrampicarvi fino in cima…” La critica si comporta sempre come i turisti blasé, che vorrebbero sempre raggiungere i territori più incontaminati senza difficoltà, e senza incappare in altri turisti». (Latour B. (2013), An Inquiry into Modes of Existence. An Anthropology of the Moderns, Harvard University Press, p. 85)
NOTE
[1] Cfr. Fleck L. (1935), Genesis and Development of a Scientific Fact, Foreword by T. S. Kuhn, The University of Chicago Press.
[2] Cfr.: Said E. W. (1978), Orientalism, Pantheon Books, New York
[3] MacCannell D. (1976), The Tourist: A New Theory of the Leisure Class, Schocken Books, New York.
[4] Oltre alla ripartizione fra il mondo della pianura e il clima dell’altitudine, per dirla con Mann – come ha intuito Dean MacCannell, in uno dei più importanti saggi di antropologia del secolo scorso ; Cfr.: Goffman E. (1959), The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday, Garden City
[5] Cfr. Latour B. (2013), An Inquiry into Modes of Existence. An Anthropology of the Moderns, Harvard University Press.
Autore
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Dottorando in Sociologia all'Università di Pisa. Ha un interesse particolare per la teoria sociale, l'ecologia politica, la filosofia della scienza e l'epistemologia. Nel tempo libero cerca ispirazione dal cinema, dall'architettura e dall'arte contemporanea, cercando di prendere le cose con leggerezza, e in fare questo si impegna molto.
Molto interessante 😃
[…] prima parte di questa riflessione sul tema del doppio click come atteggiamento blasé nei confronti del mondo, abbiamo associato lo […]