Beata Halassy ha 53 anni ed è una virologa dell’Università di Zagabria. […] ha sperimentato su sé stessa un trattamento che consiste nell’iniettare virus nei tessuti tumorali, in modo da indurre il sistema immunitario ad attaccarli, con l’obiettivo di curare in questo modo anche la malattia. A quattro anni di distanza, il tumore non si è più presentato e sembra quindi che la terapia abbia funzionato, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire. Non è la prima volta in cui viene provato un trattamento di questo tipo, ma il fatto che la ricercatrice lo abbia provato su di sé e al di fuori di un test clinico vero e proprio ha aperto un ampio dibattito, soprattutto sull’opportunità dell’iniziativa da un punto di vista etico.
Tratto da Il Post, 12.11.2024,
La ricercatrice che si è iniettata
dei virus per curarsi un tumore
SPERIMENTARE SU DI SÉ
La sperimentazione su di sé di farmaci, cure e interventi medici non è una cosa nuova. Publio Elio Aristide, retore greco del II secolo che prova su di sé una serie di rimedi – alcuni estremamente pericolosi, come i tuffi nel mare gelato d’inverno – suggeriti in sogno dal Dio Asclepio; Max von Pettenkofer, a fine ‘800 –beve un bicchiere pieno di vibrioni del colera (e non ne muore, si dice) per provare che i microbi non provocano malattie; Edward Jenner, alla fine del ‘700 sperimenta il vaccino contro il vaiolo sul figlio di poco più di un anno; Evan O’Neill Kane, nel 1921, si asporta da sé – con un sistema di specchi – un’appendice per dimostrare la praticità dell’anestesia locale; Werner Forssmann (premio Nobel 1956), pratica il primo cateterismo cardiaco su di sé; Barry Marshall, (Nobel 2005), come Pettenkover, ma con obiettivi opposti, beve una coltura di Helicobacter pylori per dimostrare che causa l’ulcera gastrica; Max Theiler, (Nobel 1951) testa su di sé il primo vaccino contro la febbre gialla.
OBIEZIONI ETICHE
La auto-sperimentazione di un trattamento senza prove sistematiche di efficacia che Halassy ha effettuato è stata bersaglio di numerose critiche di ordine etico da parte delle comunità medico-scientifiche.
In prima battuta, i critici hanno evidenziato il rischio che la pubblicazione di questo caso «incoraggi altri a rifiutare i trattamenti convenzionali e provare qualcosa di simile […] Le persone con il cancro sono particolarmente suscettibili a provare trattamenti non testati» (Jacob Sherkow , in This scientist treated her own cancer with viruses she grew in the lab, Nature, 08.11.2024 – traduzione degli autori). Tuttavia, in questo caso, la complessità del trattamento sembra essere a portata di mano di pochissimi, riducendo a quasi nulla il rischio di emulazione.
Altre obiezioni di stampo etico – evidenziate su Practical Ethics, blog della Oxford University – riguardano: la consapevolezza di Beata e il consenso informato su quello a cui si stava sottoponendo; il grado di ragionevolezza del rischio a cui si è esposta, la proporzionalità tra questo rischio e quello delle terapie standard. Appare ovvio che la ricercatrice fosse informata – da sé stessa – e consapevole del livello di rischio, ed emerge[1] che in questo caso il rischio era ragionevole poiché i virus utilizzati hanno un buon livello di sicurezza. Inoltre, La terapia[2] è stata condotta sotto il monitoraggio degli oncologi che avevano in cura Beata.
Ecco un ulteriore punto etico che possiamo sollevare: la responsabilità è stata condivisa dagli oncologi che hanno monitorato la auto-terapia? Un medico che sa che il proprio paziente sta curandosi da sé in modo non ortodosso, dovrebbe impedirglielo?
Stando ai media – di massa e più specialistici – il gruppo di oncologi sarebbe stato pronto ad intervenire in caso di complicanze e le condizioni dell’esperimento erano di rischio ragionevole: queste considerazioni neutralizzano la prima di queste due obiezioni e perimetrano favorevolmente la seconda.
Il punto più controverso sembra quindi essere quello della mancanza di protocolli di sperimentazione strutturati e rigorosi.
Ad esempio, l’infettivologo Matteo Bassetti ritiene che l’auto-sperimentazione sia la cifra di una mentalità eticamente spregiudicata, fuori luogo in un contesto di medicina in cui «Si è cominciato a fare statistica, ad applicare metodi, sono arrivati i dati e i computer ma soprattutto è cambiata la mentalità, che è oggi più etica».
Il punto, secondo Bassetti, è che «L’autoesperimento è oggi il trionfo dell’anedottica ovvero l’esatto contrario della medicina dell’evidenza».
Tuttavia, riteniamo di poter obiettare che se l’auto-esperimento ha – come sembra finora – davvero funzionato, in un quadro morale di valore dell’esistenza in vita degli individui:
- si tratta di un successo morale poiché ha probabilmente salvato una vita, quella di Beata Halassy
- se fosse ripetibile, potrebbe essere lo spunto per una ricerca sistematica e diventare un nuovo protocollo di cura per quel tipo di tumore.
È, invece, eticamente eccepibile la scelta di censurare[3] – in nome dell’ortodossia, del corpus disciplinare della ricerca medica e farmacologica, della evidence medicine – la sperimentazione fatta da Beata, confondendo i protocolli sperimentali rigorosi e strutturati, le prassi operative, la morale procedurale, con il vero obiettivo della medicina, che dovrebbe essere curare i malati.
Non vogliamo, con questo, negare l’importanza della ricerca e della sperimentazione rigorosa, che riteniamo un caposaldo irrinunciabile per contenere il rischio reale di deregolamentazione farmaceutica, ma – ancora una volta – suggeriamo una maggiore permeabilità della medicina maggioritaria[4] alle istanze morali dell’individuo da guarire.
CURA DI SÉ
Come detto, qui non è in gioco solo la sperimentazione su di sé. La particolarità di questo caso è di aver a che fare con la sperimentazione di una scienza che si prende cura della persona. Sperimentazione su di sé, ma anche cura di sé.
La cura di sé è riemersa nella seconda metà del secolo scorso, dopo un periodo di riposo forzato o quanto meno indotto. Con gli anni ‘70 e e ‘80 torna in auge un concetto diverso di paziente. A esempio negli USA il dottor Keith Senher nel 1970 inizia un percorso di insegnamento a gruppi di pazienti. Le sue lezioni comprendono pratiche come la misurazione della pressione arteriosa (oggi è comune prendersi la pressione da sé), l’auto-sommistrazione di farmaci tramite iniezioni e l’uso di altri presidi medici. Obiettivo di Sehnert era quello di rendere il paziente attivo e collaborativo, anziché semplice consumatore.
Conoscenze e pratiche che vengono incentivate anche da cliniche e ospedali. I pazienti attivi permettono di sgravare il sistema sanitario dalla presa in carico di patologie comuni e facilmente curabili. Era vero in America, è vero anche in questo secolo per il nostro Sistema Sanitari Nazionale, che non è più in grado di prendersi carico della cronicità.
L’educazione del paziente diventa una risorsa per promuovere l’aderenza alle terapie così come uno stile di vita salubre. Imparate a nuotare, è un piacere farlo, ma aiuta anche a salvarsi se la nave affonda.
Rinnovato nei metodi, il Self-Care ritorna però anche per altri motivi.
Uno è la delusione profonda nei confronti della rotta che la nave sanitaria ha preso: l’istituzione ha preso possesso del corpo, ma non si dimostra capace di rispondere al bisogno. Il Self-Care reclama il possesso del corpo, tenta di strapparlo al controllo del medico. All’eccesso, il rifiuto dell’identità di consumatore porta alla negazione totale della medicina e della cura.
Questo è stimolato anche da un’altra posizione di opposizione. Quella delle persone discriminate. Il corpo della donna era vissuto come costruito socialmente per l’uomo compagno o l’uomo dottore. Questo corpo diventa il fulcro di una lotta per la riappropriazione di sé, totale e non soltanto terapeutica, economica e politica. Un territorio occupato di cui riprendere possesso. Ancora negli anni ‘70 alcuni libri titolano How to help your doctor help you, mentre di contro vengono pubblicati classici del Self-Care femminista come Our bodies, ourselves o Taking our bodies back.
Una contesa lontana dal concludersi se pensiamo al libro denuncia di Anne Boyler, pulitzer 2021, sull’abbandono sociale e sanitario che possono vivere le donne con cancro al seno. Se pensiamo alla vulvodinia, sindrome ginecologica con sintomatologia dolorosa e cronica, che ancora risulta per lo più invisibile alla medicina. O ancora agli attacchi alla legge 194, al bisogno delle donne di fare rete per darsi mutuo riconoscimento e aiuto anche contro l’impostazione maschile di una certa ginecologia.
La cura del sé è stata ed è in questi casi veicolo per l’emancipazione della persona e altrettanto per l’emancipazione della scienza da sé stessa. Diventa infatti motore fondamentale per la scoperta scientifica, promuovendo uno sguardo che oltrepassa il dito.
È stata fondamentale perché si iniziasse a curare l’AIDS e si sviluppassero terapie, oltre lo stigma sociale della malattia. Così come l’apporto delle organizzazioni di pazienti e simpatizzanti promosse le terapie per la fibrosi cistica, mentre i grandi finanziamenti si perdevano nella corsa all’oro della genetica degli anni ‘90.
Un’ultima considerazione: il self-care non implica necessariamente una critica della scienza medica contemporanea e della sua idea di corpo, ma si presenta più come una forma di resistenza alla mistificazione del corpo. Ancora nel XVIII era frequente che grandi scienziati – oltre che a sperimentare su di sé come detto in apertura – dessero al pubblico prescrizioni di carattere igienico sanitarie come Medicus sui ipsius di Linneo.
Con il XIX secolo però, la medicina scopre il «silenzio spontaneo della natura». Nelle grandi cliniche di Parigi e Vienna si fa strada una nuova idea che viene ben raccontata dal filosofo e medico Georges Canguilhem. La natura parla solo se la si interroga bene e questo il malato non è certo in grado di farlo. Come distinguere un segno e un sintomo? Rimettersi al medico. È il positivismo: «Non c’è igiene senza medico».
Il self-care rivendica il possesso di un corpo costruito dalla medicina scientifica positivista. Non si oppone necessariamente all’epistemologia che fonda la medicina. Non ci si richiama necessariamente a una visione sistemica, olistica o esistenziale. Halassy ha fatto fatica, ma ha vinto. Lo spettacolo deve continuare.
NOTE
[1] Cfr. https://blog.practicalethics.ox.ac.uk/2024/11/is-it-ever-ok-for-scientists-to-experiment-on-themselves/
[2] La terapia ha impiegato prima un virus del morbillo e poi un virus della stomatite vescicolare, patogeni già studiati in contesti di viroterapia oncolitica.
[3] Come il dottor Bassetti l’hanno fatto le numerose riviste che si sono rifiutate di pubblicare l’articolo – scientifico – di resoconto scritto da Beata
[4] Sul concetto di Scienza maggioritaria e scienza minoritaria – coniato in questo blog da Alessio Panella e Gianluca Fuser – si veda qui
Autori
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Laureato in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, è il Libraio della redazione. Filosofo che non riesce a separarsi dalla narrativa. Oggi studia soprattutto filosofia della medicina, con un taglio innovativo.
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Laureato in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano e manager. Scrive appunti sul rapporto tra scienze, tecnologie e morale anche quando pedala come un pazzo, la domenica mattina. A volte dice di lavorare.