Dopo la recente inflazione di mediche[1] sui mass media, si è fatta strada l’idea che le esperte di salute siano loro. Tant’è che capita frequentemente che qualche personaggio televisivo, molto aggressivo e arrogante, di formazione medica (me ne vengono in mente almeno un paio, uomini) dica alle sue interlocutrici che lo criticano: “lei prima si prenda una laurea in medicina, e poi ne parliamo”. Nessuna però risponde a lui, che parla di comportamenti a rischio o di come ragionano i pazienti: “lei prima si prenda una laurea in sociologia o psicologia, e poi ne parliamo”. Ma, si sa, la simmetria non è un’attività molto praticata da superbi e prepotenti.

Come la fisica è delle fisiche, ma la natura o l’ambiente è di tutte (ne parleremo in un prossimo post), così la salute è un tema a cui possono dare un contributo molti tipi di esperte; non solo le mediche.

Facciamo un paio di esempi  [2]:

IL CASO DELL’AIDS

All’inizio degli anni Novanta, durante i drammatici dibattiti sulla sperimentazione di medicinali contro l’AIDS e l’HIV, il sociologo Steven Epstein notò come alcuni movimenti di attiviste, per lo più composti dalle stesse pazienti, erano riusciti a trasformare la loro posizione marginale in un contributo attivo e autorevole. Epstein (1995) si concentrò su come questi gruppi di attiviste fossero riuscite a ottenere una certa credibilità e farsi riconoscere come “esperte non professioniste” (lay experts), creando una breccia nella divisione tra esperte e non esperte. A quel tempo, la difficoltà di gestione della malattia da un punto di vista farmacologico, il suo veloce diffondersi soprattutto nelle fasce di popolazione in giovane età e la mancanza di risposte ritenute adeguate da parte della medicina convenzionale, avevano creato da un lato una certa sfiducia nel riguardo della sperimentazione dei nuovi farmaci, e dall’altro un terreno fertile per le attiviste che erano così riuscite a far ascoltare la loro voce all’interno del dibattito. Il contesto storico, culturale ed economico delle sperimentazioni farmacologiche, come spesso avviene, era caratterizzato da una moltitudine di attori sociali: mediche e scienziate di varia formazione (immunologhe, epidemiologhe, mediche di famiglia ecc.), autorità sanitarie locali, federali e nazionali, compagnie farmaceutiche ecc. Ma dove collocare le pazienti e i loro parenti? Secondo Epstein, mediante una serie di strategie — come per esempio l’acquisizione di alcune conoscenze particolari che le rendessero capaci di discutere con competenza di questioni mediche e legali, la creazione di una rappresentazione politica, la presa di posizione in dibattiti metodologici preesistenti e la fusione di richieste di ordine etico con quelle di ordine epistemologico — questi gruppi di attiviste creati dalle pazienti e loro familiari riuscirono a farsi accreditare come lay expert. In questo modo, esse riuscirono a mettere in discussione alcuni assunti impliciti delle sperimentazioni, che troppo spesso emarginavano (e ancora emarginano) dal processo decisionale proprio le dirette interessate. 

GLI EFFETTI DEL DISASTRO NUCLEARE DI CHERNOBYL 

A partire dagli anni Novanta, l’“information deficit model” (ovvero l’idea paternalista secondo cui ogni resistenza nei confronti dell’innovazione, e della scienza in generale, deriva da una sua mancata comprensione da parte dell’opinione pubblica. Di conseguenza, quest’ultima dev’essere educata e fornita di tutte le informazioni necessarie) è stato criticato su più fronti anche grazie a studi come quello del sociologo inglese Brian Wynne (1992) a proposito della crisi della pastorizia in Cumbria (UK) a seguito del disastro nucleare di Chernobyl. In un primo momento, il governo Britannico aveva minimizzato il rischio di contaminazione, incontrando tuttavia la resistenza delle allevatrici che invece si erano immediatamente allertate. Le “esperte” degli enti governativi avevano screditato queste proteste come “irrazionali” e frutto di una mancata comprensione della valutazione scientifica delle esperte. Fu solo in un secondo momento, e dopo un lungo dibattito, che le scienziate si videro costrette a rivedere la propria valutazione. Nel frattempo, però, la sottovalutazione del fenomeno aveva già creato ingenti danni economici alla pastorizia locale. Le interviste condotte da Wynne con le allevatrici rivelarono che la loro non era una semplice mancanza di comprensione. Al contrario, esse confrontavano le informazioni fornite dagli enti governativi alla luce della loro esperienza quotidiana degli eventi atmosferici, delle acque e delle caratteristiche del terreno di quella particolare regione. Le nozioni scientifiche riguardanti il rischio e le prescrizioni su come comportarsi, venivano certamente recepite e comprese da parte delle allevatrici; ma anche attivamente trascurate per la scarsa fiducia che esse riponevano nelle istituzioni. La fiducia, infatti, non riguardava le singole informazioni o indicazioni, ma l’intero “pacchetto sociale” fatto di relazioni, interazioni e interessi all’interno del quale i vari attori sociali di muovono. 

UN NUOVO MODELLO DI COMPETENZA

Grazie a questi studi, Epstein e Wynne mostrarono sia che la scienza non è una sfera autonoma sia che anche coloro che vengono considerate semplicemente pazienti e allevatrici potevano, e volevano, avere un ruolo attivo. Questo non è un caso isolato e molti sono gli esempi che potrebbero essere menzionati: i gruppi femministi nella ricerca medica contro il cancro al seno, i gruppi ambientalisti, i movimenti delle agricoltrici e molti altri ancora. In tutti questi casi, la competenza si estende ben al di là dei limiti della comunità scientifica. Proprio perché la scienza non garantisce un accesso privilegiato alla “verità”, esistono altri tipi di sapere che possono tornare utili, altre competenze e priorità da prendere in considerazione. Attribuire competenza solamente alle scienziate impedisce all’intero processo decisionale di maturare una consapevolezza della complessità degli obiettivi da porsi e delle molte possibili strade per raggiungerli. 

 

NOTE

[1] Uso il femminile sovraesteso.

[2] Cfr. Gobo, G. e Marcheselli, V. (2021), Sociologia della scienza e della tecnologia, Roma: Carocci.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Epstein, Steven. 1995. “The Construction of Lay Expertise: AIDS Activism and the Forging of Credibility in the Reform of Clinical Trials”. Science, Technology, & Human Values 20(4): 408-437.

Irwin, Alan e Brian Wynne (1996), Misunderstanding science? The public reconstruction of science and technology. Cambridge: Cambridge University Press.

Wynne, B. (1992), Misunderstood Misunderstanding: Social Identities and Public Uptake of Science, in “Public Understanding of Science”, 1, 3, pp. 281-304.

Autore

  • Giampietro Gobo

    Professore ordinario di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Per molti anni si è occupato di epistemologia e metodologia della ricerca sociale. Attualmente si dedica allo studio dei “sensi sociali” e di controversie scientifiche nel campo della salute. Per le sue pubblicazioni cliccare il link qui sotto.