Qualche settimana fa avevamo iniziato una riflessione sull’interazione tra processo creativo artistico e Intelligenza Artificiale.
Ci eravamo chiesti se realizzare un’immagine con l’IA può essere definito come un atto creativo e abbiamo avuto le risposte di tre amici di Controversie, ognuno dalla propria ottica che deriva da un diverso percorso professionale e culturale (trovate le risposte nell’articolo pubblicato il 10 settembre scorso).
Riporto di seguito le conclusioni di quella prima riflessione:
“Non c’è dubbio che queste tre risposte siano estremamente stimolanti e che vi si possa rintracciare un minimo comune denominatore che le lega: l’idea che l’IA sia solo un mezzo, per quanto potente, ma che l’atto creativo resti saldamente appannaggio di colui che ha nel suo animo (umano) l’obiettivo concettuale.
Ottenere un risultato con l’IA si delinea, qui, come un vero atto creativo, che, però e ovviamente, non è detto che si trasformi in arte, ovvero in una manifestazione creativa in grado di dare emozione universale.
In termini più concreti: molti di noi, forse, potrebbero avere “nella testa” La notte stellata di Van Gogh (giusto per fare un esempio), ma la differenza tra la grandissima maggioranza di noi e il genio olandese è che non sapremmo neppure lontanamente “mettere a terra” questa intuizione.
Con l’IA, a forza di istruzioni che la macchina esegue, potremmo invece, avvicinarci al risultato di Vincent?”
La domanda che sorgeva spontanea, e a cui chiedo ai nostri amici un’ulteriore riflessione, è la seguente: Se così fosse, in che modo cambierebbe l’essenza stessa dell’artista?
Inserisco però un ulteriore elemento che deriva dall’aver letto la bella riflessione di Natalia Irza del 29 ottobre scorso su Controversie dal titolo “Il rating sociale tra digitale e moralità”.
Riporto testualmente un passaggio a mio avviso molto importante anche per il nostro ragionamento su processo creativo e IA. Scrive Irza:
“Per stabilire la verità su una persona, sono necessari strumenti umani. Lo stesso si può dire dell’uso dell’IA nell’arte: la pittura non è uguale alla composizione di colori, la musica non è uguale alla composizione di suoni, la poesia non è uguale alla composizione di parole. Senza la dimensione umana, che significa non solo l’operare algoritmi ma creare idee umane, l’arte cessa di essere arte.”
Aggiungo quindi una provocazione per i nostri amici chiamati a rispondere alla prima domanda, e cioè: dobbiamo quindi pensare che esisteranno in futuro due forme d’arte, una “analogica”, tradizionale, in cui l’essere umano si esprime attraverso strumenti controllati completamente dall’artista e una “nuova arte”, digitale, in cui l’autore si avvale di uno strumento che interviene nel processo creativo “aggiungendo” all’evoluzione concettuale dell’artista?
E quale sarà il livello di contaminazione fra queste due diverse situazioni?
Ecco le prime due risposte, scrive Diego Randazzo:
Quello che rende un artista tale è soprattutto il suo percorso. Un percorso interiore ed esteriore che lo porta a sviluppare una ricerca unica e indipendente. In assenza di tale percorso non vi può essere Arte, ma solo degli isolati appuntamenti con la tecnica.
Quindi, davanti alla possibilità di ricreare dei modelli digitali molto simili a capolavori storicizzati attraverso l’IA, non si può che riconoscere tale pratica come un tentativo, sicuramente curioso e sorprendente, ma molto lontano dalla definizione di Arte.
Non è un caso se utilizzo le parole tentativo e modello, che ne evidenziano l’approccio germinale, automatico e inconsapevole.
In altre parole, penso che la tensione verso la dimensione umana, a cui si riferisce Natalia Irza nell’articolo menzionato, sia necessaria e fondamentale. Del resto come possiamo capire in profondità un artista, senza conoscere qualche dettaglio, anche superficiale, della sua biografia? La Storia dell’Arte è punteggiata, da sempre, da questo binomio, indissolubile anche nel vischioso territorio dell’arte contemporanea: la pratica artistica come estensione e manifestazione della vita stessa degli artisti.
Pensiamo anche al potere del mercato odierno nel dare valore all’opera d’arte: oggi più che mai notiamo che sono le caratteristiche biografiche a fare da volano e non la qualità intrinseca dell’opera (vedi il successo della banana ‘Comedian’ di Cattelan).
Seguendo questo principio, dove la dimensione (e presenza) umana dell’artista sono sempre al centro, trovo assai difficile riconoscere valore nelle sperimentazioni con l’IA condotte dai non addetti ai lavori (non artisti?). Da considerare diversamente sono invece le incursioni degli artisti che utilizzano lo strumento dell’IA con consapevolezza e visione.
Infine di fronte alla possibile convivenza tra due tipologie di Arte (una totalmente analogica ed una totalmente mediata dallo strumento IA) nutro profondi dubbi; non ho mai creduto nella classificazione e scolastica separazione tra discipline, piuttosto credo nella ricerca della complementarità tra queste due modalità. Ad esempio, è molto stimolante l’uso dell’IA per creare ‘modelli e reference’, delle basi da cui partire e su cui innestare il gesto unico dell’autore. Tale gesto si può quindi esemplificare in una copia o rielaborazione analogica (manuale) dei modelli iniziali.
Facendo così, non solo ripercorriamo la storia dell’arte, seguendo il classico ed insuperato paradigma modello/rappresentazione, ma, contestualmente, attualizziamo il contesto: il modello da studiare e copiare non è più la realtà che ci circonda, ma una realtà mediata e spesso incontrollabile, formulata da un algoritmo.
Vorrei proseguire il discorso dando la parola ad Aleksander Veliscek, interessante artista sloveno, che attraverso i dettagli dei suoi affascinanti dipinti mette a punto proprio questa modalità, svelandoci le possibilità di un uso virtuoso ed intelligente dell’IA in pittura.
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Ed ecco l’intervento di Aleksander Veliscek:
Penso che creare un’immagine con l’IA oggi può essere considerato un atto creativo, ma con una specificità: è una creatività mediata, e dove non necessariamente appartiene alla sensibilità di tutti gli artisti. Durante il workshop che ho curato quest’anno sul tema PITTURA e IMMAGINI I.A. a Dolomiti Contemporanee (ex stazione, Borca di Cadore), ho potuto constatare da parte di molti allievi-artisti un interessante dialogo tra chatGPT e gli autori.
Un esempio curioso era un artista che lavora in ambito astratto. Si è creato un confronto critico da entrambe le parti nella costruzione dell’immagine. Ne è risultato un pezzo indubbiamente riuscito. Spesso invece c’era un rigetto, in quanto le soluzioni proposte dalla I.A. erano banali e non riuscivano a centrare le sottili sfumature che l’artista cercava anche dopo lunghi tentativi.
È, così, evidente quanto l’essere umano giochi un ruolo essenziale nella progettazione e nell’interpretazione del risultato.
Quindi L’I.A., è sicuramente uno Strumento, sempre più potente e innovativo, ma non sostituisce l’immaginazione e il giudizio umano.
Invece come artista trovo più interessante capire l’aspetto ontologico. Le macchine intelligenti, pur essendo create dall’uomo, possono simulare comportamenti complessi che sembrano riflettere aspetti tipici dell’essere umano, come l’apprendimento, la creatività o persino l’autonomia. Tuttavia, queste simulazioni sono autentiche manifestazioni di “essere” o sono semplicemente imitazioni prive di sostanza?
Martin Heidegger, nel suo studio sull’essere, distingueva tra l’“essere autentico” e l’“essere per altri”. L’IA, in questo contesto, può essere vista come un “essere per altri”, progettata per servire scopi umani, ma incapace di una propria esperienza ontologica. Tuttavia, alcuni teorici suggeriscono che, con lo sviluppo di sistemi sempre più complessi, potremmo dover ripensare questa distinzione.
Un mio dipinto ad olio raffigurante William Shakespeare, dove l’effigie realistica del grande drammaturgo è stata creata con l’intelligenza artificiale combinando diverse fonti, partendo dalle incisioni, sculture e dipinti.
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Queste due riflessioni sono certamente molto interessanti ma, tuttavia e inevitabilmente, non portano a risposte certe. Stiamo viaggiando, infatti, su un territorio privo di confini definiti, fluido e in rapido divenire.
Mi sembra si possa dire che ci sono due punti chiave nel ragionamento dei nostri due artisti: la centralità dell’uomo – con tutto il suo portato esistenziale – come attore primario e non sostituibile del processo artistico; e la contaminazione dei modi di fare arte, che per altro è cominciata ben prima dell’I.A..
Contaminazione che è un dato di fatto.
E quindi non è possibile una distinzione rigida (Diego usa la parola “scolastica”) tra arti “tradizionali” e arti in cui tecniche nuove e l’apporto potentissimo dell’I.A, irrompono nel processo creativo.
L’I.A. cambierà presto l’essenza di molti lavori; si pensi a cosa potrebbe diventare la giustizia se le sentenze dovessero passare dall’interpretazione dei fatti data da esseri umani a quelle, teoricamente neutrali, dell’IA (l’oggettività nell’interpretazione dell’agire umano non può esistere).
Forse tra pochi anni le domande che ci siamo posti in questa sede non avranno più senso, superate dalla prassi dell’utilizzo di nuove tecnologie in tutti i settori dell’agire umano, arte compresa.
Ma su questi punti aspettiamo anche il parere degli altri due amici del gruppo di questa discussione…
Autori
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Professionista della comunicazione, esperto di ricerche sociologiche e di mercato, scrittore, pubblicista. E’ sempre acuto e non ti fa passare nulla che non sia convincente.
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Diego Randazzo (Milano 1984) vive e lavora tra Milano e Belluno. Consegue la maturità al Liceo Artistico di Brera e si laurea in Scienze dei Beni Culturali con una tesi in ‘Istituzioni di regia’ presso l’Università degli Studi di Milano. Il suo lavoro, articolato su diversi media, è concentrato su alcuni dei principali temi della cultura visuale: l’esperienza dell’immagine, con tutte le sue componenti emotive, evocative, antropologiche e sociali; i dispositivi del guardare, che diventano spesso, a loro volta oggetto/soggetto dell’opera; l’archeologia dei media, intesa come indagine sulle origini tecnologiche dello sguardo moderno e contemporaneo, lo sguardo della macchina, aggiornato sul le più recenti innovazioni (dall’algoritmo alle immagini operative); la dimensione del racconto; l’immersività o – al contrario – la straniazione prodotta dal rapporto con il medium. Sue opere son presenti in collezioni pubbliche e private. Finalista in svariati premi d’Arte contemporanea (The Gifer Festival, 2 volte finalista al Premio Cramum, Arte Laguna, Combat Prize, Radar Mexico, Arteam Cup, Art Right Prize) è tra i vincitori del Premio Ora nel 2019. Sempre nel 2019 la sua installazione #Kids, tributo alla tragedia dei Piccoli Martiri di Gorla e a tutti i bambini vittime delle guerre, diventa opera permanente di Casa della Memoria di Milano. Nel 2023 l’opera ‘Flat – Perchè un algoritmo elimina l’uomo da una stanza piena di solitudine?‘ è segnalata della giuria del Combat Prize, si aggiudica il primo premio dell’Yicca art prize e riceve la Menzione della Giura al Talent Prize di Insideart Magazine. Parallelamente all’attività artistica lavora in ambito multimediale dal 2005, dal 2019 è montatore e referente tecnico della produzione podcast per l’Agenzia Ansa . www.diegorandazzo.com Ig: diego__randazzo