La politica dopo l’emergere di Gaia, il migliore dei mondi possibili

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Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza piú per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma piú vergognoso non adoperarsi per fuggirla. […] Sola infatti, tra le città del nostro tempo, si dimostra alla prova superiore alla sua stessa fama ed è pure la sola che al nemico che l’assale non è causa di irritazione, tale è l’avversario che lo domina; né ai sudditi motivo di rammarico, come sarebbe se i dominatori non fossero degni di avere il comando. Con grandi prove, dunque, non già senza testimoni, avendo noi conseguito tanta potenza, da contemporanei e da posteri saremo ammirati; non abbiamo bisogno di un Omero che ci lodi o di altro poeta epico che al momento ci lusinghi, mentre la verità toglierà il vanto alle presunte imprese, noi che abbiamo costretto ogni mare e ogni terra ad aprirsi al nostro coraggio; ovunque lasciando imperituri ricordi di disfatte e di trionfi
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Con il celebre epitaffio di Pericle (Tucidide 1971, La guerra nel Peloponneso, vol. 1, pp. 121-128) si può dire che la natura faccia il suo primo ingresso nella politica.

O, meglio, in questo discorso, in cui il politico ateniese tesse le lodi della costituzione proto-illuminista e liberale della propria città ed elogia le virtù dei suoi cittadini, confrontandole con quelle dei nemici spartani, educati al rispetto dell’ordinamento castale della propria monarchia arcaica e conservatrice, emerge in maniera inedita una matrice retorica che imposta l’argomentazione politica come uno scontro fra civiltà, un conflitto in-group/out-group, o fra amico e nemico come direbbe Carl Schmitt, in breve, la politica come un inevitabile scontro fra nature opposte e inconciliabili.

Infatti, è improprio dire che siano stati i movimenti ambientalisti e i partiti verdi dell’ultimo quarto del secolo scorso ad introdurre la natura nella politica. Niente è mai stato più politicizzato della natura, e viceversa nessuna politica ha mai potuto prescindere dal ricorrere alla naturalizzazione per legittimarsi (Latour B. 2000, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze).

La circolarità della logica emerge chiaramente dal discorso di Pericle, dove la potenza e le conquiste di Atene, addirittura nella stessa frase, divengono fatti necessari, poiché rispecchiano la Verità che eventi storici accidentali non avrebbero potuto impedire, ma soltanto ostacolare o ritardare dall’affermarsi.

La politica della natura, in analogia con la concezione del sacro della tradizione cristiana, ha prodotto così una biforcazione del mondo fra le peripezie e i conflitti di opinioni degli umani, sul piano dell’azione storica e contingente, e il regno dei fini, collocato su quello ultraterreno, o metafisico, della Verità e della Giustizia (con la maiuscola), emanate dal fondo eterno e immutabile dell’universo o stabilite dal verbo divino. Esattamente come delle icone religiose acheropite, che sono rivelate, e non realizzate dal lavoro umano.

Ancora oggi, che si tratti di “Make America Great Again” oppure, più surrettiziamente, di “affermare i diritti umani”, non siamo in grado di fare a meno di ancorare la nostra politica ad una forma qualsiasi di giusnaturalismo (laico o volontaristico è indifferente). In altre parole, non rinunciamo all’immagine della caverna platonica, secondo la quale deve essere intrapresa la ricerca, o la progressione, verso la luminosa realtà delle cose in sé, uscendo da una condizione di illusione, o momentanea deviazione, rispetto a ciò che sarebbe vero e giusto.

Così possiamo distinguerci intellettualmente da quello che, senza mezzi termini, consideriamo un esercito di stupidi di riserva, che si crogiola in una falsa rappresentazione del mondo. Per inciso, spesso e volentieri, nella politica progressista come in quella reazionaria, fa la sua comparsa come espediente retorico “l’uomo ad una dimensione”, il “servo dei poteri forti”, così “banale nella sua malvagità”, che tiene al proprio vestito culturale, rimanendo incurante dei fatti della natura, la realtà dietro l’apparenza.

Ebbene, come diceva Eco, «la critica della cultura di massa è il peggior prodotto della cultura di massa» (1964, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa), il cliché più trito e ritrito che esista.

Tuttavia, adesso abbiamo l’occasione di redimerci da questo classismo tascabile, dato l’avvento dell’Antropocene, o quello che Chakrabarty chiama l’emergere del planetario (2021, The Climate of History in a Planetary Age): questa etichetta per una nuova era geologica, in cui l’attività umana supera, letteralmente, quella delle altre biomasse, fino a sconvolgerne completamente la costituzione, segnala non già “la ribellione di madre natura”, ma proprio la morte della natura stessa. Infatti, con questa svolta, non si può piú fare riferimento a un fuori di alcun tipo.

Date le ingenti trasformazioni dell’ambiente, esso non può più essere ripreso come invariante naturale, cioè come posizione terza nella ripartizione fra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, all’interno del quale ci andremmo a posizionare, compiendo delle azioni e delle scelte dentro a delle condizioni prestabilite. In altre parole, si tratta di scoprire ciò che abbiamo sempre saputo, ma al tempo stesso ignorato perché troppo impegnati a separare la natura dalla cultura: a pensarci bene, che senso ha dire che le formiche nel formicaio da loro costruito, o gli uccellini nel loro nido, si trovano nel loro habitat? È chiaro che invece l’habitat non è che un’estensione degli esseri viventi e della loro attività. Per cui non è davvero possibile ordinare il mondo come una matrioska, il contenuto non appartiene al contenitore: sono proprio la stessa cosa.

Questo è l’avvincente cambio di prospettiva suggerito dalla teoria di Gaia, sviluppata dai lavori di James Lovelock e Lynn Margulis, le cui scoperte contestano l’idea che la vita sulla terra si sia sviluppata perché erano già presenti le condizioni adatte, il famoso contesto: al contrario, sarebbero stati i primi microrganismi, attraverso la cooperazione, e non la competizione, a plasmare l’ambiente adatto alla propria sopravvivenza. Ciò significa che la natura ha una storia, essa non è un sistema indipendente di cui avremmo turbato l’equilibrio (tipo il mercato autoregolantesi).

Ma allora, come possiamo passare dall'essere al dover essere, se «Dio, fra tutti i mondi possibili, avesse scelto proprio il migliore, ovvero quello col maggior grado di perfezione»? Cioè se dovessimo restare nel mondo che abbiamo, rinunciando ad andare altrove? Come possiamo essere nel vero e nel giusto senza riferimenti a valori assoluti? In questo caso, dobbiamo ricordarci, come dice Deleuze, che aldilà del bene e del male non vuol dire aldilà di buono e cattivo. L’esistenzialismo infatti non ha niente a che vedere col nichilismo, ma con la trasformazione di tutti i valori: noi possiamo sempre odiare la guerra e amare la pace, avversando le forze che reprimono la vita e cospirando con quelle che la favoriscono. E se la vita è un collettivo di cui prendersi cura, un condivenire multispecie (Haraway, 2023, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto), il suo benessere è rimesso alla risonanza fra le entità, umane e non-umane, che sanno vivere attraverso le une attraverso le altre, accogliendone le esigenze in unità sempre provvisorie e discutibili.

Allora, ci occorre una nuova definizione del bello, una nuova costituzione assurda e controversa: l’estetica potrebbe essere intesa come l’esercizio della sensibilità alle altre modalità di vita, altri modi possibili di articolare, modificare ed espandere la società, oltre la distinzione fra natura e cultura. Così più “nemici” e “stranieri” saremo in grado di includere nel nostro mondo, più saremo pluralisti e rappresentativi con esigenze aliene alle nostre, e più quello che potremo costruire sarà solido, vero e giusto (con la minuscola).


Seveso, 1976 - Il Comitato tecnico scientifico popolare attraverso le fonti orali e d’archivio

Nell’articolo Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere di qualche settimana fa avevo brevemente introdotto che cosa accadde il 10 luglio 1976 a Seveso-Meda, che cos’era l’Icmesa e alcuni problemi nati con il “disastro”, che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante la mia ricerca etnografica a Seveso. Nelle prossime righe mi concentrerò sulle vicende del “Comitato tecnico scientifico popolare” che nacque all’indomani del “disastro”.

Con l’evento del 10 luglio 1976, a Seveso sorsero nuovi gruppi organizzati di abitanti e nuove soggettività sociali e politiche. Il rovesciamento della dimensione quotidiana e l’affacciarsi di una «crisi della presenza»1 avevano portato all’emergenza di coaguli di persone che «non si limitavano al ruolo di vittime, come dicevamo noi, ma appunto hanno cercato di costruire dei legami e dei rapporti e di darsi degli strumenti di comprensione critica»2 e la cui sede principale a Seveso era il Circolo del Vicolo. Stefano, un ragazzo di vent’anni nel 1976 che lavorava in una falegnameria e aveva l’intenzione di iscriversi all’università, ricorda nel documentario «Seveso, Memoria di parte» il momento di fondazione del circolo.

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Ci si è trovati in un momento in cui la gente era estremamente preoccupata per la propria salute, ma avevano a che fare con un tossico impalpabile, inodore, incolore, invisibile. Il momento della fuoriuscita, che era il momento evidente, era passato. Il tossico ormai era depositato sui tetti, sui muri, sui pavimenti lastricati, sui terreni, ma non si vedeva. Per cui la gente iniziava ad avere la preoccupazione per la propria salute, ma andava esorcizzata perciò ci si appellava al matto di turno che diceva “non è successo niente, io vado a mangiare l’insalata lì dentro”, perché questo abbassava la tensione. Questo è servito per molti in buona fede, per molti altri ne hanno avuta un meno di buona fede dicendo le medesime cose, serviva per tenere moderata la tensione che vivevano quotidianamente. Abbiamo costruito questo che si chiamava Circolo del Vicolo perché la sede si trovò in una via che di chiamava Via del Vicolo, da lì Circolo del Vicolo.3

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Stefano racconta che l’ingente lavoro politico e culturale prodotto dal circolo nasceva dalla necessità di rispondere a bisogni e desideri che riguardavano l’esistenza intera. Per lui è stato un periodo nel quale la gente discuteva dappertutto e vi era un’adesione sociale molto elevata a qualsiasi tipo di situazione per un «trascinarsi probabilmente di quello che era la partecipazione alle lotte operaie»[4].

Il Circolo del Vicolo, nella sua dimensione locale, era un’espressione di questa stagione dei “movimenti” e, come sottolinea Stefano, il movimento operaio e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici per il salario e la salute in fabbrica trascinarono e crearono momenti di mobilitazione estesi e partecipati. Tra i gruppi che attraversarono il laboratorio politico del Circolo del Vicolo vi era il “Comitato tecnico scientifico popolare”.

Per Davide, fu il gruppo più importante nel ciclo di lotte locali a seguito del “disastro” dell’Icmesa.

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Il [gruppo, N.d.R.] più importante sicuramente è stato il Comitato tecnico scientifico popolare che era stato creato quasi subito da alcuni lavoratori dell’Icmesa, anche membri del consiglio di fabbrica, da giovani del territorio di allora e si è avvalso subito del supporto appunto di Medicina democratica che era a sua volta collegata alle lotte per la tutela della salute nelle fabbriche. In particolare, erano arrivati quelli del gruppo di Castellanza dove c’era un grosso stabilimento Montedison, dove si erano sviluppate delle esperienze molto interessanti di lotta ma anche di autotutela da parte dei lavoratori. E quindi diciamo sono arrivati qui e si sono messi in contatto con le realtà locali e appunto poi non solo, sono nati anche gruppi per esempio legati al movimento femminista il “Gruppo donne Seveso-Cesano”. E successivamente nacquero altri gruppi più piccoli come il “Comitato di controllo zone inquinate”. Insomma, erano nate diverse realtà spontanee che erano collegate un po’ da una serie di volontà di comprensione critica e di avere un ruolo nella tutela della propria salute e anche di verità rispetto a quanto accaduto e alle responsabilità rispetto a quello che era accaduto.5

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Il comitato era un organismo di base di contro-informazione e di lotta e aveva relazioni con altri soggetti politici della sinistra extra-parlamentare o delle componenti meno allineate alla politica di solidarietà nazionale del Pci degli anni Settanta. In particolare, vi erano dei collegamenti con “Medicina democratica movimento di lotta per la salute” e con la consigliera regionale del Pci, Laura Conti.

Fin dai primissimi giorni successivi alla fuoriuscita della nube tossica, il CTSP assunse fondamentali funzioni di informazione, controllo e organizzazione nei confronti degli operai dell’Icmesa e della popolazione sevesina. Il suo primo impegno a circa otto-dieci giorni dallo scoppio del reattore fu quello di fornire una prima sommaria ricostruzione dell’accaduto sulla base del materiale documentario raccolto e fornito dal confronto con i lavoratori dell’Icmesa. Fu così esaminato il ciclo produttivo del triclorofenolo all’interno della fabbrica per comprendere le cause che avevano portato al fatto-tragedia-disastro di Seveso. Questo lavoro fu realizzato dal confronto tra gli operai della fabbrica medese e il Gruppo P.I.A della Montedison di Castellanza, congiuntamente a Bruno Mazza dell’Istituto di chimica, fisica, elettrochimica, metallurgia del Politecnico di Milano e Vladimiro Scatturin dell’Istituto di chimica generale e inorganica dell’Università degli studi di Milano. Il documento prodotto dal titolo “Contributo del CTSP costituitosi in seguito all’inquinamento prodotto dall’ICMESA, in appoggio ai lavoratori e alla popolazione colpita” fu presentato nell’assemblea organizzata dalla Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil nelle scuole medie di Cesano Maderno il 28 luglio 1976. La ricostruzione del ciclo produttivo è stata in seguito pubblicata come primo articolo[6] nel numero monografico di «Sapere» dedicato a Seveso. Comprendere l’eziologia del “disastro” era un passaggio fondamentale per riflettere e agire sulle conseguenze dello stesso e per farlo era imprescindibile il coinvolgimento di chi nella fabbrica passava le sue giornate. Nella ricerca si evidenziò che l’Icmesa aveva introdotto delle varianti nel ciclo produttivo con lo scopo – secondo il Gruppo P.I.A., Mazza e Scatturin – di ridurre radicalmente i costi di produzione, scegliendo di operare in condizioni sempre più pericolose. La logica adottata dalla multinazionale svizzera era volta alla massimizzazione del profitto e faceva tendere all’infinito il «coefficiente di rischio» della produzione di sostanze ad alto rischio di tossicità, trasformando – quindi - in una certezza la possibilità di un “incidente”.

Lo scopo dell’approfondito lavoro di ricostruzione del ciclo produttivo realizzato da un’apposita commissione del CTSP metteva in questione l’astrattezza dei concetti di «univocità» e «oggettività» del ciclo produttivo e di scienza.

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Va detto, in conclusione, che il gruppo operaio non accetta in modo astratto la «univocità» e la «oggettività» del ciclo produttivo e della scienza e tecnologia che lo hanno imposto.7

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Il documento racchiudeva e metteva al centro la soggettività operaia riferita al ciclo stesso di produzione per fornire uno strumento utile alla comprensione del rischio vissuto quotidianamente e per partire dal punto di vista degli operai stessi.

Nelle conclusioni dell’articolo, vengono evidenziate due tipi di culture e di progresso: quella «del capitale» e quella dello «sviluppo sociale». Se la prima, spinta dalla molla del profitto economico privato, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dai poteri privati, la seconda è portatrice di istanze critiche nei confronti del “progresso” inteso come fine ineluttabile delle società umane.  Al contrario, la “cultura sociale” si proponeva di azzerare  il «coefficiente di rischio» attraverso lo sviluppo di una diversa forma di sapere avente come linea portante un inedito rapporto tra tecnici-operai-popolazione. Il CTSP si proponeva come esempio di tale relazione tra l’interno e l’esterno della fabbrica. Davide ricorda proprio questo passaggio come centrale nello sviluppo della lotta sevesina.

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Mentre nello stesso periodo le autorità sanitarie balbettavano, non sapevano cosa dire, non potevano forse dire tutto. Quindi per una fase iniziale nei primi mesi sì, [il CTSP, N.d.R.] era molto ascoltato, poi magari non tutti erano d’accordo, ma sicuramente molto ascoltato. E devo dire che inizialmente questo rispecchiava anche un legame che si stava un po’ instaurando tra territorio e fabbrica, tra territorio e lavoratori della fabbrica. Ora non la faccio troppo lunga, ma per come si era sviluppata l’industria nel territorio, nel nostro territorio c’era molto uno distacco tra la fabbrica e il territorio agricolo-artigianale di quegli anni. Tra chi lavorava in fabbrica e gli altri erano mondi un po’ strani, convivevano, ma senza proprio incontrarsi. Per un attimo quella vicenda nella sua drammaticità aveva costruito un legame perché per la prima volta quelle nocività uscivano sul territorio. Quelle nocività che non solo nella fabbrica, erano percepite come un problema della fabbrica si riversano in modo traumatico sul territorio. Quindi è la prima cosa che fa la popolazione non operaia andare a dire bah, chissà, forse chi ci lavora dentro qualcosa sa. C’è un’intervista a un lavoratore del Consiglio di Fabbrica dell’ICMESA, che racconta che alcuni genitori di bambini con la cloracne hanno contattato loro perché le autorità risposte sembravano non darne o comunque non ne parlavano volentieri e quindi si rivolgono ai lavoratori. Tra l’altro è da lì che anche i lavoratori prendono coscienza definitiva della gravità di quello che è accaduto e sospendono la produzione. Proclamano lo sciopero ad oltranza. È praticamente la fine dell’Icmesa.8

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Gli obiettivi del comitato furono esplicitati nel bollettino pubblicato nel settembre del 1976 e si posero in contrapposizione con l’operato delle istituzioni locali, regionali e nazionali che – secondo il CTSP – avevano coperto e soffocato ogni tipo di protesta e di organizzazione degli abitanti della zona, non fornendo sufficienti informazioni sulla situazione per fare maturare una consapevolezza collettiva del rischio.

Nel prossimo articolo sul CTSP, partirò proprio da qui per scendere nel sottobosco dei documenti conservati dall’Archivio Seveso. Memoria di parte e della storia del comitato.

 

 


NOTE

1 Per «crisi della presenza» si intende una situazione in cui un individuo o un gruppo umano si trovano ad affrontare un particolare evento, come per esempio la malattia o la morte, durante il quale si sperimenta un’incertezza, una crisi radicale della possibilità di esserci nel mondo e nella storia, tanto da scoprirsi incapaci di agire e di determinare la propria azione. Si veda, E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977.

2 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.

3 Archivio Seveso Memoria di parte (Asmp), b. CTSP, Interviste-documentario “Seveso, Memoria di parte”. Si tratta di un documentario autoprodotto dall’ “Archivio Seveso Memoria di parte”.

4 Ibidem.

5 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.

6 Si veda, Gruppo P.I.A., B. Mazza, V. Scatturin, “ICMESA: come e perché”, in «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, pp. 10-36.

7 Ivi, p. 34.

8 Intervista a Davide, 27 gennaio 2024.


Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere

In questo scritto racconterò brevemente che cosa accadde il 10 luglio 1976 e che cos’era l’Icmesa. In seguito, solleverò  alcuni problemi nati con il disastro che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante mia ricerca etnografica a Seveso.

10 luglio 1976, ore 12.37

«Eravamo a pranzo. Era anche una bella giornata di sole. Tutto ad un tratto sentiamo pof. Poi un sibilo forte, come se fosse scoppiata una gomma. Ma più forte, come se ci fosse dell’aria che usciva. Io sono corsa sul balcone e come esco dal balcone davanti ho una casa con un altro mio amico. Anche lui era fuori e faceva così [indica il cielo con il dito]. Mi giro e vedo ‘sta nuvola fantastica, bellissima. Bianca. Proprio di un bianco, proprio bello. Bella, sì1».

Chi era presente quel giorno a Seveso non si aspettava una nuvola così bella e così pericolosa proprio in quel momento. Tuttavia, il sentore che sarebbe potuto accadere qualcosa era nell’aria.

«[Hoffmann e La Roche, N.d.R.] hanno sempre considerato l’incidente del 10 luglio ‘76 come un evento casuale. E io ho sempre detto: vero, nel dire casuale il dieci luglio 1976 alle 12.37. L’impianto era talmente obsoleto, la fabbrica e i relativi controlli erano talmente privi di sistemi di sicurezza che un incidente era nelle corde»2, mi ha raccontato Massimiliano Fratter, sevesino dalla nascita e responsabile del progetto il Ponte della memoria. Non solo il cielo fu scritto dal passaggio delle nuvole velenose, ma il risveglio sensoriale interessò anche l’olfatto. Infatti, Maria racconta che poco dopo aver visto quella nuvola bellissima ha sentito anche l’odore di saponetta, «quell’odore buono di profumo». Quello solito a cui era abituata3. L’Icmesa era soprannominata dagli abitanti della zona la fabbrica dei profumi4 per gli odori che la sua produzione esalava.

Le origini della fabbrica risalivano al 1921. Prima della seconda guerra mondiale l’azienda aveva sede a Napoli. Dopo la distruzione dello stabilimento campano a causa dei bombardamenti, la fabbrica fu trasferita Meda, sotto il controllo del gruppo svizzero Givaudan, che ne deteneva il pacchetto azionario di maggioranza e che a sua volta era stata acquisita dalla multinazionale farmaceutica Hoffmann-La Roche5. La produzione dello stabilimento cominciò tra il 1946 e il 1947 e consisteva nella realizzazione di componenti chimici, alcuni dei quali ad alto tasso di pericolosità. In particolare, dal 1969 il reparto B era stato utilizzato per la fabbricazione del 2,4,5-triclorofenolo (TCF), una sostanza impiegata principalmente per la preparazione di alcuni tipi di erbicidi e per la produzione di esaclorofene, un antibatterico utilizzato in alcuni tipi di cosmetici, di saponette e di disinfettanti6.

Tuttavia, per una parte della popolazione di Seveso, per alcuni medici e giornalisti di cronaca locale, l’Icmesa non solo inquinava da anni e avvelenava gli operai e la gente, ma produceva sostanze pericolose non solo per la cosmesi. La fuoriuscita di diossina sarebbe stata una prova.

L’8 agosto 1976 Pierpaolo Bollani intervista (per il Tempo) Fritz Möri, l’ingegnere che aveva progettato il reattore per la produzione di triclorofenolo. Nelle scettiche parole del tecnico di Losanna rispetto all’eventualità di formazione di TCDD nel reattore “a meno di compiere errori madornali», viene presentata la possibilità «che all’Icmesa in quel reattore, La Roche producesse in realtà altre cose»7. Lo stesso direttore tecnico della Givaudan Jörg Sambeth ha ammesso che l’Icmesa era una dreck fabric, una fabbrica sporca, dove l'impianto veniva fatto funzionare al di sotto di qualsiasi standard ragionevole di sicurezza e dove si portavano avanti due linee di produzione: una feriale, più pulita e probabilmente destinata a usi civili, e una festiva, realizzata a temperature critiche, vicine al punto di combustione e di sintesi della diossina.

Anche se non sapremo mai con certezza che cosa producesse l’Icmesa, quanto è accaduto a Seveso pone delle domande attuali in merito al rapporto tra la produzione industriale – e la correlata ricerca scientifica – e l’ambiente, la salute, la popolazione e la guerra. In un intervento contenuto nell’autoproduzione Topo Seveso. Produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita8 viene considerata la sottile separazione tra le «produzioni chimiche per la guerra o per la pace»9 perché «è durante la pace che si prepara e si arma la guerra: sono le stesse aziende che producono materiale da imballaggio, detergenti, disinfettanti, che poi preparano anche la base per le bombe e le altre armi chimiche, così come sono le aziende che producono le pentole e le travi per la costruzione che confezionano anche le armi. E le aziende che producono altro, non direttamente implicabile con la guerra, possono sempre investire nel mercato delle armi, più o meno legalmente»10.

Si tratta di una questione centrale per il momento storico in cui viviamo e che toglie il velo di Maya dalla ricerca scientifica intesa come attività neutrale e ab-solutas. Ci fa interrogare sui programmi di ricerca e applicazione delle istituzioni in cui studiamo e dei luoghi in cui lavoriamo. L’evento straordinario di Seveso amministrato secondo le regole dell’ordinaria amministrazione – come Laura Conti ha evidenziato nel reportage Visto da Seveso11 – ci parla ancora oggi delle relazioni che intercorrono tra industria, tecnologia e ambiente. I termini con cui l’evento del 10 luglio 1976 è stato definito sono numerosi e carichi di significati e orizzonti culturali e politici diversi tra loro: incidente, tragedia, fatto, disastro, catastrofe, crimine.

A mio avviso, il concetto di catastrofe, liberato dal particolare uso linguistico sevesino, è utile per focalizzare alcuni nodi della questione. La catastrofe genera paradossi e campi di forze contradditorie. I conflitti nati dall’evento catastrofico hanno interessato la concezione di progresso, di scienza, di salute e di ambiente di un intero Paese. L’agone tra le differenti e opposte prospettive di trattare l’evento straordinario dell’Icmesa ha avuto luogo nelle strade di Seveso, negli ufficiali comunali e nelle aule del Parlamento, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, negli articoli di giornale e nelle fabbriche e ha svelato le forze, gli interessi e le asimmetrie di potere strutturali italiane e globali.

Le catastrofi sono totalizzanti e per questo come scrive Mara Benadusi sono «oggetti antropologici e filosofici “buoni da pensare”»12 . Ponendosi come cesure che differenziano un prima e un dopo temporale e spaziale, investono ogni sfera della vita umana e sociale. Le traiettorie biografiche individuali e collettive sono state catapultate dalla dimensione locale a quella globale. Sandro, un abitante di Seveso incontrato durante il mio lavoro di ricerca etnografico nelle zone del disastro dell’Icmesa, riesce a trasmettere la repentinità dell’evento eccezionale ed emergenziale nella sua uscita dalla dimensione locale della Brianza.

«Questa cosa è sicuramente stata molto importante dal punto di vista comportamentale della popolazione perché eri passato da una emerito sconosciuto a uno stronzo che sta inquinando il mondo. Non so come dire […] È una cosa che magari c'è chissà da quante altre parti. Ma finché non succede il fattaccio, nessuno lo viene a sapere»13.

Bruno Biffi, Cielo VIII, 2013. Ossidazione e acido diretto su lastra di ferro, 280x600mm

Il crimine di pace – come lo ha definito Giulio A. Maccacaro, ha sconvolto le comunità di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno14. In quei territori approdo delle migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, l’economia di tipo artigianale, l’identità di campanile e i valori del lavoro e della religiosità cristiana cattolica furono sconquassate dalla nube del 10 luglio 1976 e dalle lotte sociali e politiche che seguirono. Bruno Ziglioli scrive:

«La popolazione si riaggregò e si divise su basi completamente diverse: tra gli evacuati della zona A che desideravano rientrare nelle proprie abitazioni e gli abitanti rimasti che temevano di essere esposti al veleno; tra coloro che erano sistemati al residence di Bruzzano (cioè vicino a casa) e quelli che invece erano alloggiati al motel Agip di Assago (molto più distante); tra chi tendeva a minimizzare e chi a enfatizzare il pericolo; tra chi era favorevole all’incenerimento in loco del terreno contaminato e chi invece chiedeva di sperimentare tecniche di decontaminazione meno invasive. Vi furono manifestazioni, proteste, blocchi stradali; gli sfollati rioccuparono a più riprese le case nella zona ad alto inquinamento. Come spesso accade in queste situazioni, si innescò anche la caccia al capro espiatorio: i lavoratori dell’Icmesa, e con loro i sindacati, furono additati da una parte degli abitanti come corresponsabili dell’incidente, perché avrebbero conosciuto e taciuto i rischi del processo produttivo e le scarse condizioni di sicurezza dello stabilimento»15 .

Tuttavia, furono proprio gli operai a interrompere la produzione della fabbrica perché dalla direzione non era arrivata nessuna indicazione chiara. Amedeo Argiuolo, operaio dell’Icmesa, ha raccontato in una recente intervista per il Giorno che «all’inizio, l’azienda tentò di minimizzare. Il reparto B era chiuso, e noi ci chiedevamo perché…i responsabili dell’Icmesa dicevano che era solo un piccolo incidente, che era tutto sotto controllo, anzi aveva mandato qualcuno di noi, solo guanti e mascherine, a fare carotaggi: dicevano che avevano mandato tutti ai laboratori di Basilea e ci avrebbero fatto sapere.  Secondo loro, bisognava continuare a lavorare»16.

Il Consiglio di fabbrica dell’Icmesa ha avuto un ruolo fondamentale per fare emergere la pericolosità dell’accaduto non solo all’interno della fabbrica, ma per la popolazione e il territorio circostante. Alberto, abitante delle zone interessate dal disastro, ricorda che: «Qui [a Seveso] era nato anche un comitato. Si chiamava Comitato tecnico scientifico popolare17 e metteva insieme sia il Consiglio di fabbrica dell’Icmesa che ha avuto un ruolo importante in questa vicenda sia gli scienziati»18 .

Il CTSP con il medico G. A. Maccacaro e la rivista Sapere hanno messo in discussione la “scienza ufficiale” che procedeva a tentoni e in un primo momento aveva tentato di insabbiare e poi di minimizzare l’accaduto. Il CTSP fece un lavoro di informazione e controinformazione teso a prendere sul serio l’evento sevesino, rompendo «i giorni del silenzio» di Icmesa-Givaudan-Hoffman-La Roche e delle istituzioni italiane. Infatti, durante l’Assemblea Popolare del 28 luglio 1976, organizzata dalla Federazione Unitaria di CGIL-CISL-UIL nelle scuole medie di Cesano Maderno, i membri del CTSP  hanno segnalato prima di qualsiasi altro organo ufficiale l’avvelenamento della popolazione e del territorio da parte dell’Icmesa. Gli operai del Consiglio di fabbrica che decisero di chiudere la stabilimento per avere maggiore chiarezza erano una parte fondamentale e attiva nel Comitato. Tra le pagine del numero di Sapere interamente dedicato a Seveso, il Gruppo P.I.A.19  dopo aver ricostruito il ciclo produttivo dell’Icmesa nei minimi dettagli conclude interrogando la differenza tra due tipi antagonisti di “cultura e di progresso” e di scienza. Il Gruppo P.I.A. scrive:

«Chi è spinto dalla molla del profitto e adotta la regola che i guadagni sono privati, mentre le perdite sono pubbliche, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della Scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dal profitto e dal potere individuali od oligarchici»20 .

Quanto accaduto a Seveso ha aperto la scatola nera in cui sono inestricabilmente imbricate una concezione della scienza neutrale tesa al progresso scientifico-tecnologico, una visione lineare del progresso e delle scelte economiche e politico-istituzionali. Lo scoppio della scatola-reattore ha portato tutte queste questioni e i loro intrecci fuori dalla fabbrica e ha dato vita a un ciclo di lotte per la salute e per l’ambiente di ampia portata, ancora oggi attuali.

 


NOTE

1          Intervista condotta dall’autrice a Maria, abitante della frazione Baruccana di Seveso, in data 14 settembre 2023.

2          Intervista condotta dall’autrice a Massimiliano Fratter in data 28 luglio 2023. M. Fratter è nato a Seveso, è il responsabile del progetto Il ponte della memoria, ha lavorato all’Ufficio Ecologia del Comune di Seveso e ora è impiegato nella biblioteca dell’omonima città.

3          I riferimenti agli odori insistenti, all’inquinamento del torrente Certesa e alla moria di animali che pascolavano nei prati vicini all’Icmesa possono essere rintracciati nei documenti degli archivi comunali di Meda e di Seveso. Per una loro interpretazione storica, vedi M. Fratter, Seveso. Memorie da sotto il bosco, Milano, Auditorium Edizioni, 2006, pp. 53-75.

4          Il giornalista Daniele Bianchessi nel 1995 ha pubblicato il suo primo libro d’inchiesta intitolato La fabbrica dei profumi. La prima edizione è stata pubblicata da Baldini & Castoldi. Il volume è stato rieditato nel 2016 da Jaca Book.

5          Per un maggiore approfondimento sulla storia e la composizione societaria vedi Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione conclusiva, Commissione parlamentare di inchiesta sulla fuga di sostanze tossiche avvenuta il 10 luglio 1976 nello stabilimento ICMESA e sui rischi potenziali per la salute e per l’ambiente derivanti da attività industriali, VII legislatura, doc, XXIII, n. 6, 25 luglio 1978, p. 58; B. Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 16.

6          Per avere una conoscenza più approfondita dei prodotti dell’Icmesa vedi Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione conclusiva, op. cit., pp. 62-64.

7          P. Bollani, Io fabbrico morte. Ecco cosa è successo, «Tempo», 8 agosto 1976, in Giunta regionale della Lombardia, Stampa italiana. 10 luglio 1976, Seveso il dramma della nube tossica, n. 1, p. 24. Per ulteriori informazioni sulla possibili produzioni per la guerra chimica, vedi C. Risé, C. Cederna, V. Bettini, Dietro l’Icmesa in Icmesa. Una rapina di salute, di lavoro e di territorio, Milano, Mazzotta, 1976, pp. 58-69; M. Aloisi [et al.] (a cura di), Seveso. La guerra chimica in Italia, «Quaderni di Triveneto», n. 1, Verona, Bertani, 1976.

8          Aa. Vv., Topo Seveso. Produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita, Milano, Autoproduzione, 2007. Vedi, http://tuttaunaltrastoria.info/wp-content/uploads/2022/05/POIDIMANI-Atti_Topo_Seveso.pdf.

9           Ivi, p. 12.

10         Ivi, pp. 11-12.

11         L. Conti, Visto da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Milano, Feltrinelli, 1976.

12         M. Benadusi, Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo, Applicazione. Un’introduzione in Antropologia Pubblica, Vol. 1 n. 1-2, 2015, p. 41.

13         Intervista condotta dall’autrice  a Sandro, abitante della frazione Baruccana di Seveso, condotta nel mese di settembre 2023.

14         Si tratta dei quattro comuni della Brianza maggiormente contaminati.

15         B. Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 46.

16         https://www.ilgiorno.it/monza-brianza/cronaca/operaio-icmesa-fuoriuscita-diossina-0de68f02

17         Da questo punto, userò l’acronimo CTSP per riferirmi al Comitato tecnico scientifico popolare.

18         Intervista condotta dall’autrice ad Alberto presso la sede del Circolo Legambiente – Laura Conti in data 22 agosto 2023. Quando si è verificato il disastro, Alberto aveva 15 anni e andava a scuola a Cesano Maderno.

19         È il Gruppo di prevenzione e di igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza.

20         Gruppo P.I.A, B. Mazza, V. Scatturin, ICMESA: come e perché in Seveso. Un crimine di pace, «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, p. 34.


Gestione sostenibile delle foreste - Una risposta concreta ai problemi climatici e ambientali

Il cambiamento climatico è un dato oggettivo. 

La comunità scientifica discute sulle cause e sulle conseguenze, ma non sul fatto che le temperature sul nostro pianeta siano più calde di 30, 50 o 100 anni fa. E anche sulle cause, sono pochissimi gli scienziati che negano l’effetto delle attività umane. La discussione rimane invece aperta rispetto al peso percentuale di queste attività sul fenomeno del riscaldamento globale.

Quindi, possiamo dire che il modello di sviluppo industriale novecentesco è stato largamente responsabile di questa situazione. Parliamo essenzialmente dell’emissione di gas a “effetto serra” che impediscono al calore di disperdersi oltre l’atmosfera. Si tratta dei gas emessi dal bruciare di combustibili fossili per uso industriale, soprattutto per la mobilità e delle emissioni principalmente di CO2, ma anche di metano e protossido di azoto.

Un ulteriore aspetto da non dimenticare è il popolamento degli esseri umani sulla Terra. Non va dimenticato che gli abitanti della Terra sono passati da circa 1,5 miliardi a inizio Novecento a circa 8 miliardi oggi. Otto miliardi di persone che devono nutrirsi e che generano attività economiche, quindi consumano energia. Se il problema sono i combustibili fossili, da tempo sono noti dei possibili rimedi. In primis, la sostituzione del petrolio e dei suoi derivati con energie pulite rinnovabili (sole, vento, maree), l’efficientamento dei processi produttivi e poi il formidabile potere delle foreste.

Ma se la sostituzione del fossile non è affatto semplice perché il bisogno di energia è in continua crescita, sulle foreste il discorso diventa molto interessante. Le foreste sono un formidabile strumento di stoccaggio della CO2, di regolazione del ciclo delle piogge e di conservazione della biodiversità.

Il ricercatore inglese Thomas Crowther dell’ETH di Zurigo stima che attualmente sulla Terra ci siano circa 3.000 miliardi di alberi (!!) ma che 12.000 anni fa fossero più del doppio. Egli stima anche che sul nostro pianeta ci sia spazio per piantare circa 1.000 miliardi di nuovi alberi, che darebbero un contributo enorme a risolvere il problema dei gas serra. Basti pensare che recenti studi hanno constatato che mediamente un albero ad alto fusto assorbe ogni anno 25 kg di CO2 (dato prudenziale, fonte: Ecotree). Naturalmente una piantumazione così massiccia è impossibile all’atto pratico, ma questi dati dovrebbero far capire che la strada della salvaguardia delle foreste esistenti e dell’implementazione di nuove è imprescindibile per risolvere il problema del riscaldamento globale.

Invece è triste constatare come, tutt’ora, il saldo tra deforestazione e nuove foreste sia largamente negativo con circa 10 milioni di ettari persi ogni anno e con la sola eccezione virtuosa dell’Europa che ha 158 milioni di ettari di terreni boschivi, in aumento (Fonte: Rapporto Foreste Legambiente 2023).

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Dopo aver brevemente contestualizzato il problema e l’argomento di discussione, ora veniamo al tema dei crediti di carbonioSi tratta di titoli negoziabili che sono stati concepiti a seguito degli accordi del Protocollo di Kyoto. I crediti di carbonio sono strumenti finanziari introdotti con la finalità di rendere conveniente economicamente la salvaguardia delle foreste. Ogni credito equivale allo stoccaggio di una tonnellata di CO2. Di fatto le imprese possono acquistare questi titoli (su base obbligata per le grandi aziende molto energivore, su base volontaria per le altre) che corrispondono a una gestione forestale virtuosa delle grandi aree forestali africane, sudamericane e asiatiche. 

I titoli di credito di carbonio possono essere emessi da consorzi che si sono dotati di un Piano di Gestione Forestale Sostenibile certificatoIn queste aree vi è quindi la certezza (non sempre reale, temiamo) che la foresta sarà protetta e ci saranno piani di tagli programmati per aumentare comunque la massa legnosa e l’assorbimento netto di CO2. Tra regolamenti complessi, processi non sempre trasparenti e mille polemiche, in poco come di vent’anni di vita, il meccanismo dei crediti di carbonio non è stato un pieno successo, dal momento che non ha bloccato la deforestazione. Tuttavia, ha generato delle ricadute positive soprattutto con il concetto di Gestione Forestale Sostenibile.

Ma veniamo all’Italia. Nel nostro Paese le foreste godono di buona salute (forse contrariamente al sentire comune). In Italia ci sono circa 11 milioni di ettari di boschi e foreste, e questo dato è in continuo aumento dal dopoguerra (Fonte: Ministero dell’Agricoltura, Rapporto sullo stato delle foreste in Italia). 

Grafico di Forest Sisef

 

Nel nostro Paese si sta diffondendo anche la pratica delle Gestione Forestale Sostenibile: i proprietari di grandi boschi (siano enti pubblici o privati) possono costruire questi piani grazie al lavoro di dottori forestali specializzati che pianificano il monitoraggio accurato dello stato della zona interessata e definiscono  le pratiche per salvaguardare il bosco e per incrementare la sua capacità di protezione della biodiversità e dello stoccaggio di CO2. I piani di GFS devono essere costruiti secondo standard di enti riconosciuti. In Italia operano le filiali nazionali dei due maggiori enti internazionali: FSC (Forest Stewardship Council) e PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification).

Qual è il vantaggio di certificare i boschi? Chi vuol vendere legno a scopi industriali ha un plus se ha la certificazione, perché, sempre più, l’industria e i regolamenti richiedono legname certificato. D'altro canto, anche chi vuole promuovere l’uso di boschi per escursioni avrà un vantaggio nel dire che il suo è un bosco gestito in modo virtuoso.

Infine si stanno muovendo dei meccanismi economici. La GFS può generare dei crediti di sostenibilità, ovvero titoli che riconoscono una corretta gestione dei servizi della foresta (ecosistemici). Si tratta di un mercato ancora largamente agli inizi, che il legislatore, sia nazionale che europeo, sta facendo molta fatica a definire e regolamentare. Tuttavia oggi nel nostro Paese esistono consorzi che hanno ottenuto il via libera dagli enti certificatori per emettere crediti di sostenibilità, sulla base di una verifica di un beneficio dei servizi ecosistemici, segnatamente un calcolo dell’addizionalità nello stoccaggio di CO2 del bosco interessato.

Il prezzo di questi titoli oggi non si basa su criteri oggettivi ed è dato da accordi privati tra ente venditore e acquirenti. 

Ci si chiederà: che vantaggio acquisisce chi acquista questi titoli? Si tratta di un vantaggio esclusivamente reputazionale. Un’azienda che acquista questi titoli racconta di aver investito nella salute dei boschi e delle comunità che li abitano. 

È auspicabile che tutto questo sia solo l’inizio di una crescita di consapevolezza dell’importanza del ruolo di boschi e foreste. Se così sarà, questa consapevolezza potrà innestare un circolo virtuoso tra aziende finanziatrici e sistema naturale a beneficio di ambiente, territorio e comunità.


Sostenibilità - Una sfida scientifica, tecnologica e sociale per le aziende

Da qualche anno si parla tantissimo di sostenibilità e di sviluppo sostenibile, ma di cosa parliamo esattamente?

Il concetto di sviluppo sostenibile è stato fissato dalla Commissione Brundtland (Onu) nel rapporto “Our common future” del 1987. In quel rapporto si parlava della necessità di garantire il benessere delle generazioni future, letteralmente: “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

A partire da quegli anni ci si è resi conto che gli squilibri tra il nord e il sud del mondo non erano più accettabili e che il modello di sviluppo del mondo industrializzato non poteva durare per i danni ambientali e sociali che portava con sé.

È nato quindi il concetto di sostenibilità basato su tre pilastri: la sostenibilità economica, ambientale e sociale; tre aree di intervento che sono chiaramente interconnesse fra loro. E dai primi anni 90 in poi l’argomento è diventato sempre più al centro del dibattito internazionale e sempre più diffuso anche tra il grande pubblico.

Vediamo di fare qualche considerazione sull’oggi centrata sul nostro Paese:

  • La sostenibilità è uscita dal recinto del dibattito per tecnici ed è diventata anche un driver di business per le imprese
  • Per le imprese è un elemento di rafforzamento della corporate reputation ma può diventare argomento pericoloso e scivoloso, quelle che sbandierano le loro virtù sostenibili sono anche le più vulnerabili ad attacchi mediatici per come agiscono
  • Se ne parla tanto, forse troppo, se ne parla male, con superficialità o ideologicamente; c’è un interessante rapporto del Marco Frey (un’autorità in materia) che spiega come ci sia saturazione nell’opinione pubblica verso il tema

In altre parole, il sovrautilizzo della parola e dei concetti che rappresenta rischia di svuotare la stessa di significato, rende difficile per il cittadino capire chi opera correttamente e chi fa greenwashing e soprattutto la banalizzazione di certi temi – insieme alle discutibili manifestazioni dell’ambientalismo estremista – fanno sì che l’opinione pubblica si stia dividendo e polarizzando.

Ci sono molti gruppi di attivisti, che spesso operano con una carica emotiva che esclude la razionalità, e c’è una larga parte di popolazione ormai indifferente se non infastidita da un tema che sembra per molti versi lontano dai “problemi reali”. Questa situazione aggiunge incertezza per come affrontare un cambiamento già di per sé è tutt’altro che facile.

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In un interessante intervento al Salone della CSR - che come ogni anno dal 2012 si svolge ai primi di ottobre in Bocconi a Milano - il professor Stefano Zamagni ha illustrato una tesi (che sostiene da tempo) sul concetto di Sostenibilità, che trovo particolarmente interessante.

Zamagni è un economista decisamente poco allineato: laureatosi alla Cattolica di Milano e da sempre vicino al mondo cattolico e del non profit, ha insegnato in università italiane (Parma, Bologna, Bocconi), inglesi e spagnole. Ha collaborato con Joseph Ratzinger prima e dal 2013 con Papa Bergoglio e oggi dirige la Pontifica Accademia delle scienze sociali. Ma Zamagni è conosciuto soprattutto per la riscoperta dei concetti dell’Economia civile che affonda le sue radici nel pensiero della scuola economica napoletana del 700.

In estrema sintesi (mi perdonerete…) l’Economia civile si pone come alternativa all’Economia politica che nasce con Adam Smith nel 700 e che è il paradigma che ha dominato e permeato lo sviluppo del capitalismo in occidente. A differenza del pensiero economico di matrice anglosassone che è sfociato nel liberismo prima e nel neoliberismo di Milton Friedmann negli anni 60 del secolo scorso, l’Economia civile si basa sul concetto di “bene comune” in cui i soggetti economici non lavorano solo per il mero profitto.

Si capisce quindi come delle tre gambe della Sostenibilità, a Zamagni interessi maggiormente quella sociale. Egli pensa che siano le imprese a trainare la riflessione e l’azione su questo tema, anche più delle istituzioni.

Quindi è sulla sostenibilità sociale il challenge maggiore per le imprese oggi.

Infatti la sostenibilità economica non può che essere un prerequisito, impossibile da bypassare, l’unica problematica della sostenibilità economica è creare regole condivise per tutti, ed evitare situazioni di vantaggio per singoli paesi o aziende.

Il caso più classico è la Cina, il maggior produttore al mondo di batterie per la mobilità elettrica per noi europei è anche il più grande inquinatore del pianeta. Il mix energetico cinese infatti si basa per l’85% sulle fonti fossili e per il 15% sulle fonti rinnovabili ed è il maggiore consumatore di carbone al mondo con una quota del 50,2%. (Fonte Crea)

È giusto far notare comunque che certe fughe in avanti prospettate dagli ambientalisti duri e puri prescindono totalmente da valutazioni economiche, come se le risorse finanziarie fossero una variabile indipendente dalla realtà, una situazione questa che è la premessa per creare, appunto, le diseguaglianze di cui si diceva.

Quanto alla sostenibilità ambientale, essa può essere normata e misurata (pur con tutte le difficoltà, le polemiche e la complessità di trovare soluzioni condivise). La sostenibilità ambientale alla fine è un insieme di regole, si tratta di decidere quali applicare e come, ma una volta individuate c’è poco da discutere, si è dentro o fuori dal set definito.

Eccoci quindi alla terza area della sostenibilità, quella sociale, che è senza dubbio quella di cui è più difficile definire i contorni concettuali e le regole, ma è anche quella che impatta in modo più diretto sulla vita delle persone.

L’osservatorio della Fondazione Sodalitas sulla Responsabilità Sociale d’Impresa ha condotto una ricerca su un campione di 100 imprese appartenenti alla Fondazione per capire “a che punto siamo”.

Ne viene fuori un quadro di notevole sensibilità e responsabilità che poggia su alcuni pilastri:

  • l’ascolto degli stakeholder interni ed esterni all’impresa
  • il benessere dei dipendenti
  • l’attenzione e l’integrazione con il territorio
  • l’importanza del fare rete

Certo fa piacere sentire che le aziende sono concentrate su questi temi e che spingono verso una situazione virtuosa, tuttavia è anche facile pensare che si tratti di un’indagine su un campione “drogato” in senso positivo; tutte imprese che fanno parte della Fondazione e che quindi sono molto sensibili al tema.

Ma si potrà dire altrettanto del complesso delle aziende italiane? Non credo proprio di sbagliare se dico che la risposta è no e che c’è ancora molto da fare in questo senso.

Purtroppo, al di là dei molti codici etici, bilanci di sostenibilità, compunte dichiarazioni di CEO molto attenti alla propria immagine, la sostenibilità sociale pare essere un lusso per imprese economicamente molto solide.

Il vero scatto in avanti si farà quando i comportamenti di Corporate Social Responsibility non dipenderanno dalla sensibilità dei singoli ma saranno frutto di una cultura condivisa e di regole riconosciute. Ci vorrà del tempo ma la sfida è questa, non può esistere sostenibilità senza la sua componente sociale.


La carne coltivata come «cibo del futuro»? - Controversie tra scienza e pubblici

Il 16 novembre scorso è stata approvata dal parlamento italiano una legge che, tra le altre cose, mette al bando la carne coltivata in laboratorio, prevendendo multe da 10.000 a 60.000 euro per chiunque la somministri, produca o distribuisca sul territorio italiano. Questa legge rende anche illegale qualsiasi riferimento a terminologie legate alla carne e alla macelleria per prodotti a base vegetale che “imitano” quelli tradizionalmente legati ai cibi animali[1]. La mossa del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Lollobrigida (sostenuto dal principale sindacato agricolo italiano, Coldiretti) va chiaramente nella direzione della difesa di un’industria che – per quanto nascosta sotto l’idea del “made in Italy” – di italiano ha ben poco, dal momento che importiamo fino al 60% del fabbisogno nazionale di carne.

Va innanzitutto ricordato che si tratta di una legge di per sé vuota, dal momento che la carne coltivata in laboratorio non ha ancora l’approvazione dell’EFSA, l’agenzia europea che vaglia i cosiddetti novel food prima che siano immessi sul mercato. Qualora invece dovesse essere approvata, la legislazione europea avrebbe la priorità su quella nazionale, per cui la legge italiana diventerebbe una barriera alla libertà di commercio all’interno dell’UE. Si potrebbe in ogni caso aprire una procedura di infrazione nei confronti dello stato italiano.

Vale tuttavia la pena ragionare attorno alle ragioni e ai posizionamenti che emergono dal dibattito su questa legge. Il governo Meloni, conservatore e reazionario, si pone a difesa della salute dei cittadini, delle “tradizioni” e dell’agricoltura “buona” che (in questa costruzione) si pratica nel nostro paese. Coloro che osteggiano la legge, e che invece favoriscono questo nuovo cibo, suggeriscono che l’Italia perda così l’occasione di investire e fare ricerca su una “materia” che diventerà sempre più centrale nel mercato alimentare, fornendo delle risposte ai problemi legati all’industria della carne, tra cui quelli ambientali, di salute e di benessere animale[2].

Ciò che maggiormente colpisce di questo dibattito pubblico è la sua polarizzazione, ossia come sia possibile essere o dalla parte della carne tradizionale, dell’allevamento animale e di una dieta onnivora o dalla parte dell’innovazione alimentare sotto l’egida del biocapitale. In realtà, entrambe le parti sono schiacciate su ciò che c’è: da un lato, il paradigma esistente (e romanticizzato) della produzione agricola e delle tradizioni, dall’altro il dogma scientifico del progresso e della “soluzione” tecnologica alle sfide del presente[3]. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si tratta di una forma di protezione nei confronti dell’ansia che le crisi odierne ci pongono di fronte, una reattiva e una che vede nelle “narrazioni promissorie”[4] dell’innovazione la possibilità di mantenere lo status quo pur di fronte agli sconvolgimenti dell’Antropocene.

Nella polarizzazione del dibattito sulla carne colturale si discute se sia meglio quella animale o quella fatta nel bioreattore. Tertium non datur. Eppure, un discorso circa la riduzione del consumo di carne e derivati animali, se non addirittura la loro eliminazione, è non solo disponibile ma anche supportato scientificamente per i suoi benefici sulla salute umana e del pianeta[5]. Nell’Occidente a capitalismo avanzato non abbiamo nessuna deficienza proteica a livello di popolazione, anzi, siamo in marcato sovrappiù. Non c’è nessuno bisogno “nutrizionale” di inventare alternative alle proteine animali, perché possiamo già fare senza, o con quantità estremamente ridotte. L’avvento di forme di carne o proteine “sostenibili” tende ad accreditare l’importanza, la piacevolezza e il significato stesso di questi prodotti. Potrebbero addirittura, per un ironico effetto di rimbalzo, aumentarne il consumo complessivo. È necessario allora approcciare in modo critico, ma al contempo complesso, questo tema, oltre la polarizzazione ma favorendo il senso critico.

La “cassetta degli attrezzi” dell’ecologia politica può essere utile dal momento che, pur non demonizzando l’innovazione e la tecnologia come mediazione e strumento imprescindibile di convivenza tra umano e non umano, ne considera i regimi di potere e sapere, di dominio ed esclusione, di proprietà e accesso[6]. In quest’ottica non esistono forme di relazione neutre, innocenti o naturali: non lo sono le pratiche di allevamento “tradizionali” (in costante ri-definizione a seconda di tecnologie emergenti e fortemente determinate da materie di sintesi come i farmaci), non lo è la carne coltivata, che non è una mera “risposta” ai problemi delle proteine animali ma un dispositivo che ridefinisce piuttosto che pacificare la questione.

 

L’ecologia politica, in ottica intersezionale, pone alcuni nodi di attenzione. Quello della classe, ad esempio: può un’innovazione supportata da capitali ad alto rischio e multinazionali del bigtech o della carne tradizionale garantire l’accesso a cibo nutriente per i settori più fragili della popolazione? Chi avrà accesso a questo alimento? Inoltre, la carne colturale promette di riarticolare i rapporti di genere, razza e classe – superando la cultura del macello che rende gli animali non umani mera “cosa” disponibile, e così anche problematizzando quelle analogie che supportano il dominio su soggetti femminilizzati e razzializzati in quanto “animali”, “bestie da soma”[7], “carne da macello”[8].

Tuttavia, un’innovazione di per sé non sarà capace da sola di riarticolare questi assi di dominio, che potrebbero anzi riproporsi su scala diversa se le radici sociali, politiche e culturali che la supportano non sono problematizzate. Similmente, è da chiedersi se la promessa di liberare spazi agricoli oggi dedicati alla produzione animale possa davvero intendersi nei termini di una “liberazione” dei territori, o invece come una loro messa a disposizione per nuove recinzioni e valorizzazioni. Tanto più che la carne colturale oggi non si delinea come una sostituzione della carne tradizionale, ma un’aggiunta sul mercato.

Tocca chiedersi allora: a che cosa e a chi serve l’innovazione? Viene presentata come necessaria per soddisfare una richiesta globale in aumento, nell’evidenza che una riduzione del consumo non si è verificata negli ultimi decenni. Tuttavia, questa premessa è basata su un presente in cui il consumo di carne è favorito a livello culturale, economico, scientifico. L’utilità sociale reale in questo contesto non è per nulla data, ma eventualmente da verificare collettivamente, così come la distribuzione delle risorse che ne sostengono la ricerca e la produzione.

La prospettiva dell’ecologia politica in questo senso problematizza l’innovazione alimentare ma non per dismettere qualsiasi tecnologia o idealizzare delle pratiche contadine “tradizionali” come depositarie di un rapporto idilliaco e naturale con l’ambiente. Al contrario, mettendo in discussione la dicotomia naturale/artificiale, pone delle domande politiche circa quali tecnologie possano aiutarci a ristabilire dei rapporti di equilibrio dinamico con il resto della biosfera nel senso di una giustizia non solo ecologica ma anche sociale.

Le destre si collocano in uno spazio di critica al capitale globale in modo populista: indicando in astratte “multinazionali” e “capitale del big-tech” le responsabili dei rischi, della standardizzazione alimentare, e della perdita di sovranità alimentare della popolazione. Questi discorsi intrecciano paure e risentimenti reali, che si intensificano in momenti di incertezza e precarizzazione quali quelli che viviamo. Si possono però nominare e criticare le radici sistemiche delle ingiustizie alimentari: capitalismo, patriarcato, colonialismo, razzismo e specismo sono la matrice di potere che attraversa e dà forma non soltanto all’innovazione alimentare ma alle diete del presente nel loro complesso (carne “tradizionale” inclusa). L’ecologia politica propone allora una lotta per la giustizia ambientale e alimentare nella contestazione di questi assi di potere, e in una riappropriazione dei mezzi tecnologici per sperimentare nuove relazioni sociali, ecologiche, interspecie.

 

NOTE

[1] https://www.corriere.it/politica/23_novembre_16/carne-coltivata-divieto-legge-il-governo-rispetta-agricoltori-3b7998e6-84c0-11ee-87a1-ab403d0b1b3f.shtml

[2] https://www.wired.it/article/carne-coltivata-sintetica-camera-approva-divieto/

[3] https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/

[4] Jönsson, E. (2016) ‘Benevolent technotopias and hitherto unimaginable meats: Tracing the promises of in vitro meat’, Social Studies of Science, 46(5), pp. 725–748. Available at: https://doi.org/10.1177/0306312716658561.

[5] Mazac, R. and Tuomisto, H.L. (2020) ‘The Post-Anthropocene Diet: Navigating Future Diets for Sustainable Food Systems’, Sustainability, 12(6), p. 2355. Available at: https://doi.org/10.3390/su12062355.

[6] Per un approfondimento su questo e ciò che segue, si veda il già citato articolo https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/, o: Dal Gobbo, A. (2023) ‘Of post-animal meat and other forms of food innovation: a critical and intersectional reading from the perspective of political ecology’, Consumption and Society, 1(aop), pp. 1–10. Available at: https://doi.org/10.1332/RVDO1043.

[7] Taylor, S. (2021) Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale. Edizioni degli Animali; si veda anche Ko, A., & Syl, K. (2020). AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero. VandA edizioni.

[8] Adams, Carol. Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana (2020).


Dark Ecology - Un'ecologia che rinnega la Natura

Sette proposte.

  1. Gli animali possono godere dell’arte?
  2. Gli animali possono riflettere su sé stessi? Gli umani possono riflettere su sé stessi? L’autoriflessione rispetto alla sofferenza è importante?
  3. Che cos’è la consapevolezza? È una capacità cognitiva “superiore” (meno frequente) o “inferiore” (più frequente)?
  4. I Neanderthal erano dotati di immaginazione? E noi l’abbiamo? È importante?
  5. L’intelligenza artificiale soffre? I batteri possono soffrire? Quali sono i limiti “inferiori” della sofferenza?
  6. La coscienza è intenzionale?
  7. Il pensare e il percepire sono distinti?[1]

 

Chi pone queste domande e a chi? Gli studiosi umanisti agli scienziati scrive Timothy Morton, professore alla Rice University di Houston. Sono proposte che emergono lungo la lettura del suo libro Come un’ombra dal futuro (l’espressione è di P. B. Shelley)[2].

Proposte che nel confronto tra studiosi andranno rielaborate, i concetti ridefiniti, le parole risignificate, eliminate, rivoltate.

Non basta più fornire «pubbliche relazioni migliori» alla scienza o studiarne le conseguenze. C’è un pensiero nuovo sulla soglia che chiede di interagire attivamente con la scienza. Un pensiero che abbandona il nichilismo diffuso del pensiero umanistico postmoderno e interroga la rigidità austera della scienza che nel laissez-faire dominante del capitalismo si trasforma con troppo piacere in scientismo. C’è una strana distanza, sadica, implicita in un atteggiamento che si dice sperimentale, condiviso da teorie economiche e teorie scientifiche.

Questo pensiero vuole chiederne conto, vuole che insieme si scenda nel fango, “umanisti” e “scienziati”, e si ricominci a fare esperienza del nostro mondo. Possiamo vivere in una società in cui le scienze contemplino la negatività, agire nella possibilità dell’errore e del torto, rispondere della nostra opera nella maglia del mondo in mezzo a esseri che si presentano “estranei strani”.

Come un’ombra dal futuro

Complicato? Sì, perché spero le frasi si presentino nella loro forza di suggestione, anche se estrapolate dal libro di Morton. Pubblicato nel 2010 e portato in Italia dalle edizioni Aboca nove anni dopo, Come un’ombra dal futuro si presenta come un manifesto per un nuovo pensiero ecologico» ancora da pensare.

I ragionamenti sono molti, spesso piacevoli in quanto arricchiti da numerose citazioni poetiche e cinematografiche, oltre che da un eloquio che si contraddistingue per lo slancio rivoluzionario, ai limiti dell’escatologico. Sono tesi forti, a tratti appena accennate, in altre parti pensate a lungo e con onestà. Il linguaggio è coinvolgente, ma non rinuncia alla profondità di pensiero e per questi motivi ho pensato fosse interessante dargli risalto.

È un libro che vuole essere divulgazione rivolta a lettori e lettrici che possano affrontarne le pagine dense di contenuti anche senza una conoscenza specialistica.[3] Si presenta a noi come un confronto serrato tra le tesi che caratterizzano il pensiero queer, basate su un’ontologia influenzata dagli scritti di Lévinas e che si oppone a Heidegger scontrandosi con quel pensiero immobilizzante dei paradigmi da fine della storia.

Complicato anche perché l’ecologia dark è come un film noir, afferma Morton. Non è la soddisfacente vittoria deduttiva del pensiero razionale à la Sherlock. Pensiamo di essere di essere esterni e oggettivi, ma ci ritroviamo irrimediabilmente coinvolti. Non solo. Pensiamo di essere umani e come Deckard di Blade Runner – il richiamo al capolavoro è dell’autore – scopriamo di essere replicanti. Cosa succederebbe? Siamo capaci di pensare il negativo delle concezioni che ci hanno accompagnato alla fine della modernità? Siamo capaci di un pensiero che superi il negativo riconoscendo che esso stesso è opera nostra?

Ecologia oscura

Perché proprio riconoscere la nostra opera è ciò che fa scattare il pensiero ecologico per Morton. Sappiamo ora che abbiamo sempre terraformato la Terra. Grazie alle tecnologie di cui disponiamo oggi possiamo decostruire molti costrutti che inquinano il pensiero. Possiamo fare esperienza dell’appartenenza a un mondo più grande, quasi infinito. Più che olistico dice Morton, perché come una geometria frattale si avviluppa e riproduce in ogni sua parte.

L’arte, per esempio, può essere profondamente ecologica (e già lo è). Non solo, essa può diventare visione anche per le scienze. Grazie allo sviluppo dell’utilizzo di tecniche come l’ingrandimento, lo stop motion, il time-lapse, abbiamo oggi accesso a nuove riproduzioni della realtà. Pensate a quei video prodotti in time-lapse che possono narrare la vita di una pianta lungo due anni di tempo, i quali ci consegnano una pianta vitale, in movimento, estranea alla nostra idea di “pianta”.

Così come è possibile ricreare spazi ambientali che esaltino proprio la loro caratteristica di essere ambiente (Morton pensa alle sale del Centre Pompidou, quelle del piano dedicato al contemporaneo). O ancora, la riproduzione delle forme naturali attraverso le già citate geometrie frattali, che da anni hanno tutta la nostra attenzione. Senza parlare di quello che Morton non poteva vedere nel 2010, che vediamo oggi nelle riproduzioni o “creazioni” affidate all’Intelligenza Artificiale o vissute nella realtà virtuale.

Rinnegare la Natura

Vedere questo ci permette di interrogare nuovamente i costrutti che dominano le nostre visioni economiche, ambientaliste e scientifiche. Non c’è alcun mondo da re-incantare o da ritrovare. Al contrario, c’è per Morton un mondo da demistificare e il suo principale obiettivo polemico è la Natura in questo caso. Il concetto di Natura è per l’autore il principale punto debole dell’ambientalismo “verde brillante” che presta il fianco al capitalismo, anche se non vorrebbe. Non si parla solo della produzione di batterie al litio rispetto all’estrazione di petrolio e alla produzione di CO2 in eccesso nell’atmosfera. Il vero greenwashing è nascondere ciò che è negativo della nostra realtà di viventi. Nascondere i rifiuti, parte dell’ambiente di un vivente, sotto il tappeto. Spiego meglio: l’ambientalismo preserva un paesaggio “naturale” dall’installazione di pale eoliche, l’estetica vince sull’etica, mentre sottoterra scorre l’ultimo oleodotto e stagna il bagno chimico. La Natura è fantasma, inconscio collettivo, costruzione da sogno che fa dimenticare all’umano di essere responsabile del mondo.

L’ecologia proposta da Morton non è nichilista, non è ambientalista, rinnega la Natura.
In tutto questo, lo trovo un pensiero liberatorio e interessante, oltre che sicuramente provocatorio.
È un pensiero che si affaccia e che ha bisogno di essere pensato. Non solo.
Ha bisogno delle scienze perché le vuole coinvolgere attivamente nella demistificazione del mondo.
Le domande che ho riportato in apertura sono le domande che Morton inizia a porre per comprendere il nuovo ruolo dell’umano del mondo.
Ruolo millenario, ma che solo oggi iniziamo a conoscere – sembrerebbe.

 

Se potessimo dimostrare che la coscienza non è una sorta di sublime premio aggiuntivo per essere fatti in modo così elaborato, bensì un’impostazione predefinita allegata al software, allora i vermi sarebbero coscienti in ogni senso significativo. Un verme potrebbe diventare Buddha, in qualità di verme. Siamo sicuri che i non umani non abbiano un senso dell’”io”? Siamo sicuri che noi lo abbiamo?[4]

 

 

NOTE

[1]     Timothy Morton – Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico – Aboca edizioni, Sansepolcro (Ar) 2019

[2]     Le proposte sono riassunte così come le porto alle pagine 184 e 185 della traduzione italiana del libro.

[3]     Gli studi e le ipotesi contenute si basano su precedenti libri di Morton Dark Ecology (2016), Ecology without Nature (2007), che il lettore specialistico o in cerca di analisi più approfondite può recuperare facilmente nelle edizioni in lingua originale.

[4]     Timothy Morton – Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico – Aboca edizioni, Sansepolcro (Ar) 2019


"Terre contese". Controversie e orizzonti per la biodinamica

“Coltivare con l’abracadabra. Soldi pubblici all’agricoltura biodinamica”.[1] Questo è uno dei titoli che si poteva trovare sui quotidiani nel maggio del 2021. Il tutto nacque  dalle accuse di stregoneria rivolte all’agricoltura biodinamica da una senatrice in occasione del dibattito sul Ddl 988 Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico.[2] Obiettivo delle accuse era emendare l’equiparazione dell’agricoltura biodinamica a quella biologica, contenuto nell’articolo 1, comma 3 del Ddl.

In questo post[3] vorrei riportare quanto ho appreso indagando nella letteratura su questa agricoltura, oltre a mostrare alcuni esempi dalla ricerca biodinamica che permettono di farsi un’idea delle metodologie utilizzate, ben distanti da magia e stregoneria. Mi preme però descrivere lo sviluppo del dibattito pubblico e parlamentare, rimasto purtroppo molto superficiale.

La prima anomalia di questo dibattito riguarda l’asimmetria delle posizioni. A partire dal 20 maggio 2021, fino a circa la fine del mese successivo, alcune delle radio più importanti per numero di ascolti dedicarono uno spazio solamente all’accusa, supportata da un esperto (più o meno del settore). Sui quotidiani (cartacei e online) su un totale di 22 articoli comparsi, solo 4 davano spazio a voci in difesa dell’agricoltura biodinamica. Dei 12 giornali che ho seguito in quel periodo, solo 3 presentavano un dibattito; i restanti 9 diedero spazio solo all’accusa, alla critica se non alla ridicolizzazione di questo tipo di approccio all’agricoltura.

In generale lo spazio dato agli esponenti dell’agricoltura biodinamica fu pressoché nulla. Anche grazie a questa asimmetria nell’informazione si è riusciti a deviare l’attenzione da ciò che era davvero in gioco. I difensori del disegno di legge precisavano come quest’ultimo fosse stato scritto dalla commissione parlamentare competente a seguito di audizioni con numerosi esperti. In esso si prescriveva l’equiparazione del biodinamico al biologico nei limiti in cui rispettasse la normativa europea vigente per il biologico. Il biodinamico si inseriva quindi in un piano di normazione più ampio, che garantiva il controllo di qualità e produzione.

La disparità del trattamento mediatico, il richiamo alla Scienza e la caccia alle streghe nel “paese di Galilei” hanno permesso la creazione di un fronte compatto di opposizione al decreto, che ha spinto anche i rappresentanti dei partiti inizialmente sostenitori del Ddl a ritrarsi davanti alle accuse, permettendo all’emendamento (che eliminava ogni riferimento alla biodinamica dal testo) di venire approvato.

Ma che cos’è l’agricoltura biodinamica? Essa nasce da alcune indicazioni operative del filosofo Rudolf Steiner (1861-1925), date agli agricoltori in un serie di conferenze, poco prima di morire nel 1925. Queste indicazioni si rivolgevano alla messa in opera di un nuovo modello di agricoltura, biodinamica appunto. L’agricoltura biologica ancora non esisteva; nascerà successivamente derivando conoscenze e esperienze dall’agricoltura biodinamica. La morte di Steiner non permise una revisione delle indicazioni emerse dalle conferenze, né Steiner lasciò alcun testo sistematico sull’argomento. Tutto quel che circola sono testi redatti dagli uditori, senza una revisione da parte di Steiner; nel dibattito, questo punto essenziale è stato sottaciuto, preferendo far discendere direttamente le pratiche da presunti scritti di Steiner.

Lo sviluppo sperimentale della biodinamica, invece, fu seguito da scienziati e docenti universitari tra i quali: il chimico Ehrenfried Pfeiffer (1899-1961), laurea honoris causa in Medicina e professore di Scienza della nutrizione; la microbiologa Lili Kolisko (1889-1976) e Eugen Kolisko (1893-1939), medico e docente di Chimica medica dell’Università di Vienna. La prima formalizzazione matematica dei principi che sono alla base della biodinamica fu del matematico George Adams, poi laurea ad honorem in Chimica a Cambridge.

Oggi il metodo biodinamico è particolarmente diffuso in Germania - dove la biodinamica è presente in tutte le facoltà di agraria – e la sua ricerca e sperimentazione sono presenti in molte università e centri di ricerca accreditati in Olanda, Svizzera, Svezia, Danimarca, Australia, Stati Uniti e Egitto. Dal 2005 è stato costituito il Biodynamic Research Network, esso federa diversi centri di ricerca operanti nel biodinamico in tutto il mondo.[4]

In Italia gli agricoltori biodinamici sono più di 4000 (stime Mipaaf). Per quanto riguarda la ricerca, esistono molti scienziati e ricercatori impegnati (a titolo di esempio si vedano le numerose pubblicazioni sull’humus del chimico prof. Alessandro Piccolo, vincitore del premio Humboldt per la chimica)[5], ma nessun centro o istituto riconosciuto come competente da parte dello Stato Italiano. In Europa la certificazione biodinamica viene rilasciata dall’ente certificatore Demeter all’azienda agricola che soddisfi i requisiti richiesti, tra questi l’utilizzo dei tanto citati corni di mucca ripieni di letame o quarzi di silicio. Questi ultimi sono definiti “preparati biodinamici” e vengono utilizzati in minime dosi nella funzione di “bio-regolatori” per incentivare la vita dell’hummus oltre che  crescita, salute e qualità di piante e animali.

È importante notare che non c’è nessuna pretesa di stregoneria (sembrerà banale) nel biodinamico. Al contrario, non si esime dal confronto con il regime scientifico vigente, prestandosi ad analisi quantitative e persino proponendo nuovi metodi di misurazione dei risultati ottenuti. Warner (2008), ad esempio, sostiene che le agricolture organiche si propongono da un lato di introdurre nuovi mezzi per la ricerca scientifica, e dall’altro adottano e plasmano gli strumenti della scienza ridefinendola e ampliandone la partecipazione. [6]

Due brevi esempi possono dare un’idea del panorama della ricerca biodinamica.

Il primo è uno studio pubblicato nel 2013 da Giannattasio, Vendramin e Fornasier. Studi precedenti avevano rilevato gli effetti positivi per la qualità del suolo dei preparati 500 (il vituperato cornoletame) e 501.[7] Lo studio in questione si rivolge invece all’analisi microbiologica del suolo trattato con questi preparati, evidenziandone l’effetto auxino-simile (auxin-like, auxine sono i fitormoni che regolano crescita e sviluppo delle piante), almeno pari a quello di alcuni dei principali fertilizzanti di sintesi in commercio.[8]

Secondo esempio è una ricerca del 2019, collaborazione tra il centro di Darmstadt per la ricerca biodinamica e l’Università di Bonn.  A conclusione della ricerca - che riporta alcuni riscontri positivi nel nutrimento del suolo a livello di macromolecole, in linea con lo studio citato poco sopra - gli autori suggeriscono alcune implementazioni negli strumenti di ricerca, nel tentativo di studiare gli aspetti qualitativi dei cibi prodotti e il loro apporto al nutrimento dello spirito. Uno di questi è l’utilizzo della cristallografia per studiare la corretta formazione dei vegetali durante la fase di crescita. Altra proposta è quella di un “Empathic Food Test” che possa standardizzare l’apporto emotivo-spirituale di questi cibi per il consumatore, interrogando lo stesso.[9]


In conclusione, il dibattito pubblico e parlamentare italiano si è presentato inquinato da pregiudizi, incomprensioni e da una certa dose di malafede, mossi da interessi che certo non rappresentano l’interesse del consumatore, della sua salute e quella dei nostri ecosistemi. La vicenda rappresenta un’occasione mancata, l’ennesima, per discutere dati alla mano di un fenomeno sempre più emergente.

L’esclusione della biodinamica dalla legge ormai approvata non limita il lavoro degli agricoltori e dei ricercatori biodinamici. Essi possiedono tutti la certificazione di produzione biologica e operano secondo la relativa normativa.

La legge esclude però la biodinamica dai fondi per la ricerca e da una normalizzazione, operando una discriminazione che si ripercuote sulle capacità della società intera di approfondire il fenomeno e godere dei suoi frutti.

 

 

Note

[1] https://www.huffingtonpost.it/economia/2021/05/22/news/coltivare_con_l_abracadabra_soldi_pubblici_sull_agricoltura_biodinamica-5150276/

[2] Oggi legge Legge 23/22 del 9 marzo 2022. L’iter della legge è riassunto alla pagina internet del Senato al seguente indirizzo: https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51061.htm

[3] Questo lavoro riprende precedenti ricerche fatte in occasione di un incontro tenuto all’interno del Circolo di Milano, gruppo informale di ricerca in Sociologia delle Scienze dell’Università degli Studi di Milano.

[4] In Olanda abbiamo l’Università di Wageningen e il Louis Bolk Instituut, sorto nel 1976 a Driebergen.
In Germania, l’Università di Hohenheim ha una sua azienda agricola (denominata “Klein Hohenheim”) dedicata alla ricerca in biodinamica. A Darmstadt, l’istituto di ricerca Forschungsring für Biologisch-Dynamische Wirtschaftsweise, opera dal 1950; negli stessi anni si avviarono i lavori al Forschung & Züchtung Dottenfelderhof, (Bad Vilbel, Francoforte); nell’Università di Kassel, risiede un centro di ricerca per la biodinamica.
In Svizzera sono presenti la Sezione di Scienze Naturali, la Sezione di Agricoltura e il Forschungsinstitut am Goetheanum a Dornach (vicino a Basilea), in attività dai primi anni Venti del Novecento. Nello stesso paese ha sede il FiBL – Forschungsinstitut für biologischen Landbau. In Svezia vi è il Biodynamic Research Institute a Ierna, sorto nei primi anni Cinquanta.
Nel Regno Unito vi è l’Università di Conventry. In Danimarca, il Biodynamisk Forskningsforening, ente di ricerca riconosciuto dallo Stato, sorto nel 1997. In Australia, il Bio-dynamic Research Institute, fondato nel 1952 e riconosciuto dallo Stato.
In Egitto vi è un corso di laurea in agricoltura biodinamica con sede nella Heliopolis University, presso il          Centro Sekem.
Negli USA, Paese dove la ricerca fu avviata fin dagli anni Trenta, esistono  il Michael Fields Agricultural Institute, il Josephine Porter Institute e il Rodale Institute.

[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Piccolo_(agricultural_scientist), https://generiamosalute.it/ecologia-e-ambiente/agricoltura-biodinamica-e-cornoletame-le-basi-scientifiche/

[6] Warner, Keith. 2008. “Agroecology as Participatory Science: Emerging Alternatives to Technology Transfer/Extension Practice.” Science, Technology & Human Values 33(6):754–777.

[7] Entrambi i preparati 500 e 501 sono inclusi nella lista di materiali e tecniche permesse nell’agricoltura biologica dalla regolamentazione della Commissione Europea 834/2007.

[8] Giannattasio M, Vendramin E, Fornasier F, et al. Microbiological features and bioactivity of a fermented manure product (preparation 500) used in biodynamic agriculture. J Microbiol Biotechnol. 2013;23(5):644-651. doi:10.4014/jmb.1212.12004  L’articolo è open-access e fruibile a tutti, quantomeno nelle parti meno tecniche di discussione.

[9] Brock, Christopher, Uwe Geier, Ramona Greiner, Michael Olbrich-Majer, and Jürgen Fritz. “Research in Biodynamic Food and Farming – a Review.” Open Agriculture 4, no. 1 (2019): 743–757.