La carne coltivata come «cibo del futuro»? - Controversie tra scienza e pubblici

Il 16 novembre scorso è stata approvata dal parlamento italiano una legge che, tra le altre cose, mette al bando la carne coltivata in laboratorio, prevendendo multe da 10.000 a 60.000 euro per chiunque la somministri, produca o distribuisca sul territorio italiano. Questa legge rende anche illegale qualsiasi riferimento a terminologie legate alla carne e alla macelleria per prodotti a base vegetale che “imitano” quelli tradizionalmente legati ai cibi animali[1]. La mossa del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Lollobrigida (sostenuto dal principale sindacato agricolo italiano, Coldiretti) va chiaramente nella direzione della difesa di un’industria che – per quanto nascosta sotto l’idea del “made in Italy” – di italiano ha ben poco, dal momento che importiamo fino al 60% del fabbisogno nazionale di carne.

Va innanzitutto ricordato che si tratta di una legge di per sé vuota, dal momento che la carne coltivata in laboratorio non ha ancora l’approvazione dell’EFSA, l’agenzia europea che vaglia i cosiddetti novel food prima che siano immessi sul mercato. Qualora invece dovesse essere approvata, la legislazione europea avrebbe la priorità su quella nazionale, per cui la legge italiana diventerebbe una barriera alla libertà di commercio all’interno dell’UE. Si potrebbe in ogni caso aprire una procedura di infrazione nei confronti dello stato italiano.

Vale tuttavia la pena ragionare attorno alle ragioni e ai posizionamenti che emergono dal dibattito su questa legge. Il governo Meloni, conservatore e reazionario, si pone a difesa della salute dei cittadini, delle “tradizioni” e dell’agricoltura “buona” che (in questa costruzione) si pratica nel nostro paese. Coloro che osteggiano la legge, e che invece favoriscono questo nuovo cibo, suggeriscono che l’Italia perda così l’occasione di investire e fare ricerca su una “materia” che diventerà sempre più centrale nel mercato alimentare, fornendo delle risposte ai problemi legati all’industria della carne, tra cui quelli ambientali, di salute e di benessere animale[2].

Ciò che maggiormente colpisce di questo dibattito pubblico è la sua polarizzazione, ossia come sia possibile essere o dalla parte della carne tradizionale, dell’allevamento animale e di una dieta onnivora o dalla parte dell’innovazione alimentare sotto l’egida del biocapitale. In realtà, entrambe le parti sono schiacciate su ciò che c’è: da un lato, il paradigma esistente (e romanticizzato) della produzione agricola e delle tradizioni, dall’altro il dogma scientifico del progresso e della “soluzione” tecnologica alle sfide del presente[3]. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si tratta di una forma di protezione nei confronti dell’ansia che le crisi odierne ci pongono di fronte, una reattiva e una che vede nelle “narrazioni promissorie”[4] dell’innovazione la possibilità di mantenere lo status quo pur di fronte agli sconvolgimenti dell’Antropocene.

Nella polarizzazione del dibattito sulla carne colturale si discute se sia meglio quella animale o quella fatta nel bioreattore. Tertium non datur. Eppure, un discorso circa la riduzione del consumo di carne e derivati animali, se non addirittura la loro eliminazione, è non solo disponibile ma anche supportato scientificamente per i suoi benefici sulla salute umana e del pianeta[5]. Nell’Occidente a capitalismo avanzato non abbiamo nessuna deficienza proteica a livello di popolazione, anzi, siamo in marcato sovrappiù. Non c’è nessuno bisogno “nutrizionale” di inventare alternative alle proteine animali, perché possiamo già fare senza, o con quantità estremamente ridotte. L’avvento di forme di carne o proteine “sostenibili” tende ad accreditare l’importanza, la piacevolezza e il significato stesso di questi prodotti. Potrebbero addirittura, per un ironico effetto di rimbalzo, aumentarne il consumo complessivo. È necessario allora approcciare in modo critico, ma al contempo complesso, questo tema, oltre la polarizzazione ma favorendo il senso critico.

La “cassetta degli attrezzi” dell’ecologia politica può essere utile dal momento che, pur non demonizzando l’innovazione e la tecnologia come mediazione e strumento imprescindibile di convivenza tra umano e non umano, ne considera i regimi di potere e sapere, di dominio ed esclusione, di proprietà e accesso[6]. In quest’ottica non esistono forme di relazione neutre, innocenti o naturali: non lo sono le pratiche di allevamento “tradizionali” (in costante ri-definizione a seconda di tecnologie emergenti e fortemente determinate da materie di sintesi come i farmaci), non lo è la carne coltivata, che non è una mera “risposta” ai problemi delle proteine animali ma un dispositivo che ridefinisce piuttosto che pacificare la questione.

 

L’ecologia politica, in ottica intersezionale, pone alcuni nodi di attenzione. Quello della classe, ad esempio: può un’innovazione supportata da capitali ad alto rischio e multinazionali del bigtech o della carne tradizionale garantire l’accesso a cibo nutriente per i settori più fragili della popolazione? Chi avrà accesso a questo alimento? Inoltre, la carne colturale promette di riarticolare i rapporti di genere, razza e classe – superando la cultura del macello che rende gli animali non umani mera “cosa” disponibile, e così anche problematizzando quelle analogie che supportano il dominio su soggetti femminilizzati e razzializzati in quanto “animali”, “bestie da soma”[7], “carne da macello”[8].

Tuttavia, un’innovazione di per sé non sarà capace da sola di riarticolare questi assi di dominio, che potrebbero anzi riproporsi su scala diversa se le radici sociali, politiche e culturali che la supportano non sono problematizzate. Similmente, è da chiedersi se la promessa di liberare spazi agricoli oggi dedicati alla produzione animale possa davvero intendersi nei termini di una “liberazione” dei territori, o invece come una loro messa a disposizione per nuove recinzioni e valorizzazioni. Tanto più che la carne colturale oggi non si delinea come una sostituzione della carne tradizionale, ma un’aggiunta sul mercato.

Tocca chiedersi allora: a che cosa e a chi serve l’innovazione? Viene presentata come necessaria per soddisfare una richiesta globale in aumento, nell’evidenza che una riduzione del consumo non si è verificata negli ultimi decenni. Tuttavia, questa premessa è basata su un presente in cui il consumo di carne è favorito a livello culturale, economico, scientifico. L’utilità sociale reale in questo contesto non è per nulla data, ma eventualmente da verificare collettivamente, così come la distribuzione delle risorse che ne sostengono la ricerca e la produzione.

La prospettiva dell’ecologia politica in questo senso problematizza l’innovazione alimentare ma non per dismettere qualsiasi tecnologia o idealizzare delle pratiche contadine “tradizionali” come depositarie di un rapporto idilliaco e naturale con l’ambiente. Al contrario, mettendo in discussione la dicotomia naturale/artificiale, pone delle domande politiche circa quali tecnologie possano aiutarci a ristabilire dei rapporti di equilibrio dinamico con il resto della biosfera nel senso di una giustizia non solo ecologica ma anche sociale.

Le destre si collocano in uno spazio di critica al capitale globale in modo populista: indicando in astratte “multinazionali” e “capitale del big-tech” le responsabili dei rischi, della standardizzazione alimentare, e della perdita di sovranità alimentare della popolazione. Questi discorsi intrecciano paure e risentimenti reali, che si intensificano in momenti di incertezza e precarizzazione quali quelli che viviamo. Si possono però nominare e criticare le radici sistemiche delle ingiustizie alimentari: capitalismo, patriarcato, colonialismo, razzismo e specismo sono la matrice di potere che attraversa e dà forma non soltanto all’innovazione alimentare ma alle diete del presente nel loro complesso (carne “tradizionale” inclusa). L’ecologia politica propone allora una lotta per la giustizia ambientale e alimentare nella contestazione di questi assi di potere, e in una riappropriazione dei mezzi tecnologici per sperimentare nuove relazioni sociali, ecologiche, interspecie.

 

NOTE

[1] https://www.corriere.it/politica/23_novembre_16/carne-coltivata-divieto-legge-il-governo-rispetta-agricoltori-3b7998e6-84c0-11ee-87a1-ab403d0b1b3f.shtml

[2] https://www.wired.it/article/carne-coltivata-sintetica-camera-approva-divieto/

[3] https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/

[4] Jönsson, E. (2016) ‘Benevolent technotopias and hitherto unimaginable meats: Tracing the promises of in vitro meat’, Social Studies of Science, 46(5), pp. 725–748. Available at: https://doi.org/10.1177/0306312716658561.

[5] Mazac, R. and Tuomisto, H.L. (2020) ‘The Post-Anthropocene Diet: Navigating Future Diets for Sustainable Food Systems’, Sustainability, 12(6), p. 2355. Available at: https://doi.org/10.3390/su12062355.

[6] Per un approfondimento su questo e ciò che segue, si veda il già citato articolo https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/, o: Dal Gobbo, A. (2023) ‘Of post-animal meat and other forms of food innovation: a critical and intersectional reading from the perspective of political ecology’, Consumption and Society, 1(aop), pp. 1–10. Available at: https://doi.org/10.1332/RVDO1043.

[7] Taylor, S. (2021) Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale. Edizioni degli Animali; si veda anche Ko, A., & Syl, K. (2020). AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero. VandA edizioni.

[8] Adams, Carol. Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana (2020).


Dark Ecology - Un'ecologia che rinnega la Natura

Sette proposte.

  1. Gli animali possono godere dell’arte?
  2. Gli animali possono riflettere su sé stessi? Gli umani possono riflettere su sé stessi? L’autoriflessione rispetto alla sofferenza è importante?
  3. Che cos’è la consapevolezza? È una capacità cognitiva “superiore” (meno frequente) o “inferiore” (più frequente)?
  4. I Neanderthal erano dotati di immaginazione? E noi l’abbiamo? È importante?
  5. L’intelligenza artificiale soffre? I batteri possono soffrire? Quali sono i limiti “inferiori” della sofferenza?
  6. La coscienza è intenzionale?
  7. Il pensare e il percepire sono distinti?[1]

 

Chi pone queste domande e a chi? Gli studiosi umanisti agli scienziati scrive Timothy Morton, professore alla Rice University di Houston. Sono proposte che emergono lungo la lettura del suo libro Come un’ombra dal futuro (l’espressione è di P. B. Shelley)[2].

Proposte che nel confronto tra studiosi andranno rielaborate, i concetti ridefiniti, le parole risignificate, eliminate, rivoltate.

Non basta più fornire «pubbliche relazioni migliori» alla scienza o studiarne le conseguenze. C’è un pensiero nuovo sulla soglia che chiede di interagire attivamente con la scienza. Un pensiero che abbandona il nichilismo diffuso del pensiero umanistico postmoderno e interroga la rigidità austera della scienza che nel laissez-faire dominante del capitalismo si trasforma con troppo piacere in scientismo. C’è una strana distanza, sadica, implicita in un atteggiamento che si dice sperimentale, condiviso da teorie economiche e teorie scientifiche.

Questo pensiero vuole chiederne conto, vuole che insieme si scenda nel fango, “umanisti” e “scienziati”, e si ricominci a fare esperienza del nostro mondo. Possiamo vivere in una società in cui le scienze contemplino la negatività, agire nella possibilità dell’errore e del torto, rispondere della nostra opera nella maglia del mondo in mezzo a esseri che si presentano “estranei strani”.

Come un’ombra dal futuro

Complicato? Sì, perché spero le frasi si presentino nella loro forza di suggestione, anche se estrapolate dal libro di Morton. Pubblicato nel 2010 e portato in Italia dalle edizioni Aboca nove anni dopo, Come un’ombra dal futuro si presenta come un manifesto per un nuovo pensiero ecologico» ancora da pensare.

I ragionamenti sono molti, spesso piacevoli in quanto arricchiti da numerose citazioni poetiche e cinematografiche, oltre che da un eloquio che si contraddistingue per lo slancio rivoluzionario, ai limiti dell’escatologico. Sono tesi forti, a tratti appena accennate, in altre parti pensate a lungo e con onestà. Il linguaggio è coinvolgente, ma non rinuncia alla profondità di pensiero e per questi motivi ho pensato fosse interessante dargli risalto.

È un libro che vuole essere divulgazione rivolta a lettori e lettrici che possano affrontarne le pagine dense di contenuti anche senza una conoscenza specialistica.[3] Si presenta a noi come un confronto serrato tra le tesi che caratterizzano il pensiero queer, basate su un’ontologia influenzata dagli scritti di Lévinas e che si oppone a Heidegger scontrandosi con quel pensiero immobilizzante dei paradigmi da fine della storia.

Complicato anche perché l’ecologia dark è come un film noir, afferma Morton. Non è la soddisfacente vittoria deduttiva del pensiero razionale à la Sherlock. Pensiamo di essere di essere esterni e oggettivi, ma ci ritroviamo irrimediabilmente coinvolti. Non solo. Pensiamo di essere umani e come Deckard di Blade Runner – il richiamo al capolavoro è dell’autore – scopriamo di essere replicanti. Cosa succederebbe? Siamo capaci di pensare il negativo delle concezioni che ci hanno accompagnato alla fine della modernità? Siamo capaci di un pensiero che superi il negativo riconoscendo che esso stesso è opera nostra?

Ecologia oscura

Perché proprio riconoscere la nostra opera è ciò che fa scattare il pensiero ecologico per Morton. Sappiamo ora che abbiamo sempre terraformato la Terra. Grazie alle tecnologie di cui disponiamo oggi possiamo decostruire molti costrutti che inquinano il pensiero. Possiamo fare esperienza dell’appartenenza a un mondo più grande, quasi infinito. Più che olistico dice Morton, perché come una geometria frattale si avviluppa e riproduce in ogni sua parte.

L’arte, per esempio, può essere profondamente ecologica (e già lo è). Non solo, essa può diventare visione anche per le scienze. Grazie allo sviluppo dell’utilizzo di tecniche come l’ingrandimento, lo stop motion, il time-lapse, abbiamo oggi accesso a nuove riproduzioni della realtà. Pensate a quei video prodotti in time-lapse che possono narrare la vita di una pianta lungo due anni di tempo, i quali ci consegnano una pianta vitale, in movimento, estranea alla nostra idea di “pianta”.

Così come è possibile ricreare spazi ambientali che esaltino proprio la loro caratteristica di essere ambiente (Morton pensa alle sale del Centre Pompidou, quelle del piano dedicato al contemporaneo). O ancora, la riproduzione delle forme naturali attraverso le già citate geometrie frattali, che da anni hanno tutta la nostra attenzione. Senza parlare di quello che Morton non poteva vedere nel 2010, che vediamo oggi nelle riproduzioni o “creazioni” affidate all’Intelligenza Artificiale o vissute nella realtà virtuale.

Rinnegare la Natura

Vedere questo ci permette di interrogare nuovamente i costrutti che dominano le nostre visioni economiche, ambientaliste e scientifiche. Non c’è alcun mondo da re-incantare o da ritrovare. Al contrario, c’è per Morton un mondo da demistificare e il suo principale obiettivo polemico è la Natura in questo caso. Il concetto di Natura è per l’autore il principale punto debole dell’ambientalismo “verde brillante” che presta il fianco al capitalismo, anche se non vorrebbe. Non si parla solo della produzione di batterie al litio rispetto all’estrazione di petrolio e alla produzione di CO2 in eccesso nell’atmosfera. Il vero greenwashing è nascondere ciò che è negativo della nostra realtà di viventi. Nascondere i rifiuti, parte dell’ambiente di un vivente, sotto il tappeto. Spiego meglio: l’ambientalismo preserva un paesaggio “naturale” dall’installazione di pale eoliche, l’estetica vince sull’etica, mentre sottoterra scorre l’ultimo oleodotto e stagna il bagno chimico. La Natura è fantasma, inconscio collettivo, costruzione da sogno che fa dimenticare all’umano di essere responsabile del mondo.

L’ecologia proposta da Morton non è nichilista, non è ambientalista, rinnega la Natura.
In tutto questo, lo trovo un pensiero liberatorio e interessante, oltre che sicuramente provocatorio.
È un pensiero che si affaccia e che ha bisogno di essere pensato. Non solo.
Ha bisogno delle scienze perché le vuole coinvolgere attivamente nella demistificazione del mondo.
Le domande che ho riportato in apertura sono le domande che Morton inizia a porre per comprendere il nuovo ruolo dell’umano del mondo.
Ruolo millenario, ma che solo oggi iniziamo a conoscere – sembrerebbe.

 

Se potessimo dimostrare che la coscienza non è una sorta di sublime premio aggiuntivo per essere fatti in modo così elaborato, bensì un’impostazione predefinita allegata al software, allora i vermi sarebbero coscienti in ogni senso significativo. Un verme potrebbe diventare Buddha, in qualità di verme. Siamo sicuri che i non umani non abbiano un senso dell’”io”? Siamo sicuri che noi lo abbiamo?[4]

 

 

NOTE

[1]     Timothy Morton – Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico – Aboca edizioni, Sansepolcro (Ar) 2019

[2]     Le proposte sono riassunte così come le porto alle pagine 184 e 185 della traduzione italiana del libro.

[3]     Gli studi e le ipotesi contenute si basano su precedenti libri di Morton Dark Ecology (2016), Ecology without Nature (2007), che il lettore specialistico o in cerca di analisi più approfondite può recuperare facilmente nelle edizioni in lingua originale.

[4]     Timothy Morton – Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico – Aboca edizioni, Sansepolcro (Ar) 2019


"Terre contese". Controversie e orizzonti per la biodinamica

“Coltivare con l’abracadabra. Soldi pubblici all’agricoltura biodinamica”.[1] Questo è uno dei titoli che si poteva trovare sui quotidiani nel maggio del 2021. Il tutto nacque  dalle accuse di stregoneria rivolte all’agricoltura biodinamica da una senatrice in occasione del dibattito sul Ddl 988 Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico.[2] Obiettivo delle accuse era emendare l’equiparazione dell’agricoltura biodinamica a quella biologica, contenuto nell’articolo 1, comma 3 del Ddl.

In questo post[3] vorrei riportare quanto ho appreso indagando nella letteratura su questa agricoltura, oltre a mostrare alcuni esempi dalla ricerca biodinamica che permettono di farsi un’idea delle metodologie utilizzate, ben distanti da magia e stregoneria. Mi preme però descrivere lo sviluppo del dibattito pubblico e parlamentare, rimasto purtroppo molto superficiale.

La prima anomalia di questo dibattito riguarda l’asimmetria delle posizioni. A partire dal 20 maggio 2021, fino a circa la fine del mese successivo, alcune delle radio più importanti per numero di ascolti dedicarono uno spazio solamente all’accusa, supportata da un esperto (più o meno del settore). Sui quotidiani (cartacei e online) su un totale di 22 articoli comparsi, solo 4 davano spazio a voci in difesa dell’agricoltura biodinamica. Dei 12 giornali che ho seguito in quel periodo, solo 3 presentavano un dibattito; i restanti 9 diedero spazio solo all’accusa, alla critica se non alla ridicolizzazione di questo tipo di approccio all’agricoltura.

In generale lo spazio dato agli esponenti dell’agricoltura biodinamica fu pressoché nulla. Anche grazie a questa asimmetria nell’informazione si è riusciti a deviare l’attenzione da ciò che era davvero in gioco. I difensori del disegno di legge precisavano come quest’ultimo fosse stato scritto dalla commissione parlamentare competente a seguito di audizioni con numerosi esperti. In esso si prescriveva l’equiparazione del biodinamico al biologico nei limiti in cui rispettasse la normativa europea vigente per il biologico. Il biodinamico si inseriva quindi in un piano di normazione più ampio, che garantiva il controllo di qualità e produzione.

La disparità del trattamento mediatico, il richiamo alla Scienza e la caccia alle streghe nel “paese di Galilei” hanno permesso la creazione di un fronte compatto di opposizione al decreto, che ha spinto anche i rappresentanti dei partiti inizialmente sostenitori del Ddl a ritrarsi davanti alle accuse, permettendo all’emendamento (che eliminava ogni riferimento alla biodinamica dal testo) di venire approvato.

Ma che cos’è l’agricoltura biodinamica? Essa nasce da alcune indicazioni operative del filosofo Rudolf Steiner (1861-1925), date agli agricoltori in un serie di conferenze, poco prima di morire nel 1925. Queste indicazioni si rivolgevano alla messa in opera di un nuovo modello di agricoltura, biodinamica appunto. L’agricoltura biologica ancora non esisteva; nascerà successivamente derivando conoscenze e esperienze dall’agricoltura biodinamica. La morte di Steiner non permise una revisione delle indicazioni emerse dalle conferenze, né Steiner lasciò alcun testo sistematico sull’argomento. Tutto quel che circola sono testi redatti dagli uditori, senza una revisione da parte di Steiner; nel dibattito, questo punto essenziale è stato sottaciuto, preferendo far discendere direttamente le pratiche da presunti scritti di Steiner.

Lo sviluppo sperimentale della biodinamica, invece, fu seguito da scienziati e docenti universitari tra i quali: il chimico Ehrenfried Pfeiffer (1899-1961), laurea honoris causa in Medicina e professore di Scienza della nutrizione; la microbiologa Lili Kolisko (1889-1976) e Eugen Kolisko (1893-1939), medico e docente di Chimica medica dell’Università di Vienna. La prima formalizzazione matematica dei principi che sono alla base della biodinamica fu del matematico George Adams, poi laurea ad honorem in Chimica a Cambridge.

Oggi il metodo biodinamico è particolarmente diffuso in Germania - dove la biodinamica è presente in tutte le facoltà di agraria – e la sua ricerca e sperimentazione sono presenti in molte università e centri di ricerca accreditati in Olanda, Svizzera, Svezia, Danimarca, Australia, Stati Uniti e Egitto. Dal 2005 è stato costituito il Biodynamic Research Network, esso federa diversi centri di ricerca operanti nel biodinamico in tutto il mondo.[4]

In Italia gli agricoltori biodinamici sono più di 4000 (stime Mipaaf). Per quanto riguarda la ricerca, esistono molti scienziati e ricercatori impegnati (a titolo di esempio si vedano le numerose pubblicazioni sull’humus del chimico prof. Alessandro Piccolo, vincitore del premio Humboldt per la chimica)[5], ma nessun centro o istituto riconosciuto come competente da parte dello Stato Italiano. In Europa la certificazione biodinamica viene rilasciata dall’ente certificatore Demeter all’azienda agricola che soddisfi i requisiti richiesti, tra questi l’utilizzo dei tanto citati corni di mucca ripieni di letame o quarzi di silicio. Questi ultimi sono definiti “preparati biodinamici” e vengono utilizzati in minime dosi nella funzione di “bio-regolatori” per incentivare la vita dell’hummus oltre che  crescita, salute e qualità di piante e animali.

È importante notare che non c’è nessuna pretesa di stregoneria (sembrerà banale) nel biodinamico. Al contrario, non si esime dal confronto con il regime scientifico vigente, prestandosi ad analisi quantitative e persino proponendo nuovi metodi di misurazione dei risultati ottenuti. Warner (2008), ad esempio, sostiene che le agricolture organiche si propongono da un lato di introdurre nuovi mezzi per la ricerca scientifica, e dall’altro adottano e plasmano gli strumenti della scienza ridefinendola e ampliandone la partecipazione. [6]

Due brevi esempi possono dare un’idea del panorama della ricerca biodinamica.

Il primo è uno studio pubblicato nel 2013 da Giannattasio, Vendramin e Fornasier. Studi precedenti avevano rilevato gli effetti positivi per la qualità del suolo dei preparati 500 (il vituperato cornoletame) e 501.[7] Lo studio in questione si rivolge invece all’analisi microbiologica del suolo trattato con questi preparati, evidenziandone l’effetto auxino-simile (auxin-like, auxine sono i fitormoni che regolano crescita e sviluppo delle piante), almeno pari a quello di alcuni dei principali fertilizzanti di sintesi in commercio.[8]

Secondo esempio è una ricerca del 2019, collaborazione tra il centro di Darmstadt per la ricerca biodinamica e l’Università di Bonn.  A conclusione della ricerca - che riporta alcuni riscontri positivi nel nutrimento del suolo a livello di macromolecole, in linea con lo studio citato poco sopra - gli autori suggeriscono alcune implementazioni negli strumenti di ricerca, nel tentativo di studiare gli aspetti qualitativi dei cibi prodotti e il loro apporto al nutrimento dello spirito. Uno di questi è l’utilizzo della cristallografia per studiare la corretta formazione dei vegetali durante la fase di crescita. Altra proposta è quella di un “Empathic Food Test” che possa standardizzare l’apporto emotivo-spirituale di questi cibi per il consumatore, interrogando lo stesso.[9]


In conclusione, il dibattito pubblico e parlamentare italiano si è presentato inquinato da pregiudizi, incomprensioni e da una certa dose di malafede, mossi da interessi che certo non rappresentano l’interesse del consumatore, della sua salute e quella dei nostri ecosistemi. La vicenda rappresenta un’occasione mancata, l’ennesima, per discutere dati alla mano di un fenomeno sempre più emergente.

L’esclusione della biodinamica dalla legge ormai approvata non limita il lavoro degli agricoltori e dei ricercatori biodinamici. Essi possiedono tutti la certificazione di produzione biologica e operano secondo la relativa normativa.

La legge esclude però la biodinamica dai fondi per la ricerca e da una normalizzazione, operando una discriminazione che si ripercuote sulle capacità della società intera di approfondire il fenomeno e godere dei suoi frutti.

 

 

Note

[1] https://www.huffingtonpost.it/economia/2021/05/22/news/coltivare_con_l_abracadabra_soldi_pubblici_sull_agricoltura_biodinamica-5150276/

[2] Oggi legge Legge 23/22 del 9 marzo 2022. L’iter della legge è riassunto alla pagina internet del Senato al seguente indirizzo: https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51061.htm

[3] Questo lavoro riprende precedenti ricerche fatte in occasione di un incontro tenuto all’interno del Circolo di Milano, gruppo informale di ricerca in Sociologia delle Scienze dell’Università degli Studi di Milano.

[4] In Olanda abbiamo l’Università di Wageningen e il Louis Bolk Instituut, sorto nel 1976 a Driebergen.
In Germania, l’Università di Hohenheim ha una sua azienda agricola (denominata “Klein Hohenheim”) dedicata alla ricerca in biodinamica. A Darmstadt, l’istituto di ricerca Forschungsring für Biologisch-Dynamische Wirtschaftsweise, opera dal 1950; negli stessi anni si avviarono i lavori al Forschung & Züchtung Dottenfelderhof, (Bad Vilbel, Francoforte); nell’Università di Kassel, risiede un centro di ricerca per la biodinamica.
In Svizzera sono presenti la Sezione di Scienze Naturali, la Sezione di Agricoltura e il Forschungsinstitut am Goetheanum a Dornach (vicino a Basilea), in attività dai primi anni Venti del Novecento. Nello stesso paese ha sede il FiBL – Forschungsinstitut für biologischen Landbau. In Svezia vi è il Biodynamic Research Institute a Ierna, sorto nei primi anni Cinquanta.
Nel Regno Unito vi è l’Università di Conventry. In Danimarca, il Biodynamisk Forskningsforening, ente di ricerca riconosciuto dallo Stato, sorto nel 1997. In Australia, il Bio-dynamic Research Institute, fondato nel 1952 e riconosciuto dallo Stato.
In Egitto vi è un corso di laurea in agricoltura biodinamica con sede nella Heliopolis University, presso il          Centro Sekem.
Negli USA, Paese dove la ricerca fu avviata fin dagli anni Trenta, esistono  il Michael Fields Agricultural Institute, il Josephine Porter Institute e il Rodale Institute.

[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Piccolo_(agricultural_scientist), https://generiamosalute.it/ecologia-e-ambiente/agricoltura-biodinamica-e-cornoletame-le-basi-scientifiche/

[6] Warner, Keith. 2008. “Agroecology as Participatory Science: Emerging Alternatives to Technology Transfer/Extension Practice.” Science, Technology & Human Values 33(6):754–777.

[7] Entrambi i preparati 500 e 501 sono inclusi nella lista di materiali e tecniche permesse nell’agricoltura biologica dalla regolamentazione della Commissione Europea 834/2007.

[8] Giannattasio M, Vendramin E, Fornasier F, et al. Microbiological features and bioactivity of a fermented manure product (preparation 500) used in biodynamic agriculture. J Microbiol Biotechnol. 2013;23(5):644-651. doi:10.4014/jmb.1212.12004  L’articolo è open-access e fruibile a tutti, quantomeno nelle parti meno tecniche di discussione.

[9] Brock, Christopher, Uwe Geier, Ramona Greiner, Michael Olbrich-Majer, and Jürgen Fritz. “Research in Biodynamic Food and Farming – a Review.” Open Agriculture 4, no. 1 (2019): 743–757.