A debate about Apes - La Teoria della Mente nei grandi primati?

Avete presente gli intrecci delle soap opera televisive, quelli basati su dei malintesi che si gonfiano in maniera spropositata per colpa di false credenze? Di quelli che provocano drammi complicatissimi perché tizio crede che lei creda che l’altro la ami (ma non è così), e così via?

Ecco: questi intrecci non potrebbero esistere se l’essere umano non fosse dotato di una teoria della mente (anche denominata ToM: Theory of Mind), ovvero la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri nonché la capacità di comprendere che gli altri possano avere degli stati mentali diversi dai propri. È un concetto intuitivo, di cui diamo per scontata l’esistenza in ogni nostra interazione quotidiana.

Senza addentrarci negli studi di questa teoria applicata all’essere umano, il concetto risulta poco scontato quando lo applichiamo al mondo degli animali non-umani, interrogandoci sulle loro effettive capacità di astrazione e comprensione degli stati mentali propri e altrui. Il tema è curioso e merita un’analisi propria, specialmente se si considera che il concetto stesso di “teoria della mente” è stato sviluppato all’interno di studi sugli scimpanzé, quindi non di psicologia classica, culminando successivamente in un accesissimo dibattito ancora oggi irrisolto.

LE PREMESSE AL DIBATTITO

  • Partiamo da Darwin (ovviamente). Egli ha fortemente influenzato le premesse teoriche su cui si poggiano gran parte degli studi relativi alle capacità cognitive dei primati, in quanto nella sua opera “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” (1871) sosteneva che non vi fossero differenze fondamentali tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori e che, pertanto, qualsiasi differenza tra queste fosse relativa esclusivamente alla gradazione e non al tipo. Queste riflessioni, come vedremo, hanno condotto vari studiosi a legittimare approcci di ricerca basati sul principio dell’analogia, per cui comportamenti animali simili ai nostri si considerano causati dallo stesso tipo di cause psicologiche che riconosciamo nell’essere umano.
  • Nel 1978 i due studiosi David Premack e Guy Woodruff pubblicarono il celebre articolo “Does the chimpanzee have a theory of mind?”, in cui venivano illustrati una serie di esperimenti condotti su un gruppo di scimpanzé che, a parere degli autori, dimostravano che questi fossero in grado di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri, in particolare per quanto concerne il desiderio, il porsi un obiettivo o anche per le loro attitudini affettive. Fu il primo articolo nella Storia a formulare e spiegare il concetto di “Teoria della mente”, poi ripreso con successo in svariati studi.

IL DIBATTITO

Il lavoro di Premack e Woodruff è stato ripreso e approfondito nel corso degli anni da vari studiosi. In particolare, due gruppi di ricerca si sono dedicati ampiamente allo studio della ToM negli scimpanzé, producendo buona parte della letteratura al riguardo: il gruppo di Michael Tomasello a Leipzig e quello di Daniel Povinelli in Louisiana.

Il primo, in continuità con gli studi precedenti, sostiene che una qualche forma di teoria della mente è effettivamente presente negli scimpanzé, mentre il secondo nega completamente che questa possa mai esistere negli scimpanzé o in altri primati.

Ma come mai vi è un tale disaccordo?

  • Secondo Tomasello molteplici evidenze sperimentali hanno confermato che negli scimpanzé sono presenti dei meccanismi cognitivi e psicologici analoghi a quelli degli esseri umani, specialmente per determinati tipi di cognizione, e che pertanto in questo senso è possibile sostenere che tale specie sia dotata di una teoria della mente. Al tempo stesso, l’autore ha anche specificato che con tale definizione si definisce in realtà uno svariato range di processi mentali, che non sono necessariamente condivisi dalle specie più simili a noi, scimpanzé compresi.
  • Povinelli, al contrario, nega categoricamente che possa esistere alcuna forma di ToM negli scimpanzé poiché ogni forma di esperimento fondata sul principio dell’analogia menzionato in precedenza è incapace di dimostrare efficacemente che un determinato comportamento non solo sia causato da uno specifico processo mentale, ma anche che tal processo mentale sia simile a quello dell’essere umano prima di produrre lo stesso tipo di comportamento. Pertanto, quando nel corso degli esperimenti si rilevano analogie tra scimpanzé ed esseri umani, di fatto si sta solo proiettando sul mondo animale la propria percezione del mondo. L’autore, invece, ritiene che una spiegazione molto più adeguata del comportamento sociale degli scimpanzé sia la semplice capacità di questi animali di rappresentarsi e riflettere sui propri comportamenti, senza alcun’altra considerazione di livello superiore relativa a se stessi o agli altri.

QUALCHE CONSIDERAZIONE

In un paper del 1998 Cecilia Heyes scriveva: “In ogni caso in cui il comportamento dei primati non umani è stato interpretato come un segno di teoria della mente, questo si sarebbe anche potuto manifestare per caso o come il prodotto di processi non mentalistici, come un apprendimento per associazione o qualche inferenza basata su categorie non mentali” (trad. mia). Da quando l’autrice scriveva queste parole le cose non sono granché cambiate. Fa quasi sorridere che degli studiosi affermati arrivino ad accendersi a tal punto da pubblicare vignette di scherno l’uno dell’altro (vedi sotto), eppure questo è solo uno dei tanti casi di disaccordo in ambito scientifico e, come in tanti altri casi, ad uno sguardo più accurato ci si rende conto che una tale divergenza si poggia tanto su considerazioni teoriche di base differenti quanto su un diverso approccio empirico.

In primo luogo, gli autori non sono d’accordo su che cosa sia la teoria della mente (quindi l’oggetto stesso dei loro esperimenti!!): per Tomasello costituisce un variegato gruppo di processi cognitivi e psicologici, mentre per Povinelli è una qualità specifica che una specie o possiede o non possiede.

In secondo luogo, risulta particolarmente difficile comprendere se gli esperimenti dimostrino effettivamente quello che vogliono dimostrare oppure possano essere spiegati e interpretati anche attraverso categorie diverse.

In ultimo, l’assetto sperimentale stesso risulta precario e pieno di fragilità.

È evidente che per poter condurre degli esperimenti in laboratorio con un gruppo di scimpanzé è necessario educare gli esemplari di quel gruppo, così da renderli capaci di poter svolgere un esperimento.

Il raggiungimento di un tale traguardo può richiedere anni, rendendo quindi l’assetto sperimentale di difficile replicabilità e per certi versi troppo “artificiale”.

 

 

 

Bibliografia

Andrews, K. (2005, November). Chimpanzee Theory of Mind: Looking in All the Wrong Places. Mind & Lamnguage, 20(5), 521-536.Call, J., & Michael Tomasello. (2008). Does the chimpanzee have a theory of mind? 30 years later. Trends in Cognitive Sciences, 12(5), 187-192.

Call, J., Hare, B., & Tomasello, M. (2003, June). Chimpanzees versus humans:it's not that simple. TRENDS in Cognitive Sciences, 7(6), 239-240.

Heyes, C. (1998). Theory of mind in nonhuman primates. Behavioral and brain sciences, 21, 101-148.

Penn, D., Holyoak, K., & Povinelli, D. (2008). Darwin's mistake: Explaining the discontinuity between human and nonhuman minds. Behavioral and brain sciences, 31, 109-178.

Povinelli, D., & Vonk, J. (2003, April). Chimpanzee minds: suspiciously human? TRENDS in Cognitive Sciences, 7(4), 157-160.

Povinelli, D., & Vonk, J. (2004, February). We Don't Need a Microscope to Explore the Chimpanzee's Mind. Mind & Lamguage, 19(1), 1-28.

Povinelli, D., Bering, J., & Giambrone, S. (2000). Toward a Science of Other Minds: Escaping the Argument by Analogy. Cognitive Science, 24(3), 509-541.

Premack, D. (2007, August). Human and animal cognition: Continuity and discontinuity. PNAS, 104(35), 13861-13867.

Premack, D., & Woodruff, G. (1978). Does the chimpanzee have a theory of mind? The behavioral and brain sciences, 4, 515-526.

van der Vaart, E., & Hemelrijk, C. (2014). 'Theory of mind' in animals: ways to make progress. Synthese, 191, 335-354.


Perché ci chiamiamo ‘mammiferi’? Il persistere dei pregiudizi nella scienza

Contrariamente a chi pensa che scienza e società siano due sfere separate e portatrici di due tipi di conoscenza molto diversi, numerosi studi mostrano che invece esse si influenzano e contaminano reciprocamente.

Tant’è che le conoscenze scientifiche poggiano anche su conoscenze sociali (pregiudizi compresi); e viceversa.

Potrà meglio illuminare questa posizione (apparentemente blasfema) uno studio tratto dalla storia della biologia, pubblicato da Londa Schiebinger nel 1993 (nel American Historical Review, 98: 382-411), dal titolo Why Mammals are Called Mammals: Gender Politics in Eighteenth-Century Natural History. L’autrice, professoressa di storia della scienza presso il Dipartimento di Storia, della Stanford University (https://en.wikipedia.org/wiki/Londa_Schiebinger), sostiene che il termine mammalia (che potremmo rendere con l’espressione “che hanno il seno”) fu introdotto dal botanico svedese Linneo soltanto nella… decima edizione del Sistema Naturae (1758).

Quindi non nelle edizioni precedenti.

Tale termine cominciò a indicare quella specie che, da allora, conosciamo come mammiferi; mentre per secoli essi erano stati chiamati quadrupedi, secondo le indicazioni di Aristotele. Perché questo cambio di nome? Era proprio necessario? Peraltro Linneo, scegliendo quel termine, considerò solo una fra le diverse proprietà comuni ai mammiferi. Nonostante fosse adatta, a stretto rigore di termini, solo alle femmine di quella specie. Infatti Schiebinger sostiene che Linneo poteva ricorrere ad altre possibili definizioni equivalenti, quali: Pilosa (“che hanno peli”); Aurecaviga (“che hanno orecchie cave”); Lactentia (“che allattano”); Sugentia (“che succhiano”); Vivipora (“che allevano i piccoli”). Che tuttavia non scelse. Perché?

Peraltro, scegliendo Aurecaviga oppure Vivipora egli avrebbe individuato un attributo in comune fra uomini e donne (al contrario delle mammelle). Certamente il termine ‘mammifero’ suonava particolarmente bene foneticamente, per la facile assonanza di mammalia sia con il termine animalia che quello di mamma (forse la prima parola che i bambini imparano).

Nel cercare una spiegazione, l’autrice nota che la «fissazione di Linneo per le mammelle femminili”» (1993, p. 64) si inseriva in un più ampio processo culturale di erotizzazione del seno femminile che proprio in quegli anni giunse a compimento, con esiti ben visibili anche nella storia dell’abbigliamento.

Inoltre Linneo era anche politicamente schierato in una battaglia socio-culturale (nella quale egli era stato appena coinvolto) di reazione all’uso che andava diffondendosi fra le donne delle classi agiate di dare i figli da allattare alle balie. Proprio per arginare questo fenomeno, nel 1793 in Francia, e subito dopo in Prussia, fu promulgata una legge volta a promuovere l’allattamento materno. Tuttavia la pratica dell’allattamento da balia era ormai diffusa non solo tra le famiglie aristocratiche o quelle più ricche, ma anche in altre fasce sociali: infatti a Parigi e a Lione nel 1780 il 90% dei neonati andava a balia (Schiebinger 1993, p. 66).

Schiebinger osserva, inoltre, il differente trattamento che Linneo riserva al genere femminile e a quello maschile, visto che introduce l’espressione Homo sapiens per la nostra specie.

Questo passaggio è particolarmente interessante: se da una parte egli unisce la nostra specie agli altri animali mammiferi attraverso un attributo distintivo della donna (le mammelle), dall’altra per distinguere la specie umana da quella animale, usa un altro attributo pregiudizialmente (soprattutto ai tempi di Linneo) assegnato agli uomini: la ragione o razionalità. Anche se, sostiene Schiebinger, egli probabilmente non era consapevole della scelta politica che lo stava guidando nella sua classificazione.

Inoltre Linneo riteneva l’allattamento “mercenario” una catastrofe sociale, mentre l’allattamento al seno derivava da una legge naturale; quindi, una pratica benigna sia per il neonato che per la madre. Tuttavia, questa battaglia nascondeva una più generale avversione all’emancipazione femminile, al fine di ricondurre la donna al ruolo domestico tradizionale. Se pensiamo che a quel tempo una donna faceva (mediamente) 7-8 figli, questo comportava il suo allontanamento dal lavoro pubblico per almeno una decina d’anni.

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In conclusione, nel campo scientifico spesso si usano termini e classificazioni che hanno un fondamento profondamente sociale (con pregiudizi annessi) e che continuano ad essere attive anche quando questi pregiudizi sono superati.

Per cui scienza e società sono fortemente compenetrate. Nel bene e nel male. Che lo si voglia o no.


Orsi e umani – Una serie di problemi di confine

Il 5 aprile 2023, l’orsa JJ4, lungo un sentiero isolato, uccise Andrea Papi - un pacifico essere vivente che amava correre in montagna e nei boschi del Trentino.

Il successivo 1° settembre, un abitante di San Benedetto dei Marsi, nei pressi della propria casa, uccise l’orsa F17, detta Amarena - un pacifico essere vivente amante delle amarene, che a volte attraversava i paeselli della Marsica.

Questi due eventi sono apparentemente antitetici: nel primo caso un umano viene ucciso da un’orsa; nel secondo un’orsa viene uccisa da un umano.

Tuttavia, nel loro essere antitetici, presentano delle simmetrie:

1) gli uccisi sono due esseri viventi, che hanno acquisito confidenza l’uno con il territorio dell’altro: l’orsa con il territorio “naturale” dell’umano, l’umano con il territorio “naturale” dell’orso. Attenzione, però, al termine “naturale”: lo scrivo tra virgolette per anticiparne il carattere ambiguo.

2) presumibilmente, entrambi gli esseri viventi che hanno compiuto l’assassinio hanno agito per paura o, forse, per difesa, legittima ma purtroppo eccessiva

3) in entrambi i casi, i due uccisori sono stati minacciati di morte: l’orsa JJ4 dalla Provincia Autonoma di Trento, l’umano di San Benedetto dei Marsi che ha sparato ad Amarena da numerosi individui e odiatori, in rete, al telefono e sui muri vicino a casa. Per proteggere entrambi è intervenuto lo Stato: il Consiglio di Stato ha giudicato sproporzionata la richiesta di soppressione dell’orsa; la Polizia di Stato ha messo sotto protezione l’abitante di San Benedetto e la sua famiglia.

Queste due storie, entrambe culminate con l’uccisione di due esseri viventi, parlano di confini:

  • il confine tra antropico e “naturale”: in questo caso tra territorio degli orsi (il bosco) e territorio degli umani (il paese); l’immaginazione sociale e l’idea di confine suggeriscono che ciascuna specie di esseri viventi debba rispettarli; il pensiero comune, anzi, pretende che l’orso non debba sconfinare ma che l’umano possa farlo (attenzione ai verbi: “non debba” e “possa”), purché con giudizio e prudenza.
  • il confine tra cultura e natura: sono, devono essere due cose distinte, la cultura è attribuita agli animali umani, la natura sono gli animali non umani; distinte, salvo la sempre possibile subordinazione della natura alla cultura, in termini di uso e asservimento.
  • il confine tra tradizione e ecologia: la tradizione porta con sé abitudini di prudenza, ma legittima anche la violenza (se l’orso mi mangia le galline, gli sparo); l’ecologia, che si nutre di scienze naturali ed etologiche, preserva e conserva la specie, la “reintroduce”, ne favorisce la riproduzione.

In realtà, questi confini sono evidentemente immaginari, sono costruzioni sociali (degli animali umani, ovviamente, non credo che nessun capriolo, orso o picchio abbia mai partecipato alla discussione).

Diversamente dal desiderio di chi li traccia, sono sempre permeabili, nelle due direzioni: l’orso entra in paese e a volte fa danni, l’autore di questo articolo cammina e pedala nei boschi dell’Abruzzo e a volte fa scappare alcuni animali con il suo rumore; ci sono sempre individui che frequentano l’oltre confine.

Anche il confine tra natura e cultura non è chiuso. La discussione filosofica, da Levi-Strauss a Descola e Ingold è vivacissima su questo tema. Personalmente sto dalla parta di chi considera le due “zone” in ampia sovrapposizione.

Infine, il confine tra tradizione e ecologia, uno dei più delicati: le due aree sono spesso in contrapposizione, e i due terribili eventi di morte da cui siamo partiti ne sono un esempio e hanno dato nuovo impulso al dibattito tra la tradizione, intesa come equilibrio deciso dagli esseri umani che parlano, ad esempio, di “prelievi” di animali in eccesso (cioè uccisioni programmate e legittimate) e di  controllo territoriale forzoso e l’ideologia di una certa ecologia, che fa leva sul presunto valore assoluto “della ”, dell’idea di specie, che va a tutti i costi preservata e conservata.

Purtroppo, alla morte dei due individui, unici e insostituibili, un umano e un’orsa, non c’è rimedio e temo che non possa fare più di tanto per assicurarci che non ci siano casi di sconfinamento che finiscono così.

È il caso invece di riflettere su questi punti:

  • disegnare confini dà sicurezza a chi li disegna; ma questa sicurezza è effimera perché l’altro non li conosce e perché questi confini sono immaginari;
  • chi parla di specie, da confinare, da preservare, da estirpare, commette un grave errore: le specie non esistono nella realtà, sono state inventate dal ‘700; le specie non sono soggetti con una volontà, delle caratteristiche unitarie, definite, incorruttibili e fissate; filosoficamente parlando non sono soggetti morali né universali;

Invece che disegnare confini e preservare specie, è, infatti, utile pensare a convivenze pacifiche e timorose, in cui siano sviluppati e diffusi comportamenti che – come viene suggerito, ad esempio, dalla Regione Abruzzo - contrastino la “confidenza” dell’animale selvatico, non trasformino la presenza di un orso in paese in un fenomeno turistico, in una attrazione da fotografare, non favoriscano l’ingresso nei centri abitati con cibo esposto e raggiungibile.

È utile creare deterrenti simmetrici al ringhio dell’orso infastidito, che fa passare la voglia di camminare in quella parte del bosco, come recinti elettrificati, fonti di rumore, campanelli.

È utile essere consapevoli che la presenza umana nelle zone di prevalente pertinenza del selvatico non è neutrale, che può infastidire, che deve essere discreta e non generare allarme e spavento: l’orso, il lupo, i selvatici si allontanano dalla presenza umana nel bosco, se non è minacciosa.

È anche importante – da un punto di vista teorico – che l’ecologia “scientifica” si smarchi da due errori di approccio: in primis dalla convinzione di origine cartesiana che costruisce l’animale come soggetto con caratteristiche fisse, immutabili e meccaniche su cui basare la relazione; in secondo luogo dal conseguente approccio quantitativo, per il quale l’animale non umano è un rappresentante numerico di una specie, per cui ogni esemplare è sostituibile: tanti ne muoiono, tanti ne vengono “reimmessi”.

Una volta messe da parte queste distorsioni, la scienza ecologica può rifocalizzarsi sul fatto che ogni orso, ogni lupo, coniglio e vitello, è un individuo, come lo è ognuno di noi umani; e che il benessere di ognuno di questi individui può essere il fondamento di una società ampia, interspecifica, che riconosce pari diritti di vita, di rispetto, di salute e di sviluppo, di sicurezza ad ogni singolo soggetto, umano e non umano.