Perché ci chiamiamo ‘mammiferi’? Il persistere dei pregiudizi nella scienza
Contrariamente a chi pensa che scienza e società siano due sfere separate e portatrici di due tipi di conoscenza molto diversi, numerosi studi mostrano che invece esse si influenzano e contaminano reciprocamente.
Tant’è che le conoscenze scientifiche poggiano anche su conoscenze sociali (pregiudizi compresi); e viceversa.
Potrà meglio illuminare questa posizione (apparentemente blasfema) uno studio tratto dalla storia della biologia, pubblicato da Londa Schiebinger nel 1993 (nel American Historical Review, 98: 382-411), dal titolo Why Mammals are Called Mammals: Gender Politics in Eighteenth-Century Natural History. L’autrice, professoressa di storia della scienza presso il Dipartimento di Storia, della Stanford University (https://en.wikipedia.org/wiki/Londa_Schiebinger), sostiene che il termine mammalia (che potremmo rendere con l’espressione “che hanno il seno”) fu introdotto dal botanico svedese Linneo soltanto nella… decima edizione del Sistema Naturae (1758).
Quindi non nelle edizioni precedenti.
Tale termine cominciò a indicare quella specie che, da allora, conosciamo come mammiferi; mentre per secoli essi erano stati chiamati quadrupedi, secondo le indicazioni di Aristotele. Perché questo cambio di nome? Era proprio necessario? Peraltro Linneo, scegliendo quel termine, considerò solo una fra le diverse proprietà comuni ai mammiferi. Nonostante fosse adatta, a stretto rigore di termini, solo alle femmine di quella specie. Infatti Schiebinger sostiene che Linneo poteva ricorrere ad altre possibili definizioni equivalenti, quali: Pilosa (“che hanno peli”); Aurecaviga (“che hanno orecchie cave”); Lactentia (“che allattano”); Sugentia (“che succhiano”); Vivipora (“che allevano i piccoli”). Che tuttavia non scelse. Perché?
Peraltro, scegliendo Aurecaviga oppure Vivipora egli avrebbe individuato un attributo in comune fra uomini e donne (al contrario delle mammelle). Certamente il termine ‘mammifero’ suonava particolarmente bene foneticamente, per la facile assonanza di mammalia sia con il termine animalia che quello di mamma (forse la prima parola che i bambini imparano).
Nel cercare una spiegazione, l’autrice nota che la «fissazione di Linneo per le mammelle femminili”» (1993, p. 64) si inseriva in un più ampio processo culturale di erotizzazione del seno femminile che proprio in quegli anni giunse a compimento, con esiti ben visibili anche nella storia dell’abbigliamento.
Inoltre Linneo era anche politicamente schierato in una battaglia socio-culturale (nella quale egli era stato appena coinvolto) di reazione all’uso che andava diffondendosi fra le donne delle classi agiate di dare i figli da allattare alle balie. Proprio per arginare questo fenomeno, nel 1793 in Francia, e subito dopo in Prussia, fu promulgata una legge volta a promuovere l’allattamento materno. Tuttavia la pratica dell’allattamento da balia era ormai diffusa non solo tra le famiglie aristocratiche o quelle più ricche, ma anche in altre fasce sociali: infatti a Parigi e a Lione nel 1780 il 90% dei neonati andava a balia (Schiebinger 1993, p. 66).
Schiebinger osserva, inoltre, il differente trattamento che Linneo riserva al genere femminile e a quello maschile, visto che introduce l’espressione Homo sapiens per la nostra specie.
Questo passaggio è particolarmente interessante: se da una parte egli unisce la nostra specie agli altri animali mammiferi attraverso un attributo distintivo della donna (le mammelle), dall’altra per distinguere la specie umana da quella animale, usa un altro attributo pregiudizialmente (soprattutto ai tempi di Linneo) assegnato agli uomini: la ragione o razionalità. Anche se, sostiene Schiebinger, egli probabilmente non era consapevole della scelta politica che lo stava guidando nella sua classificazione.
Inoltre Linneo riteneva l’allattamento “mercenario” una catastrofe sociale, mentre l’allattamento al seno derivava da una legge naturale; quindi, una pratica benigna sia per il neonato che per la madre. Tuttavia, questa battaglia nascondeva una più generale avversione all’emancipazione femminile, al fine di ricondurre la donna al ruolo domestico tradizionale. Se pensiamo che a quel tempo una donna faceva (mediamente) 7-8 figli, questo comportava il suo allontanamento dal lavoro pubblico per almeno una decina d’anni.
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In conclusione, nel campo scientifico spesso si usano termini e classificazioni che hanno un fondamento profondamente sociale (con pregiudizi annessi) e che continuano ad essere attive anche quando questi pregiudizi sono superati.
Per cui scienza e società sono fortemente compenetrate. Nel bene e nel male. Che lo si voglia o no.
Orsi e umani – Una serie di problemi di confine
Il 5 aprile 2023, l’orsa JJ4, lungo un sentiero isolato, uccise Andrea Papi - un pacifico essere vivente che amava correre in montagna e nei boschi del Trentino.
Il successivo 1° settembre, un abitante di San Benedetto dei Marsi, nei pressi della propria casa, uccise l’orsa F17, detta Amarena - un pacifico essere vivente amante delle amarene, che a volte attraversava i paeselli della Marsica.
Questi due eventi sono apparentemente antitetici: nel primo caso un umano viene ucciso da un’orsa; nel secondo un’orsa viene uccisa da un umano.
Tuttavia, nel loro essere antitetici, presentano delle simmetrie:
1) gli uccisi sono due esseri viventi, che hanno acquisito confidenza l’uno con il territorio dell’altro: l’orsa con il territorio “naturale” dell’umano, l’umano con il territorio “naturale” dell’orso. Attenzione, però, al termine “naturale”: lo scrivo tra virgolette per anticiparne il carattere ambiguo.
2) presumibilmente, entrambi gli esseri viventi che hanno compiuto l’assassinio hanno agito per paura o, forse, per difesa, legittima ma purtroppo eccessiva
3) in entrambi i casi, i due uccisori sono stati minacciati di morte: l’orsa JJ4 dalla Provincia Autonoma di Trento, l’umano di San Benedetto dei Marsi che ha sparato ad Amarena da numerosi individui e odiatori, in rete, al telefono e sui muri vicino a casa. Per proteggere entrambi è intervenuto lo Stato: il Consiglio di Stato ha giudicato sproporzionata la richiesta di soppressione dell’orsa; la Polizia di Stato ha messo sotto protezione l’abitante di San Benedetto e la sua famiglia.
Queste due storie, entrambe culminate con l’uccisione di due esseri viventi, parlano di confini:
- il confine tra antropico e “naturale”: in questo caso tra territorio degli orsi (il bosco) e territorio degli umani (il paese); l’immaginazione sociale e l’idea di confine suggeriscono che ciascuna specie di esseri viventi debba rispettarli; il pensiero comune, anzi, pretende che l’orso non debba sconfinare ma che l’umano possa farlo (attenzione ai verbi: “non debba” e “possa”), purché con giudizio e prudenza.
- il confine tra cultura e natura: sono, devono essere due cose distinte, la cultura è attribuita agli animali umani, la natura sono gli animali non umani; distinte, salvo la sempre possibile subordinazione della natura alla cultura, in termini di uso e asservimento.
- il confine tra tradizione e ecologia: la tradizione porta con sé abitudini di prudenza, ma legittima anche la violenza (se l’orso mi mangia le galline, gli sparo); l’ecologia, che si nutre di scienze naturali ed etologiche, preserva e conserva la specie, la “reintroduce”, ne favorisce la riproduzione.
In realtà, questi confini sono evidentemente immaginari, sono costruzioni sociali (degli animali umani, ovviamente, non credo che nessun capriolo, orso o picchio abbia mai partecipato alla discussione).
Diversamente dal desiderio di chi li traccia, sono sempre permeabili, nelle due direzioni: l’orso entra in paese e a volte fa danni, l’autore di questo articolo cammina e pedala nei boschi dell’Abruzzo e a volte fa scappare alcuni animali con il suo rumore; ci sono sempre individui che frequentano l’oltre confine.
Anche il confine tra natura e cultura non è chiuso. La discussione filosofica, da Levi-Strauss a Descola e Ingold è vivacissima su questo tema. Personalmente sto dalla parta di chi considera le due “zone” in ampia sovrapposizione.
Infine, il confine tra tradizione e ecologia, uno dei più delicati: le due aree sono spesso in contrapposizione, e i due terribili eventi di morte da cui siamo partiti ne sono un esempio e hanno dato nuovo impulso al dibattito tra la tradizione, intesa come equilibrio deciso dagli esseri umani che parlano, ad esempio, di “prelievi” di animali in eccesso (cioè uccisioni programmate e legittimate) e di controllo territoriale forzoso e l’ideologia di una certa ecologia, che fa leva sul presunto valore assoluto “della ”, dell’idea di specie, che va a tutti i costi preservata e conservata.
Purtroppo, alla morte dei due individui, unici e insostituibili, un umano e un’orsa, non c’è rimedio e temo che non possa fare più di tanto per assicurarci che non ci siano casi di sconfinamento che finiscono così.
È il caso invece di riflettere su questi punti:
- disegnare confini dà sicurezza a chi li disegna; ma questa sicurezza è effimera perché l’altro non li conosce e perché questi confini sono immaginari;
- chi parla di specie, da confinare, da preservare, da estirpare, commette un grave errore: le specie non esistono nella realtà, sono state inventate dal ‘700; le specie non sono soggetti con una volontà, delle caratteristiche unitarie, definite, incorruttibili e fissate; filosoficamente parlando non sono soggetti morali né universali;
Invece che disegnare confini e preservare specie, è, infatti, utile pensare a convivenze pacifiche e timorose, in cui siano sviluppati e diffusi comportamenti che – come viene suggerito, ad esempio, dalla Regione Abruzzo - contrastino la “confidenza” dell’animale selvatico, non trasformino la presenza di un orso in paese in un fenomeno turistico, in una attrazione da fotografare, non favoriscano l’ingresso nei centri abitati con cibo esposto e raggiungibile.
È utile creare deterrenti simmetrici al ringhio dell’orso infastidito, che fa passare la voglia di camminare in quella parte del bosco, come recinti elettrificati, fonti di rumore, campanelli.
È utile essere consapevoli che la presenza umana nelle zone di prevalente pertinenza del selvatico non è neutrale, che può infastidire, che deve essere discreta e non generare allarme e spavento: l’orso, il lupo, i selvatici si allontanano dalla presenza umana nel bosco, se non è minacciosa.
È anche importante – da un punto di vista teorico – che l’ecologia “scientifica” si smarchi da due errori di approccio: in primis dalla convinzione di origine cartesiana che costruisce l’animale come soggetto con caratteristiche fisse, immutabili e meccaniche su cui basare la relazione; in secondo luogo dal conseguente approccio quantitativo, per il quale l’animale non umano è un rappresentante numerico di una specie, per cui ogni esemplare è sostituibile: tanti ne muoiono, tanti ne vengono “reimmessi”.
Una volta messe da parte queste distorsioni, la scienza ecologica può rifocalizzarsi sul fatto che ogni orso, ogni lupo, coniglio e vitello, è un individuo, come lo è ognuno di noi umani; e che il benessere di ognuno di questi individui può essere il fondamento di una società ampia, interspecifica, che riconosce pari diritti di vita, di rispetto, di salute e di sviluppo, di sicurezza ad ogni singolo soggetto, umano e non umano.