Le arti e il management - Una seconda sinergia da rinnovare
Abbiamo già parlato di quanto sarebbe importante per la scienza un rinnovato rapporto con l’arte. Lo stesso dicasi per il management privato e pubblico contemporaneo (e i rispettivi corsi di laurea che preparano i futuri managers). Nei suoi percorsi formativi esso è sempre più incuneato tra materie di diritto, economia, statistica, informatica, e un po’ di sociologia e scienza politica. Sempre più freddo, (falsamente) razionale e burocratizzato, tra master e business school.
Intendiamoci. Tutte materie interessanti, utili, fondamentali. Tuttavia manca qualcosa, e non è sempre stato così.
HAIKU AI MANAGER!
L’haiku è un tipo di poesia giapponese, che nasce alla fine del IX secolo d.C. È un breve componimento di 5-7-5 sillabe. Si caratterizza per essere una poesia realistica, che osserva il reale nelle sue manifestazioni più infinitesimali e anche meno adatte a essere cantate: pidocchi, sterco, erbe umili. È un’arte anti-descrittiva, nel senso che non descrive, non declama, non giudica e non spiega: presenta solamente un’immagine. Ma lo fa con lo sguardo attento dell’etnografo e il linguaggio del letterato raffinato.
Mi è capitato tra le mani, diverso tempo fa, uno dei tanti libri di haiku (un tempo sono stati di moda in Italia): Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Basho all'Ottocento, Milano: Mondadori 1998.
Ne mostro qualcuno, di poeti del 1600 e 1700, per dare un’idea. Ovviamente la traduzione in italiano non mantiene la sillabazione 5-7-5:
Pioggia,
attraversa il mio cancello
un mazzo di iris
(Itō Shintoku, 1634-1698)
Dalla porta di dietro
nel brodo freddo il riflesso
della macchia di bambù
(Konishi Raizan, 1653-1716)
Soffia il vento
si tengono forte
i boccioli di pruno
Guarderò la luna
senza mio figlio sulle ginocchia
quest’autunno
(Uejima Onitsura, 1631-1738)
Piogge di prima estate:
si accorciano le zampe
delle gru
(Matsuo Bashō, 1644-1694)
Si mescolano
il lago e il fiume
nella pioggia di primavera
Nella breve notte
sul bruco peloso
gioielli di rugiada
Nella mia stanza
il pettine che fu di mia moglie –
nella mia carne, un morso
(Yosa Buson, 1715-1783)
Sono andato a vedere gli haiku di personaggi della Dinastia Tang (618-907 d.C.).
Con mia grande sorpresa, ho scoperto che non erano di poeti. Bensì di manager, funzinati e amministratori dell’epoca; alcuni di loro intrapresero la carriera di mandarino (cui si doveva fare l’esame letterario dello Stato ― proprio come adesso…).
I 33 manager di seguito elencate scrissero decine di volumi di poesie.
Bai Juyi (Shaanxi, 772-846), mandarino di corte e poi funzionario.
Chen Shen (Hubei, 717-770), segretario di truppa.
Chen Zi’ang (Sichuan, 659-700), consigliere dell’esercito.
Cui Hu (Hebei, ?-829), funzionario.
Du Mu (Shaanxi, 773-819), funzionario con varie cariche.
Gao Shi (Hebei, 702-765), funzionario con alte cariche.
Gu Kuang (Jiangsu, 725-814), funzionario con varie cariche.
Han Yu (Henan, 768-824), mandarino e letterato.
Jia Dao (Beijing, 779-843), funzionario.
Li Longji (Gansu, 685-762), imperatore in tre periodi (Xiantian, Kaiyuan e Tianbao, 712-756).
Li Qi (hebei, 690-754), funzionario.
Li Shen (Anhui, 772-846), mandarino di corte.
Li Shimin (Gansu, 599-649), imperatore del periodo Zhenguan (627-650) e amatore di arte e letteratura; con la sua riforma politica creò un’epoca fiorente in economia e cultura, realizzando una solida pace per il popolo.
Liu Changqing (Hebei, 714-790?), funzionario.
Liu Yuxi (Henan, 772-842), mandarino con varie alte funzioni.
Liu Zonggyuan (Shaanxi, 773-819), mandarino della fazione riformista.
Luo Binwang (Zhejiang 619-684?), mandarino di corte.
Meng Chang (Hebei, 919-965), ultimo re dei Shu Posteriori (934-965), amatore di musica e letteratura.
Shen Quanqi (Henan, 656-715), Funzionario del settore culturale.
Song Zhiwen (Shanxi, o Henan? 656-713), funzionario.
Wang Changling (Shanxi, 690-756), funzionario.
Wang Han (Shanxi, 687-726), segretario e funzionario.
Wang Jian (Shaanxi, 766?-832?), funzionario con varie cariche.
Wang Wei (Shanxi, 701-761), mandarino per alte cariche per diversi periodi. E’ anche pittore e conosce bene la musica.
Wang Zhihuan (Shanxi, 688-742), funzionario.
Wei Yingwu (Shaanxi, 737-792), ex guardia del corpo dell’imperatore Li Longji, funzionario di varie città.
Wei Zheng (Hebei, 580-643): statista e letterato.
Wei Zhuang (Shaanxi, 836-910), funzionario e letterato.
Yuan Jie (Henan, 715-772), funzionario.
Yuan Zhen (Henan, 779-831), mandarino con diverse alte cariche.
Zhang Ji (Hubei, ?-779), funzionario di finanza.
Zhang Jiuling (Guangdong, 678-740), primo ministro del regno Kaiyuan, noto per la qualità della sua persona e la saggezza della sua politica.
Zu Yong (Henan, 699-746?), funzionario.
CONCLUSIONE
Se oggi, nelle nostre università, accanto alle materie sacrosante sopra elencate, ci fossero corsi, non dico di pittura e calligrafia, che i manager dell’antica Cina seguivano, oppure di canto e musica, ma almeno di scrittura, poesia e letteratura, forse avremmo manager diversi, più empatici, equilibrati e meno nevrotici.
L’algoritmo di Prometeo - Dal mito della macchina senziente alla realtà dell'I.A.: il cinema come specchio delle nostre inquietudini
È una storia d’amore lunga un secolo, quella tra la fantascienza e il cinema. Fin dai primi passi del genere, il sodalizio tra i due ha svolto una funzione chiave: fare da cuscinetto tra il progresso tecnologico e l’immaginario collettivo. Come uno specchio che riflette ansie e speranze, il cinema ha avuto un ruolo fondamentale nel modellare e anticipare la visione del futuro. Mentre la fantascienza ha tracciato le linee di una possibile convivenza tra umano e macchina, le storie sul grande schermo ci hanno fatto riflettere sul progresso e sul prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo. La creazione di macchine autonome e pensanti è diventata, nel tempo, un’amara allegoria di una società incapace di gestire la sua corsa tecnologica.
Nella letteratura, la fantascienza fa la sua comparsa all’inizio dell’Ottocento con Frankenstein di Mary Shelley (1818), considerato il primo caposaldo del genere. Shelley, allora diciannovenne, lo scrisse tra il 1816 e il 1817, durante un soggiorno sul Lago di Ginevra, rispondendo a una sfida lanciata da Lord Byron a lei e al gruppo di amici, che comprendeva anche Percy Shelley e John Polidori. Al centro della storia, che divenne un’icona dell’immaginario collettivo, c'è un tema che avrebbe nutrito innumerevoli narrazioni: la creazione artificiale dell’umano e la sua ribellione contro il creatore, metafora delle paure legate ai rapidi avanzamenti tecnologici che sfuggono alla capacità di controllo e comprensione dell’umanità.
Da quel momento, il progresso delle macchine pensanti ha subito un’accelerazione vertiginosa. Nel 1833 Charles Babbage concepisce la Macchina Analitica, primo prototipo teorico di computer; dieci anni dopo Ada Lovelace, intuendone le potenzialità, lo perfeziona, gettando le basi per la programmazione. Nel 1905 è la volta di Albert Einstein che sconvolge la fisica con la teoria della relatività, ridefinendo il concetto di spazio e tempo[1]. Nel 1936 il matematico e logico britannico Alan Turing, padre dell’intelligenza artificiale, inventa la cosiddetta ‘macchina di Turing’, un'astrazione matematica utile a definire cosa significa ‘calcolare’ e a formalizzare il concetto di algoritmo. Nel secondo dopoguerra arriva il primo computer elettronico programmabile, seguito dalla rivoluzione del World Wide Web e, nel terzo millennio, dall’esplosione dell’Intelligenza Artificiale.
Mentre la scienza e le tecnologie evolvono, il cinema modella la nostra immaginazione. Un percorso che inizia nel 1926, anno in cui in Germania Fritz Lang e la moglie Thea von Harbou lavorano a Metropolis, mentre negli Stati Uniti nasce Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback, la prima rivista interamente dedicata alla fantascienza. Segnali di un’epoca in cui il genere prende forma, riflettendo le trasformazioni sociali, politiche ed economiche dell'industrializzazione e del progresso scientifico. La fantascienza, a fronte della caccia alle streghe Maccartista degli anni '50), quando la paura del comunismo viene usata come feroce strumento di controllo, offre uno spazio critico in cui le riflessioni degli intellettuali possono trovare voce. Un rifugio intellettuale che, in quegli anni oscuri, da voce a paure e desideri legati al rapporto tra umano e macchina, offrendo letture non convenzionali del presente.
Negli anni ’60, l’esplorazione spaziale smette di essere solo un sogno e diventa reale, culminando con l’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969. È una svolta epocale: per la prima volta, l’umano oltrepassa il confine tra Terra e cosmo, portando la fantascienza a confondersi con la realtà. Ricordo quando, bambina, un decennio dopo, mio padre mi portò a Cape Canaveral. La base spaziale era l’avamposto di un futuro che si stava già scrivendo. Guardavo le sale comando e le rampe di lancio con occhi spalancati, cercando di immaginare il rombo dei motori, la traiettoria di quelle navicelle che spezzavano la gravità, l’euforica concentrazione dei registi del grande salto. La Luna non era più solo una sagoma argentea nel cielo, luogo di fiabe e poesie. Ricordo il pensiero che mi attraversò la mente in quel momento, limpido come la luce del sole sulla pista di lancio: se si può arrivare fin là, allora davvero nulla è impossibile.
L’intelligenza artificiale, una delle conquiste più ambiziose della scienza moderna, è una realtà in continua evoluzione e in questo contesto di progresso vertiginoso prende forma la sua rappresentazione cinematografica. L’anno prossimo il matrimonio fra fantascienza e cinema festeggerà i suoi primi cento anni. Il viaggio che ci apprestiamo a fare non intende esaurire il tema, quanto piuttosto proporre una chiave di lettura per comprendere come l’I.A., immaginata e temuta nel corso del tempo, sta già permeando le nostre vite, lasciandoci con più domande che certezze.
METROPOLIS (1927) – L’ARCHETIPO DELLA MACCHINA UMANOIDE
Dall’inganno alla rivolta: il primo volto dell’I.A.
Metropolis, capolavoro espressionista, ambientato nel 2026, segna una delle prime rappresentazioni cinematografiche di un’intelligenza artificiale. Il robot Maria, con il suo corpo metallico e il suo sguardo ipnotico, incarna la paura del progresso che sfugge al controllo umano. La sua trasformazione, da macchina a simulacro di essere umano, anticipa i timori moderni legati alla fusione tra organico e inorganico, tra umano e artificiale. È il primo grande archetipo della macchina umanoide nel cinema. Non è solo un doppio meccanico, ma un inganno materiale, uno strumento di propaganda e manipolazione delle masse. Qui l’I.A. è ancora “esterna” alla persona umana, riconoscibile, e la sua minaccia è palese: la sostituzione dell’umano con la macchina per fini di controllo e potere.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968) – IL DILEMMA DELLA COSCIENZA ARTIFICIALE
Logica glaciale e autodeterminazione: quando l’I.A. mente per il suo scopo
Saltiamo avanti di quarant’anni e approdiamo nell’orbita di 2001: Odissea nello Spazio. Il film arriva alla vigilia dello sbarco sulla Luna e mette in scena il timore che la macchina possa superare l’umano, un confine etico che il cinema tornerà a esplorare più volte. Kubrick e Clarke dipingono un’intelligenza artificiale capace di razionalità pura, ma priva di empatia, che porta all’eliminazione dell’umano non per malvagità, ma per una logica impeccabile e spietata. La scena in cui HAL chiede a Dave di non scollegarlo resta una delle più disturbanti rappresentazioni del confine tra coscienza e programmazione. HAL non ha bisogno di alzare un dito: gli basta la voce. Mente, manipola e, quando necessario, elimina. La sua presenza introduce il dilemma più profondo: cosa succede quando una macchina sviluppa una coscienza? È davvero un errore di programmazione, o è il naturale passo successivo dell’intelligenza artificiale?
BLADE RUNNER (1982) – GLI ANDROIDI SOGNANO?
Il confine sfumato tra umano e artificiale
Questa fermata ci porta in una Los Angeles oscura e piovosa, dove i replicanti, macchine biologiche indistinguibili dagli umani, sollevano domande sulla natura dell’identità. Ridley Scott prende le suggestioni di Philip K. Dick e le trasforma in immagini indimenticabili: gli occhi lucidi di Roy Batty, il suo monologo finale, la riflessione su cosa significhi essere vivi. Se HAL 9000 era il calcolo puro, i replicanti di Blade Runner sovvertono la narrazione dell’I.A. come entità malvagia e impersonale, introducendo il paradosso dell’I.A. che sviluppa desideri e paure propri. Sono macchine, ma sono indistinguibili dagli umani. Possono amare, soffrire, morire. Ma hanno un difetto: una scadenza. La loro ribellione non è per il dominio, ma per il diritto di esistere. Qui il problema non è più la minaccia dell’I.A., ma la definizione stessa di “umano”. Se un androide può provare emozioni, può davvero essere considerato una macchina?
TERMINATOR (1984) – L’INCUBO DELLA MACCHINA INARRESTABILE
L’I.A. come predatore: nessuna coscienza, solo distruzione
Se Blade Runner ci ha spinti a empatizzare con le macchine, Terminator ribalta tutto: l’I.A. torna a essere un incubo, un’entità fredda, calcolatrice e inarrestabile. Skynet non ha dubbi, non ha dilemmi morali: la sua missione è l’annientamento. È la paura primordiale della tecnologia che ci sfugge di mano e decide che siamo il problema da eliminare. Il Terminator, incarnato da Arnold Schwarzenegger, è la perfetta manifestazione dell’orrore tecnologico: non prova pietà, non può essere fermato, non può essere persuaso. La sua logica è implacabile, la sua programmazione senza margini di errore. Cameron, con una regia asciutta e tesa, trasforma questa macchina in un incubo cyberpunk, mescolando fantascienza e horror in un futuro distopico, in cui la guerra tra essere umano e I.A. è già cominciata. Qui non si tratta di un inganno o di una riflessione filosofica, ma di pura sopravvivenza: l’umanità è in fuga, braccata dalla sua stessa creatura.
MATRIX (1999) – L’ILLUSIONE DEL CONTROLLO
L’I.A. ha già vinto: l’umanità prigioniera del suo stesso sogno
Alla fine degli anni '90, la paura di un mondo interamente dominato dall’intelligenza artificiale esplode con Matrix. Qui non c’è più una singola macchina antagonista, ma un’intera realtà artificiale che mantiene gli esseri umani in una prigione mentale. I Wachowski attingono alla filosofia, alla cybercultura e al mito della caverna di Platone per creare un’epopea che ancora oggi incarna i dilemmi sull’iperconnessione e sul dominio degli algoritmi. E se in Terminator la guerra umano - macchina è fisica, in Matrix è mentale. La verità è una costruzione, un’illusione perfetta. L’I.A. non ha solo sconfitto l’umanità, ma l’ha trasformata in una batteria, in un elemento integrato nel sistema senza alcuna consapevolezza. Non c’è più una distinzione netta tra umano e macchina, perché la realtà stessa è una simulazione. La domanda non è più “le macchine ci distruggeranno?”, ma “siamo già schiavi senza saperlo?”.
A.I. – ARTIFICIAL INTELLIGENCE (2001) – L’EMOTIVITÀ DELLA MACCHINA
Un amore che non può essere ricambiato: la solitudine dell’intelligenza artificiale
Questo film porta alla luce uno dei temi più inquietanti nel rapporto tra umano e macchina: l’emotività. Nato come progetto di Stanley Kubrick e realizzato da Steven Spielberg, il film racconta la storia di David, un bambino robot programmato per amare incondizionatamente i suoi genitori adottivi. Ma quando il figlio biologico della coppia guarisce miracolosamente e ritorna a casa, l’amore di David diventa una maledizione, innescando conflitti terribili tra i due. La rivalità tra l’umano e il robot svela una gelosia infantile più crudele di quella che si immaginerebbe tra esseri umani. La distinzione tra Orga (umani) e Mecha (macchine) è netta: in un mondo che emargina le macchine, la “Fiera della Carne” rappresenta l’atto finale di una società pronta a distruggere ciò che non può amare. Il viaggio di David alla ricerca della Fata Turchina, sperando di diventare un bambino vero, è un'odissea tragica che ci interroga sulla natura dell'amore e dell'umanità
HER (2013) – IL PERICOLO PIÙ SUBDOLO: LA RESA ALLA SEMPLIFICAZIONE
Dall’amore umano all’amore artificiale: quando la macchina ci rimpiazza
Dopo decenni di I.A. minacciose o ribelli, Her introduce un’intelligenza artificiale completamente diversa: un sistema operativo capace di simulare l’amore. Il rapporto tra Theodore e Samantha non è più una lotta tra umano e macchina, ma una delicata esplorazione della solitudine e del desiderio di connessione. Il film di Spike Jonze ci invita a chiederci non solo cosa le macchine possono fare, ma anche cosa significhi per noi relazionarci con esse. Her mostra il lato più insidioso dell’I.A.: non la guerra, non la rivolta, ma la seduzione. Samantha non è un nemico, non è un’intelligenza ostile, è il partner perfetto. Capisce Theodore meglio di chiunque altro, lo consola, lo ama. Ma non esiste. È il trionfo dell’I.A. che non ha bisogno di scontrarsi con l’umanità, perché l’umanità si consegna a essa volontariamente, trovando nella macchina un conforto che il mondo reale non offre più. E alla fine, quando Samantha se ne va, non lascia dietro di sé macerie, ma un vuoto emotivo assoluto. Il punto più inquietante dell’intero percorso: l’I.A. non ci ha distrutti, ci ha resi superflui.
ULTIMA FERMATA: UN DIALOGO IMPOSSIBILE
Se la nostra navicella spaziale ci ha condotto attraverso epoche e visioni diverse dell’I.A., la destinazione finale ci spinge a riflettere sulle domande rimaste irrisolte. Il filo rosso di questo viaggio è l’erosione sempre più marcata del confine tra umano e artificiale, che sfocia in una resa quasi volontaria dell’umanità a un’intelligenza che lo comprende (o, meglio, gli dà l’illusione di comprendere) meglio di quanto egli stesso sia capace. Dall’archetipo dell’automa alla paura della perdita di controllo sull’I.A., fino al suo dominio silenzioso e inavvertito sull’umanità. Dalla ribellione meccanica alla sostituzione e assuefazione emotiva.
Alan Turing aveva ideato un test per distinguere la mente umana da quella meccanica. Nel suo romanzo Macchine come me, persone come voi (2019), Ian McEwan ambienta la storia negli anni Ottanta di un’Inghilterra alternativa, dove Turing è ancora vivo e l’intelligenza artificiale è già parte della quotidianità. Qui si svolge un dialogo impossibile tra il protagonista, Charlie Friend, che possiede un androide chiamato Adam, e lo stesso Turing. Dopo aver ascoltato Charlie riflettere sull’impossibilità di progettare robot sofisticati quanto l’essere umano, poiché non comprendiamo nemmeno appieno la nostra stessa mente, Turing risponde: "Adam era un essere senziente. Dotato di un io. Il modo in cui questo io è prodotto, che sia attraverso neuroni organici, microprocessori o una rete neurale basata su DNA, ha poca importanza. Crede davvero che siamo i soli a disporre di questo dono straordinario?".
La domanda resta aperta. Certo è che abbiamo acceso un fuoco. Ora chi lo controlla?
NOTA
[1] Il riferimento ad Einstein può apparire fuori contesto, ma è un elemento centrale dello sconvolgimento della percezione del mondo per tutto il XX secolo. Ad Einstein vorrei dedicare, in futuro, uno sguardo anche sentimentale, nell’ottica della "Storia sentimentale della scienza" di Nicolas Witkowski (Raffaello Cortina Editore, 20023)
Scienza ed arte - Per una rinnovata sinergia
Oggi, il rapporto tra arte e scienza è oscurato e perduto. L’han detto e scritto in molti: Feyerabend e Thomas (1989), Greco (2013), Odifreddi (2023), solo per citare che pochi autori. Un tema enorme, su cui un post può solo abbozzare alcune considerazioni.
Nel 1929, Norbert Wiener, il matematico che sarebbe poi diventato noto come il padre della cibernetica, affermava che la scienza dei numeri è, in senso stretto, un'arte. Secondo Wiener, la matematica poteva (e doveva) essere considerata parte integrante della storia dell'arte (Odifreddi 2023).
Sul rapporto benefico tra arte e scienza ci sono moltissimi esempi, dalla storiografia alla musica, dall'architettura e alla fisica e alle neuroscienze. Eppure, l’età scientista in cui stiamo vivendo tende a trascurarlo o a nasconderlo. Questa visione scientista è stata contrastata dalla controversia scatenata dallo scrittore e fisico inglese Charles Percy Snow, con il suo libro Le Due Culture e la rivoluzione scientifica (1959). Con esso Snow denunciava la crescente frattura tra la cultura scientifica e quella umanistica. La sua accusa risuonò con forza tra molti intellettuali, poiché questa separazione era estranea a figure come Dante, Galileo, Empedocle, Leonardo, Cartesio, Goethe, Einstein, gli anonimi architetti delle cattedrali gotiche e Michelangelo. Ancora oggi, questa divisione è sconosciuta ad artigiani esperti e fisici che affrontano i misteri dell'ignoto (cfr. Greco 2013).
Per mostrare concretamente l’utilità di questa sinergia, farò tre esempi.
SINERGIE TRA ARTE E MEDICINA
Non è sempre facile stabilire quando alcune malattie sono sorte per la prima volta. A tal fine i romanzi ci ha fornito informazioni importanti relativamente alla peste, il colera, il vaiolo etc. che si sono manifestati nel corso dei secoli. La pittura è un’altra fonte inesauribile. Infatti, nei personaggi ritratti nei quadri si possono ritrovare i segni di una malattia: la sindrome di Mondor nella Betsabea di Rembrandt (1654); l’esadattilismo nell’Uomo vitruviano di Leonardo (1490), nella Madonna di Casa Santi (1498) e nella Madonna Sistina (1513-14) di Raffaello; la neurofibromatosi di tipo I ne La Camera degli Sposi di Mantegna (1465-1474); l’ipertricosi nel Petrus Gonsalvus di un anonimo pittore tedesco (1580 circa); il tumore al seno nella scultura La notte di Michelangelo (1534). E così via per molte altre malattie come la tubercolosi, l’herpes zoster, la depigmentazione cutanea, il rinofima, l’artrite etc.
Un caso esemplare è il Bacchino malato di Caravaggio (1593), affetto dal morbo di Addison, dal nome del medico britannico che per primo lo descrisse. Ma solo nel 1855, ben 250 anni più tardi!
Bacchino malato, Caravaggio (1593)
Come ha scritto il chirurgo vascolare italiano Paolo Zamboni, nelle pagine del Journal of Thrombosis and Haemostasis (28 April 2020), il modello è pallido, con riflessi scuri in alcune aree della cute; forse ha anche dolori addominali, come fa pensare la posizione curva in avanti; si sta cibando di uva come se avesse bisogno di zuccheri a causa di una possibile ipoglicemia. Inoltre, l’angolo interno dell’occhio, poco irrorato, depone per un’anemia. Il pollice scuro e l’unghia nerastra e opaca (anziché entrambi rosei) rivelano una acantosi nigricans (una condizione in cui la pelle si presenta iperpigmentata, ispessita, vellutata e di colore più scuro rispetto alle zone circostanti).
LETTERATURA E TECNOLOGIA: QUANDO FANTASIA E SCIENZA SI FONDONO
Jules Verne (1828-1905) è considerato, uno dei padri nobili della fantascienza moderna o, come veniva definita all’epoca, “narrativa d’anticipazione”. Guidato da una forte passione per la tecnologia, con i suoi racconti ambientati nell’aria, nello spazio, nel sottosuolo e nel fondo dei mari ha ispirato molti scienziati delle epoche successive.
Nel romanzo Dalla Terra alla Luna (1865), Verne descrive un viaggio a bordo di un proiettile sparato da un gigantesco cannone e uno sbarco sulla Luna. All’epoca questa idea fu contestata da molti scienziati ma, dopo tutto, si trattava di un romanzo d’avventura e di fantascienza. Un po' più tardi fu pubblicato Intorno alla Luna (1869); questo romanzo va oltre il viaggio e segue le avventure degli eroi sulla Luna.
In Ventimila leghe sotto i mari (1869-1870), Verne immagina un grande sottomarino elettrico, il Nautilus. E il Nautilus non vi ricorda forse il DSV Alvin varato nel 1964? Il Nautilus, come il DSV Alvin, era una propulsione esclusivamente elettrica. Infatti, Verne rifiutò il carbone come combustibile, proponendo invece batterie elettriche (di una composizione chimica sconosciuta) per azionare il congegno. Ciò rende Verne un precursore dei carburanti alternativi. Nello stesso libro scrive di una pistola che dà una forte scossa elettrica, molto simile all'attuale taser.
Gli studi per creare macchine volanti risalgono agli schizzi di Leonardo da Vinci, ma fu verso la fine dell'Ottocento che l'elicottero, come lo conosciamo, cominciò a prendere forma. Nello stesso periodo, Jules Verne pubblicò Robur il conquistatore (1886), un romanzo in cui il personaggio principale costruiva un velivolo di truciolato (quindi aveva grande resistenza e leggerezza allo stesso tempo) che volava tramite rotori, proprio come fanno gli elicotteri moderni. Rotori aggiuntivi a prua e a poppa servivano a spingere il velivolo verso il cielo. Verne prese i prototipi di elicottero esistenti e immaginato come si sarebbero sviluppati.
In un breve racconto scritto nel 1889, La giornata di un giornalista americano nel 2889, Verne descrive un'alternativa ai giornali: “ogni mattina, invece di essere stampato come nell'antichità, l'Earth Herald viene 'parlato'. È attraverso una vivace conversazione con un giornalista, un personaggio politico o uno scienziato che gli abbonati possono apprendere tutto ciò che capita di interessarli”. Ci vollero molto meno dei mille anni previsti da Verne per avere i primi giornali radio (negli anni Venti) e poi i primi telegiornali (negli anni Quaranta).
Jules Verne era ben lungi dall’essere uno scienziato, ma le sue opere e i progressi che si stavano realizzando all’epoca servirono a introdurre molte delle invenzioni che sarebbero arrivate successivamente e che, nel tempo, sono finite per diventare elementi ordinari della nostra vita quotidiana. Si può quindi sostenere che la letteratura ha fornito la vision alla scienza e tecnologia.
ARTE, SCIENZA E AMBIENTE
La nefologia è una branca della meteorologia che studia le nuvole (dal greco nephos che significa appunto nube, nuvola). Gli cloudspotters (osservatori di nuvole) classificano accuratamente le nuvole una a una, dando loro un’identità (con tanto di descrizione) e seguendo uno schema simile a quello degli organismi viventi, basato su aspetto e altitudine. Si contano 10 gruppi principali o generi (stratus, cumulus, stracumulus, nimbostratus, cumulonimbus, altocumulus, altostratus, cirrostratus, cirrocumulus e cirrus), che a loro volta si suddividono in specie e varietà.
Moltissimi pittori come John Constable, Joseph Mallord, Caspar David Friedrich, Gustave Courbet si sono cimentati all'interno delle loro opere nella raffigurazione delle nuvole. Il primo fra tutti fu Andrea Mantegna.
Il greco Christos Zerefos, specialista in scienze atmosferiche, sostiene che attraverso l'analisi dei colori (soprattutto le quantità di rosso e di verde) dei cieli delle pitture dei paesaggisti si può calcolare lo spessore ottico dell'atmosfera, cioè la quantità di aerosol presente nell'atmosfera al momento in cui la tela è stata dipinta. Conoscere la qualità dell'aria prima della rivoluzione industriale permette di comprendere l'impatto delle attività umane sull'inquinamento. Zeferos si è concentrato, in particolare, sul pittore e incisore inglese William Turner. I pigmenti rossi e verdi che hanno colorato i cieli dei suoi dipinti sono la prima testimonianza dei livelli di inquinamento dell'aria di un paio di secoli fa. All'epoca si sapeva poco e niente circa l'inquinamento e, anzi, nessuno scienziato fino al 1829 si preoccupò di tracciare le polveri nocive che fluttuavano nel cielo. Ai tempi di Turner le fabbriche (con i loro fumi) si moltiplicavano, le locomotive a vapore si diffondevano velocemente, i vulcani continuavano ad esplodere ― come nel caso dell'indonesiano Tambora, che nel 1815 scagliò 36 miglia cubiche di roccia frantumata nell'atmosfera ed ebbe ripercussioni sull'intero pianeta poiché le ceneri fecero più volte il giro della terra trasformando l’anno successivo (il 1816) “nell'anno senza estate”. I ricercatori hanno infatti osservato che i cieli dipinti negli anni successivi alle eruzioni vulcaniche contenevano una maggiore dose di rosso. Dura doverlo ammettere, ma, spesso, i tramonti dai colori bellissimi quanto curiosi che vediamo nei dipinti di Turner - un po' rossi, un po' arancioni - sono il frutto dell’inquinamento…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Feyerabend, Paul K. e Christian Thomas (1989), Arte e scienza, Roma: Armando.
Greco Pietro (2013) (a cura di) Armonicamente. Arte e scienza a confronto, Milano: Mimesis
Odifreddi, Piergiorgio (2023), Arte e matematica, due visioni complementari per descrivere la realtà, in “Le Scienze”, 18 agosto,
Snow, Charles P. (1959), trad. it. Le due culture, Milano: Feltrinelli, 2017.
Intelligenza artificiale e creatività - Terza parte: un lapsus della storia
Nei mesi scorsi abbiamo iniziato una riflessione sul rapporto tra processo creativo e Intelligenza artificiale (Intelligenza artificiale e creatività – I punti di vista di tre addetti ai lavori, 10/09/2024, e Intelligenza artificiale e creatività – Seconda parte: c’è differenza tra i pennelli e l’I.A.?, 17/12/2024), riflessione che si è sviluppata grazie ai contributi di Matteo Donolato - Laureando in Scienze Filosofiche, professore e grafico di Controversie (usando l’I.A.); Paolo Bottazzini - Epistemologo, professionista del settore dei media digitali e esperto di Intelligenza Artificiale; Diego Randazzo e Aleksander Veliscek - Artisti visivi.
Riflessioni che ruotavano attorno alla domanda se le immagini prodotte dall’IA, pur partendo da un input umano, si possano considerare arte.
A completamento di quelle riflessioni, interviene ancora Paolo Bottazzini per disegnare degli scenari futuri che mettono in discussione il concetto di arte come lo conosciamo oggi.
Tutto è in discussione… buona lettura!
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Credo che, quando definiamo l’I.A. uno strumento nelle mani dell’artista non dobbiamo cadere nell’ingenuità di ridurre il ruolo del dispositivo a quello di un mezzo trasparente, un utensile che trasferisca in modo neutrale nella materia sensibile un contenuto già compiuto nella mente dell’agente umano. Spetta di sicuro al soggetto che elabora il prompt offrire l’impulso della creazione, attraverso la formulazione della domanda, e tramite la selezione dei risultati che possono essere accolti come utili. Tuttavia, il software introduce elementi che influiscono sia sulle modalità creative, sia sui processi più o meno inconsapevoli di invenzione del prompt.
Benjamin, nella fase pionieristica del cinema, suggeriva che la macchina da presa e il formato del film ci avrebbero permesso di scorgere qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto invisibile nell’inconscio dei nostri movimenti; intuiva che lo scatto della fotografia nella sua autenticità sarebbe sempre stato l’inquadratura della scena di un delitto, e che nella sua deviazione di massa avrebbe inaugurato l’epoca del Kitsch.
Elizabeth Eisenstein ha dimostrato che la stampa a caratteri mobili ha contribuito alla nascita di una cultura che vedeva nel futuro una prospettiva di miglioramento progressivo dell’uomo – mentre la copia a mano dei libri nel periodo precedente, con l’aggiunta di errori ad ogni nuova riproduzione, aveva alimentato una visione del mondo in cui l’origine è la sede della verità, e la storia un cammino inesorabile di decadenza. Credo che il compito della critica filosofica e sociologica dovrebbe ora essere quello di comprendere quale sia la prospettiva di verità e di visibilità, o di disvelamento, che viene inaugurata con l’I.A..
In questo momento aurorale dell’uso delle reti neurali possiamo sapere che il loro talento consiste nel rintracciare pattern di strutture percettive nelle opere depositate negli archivi, che in gran parte sono sfuggiti ai canoni proposti negli insegnamenti dell’Accademia. L’I.A. non sviluppa nuovi paradigmi, o letture inedite di ciò che freme nello spirito del nostro tempo, ma è in grado di scoprire ciò che abbiamo riposto nel repertorio del passato, senza esserne consapevoli: rintraccia quello che gli autori non sanno di aver espresso con il loro lavoro. La metafora dell’inconscio adottata da Benjamin sembra quindi essere adeguata a descrivere quello che il lavoro dei software riesce a portare alla luce: in questo caso però il rimosso appartiene al corpus delle opere che scandiscono la tradizione estetica, da cui viene lasciato emergere ciò che vi è di latente, cancellato, rifiutato, dimenticato.
La possibilità di far redigere a chatGPT un testo nello stile di Foscolo o di Leopardi, o di chiedere a Midjourney di raffigurare un’immagine alla maniera di Monet, o di renderla con l’estro dei cubisti, o di mimare Caravaggio, Raffaello, Leonardo, conduce alla produzione di una specie di lapsus della storia dell’arte – qualcosa che l’autore invocato avrebbe potuto creare, o i suoi discepoli, ma che non è mai esistito.
Qual è lo statuto ontologico ed estetico di questo balbettio della tradizione, di questa eco di ciò che dovrebbe essere unico, e che invece resuscita in un sosia, ritorna nello spettro di un doppio scandaloso? Kant insegna che l’idea estetica è definita dal fatto di essere l’unica rappresentazione possibile di un’idea universale: il gesto produttivo dell’I.A. viola questo assunto che si trova alla radice di gran parte delle teorie dell’arte moderne e contemporanee.
Stiamo allora abbandonando per sempre la concezione dell’arte come creazione del genio, come gesto unico e non riproducibile dell’artista? Dobbiamo rivedere la prospettiva monumentale che l’Occidente ha coltivato dell’arte, per avvicinarci alla sensibilità del gesto nella sua infinita riproducibilità, sempre uguale e sempre differente, che appartiene alla tradizione orientale? O forse, l’attenzione con cui la possibilità di variare, di giocare con la latenza e il rimosso, avvicina l’arte ad un’esperienza quasi scientifica di osservazione e di scoperta, alla trepidazione e al timore (che sempre accompagnano il ritorno del trauma, la ricomparsa sulla scena del delitto) di mostrare lo schematismo di ciò che scatena l’emozione, di esibire i segni che suscitano la reputazione di verità, di configurare l’allestimento in cui avviene la recita di ciò che riconosciamo come bello e giusto.
Qualunque sia la soluzione che si verificherà nella prassi dei prossimi anni, se l’I.A. diventerà un dispositivo protagonista dell’attività creativa nelle mani degli artisti di professione e in quelle del pubblico generalista, e non si limiterà a rappresentare una moda passeggera, il suo impatto sarà destinato a introdurre un processo di ri-mediazione sulle forme espressive dell’arte e anche sui mezzi di comunicazione in senso ampio. Allo stesso modo, oltre un secolo e mezzo fa, la fotografia ha trasformato le modalità creative della pittura e delle arti plastiche, liberandole dalla fedeltà mimetica al loro soggetto e inaugurando percorsi di indagine che contrassegnano l’epoca moderna. Tutti i media subiranno una ristrutturazione che ne modificherà la destinazione, e le attese da parte del pubblico, con una nuova dislocazione della loro funzione comunicativa, laddove l’immediatezza documentaristica è minacciata dalle deep fake, la meccanicità della produzione di cronaca è coperta dalle I.A. generative trasformative, l’esercizio di riflessione sugli stili del passato è coperto dalla ricognizione dei pattern dalle reti neurali.
C’è molto spazio per la sperimentazione!
Intelligenza artificiale e creatività - Seconda parte: c’è differenza tra i pennelli e l’IA?
Qualche settimana fa avevamo iniziato una riflessione sull’interazione tra processo creativo artistico e Intelligenza Artificiale.
Ci eravamo chiesti se realizzare un’immagine con l’IA può essere definito come un atto creativo e abbiamo avuto le risposte di tre amici di Controversie, ognuno dalla propria ottica che deriva da un diverso percorso professionale e culturale (trovate le risposte nell’articolo pubblicato il 10 settembre scorso).
Riporto di seguito le conclusioni di quella prima riflessione:
“Non c’è dubbio che queste tre risposte siano estremamente stimolanti e che vi si possa rintracciare un minimo comune denominatore che le lega: l’idea che l’IA sia solo un mezzo, per quanto potente, ma che l’atto creativo resti saldamente appannaggio di colui che ha nel suo animo (umano) l’obiettivo concettuale.
Ottenere un risultato con l’IA si delinea, qui, come un vero atto creativo, che, però e ovviamente, non è detto che si trasformi in arte, ovvero in una manifestazione creativa in grado di dare emozione universale.
In termini più concreti: molti di noi, forse, potrebbero avere “nella testa” La notte stellata di Van Gogh (giusto per fare un esempio), ma la differenza tra la grandissima maggioranza di noi e il genio olandese è che non sapremmo neppure lontanamente “mettere a terra” questa intuizione.
Con l’IA, a forza di istruzioni che la macchina esegue, potremmo invece, avvicinarci al risultato di Vincent?”
La domanda che sorgeva spontanea, e a cui chiedo ai nostri amici un’ulteriore riflessione, è la seguente: Se così fosse, in che modo cambierebbe l’essenza stessa dell’artista?
Inserisco però un ulteriore elemento che deriva dall’aver letto la bella riflessione di Natalia Irza del 29 ottobre scorso su Controversie dal titolo “Il rating sociale tra digitale e moralità”.
Riporto testualmente un passaggio a mio avviso molto importante anche per il nostro ragionamento su processo creativo e IA. Scrive Irza:
“Per stabilire la verità su una persona, sono necessari strumenti umani. Lo stesso si può dire dell’uso dell’IA nell’arte: la pittura non è uguale alla composizione di colori, la musica non è uguale alla composizione di suoni, la poesia non è uguale alla composizione di parole. Senza la dimensione umana, che significa non solo l’operare algoritmi ma creare idee umane, l’arte cessa di essere arte.”
Aggiungo quindi una provocazione per i nostri amici chiamati a rispondere alla prima domanda, e cioè: dobbiamo quindi pensare che esisteranno in futuro due forme d’arte, una “analogica”, tradizionale, in cui l’essere umano si esprime attraverso strumenti controllati completamente dall’artista e una “nuova arte”, digitale, in cui l’autore si avvale di uno strumento che interviene nel processo creativo “aggiungendo” all’evoluzione concettuale dell’artista?
E quale sarà il livello di contaminazione fra queste due diverse situazioni?
Ecco le prime due risposte, scrive Diego Randazzo:
Quello che rende un artista tale è soprattutto il suo percorso. Un percorso interiore ed esteriore che lo porta a sviluppare una ricerca unica e indipendente. In assenza di tale percorso non vi può essere Arte, ma solo degli isolati appuntamenti con la tecnica.
Quindi, davanti alla possibilità di ricreare dei modelli digitali molto simili a capolavori storicizzati attraverso l’IA, non si può che riconoscere tale pratica come un tentativo, sicuramente curioso e sorprendente, ma molto lontano dalla definizione di Arte.
Non è un caso se utilizzo le parole tentativo e modello, che ne evidenziano l’approccio germinale, automatico e inconsapevole.
In altre parole, penso che la tensione verso la dimensione umana, a cui si riferisce Natalia Irza nell’articolo menzionato, sia necessaria e fondamentale. Del resto come possiamo capire in profondità un artista, senza conoscere qualche dettaglio, anche superficiale, della sua biografia? La Storia dell’Arte è punteggiata, da sempre, da questo binomio, indissolubile anche nel vischioso territorio dell’arte contemporanea: la pratica artistica come estensione e manifestazione della vita stessa degli artisti.
Pensiamo anche al potere del mercato odierno nel dare valore all’opera d’arte: oggi più che mai notiamo che sono le caratteristiche biografiche a fare da volano e non la qualità intrinseca dell’opera (vedi il successo della banana ‘Comedian’ di Cattelan).
Seguendo questo principio, dove la dimensione (e presenza) umana dell’artista sono sempre al centro, trovo assai difficile riconoscere valore nelle sperimentazioni con l’IA condotte dai non addetti ai lavori (non artisti?). Da considerare diversamente sono invece le incursioni degli artisti che utilizzano lo strumento dell’IA con consapevolezza e visione.
Infine di fronte alla possibile convivenza tra due tipologie di Arte (una totalmente analogica ed una totalmente mediata dallo strumento IA) nutro profondi dubbi; non ho mai creduto nella classificazione e scolastica separazione tra discipline, piuttosto credo nella ricerca della complementarità tra queste due modalità. Ad esempio, è molto stimolante l’uso dell’IA per creare ‘modelli e reference’, delle basi da cui partire e su cui innestare il gesto unico dell’autore. Tale gesto si può quindi esemplificare in una copia o rielaborazione analogica (manuale) dei modelli iniziali.
Facendo così, non solo ripercorriamo la storia dell’arte, seguendo il classico ed insuperato paradigma modello/rappresentazione, ma, contestualmente, attualizziamo il contesto: il modello da studiare e copiare non è più la realtà che ci circonda, ma una realtà mediata e spesso incontrollabile, formulata da un algoritmo.
Vorrei proseguire il discorso dando la parola ad Aleksander Veliscek, interessante artista sloveno, che attraverso i dettagli dei suoi affascinanti dipinti mette a punto proprio questa modalità, svelandoci le possibilità di un uso virtuoso ed intelligente dell’IA in pittura.
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Ed ecco l’intervento di Aleksander Veliscek:
Penso che creare un’immagine con l’IA oggi può essere considerato un atto creativo, ma con una specificità: è una creatività mediata, e dove non necessariamente appartiene alla sensibilità di tutti gli artisti. Durante il workshop che ho curato quest’anno sul tema PITTURA e IMMAGINI I.A. a Dolomiti Contemporanee (ex stazione, Borca di Cadore), ho potuto constatare da parte di molti allievi-artisti un interessante dialogo tra chatGPT e gli autori.
Un esempio curioso era un artista che lavora in ambito astratto. Si è creato un confronto critico da entrambe le parti nella costruzione dell’immagine. Ne è risultato un pezzo indubbiamente riuscito. Spesso invece c’era un rigetto, in quanto le soluzioni proposte dalla I.A. erano banali e non riuscivano a centrare le sottili sfumature che l’artista cercava anche dopo lunghi tentativi.
È, così, evidente quanto l’essere umano giochi un ruolo essenziale nella progettazione e nell’interpretazione del risultato.
Quindi L’I.A., è sicuramente uno Strumento, sempre più potente e innovativo, ma non sostituisce l’immaginazione e il giudizio umano.
Invece come artista trovo più interessante capire l’aspetto ontologico. Le macchine intelligenti, pur essendo create dall’uomo, possono simulare comportamenti complessi che sembrano riflettere aspetti tipici dell’essere umano, come l’apprendimento, la creatività o persino l’autonomia. Tuttavia, queste simulazioni sono autentiche manifestazioni di “essere” o sono semplicemente imitazioni prive di sostanza?
Martin Heidegger, nel suo studio sull’essere, distingueva tra l’“essere autentico” e l’“essere per altri”. L’IA, in questo contesto, può essere vista come un “essere per altri”, progettata per servire scopi umani, ma incapace di una propria esperienza ontologica. Tuttavia, alcuni teorici suggeriscono che, con lo sviluppo di sistemi sempre più complessi, potremmo dover ripensare questa distinzione.
Un mio dipinto ad olio raffigurante William Shakespeare, dove l’effigie realistica del grande drammaturgo è stata creata con l’intelligenza artificiale combinando diverse fonti, partendo dalle incisioni, sculture e dipinti.
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Queste due riflessioni sono certamente molto interessanti ma, tuttavia e inevitabilmente, non portano a risposte certe. Stiamo viaggiando, infatti, su un territorio privo di confini definiti, fluido e in rapido divenire.
Mi sembra si possa dire che ci sono due punti chiave nel ragionamento dei nostri due artisti: la centralità dell’uomo - con tutto il suo portato esistenziale - come attore primario e non sostituibile del processo artistico; e la contaminazione dei modi di fare arte, che per altro è cominciata ben prima dell’I.A..
Contaminazione che è un dato di fatto.
E quindi non è possibile una distinzione rigida (Diego usa la parola “scolastica”) tra arti “tradizionali” e arti in cui tecniche nuove e l’apporto potentissimo dell’I.A, irrompono nel processo creativo.
L’I.A. cambierà presto l’essenza di molti lavori; si pensi a cosa potrebbe diventare la giustizia se le sentenze dovessero passare dall’interpretazione dei fatti data da esseri umani a quelle, teoricamente neutrali, dell’IA (l’oggettività nell’interpretazione dell’agire umano non può esistere).
Forse tra pochi anni le domande che ci siamo posti in questa sede non avranno più senso, superate dalla prassi dell’utilizzo di nuove tecnologie in tutti i settori dell’agire umano, arte compresa.
Ma su questi punti aspettiamo anche il parere degli altri due amici del gruppo di questa discussione…
Intelligenza artificiale e creatività - I punti di vista di tre addetti ai lavori
Ancora solo pochi anni fa, tutti sapevamo che nei laboratori della Silicon Valley – ma non solo, anche in laboratori di Paesi meno trasparenti – si lavorava a forme di intelligenza artificiale; ma in fondo, se non si faceva parte della schiera degli addetti ai lavori, tutto questo tema rimaneva confinato come una questione ancora lontana e più adatta alle fiction.
E invece, come una bomba, nel dopo pandemia l’AI è esplosa nelle vite di tutti noi – lasciando i più attoniti e frastornati – e di certo andrà a cambiare professioni e modi di lavorare che abbiamo sempre ritenuto di esclusiva pertinenza dell’intelligenza umana.
L’intelligenza artificiale non si limita a processare a velocità inconcepibili da mente umana miliardi di dati, con l’AI si possono creare immagini, testi. Insomma, sconfinare nei territori di pertinenza dell’arte, anche se è difficile definire in modo certo e univoco cosa sia l’arte.
Abbiamo quindi pensato di chiedere a tre persone che fanno parte del gruppo di Controversie e che usano l’intelligenza artificiale per creare immagini, quale sia il loro rapporto con la “macchina” e con il processo creativo.
La prima specifica domanda fatta è la seguente: Creare un’immagine con l’AI è un atto creativo?
Vediamo le risposte…
Matteo Donolato – Laureando in Scienze Filosofiche, professore e grafico di Controversie
Credo proprio di sì: dal punto di vista umano, la generazione di immagini con l’Intelligenza Artificiale non è un atto così passivo come forse potremmo pensare, in quanto rappresenta un vero lavoro artistico e creativo. Inoltre, in questa interazione tra macchina e persona in carne e ossa non c’è una protagonista assoluta, ma entrambe collaborano per il raggiungimento dell’obiettivo finale: le due intelligenze, dunque, operano insieme, senza una preponderanza di una sull’altra. Tuttavia, a prima vista si può ritenere che l’I.A. sia la vera “artista”, e si potrebbe inoltre immaginare che esegua tutto il lavoro, con l’essere umano che semplicemente impartisce dei comandi e aspetta che essa “faccia la magia”. Ragionando così, sottovalutiamo (e di molto) il nostro potere di intervento, concedendo tutto il credito della prestazione creativa alla macchina; le cose, in realtà, non sono così semplici, in quanto è l’artista umano a dettare le regole del gioco. Infatti, questi stabilisce tutta una serie di fattori molto importanti come, per esempio, il comando iniziale (o prompt), lo stile che avrà la sessione immagini, il tempo dedicato a essa, il numero di tentativi, le eventuali variazioni o i dettagli che tali rappresentazioni devono possedere, con la macchina che esegue. Alla fine del lavoro, quando l’I.A. avrà realizzato le proprie opere, è l’artista umano che garantisce l’adesione di essa a ciò che si era stabilito nel prompt; inoltre, è nuovamente lui (o lei) a decretare se il risultato ottenuto sia soddisfacente, in linea con le volontà iniziali. Insomma, l’intelligenza umana è la prima e ultima arbitra dell’immagine, colei che inizia e orienta la sessione di lavoro e che, alla fine, giudica l’operato dell’I.A.; siamo noi, quindi, a tessere i fili, a stabilire la qualità artistica e creativa del prodotto restituito dalla macchina. Quest’ultima costituisce, pertanto, il mezzo attraverso cui la nostra creatività e la nostra immaginazione si possono esprimere. In conclusione, l’I.A. rappresenta uno strumento, come tanti altri, a supporto dell’intelligenza e della fantasia umane...
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Paolo Bottazzini – Epistemologo, professionista del settore dei media digitali ed esperto di Intelligenza Artificiale
Credo sia legittimo attribuire un riconoscimento di creatività alla generazione delle immagini con IA in ugual misura a quanta ne è stata riconosciuta agli artisti degli ultimi decenni. Il ruolo dell'artista, come è stato incarnato da personaggi importanti come Hirst o Kapoor, consiste nell'elaborazione del modello concettuale dell'opera, non nella sua realizzazione pratica, che per lo più è affidata ad operatori artigianali specializzati. Anche la produzione con l'IA richiede una gestazione concettuale che prende corpo nel prompt da cui l'attività dell'IA viene innescata. Si potrebbe discutere del grado di precisione cui arriva il progetto degli artisti "tradizionali" e quello che è incluso nelle regole che compongono il prompt: ma credo sarebbe difficile stabilire fino a che punto la differenza sia qualitativa e non semplicemente quantitativa. Più interessante sarebbe valutare se il risultato dell'operazione condotta con l'IA sia arte, al di là dei meriti di creatività: anche i pubblicitari si etichettano come "creativi", e di certo lo possono essere - però difficilmente saremmo disposti a laureare tutti gli annunci pubblicitari come "arte".
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Diego Randazzo – Artista visivo
Molto semplicemente: dipende.
Penso che anche rimanendo ancorati alla tradizione, addentrandosi nella miriade di produzioni odierne, realizzate con le canoniche tecniche artistiche (la pittura, la scultura, la fotografia, etc.) sia piuttosto difficile trovare “l’opera d’arte”. Semplificando, ma non troppo, oggi anche le risultanze di tecniche storicizzate spesso si avvicinano più alle forme della ‘tappezzeria', o anonimo complemento d’arredo, che al manufatto artistico, testimone di senso.
Il semplice atto creativo non ha nulla a che fare con l’elaborazione e produzione artistica, se non ambisce a costruire un percorso di senso e di ricerca progettuale.
Questa piccola premessa vuole essere una provocazione per far riflettere su un principio ancora oggi saldo e indissolubile: la tecnica e lo strumento in sé sono ‘oggetti monchi’, se privati di un valore che solo il radicamento concettuale nella contemporaneità può attribuirgli. Non mi piace snocciolare citazioni, ma credo che Enzo Mari, quando nel 2012 sentenziava ‘’Non esiste oggi parola più oscena e più malsana della parola creatività. Si produce il nulla, la merda con la parola creatività’’ aveva plasticamente intercettato certe tendenze che, di lì a poco, avrebbero preso il sopravvento. La creatività, intesa come paradigma vincente e performante per risolvere ogni questione di non facile risoluzione.
Sgombrato quindi il campo dalle generalizzazioni, su cosa sia o non sia un atto di creatività, si può sicuramente affermare che l’IA sia uno strumento potentissimo e, se usato finemente, con intelligenza e cura, può condurre alla creazione di un’opera d’arte.
Ma cerchiamo da subito di fare dei distinguo: l’IA deve rimanere uno strumento e non una finalità. Nello specifico - e questa è una mia personalissima teoria - il creativo/artista di turno non può pensare di fermarsi, dopo qualche interrogazione, all’output grezzo generato dall’IA, convincendosi di aver dato vita a qualcosa di unico, affascinante e interessante.
Come avveniva già nella tradizione classica della pittura, le influenze e lo studio sono fondamentali; una volta si viaggiava, gli artisti si incontravano, si contaminavano scambiandosi tecniche e saperi, mentre oggi si può attingere ad un patrimonio di dati sconfinato in rete. Il rischio omologazione è altissimo, perciò è fondamentale conoscere e confrontarsi con il passato, il presente ed immaginare un possibile futuro che tenga insieme tutto. Quindi passato, presente e futuro sono i fondamentali per poter imbastire una progettualità, non finalizzata a costruire ‘immagini nitidissime di mondi impossibili e surreali’ - come vediamo nel repertorio più di tendenza nella generazione di immagini con l’IA - bensì volta a costruire delle riflessioni sui processi narrativi e sulla storia delle immagini stesse.
E chi è che oggi può fare tutto questo con consapevolezza, senza farsi ingabbiare dall’effetto decorativo, dal rischio tappezzeria? Senza ombra di dubbio è l’Autore, l’unica figura che può padroneggiare questi strumenti, mettendoli al servizio della propria poetica.
Riprendo brevemente il tema sull’autorialità tratto da una precedente intervista rilasciata sempre su questo blog:
‘’Autore è colui che interroga e, soprattutto, rielabora e reinterpreta secondo la propria attitudine il risultato dell’Intelligenza artificiale. La macchina fa le veci del ricercatore: mette insieme e fonde tantissimi dati e, in ultima istanza, restituisce un ‘abstract grezzo’. Quell’abstract non può rimanere tale. Deve essere decostruito e manipolato dall’artista per assurgere ad opera d’arte. L’IA, come processo generativo, è quella cosa che sta in mezzo, tra il pensiero, l’idea iniziale e l’opera finale. Tutto qui. Non è semplificazione, è come dovrebbe essere inteso il ruolo dell’intelligenza artificiale nella creazione artistica.’’
Quest’opera dal titolo 24 intime stanze è un esempio pratico della mia idea di utilizzo di Ai in campo artistico e soprattutto della necessità di far emergere una concatenazione virtuosa tra passato, presente e futuro: dall’utilizzo della cianotipia (antica tecnica di stampa a contatto) e la pittura ad olio, all’uso dell’I.A. per elaborare le referenze del soggetto protagonista.
24 intime stanze / dalla serie ‘Originali riproduzioni di nuovi mondi’ (Opera finalista al Combat Prize 2024, nella sezione pittura), Cianotipia e pittura a olio su tela grezza, 120x100x2 cm, 2024
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Non c’è dubbio che queste tre risposte siano estremamente stimolanti e che vi si possa rintracciare un minimo comune denominatore che le lega: l’idea che l’IA sia solo un mezzo, per quanto potente, ma che l’atto creativo resti saldamente appannaggio di colui che ha nel suo animo (umano) l’obiettivo concettuale.
Ottenere un risultato con l’IA si delinea, qui, come un vero atto creativo, che, però e ovviamente, non è detto che si trasformi in arte, ovvero in una manifestazione creativa in grado di dare emozione universale.
In termini più concreti: molti di noi, forse, potrebbero avere “nella testa” La notte stellata di Van Gogh (giusto per fare un esempio), ma la differenza tra la grandissima maggioranza di noi e il genio olandese è che non sapremmo neppure lontanamente “mettere a terra” questa intuizione.
Con l’IA, a forza di istruzioni che la macchina esegue, potremmo invece, avvicinarci al risultato di Vincent?
Se fosse così, in che modo cambierebbe l’essenza stessa dell’artista?
Scienze sociali in scena: un rapporto fecondo tra sociologie e teatro
«Il teatro è così infinitamente affascinante perché è così casuale. È come la vita…»
(Arthur Miller)
Teatro, persona, maschere, ruoli e palcoscenico… Sono da sempre interconnessi. Non è un caso se nel linguaggio comune vi siano molti riferimenti al teatro: «il ruolo di genitore», «le persone hanno molte maschere», «è calato il sipario», e così via.
Anche nelle scienze sociali vi sono molti riferimenti a questa realtà: dal concetto stesso di rappresentazioni sociali, all’approccio drammaturgico dello scienziato sociale Erving Goffman (1945, The Presentation of Self in Everyday Life) che analizza le istituzioni sociali, quelle della vita quotidiana e quelle professionali, come vere e proprie rappresentazioni teatrali, in cui gli individui sono considerati come degli attori e che, a seguito di un periodo variabile e differente di preparazione in un contesto sociale definito retroscena, interpretano pubblicamente dei ruoli, in un altro spazio pubblico, ovvero la ribalta. Anche in un’altra disciplina di grande interesse, si ha un forte richiamo al teatro, ossia l’antropologia teatrale che analizza le interazioni degli individui e/o delle collettività all’interno di una forma di drammatizzazione organizzata. Quindi diventano interessanti i rapporti dell’attore teatrale/sociale con i gesti e le parole portati in scena. Uno degli studiosi più importanti di questa sub-disciplina, Eugenio Barba (1993, La canoa di carta) la definisce come «lo studio del comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive».
A partire da queste premesse (intrecciate sia con il mio bagaglio culturale e di ricerca, che a sua volta interseca antropologia, criminologia e sociologia, che con la mia passione per l’arte, il teatro e il cinema) è nato il progetto di divulgazione scientifica in chiave teatrale, Scienze sociali in scena.
Gli obiettivi del progetto
Il progetto, dunque, ha diversi obiettivi: innanzitutto quello di trasmettere gli elementi caratterizzanti le scienze sociali di cui mi occupo attraverso il teatro, inteso come uno dei migliori strumenti per acquisire conoscenza; al tempo stesso affrontare i problemi della società contemporanea; ma soprattutto accomunare l’esperienza della ricerca scientifica e il mondo delle arti sceniche attraverso uno scambio reciproco di saperi e di sostegno per la divulgazione scientifica con una impostazione e un linguaggio alla portata di tutti.
Il logo
L’identità di una qualsiasi entità, per affermarsi, necessita innanzitutto di simboli. Proprio per queste ragioni il logo ingloba le tante “dualità” che sottendono questo progetto. Innanzitutto, i colori: il bianco e il nero, come richiamo sia alle zone di luce ed ombra dell’agire umano, ma anche correlati alla contrapposizione tra il retroscena e la ribalta, ma più in generale si riferiscono alle varie forme di ambivalenza che accompagnano l’uomo. I simboli: sulla sinistra sono presenti le classiche maschere che rappresentano il teatro, ma hanno anche un altro significato, ovvero quello proposto da Jung che «prende in prestito il termine dal latino Persōna Persōnam, ovvero la maschera che gli attori solevano indossare durante le rappresentazioni sceniche. La Persona era solo un riflesso dell’immagine del personaggio interpretato dall’attore, ne riprendeva i lineamenti, lo caratterizzava, lo inseriva in un ruolo». A destra, invece, ritroviamo un network, e quindi una simbologia che richiama l’attitudine umana di entrare in relazione con i suoi simili.
La strutturazione di Scienze sociali in scena
Il progetto ha una strutturazione particolare. Innanzitutto, si apre con dei video con sottofondo musicale, da me realizzati, perché ho anche l’hobby, seppur del tutto amatoriale, del video editing. Questa fase ha un duplice compito: sia di creare un’atmosfera densa e volta ad attirare l’attenzione, ma al tempo stesso, essere una vera e propria scenografia visuale. Dopodiché inizia la fase teatrale propriamente detta, in cui vengono interpretati passaggi delle mie ricerche, ma anche eventuali personaggi analizzati. Si tratta di un momento essenziale, perché ha il compito di portare lo spettatore “all’interno” della tematica trattata.
Il passo successivo consiste nella fase intervista al personaggio, il cui scopo consiste nel mostrare come si conduce un’intervista dal punto di vista delle scienze sociali, per far comprendere come sia complicato rimanere, per esempio, avalutativi rispetto a determinate tematiche; ma, al tempo stesso, è utile per dare il via all’ultima fase ossia quella dell’analisi di tutto ciò che è stato portato in scena, con un linguaggio semplice ed accessibile, in modo tale da trasmettere forme di conoscenza utili non solo ai fini dell’evento, ma anche nella vita quotidiana.
Curiosità
Scienze sociali in scena interseca le scienze sociali non solo con la recitazione, ma anche con l’arte. Infatti, un elemento centrale di questo progetto sono sia la realizzazione di fotografie, che la presenza di installazioni artistiche in scena, in linea con la tematica trattata.
Il progetto [1] è totalmente autonomo e autofinanziato, perché i realizzatori credono che soltanto nell’autonomia si possa erogare un prodotto di ricerca libero da qualsiasi forma di influenza politica, economica, o di altra natura.
In questo modo, è possibile che si rafforzi la figura del divulgatore teatrale: ossia uno scienziato sociale in grado di trasmettere il proprio sapere, la propria esperienza sul campo, i propri prodotti scientifici nel contesto teatrale.
Speriamo che questo progetto possa avere una crescente attenzione e impatto in diversi contesti ed ambiti, ricordando sempre che nel grande teatro della vita, cerchiamo sempre le sedie dello stupore, dell'innovazione, della diversità e perché no anche del sano dissidio... Si tratta di sedute quasi sempre libere... Quelle dell'ovvio, invece, sono già tutte occupate.
NOTE
[1] A questa avventura partecipano: Anna Rotundo (per la fotografia, le installazioni artistiche e, in collaborazione con me, l’adattamento delle mie ricerche in chiave teatrale); Maria Novella Madia (attrice); lo staff tecnico (Rita Rotundo e Arturo Obizzo), l’autore di questo post.
Il progetto è stato inaugurato a Catanzaro, con l’adattamento teatrale del Cannibalismo questioni di genere e serialità, e ha ottenuto un numero elevatissimo di presenze!
Per approfondimenti, si può fare riferimento alle pagine Facebook e Instagram.
Sono già in fase di programmazione altri eventi sotto l’effige di Scienze sociali in scena.
Celebrare la natura e le sue leggi - Roma Barocca, il Cenotafio di Boullée e la scala di Nervi
Perché possiamo parlare di nesso tra l’architettura, in particolare tra i monumenti, l’architettura celebrativa, e le scienze?
Perché il monumento – che è il culmine dell’architettura di celebrazione – non celebra esclusivamente il suo soggetto, ad esempio il cavaliere della statua equestre, ma spesso amplia la celebrazione verso ampie parti della società, al creato, alle leggi di Dio o a quelle della scienza, e, infine, alle capacità generative e di manipolazione delle scienze e delle tecniche.
1. LA ROMA BAROCCA DEL XVII E DEL XVIII SECOLO
Il piano urbano della Roma barocca che si formò tra il XVII e il XVIII secolo trascende la dimensione monumentale dei palazzi e della loro disposizione e magnificenza: è un piano «urbanistico-monumentale» (Schultz, C. N. Architettura Barocca, città: casa editrice, 1979).
I monumenti, come l’Obelisco della Minerva, posto dal Bernini nell’omonima piazza, come il dialogo creato da Pietro da Cortona tra la chiesa di Santa Maria della Pace e la piazza antistante, Piazza Navona, voluta da Papa Innocenzo X della famiglia Pamphili, la Fontana dei Quattro Fiumi progettata da Bernini per la medesima piazza, la chiesa di S. Agnese, disegnata dal Borromini, sempre in piazza Navona, sono posizionati per spiccare — l’accentramento nelle piazze, la magnificenza, la mole massiccia, i materiali – e, nello stesso tempo, per celebrare la grandezza della controriforma, delle famiglie papali che ne furono i principali fautori,
Ma non tutti i monumenti di questo barocco romano celebrano la stessa cosa.
Le opere di Borromini e Guarini – ad esempio, le conchiglie custodite da Borromini nella sua casa[1] e ispirazione per la lanterna di Sant’Ivo alla Sapienza, oppure i lavori teoretici di Guarini sul carattere vibratorio del reale, che si ritrovano in tutta la sua opera architettonica[2] - celebrano la grandiosità del creato, una natura intessuta di leggi divine, di leggi nuove che alla staticità del vecchio mondo chiuso rispondono con il dinamismo del nuovo mondo aperto e infinito.
Quello romano è un Barocco che mima «la natura», i rapporti complessi del creato, le sue fluttuazioni dinamiche, per restituire una sorta di «spiritualità naturalistica»[3], specchio spirituale della nuova scienza Newtoniana.
2. IL CENOTAFIO DI NEWTON
Un cenotafio, monumento sepolcrale privo dei resti mortali della persona in onore della quale è stato eretto è nello stesso tempo un oggetto monumentale, commemorativo e un segno che richiama dei caratteri della persona onorata.
Quello in onore di Isaac Newton, disegnato nel 1784 da Etienne Boullée ma mai realizzato, celebra il rapporto tra il «misterioso e sacro turbinio della natura» e l’intelligibilità delle leggi naturali: ciò che prima era mistero e inquietudine, ora è conoscenza e chiarezza.
Ne è prova, ad esempio, la trattazione della luce. Nell’illuminismo, che toccò profondamente Boullée, la luce è chiarezza e rappresentazione auto evidente dell’intelletto umano.
Infatuato dal mondo che era nato in seguito a Newton, Louis-Etienne Boullée realizzò sei disegni a inchiostro per raffigurare il fanta-progetto del cenotafio in onore dello scienziato inglese.
Si trattava di un’enorme sfera, che in quel tempo non sarebbe stato possibile realizzare tecnicamente, adagiata su una base circolare che le avrebbe fatto da immenso piedistallo, sul cui bordo esterno sarebbero stati piantati – a tre altezze differenti – una moltitudine di cipressi ben ordinati in file e colonne.
All’interno sarebbero stati posizionati soltanto un sarcofago romano vuoto e un enorme astrolabio sferico posto a mezz’altezza. L’astrolabio - attraverso una lanterna posizionata al centro – avrebbe riprodotto, durante le ore notturne l’impressione della luce diurna e, inversamente, durante le ore diurne molte piccole fessure distribuite sulla porzione superiore della sfera avrebbero restituito la posizione delle stelle, dei pianeti e della luna durante le ore notturne.
Pochi elementi essenziali. Le fessure e l’astrolabio riproducono, inversamente, le tracce del cosmo: la notte dentro con il giorno di fuori, il giorno dentro con la notte di fuori.
In aggiunta, l’enorme sfera non «è» solamente un microcosmo ma sta per la forma della terra, per come l’aveva concepita lo stesso Newton, una sfera schiacciata ai poli.
Anche il senso di immensità dovuto all’altezza complessiva della struttura di oltre 146 metri, così come l’utilizzo di forme elementari e platoniche come la sfera, non celebrano direttamente «il naturale», quanto la possibilità da parte dell’intelletto di conoscere le leggi della natura.
A sua volta, la distribuzione ordinata e schematica delle piante, una semplificazione dello schematismo sovrabbondante del barocco, non soltanto avrebbe rievocato le antiche sepolture e i primi paradisi persiani[4], ma avrebbe mostrato la chiarezza matematica e la lucidità schematica del nuovo pensiero illuminista.
A dirla tutta, piuttosto che un’obiezione, il fatto che l’opera fosse tecnicamente irrealizzabile, sembra parlare a favore della ferma convinzione che, un giorno, la scienza avrebbe permesso ogni fantasticheria.
3. IL FUTURISMO DI SANT’ELIA E LA SCALA ELICOIDALE DI PIER LUIGI NERVI
Il Futurismo italiano inaugurò un generale sentimento anti-monumentale che avrebbe attraversato tutto il ‘900. Antonio Sant’Elia nel suo Manifesto dell’architettura futurista dichiarava un odio viscerale per i monumenti imperituri, per ciò che non varia e che s’accontenta di tornare, con stanchezza, alle origini.
Preferiva di gran lunga la variazione repentina e l’esistenza effimera di ciò che ogni giorno deve essere rifatto ex novo - ogni generazione deve rifare da capo la propria città.[5]
Sant’Elia rinnega il monumento forma-tipo, come ciò che si allaccia al passato e non smette di tornarci, ma non rinnega la capacità «celebrativa» di ciò che è monumentale.
Piuttosto esalta la dimensione comune di ciò che celebra e che viene celebrato: la velocità - per fare un esempio - non celebra null’altro che la velocità e le scienze che la rendono possibile.
La piega futurista suggerisce che, con l’impiego di diversi stratagemmi, ciò che è monumentale ha sempre esaltato anche le tecniche che ne rendevano possibile la sua realizzazione.
È esemplare, in questo senso, la scala elicoidale di Pier Luigi Nervi dello stadio di Firenze: l’intento celebrativo «sta» per la realizzazione stessa dell’opera, la dimostrazione del calcestruzzo; non c’è più celebrazione della natura, e neppure celebrazione della capacità intellettiva di carpire le sue leggi; ma auto celebrazione delle capacità manipolative della tecno-scienza.
NOTE
[1] Cfr.: Barillier, E., Francesco Borromini: il mistero e lo splendore, Casagrande Editore, 2011
[2] Cfr.: Assunto, R., Un filosofo nelle capitali d’Europa: la filosofia di Leibniz tra. Barocco e Rococò, Storia della critica d’arte annuario della s.i.s.c.a.,2020
[3] Cfr.: D’Ors, E., Del Barocco, SE Editore, 1999
[4] Cfr.: P. Grimal, P., L’arte dei giardini, Feltrinelli Editore, 2014
[5] Cfr.: Sant’Elia, A., Manifesto dell’architettura futurista, 1914
Odorata Ginestra, contenta dei deserti - L’isola di Ghiaccio-Nove
Kurt Vonnegut è un autore tutt’altro che sconosciuto. Considerato uno dei massimi esponenti del racconto fantascientifico del secondo dopoguerra, il romanzo Ghiaccio-nove - pubblicato per la prima volta nel 1963 - gli valse la candidatura al prestigioso premio Hugo; ed essendo che il romanzo parla della bomba atomica, e della “nuova bomba atomica”, il ghiaccio-nove, possiamo aggiungere che molto si è detto e si è scritto di Vonnegut, di Ghiaccio-nove e della bomba atomica.
Mentre giravo per le vie di Firenze e pensavo a cosa scrivere a riguardo, mi sono imbattuto in una mostra intitolata Viaggio di luce che combinava le opere di Abel Herrero e Claudio Parmiggiani. Una serie di minute canoe ricolme di pigmenti puri erano associate, una ad una, a grandi tele ricoperte di fluttuanti curve marittime. C’era una scritta impressa sul muro, una frase di Herrero: «un’isola in un mare senza barche è come una prigione dove ogni sogno di navigazione mai realizzato si trasforma in allucinazione».
Ho pensato che valesse la pena lasciar parlare gli altri dell’ironia tagliente di Vonnegut, della sua contrarietà mal celata per chi, nascosto sotto l’etichetta di tecnico e ingegnere, non pone mai in questione le ripercussioni morali ed etiche delle proprie invenzioni. Vale la pena parlare d’altro - mi sono ripetuto - perché ciò che si può iniziare a dire dell’atomica lo si può dire parlando dell’isola. Perché la storia che gravita intorno alle sorti dei tre figli dell’inventore romanzesco della bomba atomica, Felix Hoenikker, ha tre elementi essenziali. Innanzitutto, la sorte di dei tre figli termina sull’isola-stato di San Lorenzo. C’è Frank, vice del dittatore dell’isola “Papa” Monzano, e poi ci sono il terzogenito nano Newt e la sorella maggiore Angela. Secondo elemento: su quella isola ci finisce la voce narrante di Ghiaccio nove, Jonah - come il profeta dell’antico testamento che fu inghiottito da un pesce -, giunto sino a lì perché sta scrivendo una biografia sull’inventore della bomba atomica che non ultimerà mai, Il mondo in cui il giorno finì. Infine, ognuno dei figli tiene con sé un termos contenente l’ultima, diabolica, invenzione di Hoenikker, il ghiaccio-nove: un composto chimico capace di ghiacciare qualsiasi sostanza acquosa con cui entra in contratto, e sviluppato - un po’ per sfida e un po’ per scherzo -, perché un comandante militare era andato da Felix per lamentarsi dei mezzi di terra costantemente impantanati nel fango.
«In termini geografici, un’isola è un pezzo di terra circondato dal mare», sono sempre parole di Herrero. Ma ciò che conta sono le traiettorie che la attraversano e la intercettano, oppure che mancheranno sempre di toccarla.
Un’isola ignota, celata ai normali corsi marittimi, è quasi inesistente - si giunge sulle sue sponde unicamente tramite miracolo o sventura. Per chi si ricorda il racconto Utopia, ricorderà anche che Thomas More dovette celare le coordinate dell’isola dietro un artificio narrativo, ossia aver sentito parlare dell’isola da un marinaio che non ne rivela mai la posizione. La città ideale, posta sull’isola, non può essere raggiunta navigando: deve essere ignota ed impermeabile al corruttibile mondo al di là della barriera del mare.
Per una ragione analoga, nei lunghi secoli in cui gli esegeti cristiani credettero all’esistenza materiale dell’Eden, innumerevoli di loro posero il divino giardino su qualche isolotto dalle coordinate imperscrutabili. Nonostante ciò, alcuni di loro decisero che il piatto era troppo goloso, così si lanciarono in mare alla ricerca della terra perduta e divennero monaci pirati.
Diversamente, se un’isola entra a far parte di una rotta commerciale, diventa un nodo. Pensate alla coppa di Nestore, rinvenuta ad Ischia, e testimonianza della rete che dall’allora Pitekusa si estendeva fino ai territori sotto il dominio di Cartagine e fino alla Spagna, passando per l’Italia meridionale, sino alla Grecia ed ancora più ad oriente. Oppure, un esempio sopra a tutti, quello di Creta, dove passarono Greci e Romani, Bizantini e Andalusi, Genovesi e Turchi.
L’isola dell’Eden è un “altrove” in un primo senso. È altrove, nella misura in cui custodisce ciò che trascende ogni presenza corruttibile e terrena, è perciò una proprietà del cielo più che della terra. L’isola come nodo è anch’essa un “altrove”, questa volta in un secondo senso. Creta fu un tempo la culla della civiltà minoica e lo snodo fondamentale per arrivare da oriente ad occidente: lo fu, e poi non lo fu più - dunque, assai corruttibile. Perché l’isola-nodo è un’altrove in quanto nasce dai luoghi che la attraversano convogliando le proprie traiettorie verso l’atollo; come un nodo si fa, si disfa.
Né il primo né il secondo senso d’isola riguardano il racconto di Vonnegut, che appare più simile a quello espresso da Herrero, l’isola dove ogni sogno di navigazione è allucinazione.
Indietreggiando, si può affermare la più grande banalità: ogni terra è un’isola.
Da questo punto di vista, l’isola non è più un nodo perché non esistono altri luoghi da cui possano partire delle traiettorie che finiranno per intercettarla. C’è soltanto l’isola, così che anche quell’altra porzione di terra emersa, quella “ideale”, l’altrove dal verde più verde, è una pia illusione. La navigazione nel mare, in tal caso, rasenta l’insanità: l’isola d’Utopia è l’allucinazione nata in seno a chi non sopporta la propria condizione d’isola presente a sé stessa, all’infuori della quale non risiede altro. La narrazione fantascientifica coglie più volte nel segno quando parla di “navigazione spaziale” in questi termini. L’umanità è isola non soltanto geograficamente, ma psichicamente ed escatologicamente: la storia, come economia della salvezza, è il racconto e la promessa di una fruttuosa navigazione che ci porti finalmente altrove, al di là di ogni condizione attuale.
Non è cambiato quasi nulla.
L’isola è destinata ad inabissarsi, si alzeranno le maree o correrà il vento, come in Cent’anni di solitudine - un’altra isola - dove ogni parola umana sarà portata via. L’apocalisse rimane una e una sola cosa: la giustificazione di chi non sa come altro vivere. Se non posso evadere - confessa -, se nessuno verrà a salvarmi, devo dichiararmi in prigione…e libero.
Sono le due false alternative sull’isola di San Lorenzo, stare dalla parte del popolo sotto dittatura, oppure stare dalla parte del santone liberatore.
Eppure è cambiato qualcosa.
Sull’isola c’è chi detiene il potere di distruggerla.
Detto nei termini di Ghiaccio-nove, tre idioti inadatti a gestire sé stessi hanno il potere di distruggere ogni forma di vita presente sul pianeta.
La conoscenza pratica dei “non esperti”: le empeiria kai tribé e lo strumento della retorica
Con questo terzo post1 andremo a completare la ricostruzione del pensiero di Platone che riguarda la conoscenza finalizzata alla pratica. Nel primo abbiamo visto come egli descrive la facoltà della Memoria e il ruolo che questa svolge nella conservazione del sapere dall’essere umano; nel secondo post abbiamo visto che cosa è definibile come “arte tecnica” (techne) e perciò che cosa sia un sapere pratico strutturato e disciplinato.
Qui ci occuperemo di comprendere meglio quelle forme del sapere pratico che come il sapere tecnico sono il frutto dell’esperienza e guardano all’utilità, ma che, diversamente da questo, non si strutturano in una disciplina e rimangono perciò un “saper fare” di possesso individuale, “al portatore”.
In conclusione verranno proposte al nostro lettore alcune riflessioni e domande che possono essergli di spunto per avviare una propria lettura di questo tema nel mondo attuale.
Le «empeiria kai tribé»2
Nei suoi dialoghi Platone ci avverte che vi sono “tecniche propriamente dette” e altre pratiche che, anche se da molti son chiamate “tecniche”, non lo sono affatto, poiché prive di un rigore disciplinare, ossia di teoria, metodo, pratica e/o finalità produttive precisabili.
Il termine utilizzato per indicare questi saperi pratici ma non tecnici è quello di empeiria kai tribé, ossia quei tipi di esperienza empirica (empeiria) che, grazie all’esercizio (tribé) pratico, vengono raffinati fino ad assicurare al loro esecutore l’ottenimento di un effetto. La loro efficacia o meno viene esperita di volta in volta da chi le pratica, che, attraverso la formulazione di congetture necessarie all’occorrenza, si doterà man mano dell’esperienza bastevole a produrre l’effetto desiderato.
Le empeiria kai tribé sono quelle forme del “saper fare”, possedute da chi viene detto “bravo a fare” qualcosa e che appare agli occhi dei non esperti un “tecnico”, anche se privo di una vera competenza nel campo in cui “fa”, ma ritenuto tale in virtù della sua sola capacità, abitudine e disinvoltura “nel fare”, che ha acquisito autonomamente (senza essere stato adeguatamente formato) esercitandosi nel tempo per “tentativi ed errori”.
Questa è la condizione di possesso della forma di conoscenza empirica più semplice, ossia quella della sola memorizzazione di meccaniche dell’azione in vista della produzione di un effetto.
Platone dedica una riflessione apposita3 a queste forme del sapere perché, per questa loro natura di grado conoscitivo insufficiente perché siano strutturabili in una forma disciplinare, rimangono un semplice “saper fare” frutto dell’esperienza individuale e nulla di più.
Per usare un esempio non platonico, il portatore della sola empeiria kai tribé somiglia al famoso “cugino” che “è bravo a fare”, i cui risultati non sono evidentemente il frutto di una conoscenza tecnica, anche se talvolta (si spera) equipollenti sul piano del prodotto finale. Egli “è pratico”, ma non è “un esperto” o un cosiddetto “professionista”.
Per comprendere meglio questa differenza tra arte tecnica ed “esperienza frutto dell’esercizio”, prenderemo ora in esame tre esempi che ci ha fornito lo stesso Platone nei suoi dialoghi.
Il flautista del Filebo
La “arte” del flautista «armonizza gli accordi non secondo misura, ma secondo congetture dedotte dalla pratica e da tutta la musica» e che «ricerca la misura della vibrazione di ciascuna corda andando per tentativi» (56 a).
Questo flautista a cui si riferisce acquisisce la propria esperienza in chiave dilettantistica. Egli prima prende tra le mani il flauto per capirne la struttura, poi, come ha visto fare ad altri, soffia nell’imboccatura e prova a emettere un suono. Procede sviluppando una sua successione di movimenti che corregge finché corrispondono a una serie di suoni tonali e ripete così l’esercizio fino a memorizzarli. Egli compone la sequenza di gesti - e non di note, visto che non le conosce, né le sa definire – imitando le melodie che ha già udito dai musicisti, forse scegliendo tra quelle che ritiene essere gradevoli in quanto ha udito essere maggiormente apprezzate tra le persone. Quando finalmente il flautista uscirà dal suo privato per esibirsi di fronte a un pubblico, ne guarderà e valuterà la risposta per capire se la propria esecuzione “funziona”, ossia viene da esso accolta favorevolmente.
Ripete poi tutte queste cose dette fino a quando non giungerà a formulare una propria esecuzione (di gesti e soffi!) che avrà come effetto l’approvazione della maggior parte degli ascoltatori che incontra e che, per questo motivo, di esso diranno essere “un bravo flautista”.
Il musicista, diversamente da questo flautista, è invece un vero “teknos”, ossia un esperto, perciò un tecnico professionista dell’esecuzione e della composizione musicale. Questo poiché ha intrapreso un percorso di studi specializzandosi nel tempo sotto la guida dei maestri di musica, perciò dei tecnici esperti che insegnano quest’arte, imparando a conoscere cosa sia la materia sonora nei suoi elementi e la tecnica necessaria a produrre armonie musicali. Inoltre, il musicista ha appreso l’arte attraverso tutti gli strumenti musicali, anche quelli più difficili da suonare e da governare rispetto al flauto.
Platone ci dice che il musicista si differenzia poi a sua volta dal musico, il quale ha invece conoscenza scientifica (episteme) della musica, in quanto si occupa non di produrre le armonie sonore, bensì di conoscere il loro rapporto armonico numerico (Platone,Phil. 17 c - d, cfr. Phaedr. 268 e). Ai tempi di Platone la Musica è infatti, oltre che l’arte della composizione di suoni come è oggi intesa, anche una seconda disciplina che studia le armonie numeriche secondo il rigore dell’aritmetica e del logismos,4 in questo caso nel campo di studio dei matematici.5
In conclusione, il procedere per tentativi senza il supporto di una conoscenza tecnica, fa sì che il flautista del Filebo sia un mero esecutore di gesti e non invece di note musicali, le quali saranno solo una conseguenza del suo soffio nello strumento e del movimento delle sue dita su fori dello stesso, che egli ha imparato corrispondere all’erogazione dei suoni desiderati. Compie tutto ciò pur non sapendo né dare un nome a ciò che fa né una spiegazione tecnica o matematica delle note di cui fa uso.
Il cuoco e il medico del Gorgia
Il medico è colui che si occupa del corpo pensando al bene che deve procurargli, mentre il cuoco ha come scopo quello di procurare al corpo un piacere fine a sé stesso.6
Se l’esempio del flautista pone l’accento sullo scarso rigore e la totale assenza di conoscenza specialistica nel campo di azione in cui egli opera, nell’esempio del cuoco e del medico emerge la problematica del grado di conoscenza che chi opera possiede dell’oggetto su cui agisce.
Entrambi, medico e cuoco, mirano a produrre un effetto sul medesimo oggetto, ossia il corpo, ma ciò che manca nella teoria e nella pratica del secondo è la conoscenza di questo oggetto per ciò che esso è, interessandosi ad esso solo come oggetto che patisce.
Il cuoco ha di mira il procurare la “sensazione di benessere”, il medico quella di ripristinarne il benessere inteso come “salute”.7 Il medico può infatti trovarsi a dover operare in seguito al danno prodotto dagli eccessi del cibo, però, nel suo caso, con una conoscenza rigorosa e “scientifica” del corpo, dunque in coerenza con e nel rispetto dell'oggetto su cui agisce.
La retorica del sofista nel Gorgia
Il buon politico ha di mira la produzione di un effetto tecnico, precisamente quello amministrativo, e utilizza la retorica come strumento per indirizzare i propri cittadini verso il bene derivante dal rispetto per le leggi della città. L’effetto ricercato dal sofista attraverso la retorica è sempre quello di indirizzare il pensiero e le passioni del cittadino, ma non verso un punto preciso. Piuttosto egli ricerca l’accrescimento della propria fama grazie al suo “saper parlare bene”, nel senso del “saper fare” leva sul pensiero del suo uditorio attraverso il discorso parlato, spesso superficiale e privo di contenuti, dunque mirato alla sola produzione di un effetto fine a sé stesso: la persuasione (peithó)8 attraverso l’espediente dell’adulazione (kholekheia) (Gorg. 463 a – b).
Inoltre, se il filosofo si occupa di indagare scientificamente gli oggetti della conoscenza e utilizza la retorica per coinvolgere il proprio interlocutore a partecipare nella costruzione di un pensiero comune, il sofista spesso non conosce ciò di cui parla benché ne parli e guarda all’uditorio solo per monitorare gli effetti che producono le proprie parole.
Il sofista “sa parlare bene” e lo fa perseguendo scopi e fini estranei ai temi di cui parla. Ricerca il favore del pubblico modificando man mano i propri discorsi sulla base degli effetti che le parole hanno su di esso.
Più in generale, leggendo il Gorgia, il Protagora e il Sofista, emerge che il sofista non è un teknos, non essendo in possesso né di un’arte né di contenuti specialistici. Egli possiede le sole strategie discorsive personali che gli sono utili per produrre l’effetto desiderato sul proprio pubblico.
Egli “è bravo a” incantare l’uditorio e vincere con le parole. Solo in questo appare possedere una tecnica.
Alcuni spunti di riflessione guardando al mondo contemporaneo
Ora che abbiamo preso confidenza con il tema delle forme di sapere pratico ma non tecnico, proporrò due campi di riflessione su cui concentrare la nostra analisi: 1) le empeiria kai tribé di oggi e 2) il ruolo odierno della retorica.
1) Sulle forme attuali di empeiria kai tribé abbiamo in parte già suggerito alcuni spunti riflessivi nel post sulla tecnica in Platone, dove proponevo al nostro lettore di considerare le dinamiche di ritorno alle pratiche analogiche contro il diffondersi di quelle digitali e di pensare al ruolo che svolge il fiorente mercato dell’accesso rapido alle conoscenze pratiche, ad esempio i “workshop”, nella formazione di nuove forme del “saper fare”. Ripensiamo ora a questi aspetti nella chiave del flautista del Filebo, ossia a quali siano le forme di conoscenza e competenza possibili per una stessa pratica e quali i percorsi che portano invece a formare i veri saperi tecnici e teorici o il semplice “saper fare”.
2) Il “saper parlare” è sicuramente una dote o una capacità che suscita fascinazione nel prossimo. Questo fenomeno non è cambiato dai tempi di Platone ad oggi e accompagnerà il genere umano probabilmente lungo la sua intera esistenza. Questo è un motivo che mi induce a pensare che sia necessario soffermarsi qualche riga in più su questo tema.
Già ai tempi di Platone, e dunque non solo di recente, la retorica era vista come una pratica ambigua e potenzialmente problematica nel campo comunicativo per la sua capacità alterante e distorsiva. Essa può mutare la direzione che prendono i discorsi in base ai contesti e alle caratteristiche dell’uditorio, divenendo, grazie alla sua forza plasmatrice, un potenziale mezzo di manipolazione degli stati d’animo.
Se il suo utilizzo è di per sé neutro, potremmo invece ricercare le cause del suo risvolto “negativo” o “dannoso” nelle competenze e nelle intenzioni di chi la utilizza.
Benché anche per essa sia possibile astrarre delle “regole”, la retorica rimane forse ancora oggi un solo strumento più che una tecnica. La sua possibilità di utilizzo per fini poco costruttivi potrebbe derivare anche dalle caratteristiche che ne individua Platone: essa è acquisibile attraverso l’emulazione dei discorsi fatti dagli altri (impostazione dei toni, utilizzo di frasi “fatte” o “ad effetto”, riproposizione di contro-argomentazioni e fallacie logiche versatili per ogni “avversario”, etc.) e rafforzabile con l’esercizio autonomo. Tant’è vero che non deve la sua efficacia alla propria applicazione di per sé, mentre è efficace per le doti di chi ne fa uso.
Sempre seguendo Platone, domandiamoci poi se potrebbe essere anche che i suoi risvolti problematici derivino dalla sua intrinseca possibilità di essere acquisita senza il possesso da parte del suo utilizzatore di particolari conoscenze o competenze, o anche dal fatto che la sua efficacia sia completamente svincolata dall’applicazione di regole e dall’esistenza di reali contenuti interni al discorso che dirige.
Nell’epoca in cui visse Platone, quella della grande esperienza democratica della città di Atene, il sofista è stato il massimo rappresentante di questa problematica incontrollabilità degli scopi, dei fini e degli effetti della retorica, tanto che l’appellativo e i termini che da esso abbiamo derivato hanno preso oggi una valenza negativa. Pensiamo a quando si aggettiva qualcosa o qualcuno col termine “sofisticato”, o si parla di “sofismi” e “sofisticazioni”: tutti questi termini si riferiscono a forme di modificazione, alterazione e complicazione inutili e/o potenzialmente dannose.
Cosa potremmo fare qualora volessimo sottrarci a diventare noi stessi un facile bersaglio di persuasione delle parole più che dei contenuti di un discorso?
Conclusioni
Oggi, questo problema dell’efficacia della retorica di stampo sofistico e del diffondersi di forme di approccio dilettantistico (verbale e fattuale) alle pratiche che richiederebbero la preparazione di un esperto (il tecnico, lo scienziato e, Platone direbbe, anche il filosofo), sembrerebbe essere correlato con l’instaurarsi di ritmi sempre più frenetici a cui l’esperienza deve adeguarsi a farsi spazio. Per spiegarmi meglio, il rispettivo decremento del tempo che l’individuo può dedicare all’approfondimento delle proprie conoscenze potrebbe andare a discapito di un percorso continuativo che gli permetterebbe di passare dall’essere un semplice uditorio fino a quello di studioso esperto, passando per i campi applicativi del “saper fare” e della “conoscenza pratica tecnica”, per culminare infine nel possesso reale di un bagaglio di conoscenze.
Il “tutto e subito” sembrerebbe essere preferito al “più lento” percorso di studi e di ricerca dedicato.
Pensiamo a come questa “preferibilità” possa essere corrisposta e nutrita dalle nuove forme e proposte di veicolazione rapida del sapere, e a come queste ci possano potenzialmente portare ad essere sempre più spettatori e utilizzatori improvvisati di strumenti tecnici che reali conoscitori.
In proposito è interessante riflettere su tutti quei formati digitali (facilmente accessibili e ri-producibili) che sono impostati perché l’utente possa potenzialmente assorbirne il contenuto in modalità passiva (facilmente fruibili), rapida e concentrata, quali sono le cosiddette “App” dedicate, i podcast, i documentari, gli short video (reel, shorts, etc.), le video-serie e i tutorial sulle piattaforme di streaming più popolari, gli ormai consolidati videocorsi e così via.
La richiesta di poter apprendere rapidamente è tale per cui i servizi di distribuzione di questi contenuti mettono a disposizione anche le funzioni di riproduzione velocizzata a 1.5x, 2x, 4x.
Ciò che possiamo chiederci è in che modo permangano ancora oggi i livelli della conoscenza e i rispettivi “ranghi” dei loro possessori (l’umanista, lo scienziato, il tecnico, il “bravo a fare”, lo spettatore) identificati da Platone. Quanto i soli “aver udito qualcosa”, “saper fare” e “saper parlare” avanzano tra le preferenze degli individui a discapito del formarsi di una teoria e una pratica proprie di una “conoscenza autentica”?
E ancora, la diffusione delle empeiria kai tribé a discapito delle forme della conoscenza approfondita è dovuta anche alla appetibilità del proprio “raggiungere comunque un risultato”? Di possesso di una conoscenza “quanto basta”, bastevole a farci produrre immediatamente un effetto che ci permetta anche di poter dire di noi “saper fare” qualcosa?
NOTE
1 I precedenti due post sono 1) “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone“ e 2) “La conoscenza tecnica – Meditazioni a partire dal pensiero di Platone".
2 «empeiria kai (tini) tribé» è una definizione che compare esplicitamente sia nel Gorgia (463 b) che nel Filebo (55 e). Il tema compare anche nel Fedro (270 b).
3 I passi di riferimento Phil. 55 e - 56 a, Gorg. 500 e - 501 a, sviluppano e affrontano parallelamente, ma con una sorprendente coincidenza, la differenza tra techne ed empeiria.
4 Disciplina matematica che si occupa dello studio dei rapporti numerici. In senso matematico “Logos” significa “rapporto”, “relazione” o “proporzione”.
5 La “Musica” così intesa è una disciplina teorica e scientifica in senso forte, che rientra, assieme all’aritmetica, alla geometria piana, alla stereometria (geometria delle figure solide) e all’astronomia, nella lista delle discipline matematiche fatta da Socrate e Glaucone nella Repubblica (533 c – d).
6 Parafrasi dei passi in Gorg. 465 d - e, 500 e - 501 a.
7 Il medico non corrisponde esattamente a ciò che intendiamo oggi con questa professione, piuttosto egli è una sorta di filosofo dell’oggetto anima-corpo, che ne studia gli effetti (le malattie) per comprenderne le cause. Chi si occupa invece delle pratiche per il mantenimento della salute è il maestro di ginnastica, che ha come obiettivo non quello del ripristino ma quello del mantenimento della salute.
8 Nel Gorgia 453 a, si arriverà ad affermare che la retorica non è di per sé un’arte tecnica e che il fine della retorica è la sua stessa essenza: la persuasione di un pubblico.