Internet non è una “nuvola” - Seconda parte
Nella prima parte di questo articolo, sulla scorta del recente volumetto di Giovanna Sissa Le emissioni segrete (Sissa G., Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale, Bologna, Il Mulino, 2024), abbiamo visto come il processo di produzione dei dispositivi elettronici e anche il funzionamento della rete siano fonti di consumi energetici ormai colossali e in via di costante incremento, a misura che procede la… “digitalizzazione della vita”. Ragionando in termini di emissioni di gas a effetto serra dovute a tali consumi, si parla, nel primo caso, di emissioni incorporate e nel secondo di emissioni operative. Delle prime fanno parte non solo quelle dovute al processo produttivo, ma anche quelle necessarie allo smantellamento e al riciclo dei prodotti, giunti a fine-vita. E di quest’ultimo aspetto ci occupiamo ora: dell’e-waste, ovvero della “spazzatura elettronica”.
E-WASTE, OVVERO: RITORNO ALLA TERRA
Non c’è prodotto, non c’è merce, che prima o dopo, in un modo o nell’altro, non torni alla terra sotto forma di rifiuto. E a questa legge, che ci hanno spiegato i grandi maestri del pensiero ecologico come lo statunitense Nicholas Georgescu-Roegen o qui in Italia Laura Conti e Giorgio Nebbia,[1] non fa eccezione il mondo digitale, con tutta la sua multiforme schiera di dispositivi personali, sottoposti peraltro a un ritmo sempre più rapido di obsolescenza-sostituzione (e non ci si faccia ingannare dalle rassicurazioni di aziende e istituzioni, come la Commissione europea, sull’impegno a superare le pratiche della obsolescenza programmata e a modificare il design dei propri prodotti in funzione del riciclo, riparazione ecc.! Nel caso migliore, si tratta di… pannicelli caldi).
Anche i processi di riciclo e trattamento comportano consumo di risorse e dunque emissioni (sono anch’esse da considerare “emissioni incorporate”). In questo caso a determinare le emissioni sono appunto procedimenti industriali molto complessi che devono estrarre da ogni dispositivo i materiali riutilizzabili.
Ebbene, quel che si scopre, in questo caso, è che dal punto di vista delle emissioni questa fase del ciclo di vita dei dispositivi elettronici sembra comportare un peso molto minore, ma questa – nota l’autrice – non è una buona notizia: significa molto semplicemente che gran parte di questa mole di materiali non vengono trattati adeguatamente. Anzi, diciamola meglio: non vengono trattati del tutto. Le ragioni – spiega Sissa – sono insieme tecniche ed economiche: i processi industriali di recupero dei materiali (anche di valore) contenuti in un pc o in uno smartphone sono talmente complessi (data la quantità minima di materiali da recuperare) da rendere in definitiva del tutto diseconomica l’operazione.
Le (poche) ricerche esistenti parlano di una percentuale non superiore al 20% di materiale riciclato; tutto il resto, molto semplicemente, viene… spedito in Africa o in un qualunque altro paese disperato, post (post?) coloniale o semplicemente intenzionato a garantirsi un po’ di rendita a costo di chiudere tutti e due gli occhi sugli effetti ecologici di questo “servizio”.[2]
È fuori dubbio che, in questo caso, il tipo di impatto ecologico è di carattere diverso: infiltrazione di sostanze tossiche nelle falde sottostanti le grandi discariche (in particolare piombo, cadmio, diossine…), avvelenamento di animali e verdure, dell’aria, intossicazione delle popolazioni che spesso finiscono per costruire intorno a questi gironi infernali hi-tech vere e proprie economie informali che consentono, in contesti sociali poverissimi, occasioni di sopravvivenza per vaste masse e perfino di arricchimento per piccoli strati di una umanità tutta egualmente avvelenata. Se si vuole avere un’idea di queste realtà, si può guardare alla colossale discarica di Agbogbloshie (Accra), in Ghana, dove migliaia di persone vivono e lavorano attorno a questo terribile... business.[3]
CONTROVERSIE ECO-DIGITALI
Giovanna Sissa dedica alcune pagine piuttosto accurate a un tema che, soprattutto in questa sede, appare di grande interesse: quello delle controversie che attraversano il mondo dei ricercatori e degli studiosi che hanno deciso si avventurarsi in questo campo. La valutazione/quantificazione dell’ammontare delle emissioni di gas a effetto serra determinate dalla complessiva attività del mondo digitale è, certamente, un’opera assai difficile e sdrucciolevole, in particolare per quanto riguarda le attività di produzione (e dunque le emissioni incorporate), data anche la lunghezza e la diffusione spaziale delle filiere industriali implicate, la scarsa chiarezza dei dati forniti dalle aziende sui consumi, il fatto che c’è in effetti un peso crescente delle energie rinnovabili nella produzione di energia elettrica spesso tuttavia difficile da stimare, per non parlare poi di tutta la selva di strategie, alcune del tutto truffaldine, che permettono a molte aziende delle ICT di considerarsi a “impatto zero” (non scendiamo qui nei dettagli, che il lettore potrà trovare nel libro).[4] Quel che però va rimarcato è che, a fronte di queste difficoltà oggettive, l’impegno della ricerca appare assai blando.
È interessante scoprire, per esempio, che solo tre sono le ricerche significative in questo campo nell’ultimo decennio: una nel 2015 e due nel 2018: due di queste sono peraltro realizzate da ricercatori di aziende delle ICT (Huawei 2015 e Ericcson 2018), e dunque potenzialmente viziate da conflitto d’interessi, e solo una di ambito accademico (2018). Non stupisce, dunque, che, quando si cerca di determinare la misura di queste emissioni ci si trovi di fronte a un notevole grado di incertezza.
E ora la domanda delle cento pistole: non sarà che questa incertezza deriva, oltre che dalla complessità oggettiva della materia che è fuor di dubbio, dalla precisa scelta, per esempio delle istituzioni universitarie, di non impegnarsi (i.e. di non investire risorse) in questa direzione? E che si preferisce lasciare questo ambito quale terra (volutamente) incognita, così da non disturbare troppo il “Manovratore Digitale”? È la stessa autrice a suggerirlo, quando invita a non «pensare che siamo in presenza di fenomeni inconoscibili: le quantificazioni possono essere migliorate, rese più attuali, più precise e più trasparenti. Dipende solo dalla volontà di farlo e dalle risorse che si dedicano a questo».[5]
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Questo mondo “digitalizzato” che stiamo edificando attorno a noi (e sempre più dentro di noi), insomma, non è per niente “immateriale”, come pure un’ampia letteratura sociologica e filosofica ha teso e tende a farci credere e un irriflesso uso linguistico continua a suggerirci;[6] esso è parte non secondaria di quella colossale “tecnosfera” che da sempre gli uomini hanno bisogno di costruire attorno a sé ma che dalla Rivoluzione industriale in poi, e in particolare a partire dal XX secolo, ha assunto una dimensione tale da influenzare la stessa vita sulla terra e da costituire ormai un pericolo per la sopravvivenza dell’uomo.
Le apparentemente eteree tecnologie di rete, che secondo una filosofia corriva sarebbero ormai consustanziali alla nostra stessa vita, per così dire disciolte in noi, nella nostra carne e nel nostro spirito (mi riferisco all’immagine dell’onlife, proposta da Luciano Floridi), sono in realtà parte non secondaria di questa materialissima e inquinantissima (e sempre più pesante) tecnosfera.[7] Come le ferrovie o le autostrade.
Quando "accendiamo" internet e facciamo qualcosa in rete, sempre più spesso ormai, stiamo inquinando, anche se non sentiamo motori scoppiettanti, o non vediamo nuvole di fumo uscire da qualche parte.
E tanto meno stiamo diventando green e sostenibili, come pure ci fanno credere.
Siamo ancora parte del problema e non della soluzione.
(2 / fine)
NOTE
[1] Scriveva Nebbia, per esempio, con la consueta chiarezza, che «ogni “bene materiale” non scompare dopo l’uso. Ogni bene materiale – dal pane alla benzina, dal marmo alla plastica – ha una sua “storia naturale” che comincia nella natura, passa attraverso i processi di produzione e di consumo e riporta i materiali, modificati, in forma gassosa, liquida o solida, di nuovo nell’aria, sul suolo, nei fiumi e mari. Peraltro, la capacità ricettiva di questi corpi naturali sta diminuendo, a mano a mano che aumenta la quantità di scorie che vi vengono immesse e che i “progressi tecnici” rendono tali scorie sempre più estranee ai corpi riceventi stessi, e da essi difficilmente assimilabili» (Giorgio Nebbia, Bisogni e risorse: alla ricerca di un equilibrio, in NOVA. L’enciclopedia UTET. Scenari del XXI secolo, Torino, Utet, 2005, p. 36).
[2] È quel che ha fatto per molti anni la Cina, come parte del proprio percorso di integrazione nel mercato globale, fino a quando, sia in ragione della crescita del proprio mercato interno e dei propri consumi sia per la rilevanza degli effetti ambientali e delle proteste collegate, ha sostanzialmente bloccato (con una serie di provvedimenti tra 2018 e 2021) l’importazione di «rifiuti stranieri», gettando letteralmente nel panico le società industriali occidentali. Guardate con quale candore si esprimeva, all’epoca, questo articolo del “Sole 24 Ore”: Jacopo Giliberto, La Cina blocca l’import di rifiuti, caos riciclo in Europa, “Il Sole 24 Ore”, 13 gennaio 2018, https://www.ilsole24ore.com/art/la-cina-blocca-l-import-rifiuti-caos-riciclo-europa-AELQpUhD?refresh_ce=1
In questo specifico ambito – sia detto per inciso – si può vedere in forma concentrata il generale comportamento economico del grande paese asiatico che, dopo aver accettato di subordinarsi per un certo periodo alle “regole” della globalizzazione neoliberale a guida Usa (ai fini del proprio sviluppo nazionale), ha ripreso le redini della propria sovranità. Ragione per cui ora il cosiddetto Occidente gli ha dichiarato guerra (per ora, per fortuna, solo sul piano commerciale).
[3] Per avere una idea della realtà della periferia-discarica di Agbogbloshie (Accra, Ghana), si possono vedere alcuni documentari presenti in rete, per esempio quello prodotto da “InsideOver”: Agbogbloshie, le vittime del nostro benessere, https://www.youtube.com/watch?v=Ew1Jv6KoAJU
[4] Cfr. Giovanna Sissa, Le emissioni segrete, cit., p. 105 e ss.
[5] Ivi, p. 113.
[6] Mi sono soffermato su questo “immaterialismo” dell’ideologia contemporanea in: Toni Muzzioli, Il corpo della Rete. Sulla illusoria “immaterialità” della società digitale, “Ideeinformazione”, 10 settembre 2023, https://www.ideeinformazione.org/2023/09/10/il-corpo-della-rete/
[7] In un articolo pubblicato su “Nature”, un gruppo di ricercatori del Weizman Institute of Science (Israele) ha calcolato che il 2020 è l’anno in cui la massa dei manufatti umani («massa antropogenica») ha superato, in termini di peso, quella della biomassa, cioè dell’insieme degli esseri viventi del nostro pianeta. Ovvero: 110 miliardi di tonnellate contro cento miliardi (cfr. Sofia Belardinelli, Il pianeta delle cose, “Il Bo live. Il giornale dell’Università di Padova”, 28 dicembre 2020, https://ilbolive.unipd.it/it/news/pianeta-cose ).
Internet non è una “nuvola” - Prima parte
Qualsiasi cosa si creda dell’universo ipertecnologico che l’umanità sta costruendo in questi anni, che si sia d’accordo coi tecno-ottimisti che vi vedono solo una sequenza sempre più accelerata di miglioramenti verso l’ibridazione felice uomo-macchina o con chi, a vario titolo e con ottime ragioni, ne denuncia le numerose insidie, certo è un dato: il mondo digitale non è e non sarà senza effetti sul piano dell’inquinamento e in generale dell’impatto ambientale.
È, questa, una circostanza che è stata lungamente oscurata dalla cortina fumogena della retorica del “progresso tecnologico” e continua ad essere un vero e proprio «impensato», si direbbe in Francia, a tre decenni ormai da quella rivoluzione tecnologica che ci fece entrare nel mondo dell’informatica e della Rete. Anzi, quelle allora “nuove” tecnologie (chi è un po’ in età tende ancora per pigrizia a trascinarsela, ma è forse giunto il momento di abolire l’espressione “nuove tecnologie”!) apparvero da subito, e in parte continuano ad essere percepite, come tecnologie “soft”, leggere, poco invasive sul piano dell’impatto ambientale. Non si rifletteva – e non si riflette ancora abbastanza – sul fatto che esse sono pur sempre prodotto di filiere industriali non meno inquinanti di quelle “tradizionali” (anzi, per certi aspetti, e per i materiali coinvolti, anche più inquinanti), che per funzionare l’insieme degli apparati necessita di energia, che va pur prodotta, e che infine diventano scarto e dunque vanno a inquinare la terra, le acque, l’aria. Come tutti i manufatti, del resto.
Le cose stanno un po’ cambiando negli ultimi anni, per fortuna: nel quadro della molto accresciuta sensibilità ecologica globale che ha posto attenzione sull’“impronta ecologica” di tante nostre attività quotidiane, anche l’insieme delle attività che compiamo online (una quantità sempre crescente “o per amore o per forza”) ha cominciato ad essere considerata sotto il riguardo del suo impatto ambientale.
E così, anche se l’ideologia dominante tende, comunque, a presentare quello digitale come un progresso senza controindicazioni, apportatore nient’altro che di benefici, un numero crescente di voci si sta sollevando a indicare appunto quello che potremmo chiamare il lato oscuro (non l’unico, peraltro) della società digitale. Libri, ricerche, articoli e servizi giornalistici e televisivi si moltiplicano e richiamano la nostra attenzione sul carattere materiale, pesante, inquinante del mondo digitale.
Di recente, per esempio, si è appreso che in Irlanda il consumo di energia elettrica dei data center ha ormai superato quello necessario per l’illuminazione dell’intero paese,[1] mentre il “Washington Post” ci informa sull’enorme bisogno di energia che sta mettendo a dura prova le reti energetiche statunitensi, anche, da ultimo, per le necessità dell’Intelligenza Artificiale.
Ora, il recente volume di Giovanna Sissa, Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale (Bologna, Il Mulino, 2024) è un’ottima porta d’accesso, chiara e riccamente documentata, a questo enorme problema della contemporaneità. La scelta dell’autrice, docente presso la scuola di dottorato STIET dell’Università degli studi di Genova, è di concentrarsi sull’impatto ambientale del mondo digitale in particolare in termini di emissioni carboniche, da cui evidentemente il titolo. Sì, perché, mentre non sfugge a nessuno che un’acciaieria abbia un certo impatto ambientale in termini di emissioni, appare quasi incredibile che un impatto altrettanto pesante lo abbia anche il digitale: ma come, consultare un sito, ordinare una pizza con l’app, mandare un messaggino ecc. ecc. sono operazioni… inquinanti? Sembra impossibile, ma è così. Naturalmente per comprenderlo – ed è merito dell’autrice guidare il lettore in questo percorso di scoperta – è necessario, metaforicamente, sollevare gli occhi dal proprio schermo (o sollevare la testa dal proprio… smartphone, ciò che in questo momento sembra assai arduo alla nostra umanità tecno-ipnotizzata!) e guardare, o pensare, alle spesso lunghissime filiere industriali che sono alla base della produzione dei dispositivi con i quali le nostre attività digitali possono esistere.
PROCESSI DI PRODUZIONE (EMISSIONI INCORPORATE)
Ed è proprio considerando queste filiere che ci si rende conto di come la produzione dei dispositivi che tutti usiamo per fruire della rete e dei beni e servizi digitali comporti naturalmente un notevole dispendio di energia e dunque di emissioni. Un primo aspetto dell’impatto ecologico del digitale, infatti, consiste in quelle che vengono definite embodied emissions (o emissioni incorporate), quelle cioè dovute al processo di produzione, ma anche di (eventuale) scomposizione e riciclo dei dispositivi (da distinguere dalle operational emissions, ovvero le emissioni che avvengono nella fase di utilizzo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo).[2] Il processo di produzione dei dispositivi digitali comporta, innanzitutto, una straordinaria mobilitazione di materia: minerali un tempo usati solo in modo marginale o per nulla sono oggi essenziali per il funzionamento dei nostri feticci tecnologici (per fare solo qualche esempio: il tungsteno che permette ai nostri smartphone di… vibrare; il gallio, contenuto nella bauxite, che permette di realizzare la retroilluminazione; il litio per le batterie e così via). Molti di questi metalli sono noti come terre rare, e sono definiti così non perché rari (non tutti lo sono), ma perché presenti in modo discontinuo e non concentrato, e dunque necessariamente oggetto di complessi processi industriali di estrazione, a loro volta implicanti notevoli emissioni. La qualità di questi materiali, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione dei nuovi chip miniaturizzati, dev’essere poi ultra-pura – segnala l’autrice, molto attenta a tale aspetto – e questo comporta processi industriali di raffinazione estremamente specializzati e costosi e, essi pure, assai inquinanti.
L’ammontare delle emissioni determinate dal processo di produzione dei dispositivi è poi reso più cospicuo dal fatto che quella informatica è una industria strutturalmente globale, costruita lungo filiere ramificate e lunghissime e che attraversano i continenti, per cui tutte le materie prime e i semilavorati, e infine i prodotti di questa industria debbono essere spostati per il mondo, con relativo dispendio energetico.
Si può, insomma, sintetizzare così, con le parole dell’autrice: «L’impatto di un dispositivo digitale sull’ambiente, cominciato dal momento in cui sono state estratte le materie prime, si accresce processo dopo processo, continente per continente, laboratorio per laboratorio, fabbrica per fabbrica. Se l’estrazione delle materie prime comporta un forte utilizzo di energia primaria, non è certo da meno la fabbricazione dei componenti» (Cit. p. 32).
È qui opportuno osservare una cosa. Si potrebbe pensare che il processo di continua miniaturizzazione che interessa il mondo dell’informatica, quasi una sua “legge”, favorisca un più basso impatto: è ovvio che potenza sempre maggiore espressa da supporti sempre più ridotti (microchip sempre più piccoli, devices sempre più piccoli, ma sempre più efficienti) comportano minore prelievo di materia. Ciò è vero per il singolo dispositivo, ma un po’ meno se si ragiona sul piano “aggregato”, come dicono gli economisti: è vero che i dispositivi consumano di meno e richiedono meno materia, ma poiché si stanno moltiplicando all’inverosimile, nel complesso le esigenze di estrazione di materia crescono esponenzialmente. Basti pensare che – per dare solo pochi dati – dal 2007 al 2022 sono stati venduti 15.224.000.000 di smartphone, oltre a 5 miliardi di pc, tecnologia ormai “recessiva” e comunque più matura; se poi andiamo a vedere le vendite annuali di smartphone, scopriamo che dal 2014 il numero oscilla tra 1,2 e 1,5 miliardi, mentre per i pc oscilla tra i 250 e i 350 milioni.[3] Va poi tenuto conto che gli smartphone, i pc, o i tablet rappresentano solo una frazione dell’insieme di dispositivi connessi che popolano (e sempre più popoleranno) le nostre società e che vanno sotto il nome di Internet delle cose (IoT: Internet of Things): tale immensa mole di dispositivi connessi ammontava, nel 2021, a circa 11 miliardi di oggetti, che è stimato diventeranno 30 miliardi nel 2030 (Cit. p. 28).
Se a tutto ciò si aggiunge il ritmo sempre più vorticoso di sostituzione dei dispositivi cui siamo indotti dai meccanismi della obsolescenza programmata insieme alla pressione della pubblicità (e al netto dell’acqua fresca retorica degli ultimi anni sull’uso responsabile, il consumo critico ecc.), si capisce che siamo di fronte a un bel problema: «se da un lato (…) il materiale per il singolo componente tende al limite di zero – e ciò porterebbe a dedurre una disponibilità illimitata di risorse –, dall’altro il suo sfruttamento tende all’infinito» (Cit. p. 27-29).
EMISSIONI OPERATIVE
Alle emissioni che sono necessarie per il processo di produzione dei dispositivi, e che stanno per così dire “a monte” dell’universo digitale, le emissioni incorporate, si aggiungono poi quelle prodotte dall’uso della rete stessa, dal funzionamento di tutte le sue applicazioni, dal dialogare oggi sempre più fitto tra i dispositivi (oggi – non lo dimentichiamo – una quota crescente della complessiva attività della rete è tra macchine e non dipende da qualcuno che armeggia su una tastiera da qualche parte): sono, queste, le emissioni operative. Si tratta – come si vedeva in apertura – dell’aspetto che sta avendo la maggiore copertura giornalistica, forse anche perché il fenomeno dell’aumento dei consumi energetici (dovuto tra l’altro ai grandi data-center) si impone di per sé all’attenzione di decisori politici e comunità.
Quando si fa una comune ricerca in rete, o ci si serve di qualche servizio online, o si guarda un video ecc., non c’è infatti solo il proprio consumo casalingo, ben noto a tutti in quanto parte del consumo elettrico che poi uno si ritrova in bolletta (un consumo peraltro, in questo caso, quasi sempre abbastanza basso, rispetto agli altri elettrodomestici…), ma c’è un consumo elettrico dovuto a tutte le interazioni cui quella ricerca, quel servizio richiesto dal proprio dispositivo danno luogo. E in questo caso sono fenomeni che avvengono lontano da noi e che noi non registriamo in alcun modo, spesso neppure immaginiamo. E sono fenomeni che stanno conoscendo una crescita spaventosa, secondo il ritmo di crescita della digitalizzazione di sempre nuove attività e dominî della vita sociale. Anche in questo caso, un solo dato che parla da solo: sembra che oggi si producano quotidianamente 5 exabyte di dati (1 exabyte = 1 miliardo di miliardi di byte), che equivale alla massa complessiva di dati prodotti dalla nascita dell’informatica al 2003 (sì, proprio così!).[4]
Ebbene, per elaborare e gestire tutta questa impressionante mole di dati serve energia, e per produrre energia si producono emissioni.
Particolare peso hanno in questo fenomeno i data center, questi snodi fondamentali dell’attuale architettura della rete su cui oggi – lo vedevamo sopra – si sta appuntando una certa attenzione della stampa. Strumento fondamentale del cloud computing, la modalità oggi prevalente di funzionamento ed erogazione dei servizi e contenuti digitali,[5] i data center sono concentrazioni di server che devono stare accesi costantemente, e che garantiscono, da remoto, il funzionamento delle attività che ogni utente finale svolge online: le dimensioni possono andare dai piccoli data center poco più grandi di un appartamento a quelli giganteschi, che possono giungere alle dimensioni di una grande fabbrica. Qui la “popolazione” di computer accesi H24 sviluppa un notevole riscaldamento che dev’essere contenuto, mediante impianti di raffreddamento, attraverso l’acqua o altri strumenti.
E tutto ciò che abbiamo detto, inesorabilmente, costa dispendio energetico crescente, che potrebbe raggiungere, secondo alcune stime, il 14% del consumo elettrico complessivo nel 2030.[6]
Mica male, per una tecnologia leggera.
(1 / continua in una prossima
uscita di Controversie)
NOTE
[1] Il dato, riportato dall’ufficio statistico nazionale, si riferisce al 2023, quando è stato rilevato che il consumo di energia elettrica dovuto ai data center (molto numerosi in Irlanda, grazie alle ben note politiche fiscali di favore) è stato pari al 21% di tutto il consumo di elettricità misurato, mentre quello necessario per l’illuminazione delle abitazioni è stato pari al 18% (cfr. Biagio Simonetta, Irlanda, i data center usano più elettricità di tutte le abitazioni, “Il Sole 24 Ore”, 25 luglio 2024, p. 5).
[2] Le emissioni incorporate sono anche definibili come «la somma dei processi estrattivi, costruttivi e di smaltimento a fine vita» dei nostri dispositivi elettronici (Ivi, p. 86). Sono dunque da considerarsi tali anche le emissioni necessarie per i processi di smaltimento/riciclo, che sono essi pure processi industriali anche molto complessi.
[3] I dati sono tratti da Juan Carlos De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, Torino, Add, 2023, p. 63-66 e da Giovanna Sissa, Le emissioni segrete, cit., p. 27 e ss.
[4] Il dato si trova in Guillaume Pitron, Inferno digitale. Perché Internet, smartphone social network stanno distruggendo il nostro pianeta, Roma, Luiss University Press, 2022, p. 71.
[5] Ed è curioso notare come, anche grazie all’uso di espressioni come queste (cloud, “nuvola”), si suggerisca sempre per il mondo della rete una immagine di leggerezza.
[6] Cfr. Kate Crawford, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA, Bologna, Il Mulino, 2021.
BIBLIOGRAFIA
Evan Halper e Caroline O’Donovan, AI is exhausting the power grid. Tech firms are seeking a miracle solution, “Washington Post”, June 21, 2024, tr.it.: Le aziende tecnologiche assetate di energia, “Internazionale”, n. 1569, 28 giugno 2024, p. 32-33
Giovanna Sissa, Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale, Bologna, Il Mulino, 2024
Tecnologia e controllo - Una ricerca sul lavoro da remoto
Da quando il lavoro da remoto si è affacciato con prepotenza nelle vite di molti lavoratori sono sorte molte domande sul ruolo della tecnologia, non solo nello svolgimento delle diverse mansioni, ma soprattutto nell’evoluzione dei meccanismi di controllo a disposizione dei datori di lavoro.
L’esperienza del lavoro da remoto emergenziale è avvenuta infatti in un momento storico già fortemente caratterizzato dalla pervasività delle tecnologie informatiche in molti ambiti della nostra vita quotidiana (servizi, media, sanità, istruzione…). E se è vero che il tema del controllo non è nuovo (ha da sempre avuto un ruolo rilevante nella sociologia del lavoro e delle organizzazioni), è anche vero che siamo in un periodo in cui il controllo esercitato sui lavoratori e in generale sui cittadini è in aumento e sempre più visibile.
Pertanto, ci siamo domandate se l’accelerazione tecnologica che ha accompagnato la transizione al lavoro da remoto durante il periodo pandemico possa aver rappresentato un’ulteriore occasione per estendere forme pervasive ed estrattive[1] di controllo sui lavoratori, nel suo lavoro sul capitalismo della sorveglianza.
Tuttavia, la direzione della relazione fra tecnologia e controllo non è predeterminata[2]: l’impatto che l’introduzione della tecnologia ha sull’organizzazione del lavoro non è univoco ma situato all’interno dei contesti culturali, organizzativi e istituzionali in cui le tecnologie vengono impiegate e, vi è una profonda ambiguità insita nelle tecnologie informatiche[3]: «l’informatica propone di continuo nuove possibilità per l’asservimento della persona, non meno che opzioni per affrancarla» e gli esiti che l’introduzione di una certa tecnologia può generare in termini di qualità e organizzazione del lavoro «e ancora una questione di scelta».
Se da un lato la tecnologia può «liberare» il lavoratore da alcuni vincoli spazio-temporali, aumentare l’autonomia e ridurre il coinvolgimento in operazioni rischiose, dall’altro lato molte delle tecnologie utilizzate si fanno più pervasive e pongono le basi per un aumento del controllo da parte del management.
Non è, infatti, la tecnologia in sé a determinare un incremento del controllo, ma è, semmai, il modello economico sottostante che definisce obiettivi volti a estrarre valore dall’esperienza personale quotidiana, anche attraverso un monitoraggio serrato dei comportamenti dei lavoratori[4].
Di fronte a questi interrogativi abbiamo quindi cercato di indagare questo tema nell’ambito di una ricerca[5] avviata proprio durante il lockdown imposto dalla pandemia da Covid-19.
Per tentare di valutare come il lavoro da remoto nella sua forma emergenziale possa aver influito sulle modalità di controllo siamo partite dalla letteratura organizzativista classica[6] che individua tre forme di controllo: a) la supervisione diretta e il controllo gerarchico; b) il controllo degli output secondo un approccio al lavoro per obiettivi; c) il controllo sugli input, attraverso l’interiorizzazione delle norme e dei valori dell’organizzazione da parte dei lavoratori.
Queste tre forme di controllo, applicate alla situazione dello smart working emergenziale - in tempi rapidi, spesso senza pianificazione né concertazione - hanno mostrato diverse possibilità di remotizzazione, ed un diverso rapporto con la diffusione delle tecnologie digitali.
Il nostro lavoro, quindi, ha avuto l’obiettivo di ricostruire, a partire dall’esperienza di lavoratori e lavoratrici, i sistemi messi in atto dalle organizzazioni per coordinare le attività svolte a distanza, come è cambiato il controllo esercitato sul lavoro da remoto e che ruolo hanno giocato le tecnologie digitali.
I risultati[7] sono stati almeno in parte diversi da quanto ci saremmo aspettate.
Innanzitutto, la maggior parte dei lavoratori dichiarava di non aver percepito differenze nel controllo lavorando da remoto piuttosto che in presenza: quasi l’80% degli intervistati riteneva infatti che il controllo fosse “rimasto uguale”. Emergevano tuttavia alcune differenze fra i rispondenti. Erano soprattutto le persone che svolgevano mansioni esecutive nel lavoro di ufficio che dichiaravano un aumento nella percezione del controllo, mentre coloro che svolgevano professioni intellettuali o professioni nel commercio e nei servizi alla persona dichiaravano con più frequenza una diminuzione del livello di controllo percepito.
Questi dati ci hanno suggerito di guardare con più attenzione agli effetti che il lavoro da remoto può avere sulle diverse attività che possono essere svolte a distanza, e agli strumenti che le organizzazioni hanno a disposizione e di fatto applicano.
Iniziamo a vedere quali sistemi di controllo sono emersi dalla nostra rilevazione.
Il timore per il controllo tramite strumenti digitali rimanda spesso all’utilizzo di software esplicitamente dedicati al monitoraggio dei lavoratori, che consentono al responsabile di osservare le attività svolte con il personal computer, di registrare la cronologia, a volte persino i movimenti del mouse. La nostra rilevazione mostra tuttavia che questi strumenti vengono utilizzati in modo molto limitato: appena il 7% del campione dichiara di avere in uso programmi di questo tipo.
I sistemi di controllo più diffusi sono invece i programmi che servono a registrare le presenze, utilizzati in sostituzione della timbratura del cartellino. Un’alternativa all’utilizzo della timbratura online è la consegna di report quotidiani o settimanali che rendano conto del lavoro svolto, e che coinvolge quasi un terzo dei rispondenti.
I meccanismi formali per il controllo dei tempi, dei modi o dei risultati del lavoro non esauriscono però la questione dei processi organizzativi dedicati alla supervisione dell’operato del personale.
Nel corso della ricerca è emerso, ad esempio, l’utilizzo frequente di programmi che consentono di visualizzare lo “stato” di una persona, che può essere ad esempio “presente”, “assente”, “occupata” o “non attiva”. Si tratta di software finalizzati prevalentemente all’interazione in tempo reale, come Skype, Meet o Teams, che offrono contestualmente quello che si rivela come un ulteriore meccanismo di controllo. Il controllo in questo caso non avviene necessariamente da parte del responsabile, capo o supervisore, ma può anche assumere una direzione “orizzontale”, ed avvenire quindi tra pari, tra colleghi. Lo stesso avviene quando si utilizzano programmi per la condivisione online di documenti, come Google Drive, Dropbox o, per le scuole, Classroom, usati da oltre la metà del campione. Anche in questo caso si tratta di tecnologie indispensabili per replicare da remoto le diverse forme di collaborazione che avvenivano in presenza. Allo stesso tempo si tratta di una sorta di vetrina che consente a tutti coloro che accedono al documento di tenere traccia di quanto viene fatto dai vari membri con cui interagiscono. In questo senso, anche questi strumenti digitali di collaborazione diventano meccanismi impliciti di controllo, di tipo verticale oppure orizzontale.
Questi ultimi esempi sono indicatori del fatto che il senso e il ruolo delle tecnologie non sono intrinseci agli strumenti, ma si costituiscono con il loro utilizzo. Un programma progettato per le comunicazioni dirette può trasformarsi in uno strumento per il controllo da parte di un responsabile o, più spesso, per il controllo reciproco tra i lavoratori, spesso senza essere percepito come tale da chi ne fa uso.
I sistemi di controllo che abbiamo descritto sono utilizzati in modo diverso da diverse categorie di lavoratori. Possiamo quindi aspettarci che l’intensificarsi del controllo tramite tecnologie abbia conseguenze diverse per diverse categorie di lavoratori.
Per le professioni esecutive, le tecnologie tendono a replicare le forme di controllo attive nel lavoro in presenza (registrazione delle presenze, relazioni sulle attività svolte, controllo della quantità di lavoro completato a fine giornata/settimana/mese). In alcuni casi, l’utilizzo di software per il monitoraggio puntuale del lavoratore può aumentare il senso di supervisione diretta e con esso lo stress (ma abbiamo visto che si tratta di pratiche relativamente poco diffuse).
Nella nostra ricerca è emersa con frequenza l’idea che il controllo (diretto) non sia necessario perché il supervisore “si fida” del lavoratore.
In questo riferimento alla fiducia è compresa, a nostro avviso, oltre ad un riferimento alle relazioni personali, la tranquillità che proviene dalla certezza che il lavoratore operi secondo le norme standardizzate che ha appreso sul luogo di lavoro. La questione che si pone per immaginare il futuro del lavoro da remoto è allora relativa ai sistemi di riproduzione di questi meccanismi di formazione e trasmissione di norme (e valori) aziendali. I processi di reclutamento nelle aziende che ormai utilizzano in modo ordinario il lavoro da remoto hanno messo in luce la necessità di prevedere periodi più intensi di lavoro in presenza nelle fasi di inserimento, proprio perché alcune modalità di acquisizione di informazioni non sempre formalizzabili sono difficilmente replicabili da remoto.
Per le professioni intellettuali, invece, che prevedono interazione e lavoro di gruppo, le tecnologie digitali possono far emergere il controllo orizzontale tra colleghi, rendendo qualsiasi attività visibile per tutto il team. A questo si aggiunge il fatto che, come sottolineano ormai molte ricerche, la crescente autonomia nella gestione dei tempi produce nei fatti un aumento delle ore di lavoro, oltre ad una maggiore “porosità” tra i tempi di vita, con il lavoro che tende ad invadere momenti tradizionalmente dedicati ad altre attività. La combinazione di queste dinamiche può portare a nuove forme di “autosfruttamento” da parte dei lavoratori, per via di quello che è stato definito il “paradosso della flessibilità”: anziché fornire maggiore libertà e autonomia, la flessibilità produce nei fatti una tendenza ad autoimporsi ritmi e tempi di lavoro crescenti.
Per un approfondimento, si veda Goglio V., Pacetti, V., Tecnologia e controllo nel lavoro da remoto, in “Meridiana: rivista di storia e scienze sociali”, n.104, 2, 2022, 47-73.
NOTE
[1] Per utilizzare i termini identificati da Zuboff, Zuboff, S. (2019). The age of surveillance capitalism: The fight for a human future at the new frontier of power (First edition). PublicAffairs.
[2] Si veda il contributo di Gasparini https://www.controversie.blog/le-tecnologie-non-sono-neutrali-la-lezione-dimenticata-del-determinismo-tecnologico/
[3] Gallino, L. (2007). Tecnologia e democrazia: Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici. Einaudi.
[4] Cfr Zuboff, cit. nota 1
[5] La ricerca è stata avviata ad aprile 2020 con un ampio piano di interviste in profondità (189 rispondenti, metà dei quali intervistati una seconda volta a circa 8-10 mesi di distanza), seguita poi da una rilevazione tramite questionario (circa 900 risposte) nel 2021.
[6] Mintzberg, H. (1989). Mintzberg on Management: Inside Our Strange World of Organizations. Free Pr.
[7] Goglio, V., & Pacetti, V. (2022). Tecnologia e controllo nel lavoro da remoto. Meridiana, 104, 47–74.
[8] Cfr. ancora Zuboff, cit. nota 1