Sostenibilità - Una sfida scientifica, tecnologica e sociale per le aziende

Da qualche anno si parla tantissimo di sostenibilità e di sviluppo sostenibile, ma di cosa parliamo esattamente?

Il concetto di sviluppo sostenibile è stato fissato dalla Commissione Brundtland (Onu) nel rapporto “Our common future” del 1987. In quel rapporto si parlava della necessità di garantire il benessere delle generazioni future, letteralmente: “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

A partire da quegli anni ci si è resi conto che gli squilibri tra il nord e il sud del mondo non erano più accettabili e che il modello di sviluppo del mondo industrializzato non poteva durare per i danni ambientali e sociali che portava con sé.

È nato quindi il concetto di sostenibilità basato su tre pilastri: la sostenibilità economica, ambientale e sociale; tre aree di intervento che sono chiaramente interconnesse fra loro. E dai primi anni 90 in poi l’argomento è diventato sempre più al centro del dibattito internazionale e sempre più diffuso anche tra il grande pubblico.

Vediamo di fare qualche considerazione sull’oggi centrata sul nostro Paese:

  • La sostenibilità è uscita dal recinto del dibattito per tecnici ed è diventata anche un driver di business per le imprese
  • Per le imprese è un elemento di rafforzamento della corporate reputation ma può diventare argomento pericoloso e scivoloso, quelle che sbandierano le loro virtù sostenibili sono anche le più vulnerabili ad attacchi mediatici per come agiscono
  • Se ne parla tanto, forse troppo, se ne parla male, con superficialità o ideologicamente; c’è un interessante rapporto del Marco Frey (un’autorità in materia) che spiega come ci sia saturazione nell’opinione pubblica verso il tema

In altre parole, il sovrautilizzo della parola e dei concetti che rappresenta rischia di svuotare la stessa di significato, rende difficile per il cittadino capire chi opera correttamente e chi fa greenwashing e soprattutto la banalizzazione di certi temi – insieme alle discutibili manifestazioni dell’ambientalismo estremista – fanno sì che l’opinione pubblica si stia dividendo e polarizzando.

Ci sono molti gruppi di attivisti, che spesso operano con una carica emotiva che esclude la razionalità, e c’è una larga parte di popolazione ormai indifferente se non infastidita da un tema che sembra per molti versi lontano dai “problemi reali”. Questa situazione aggiunge incertezza per come affrontare un cambiamento già di per sé è tutt’altro che facile.

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In un interessante intervento al Salone della CSR - che come ogni anno dal 2012 si svolge ai primi di ottobre in Bocconi a Milano - il professor Stefano Zamagni ha illustrato una tesi (che sostiene da tempo) sul concetto di Sostenibilità, che trovo particolarmente interessante.

Zamagni è un economista decisamente poco allineato: laureatosi alla Cattolica di Milano e da sempre vicino al mondo cattolico e del non profit, ha insegnato in università italiane (Parma, Bologna, Bocconi), inglesi e spagnole. Ha collaborato con Joseph Ratzinger prima e dal 2013 con Papa Bergoglio e oggi dirige la Pontifica Accademia delle scienze sociali. Ma Zamagni è conosciuto soprattutto per la riscoperta dei concetti dell’Economia civile che affonda le sue radici nel pensiero della scuola economica napoletana del 700.

In estrema sintesi (mi perdonerete…) l’Economia civile si pone come alternativa all’Economia politica che nasce con Adam Smith nel 700 e che è il paradigma che ha dominato e permeato lo sviluppo del capitalismo in occidente. A differenza del pensiero economico di matrice anglosassone che è sfociato nel liberismo prima e nel neoliberismo di Milton Friedmann negli anni 60 del secolo scorso, l’Economia civile si basa sul concetto di “bene comune” in cui i soggetti economici non lavorano solo per il mero profitto.

Si capisce quindi come delle tre gambe della Sostenibilità, a Zamagni interessi maggiormente quella sociale. Egli pensa che siano le imprese a trainare la riflessione e l’azione su questo tema, anche più delle istituzioni.

Quindi è sulla sostenibilità sociale il challenge maggiore per le imprese oggi.

Infatti la sostenibilità economica non può che essere un prerequisito, impossibile da bypassare, l’unica problematica della sostenibilità economica è creare regole condivise per tutti, ed evitare situazioni di vantaggio per singoli paesi o aziende.

Il caso più classico è la Cina, il maggior produttore al mondo di batterie per la mobilità elettrica per noi europei è anche il più grande inquinatore del pianeta. Il mix energetico cinese infatti si basa per l’85% sulle fonti fossili e per il 15% sulle fonti rinnovabili ed è il maggiore consumatore di carbone al mondo con una quota del 50,2%. (Fonte Crea)

È giusto far notare comunque che certe fughe in avanti prospettate dagli ambientalisti duri e puri prescindono totalmente da valutazioni economiche, come se le risorse finanziarie fossero una variabile indipendente dalla realtà, una situazione questa che è la premessa per creare, appunto, le diseguaglianze di cui si diceva.

Quanto alla sostenibilità ambientale, essa può essere normata e misurata (pur con tutte le difficoltà, le polemiche e la complessità di trovare soluzioni condivise). La sostenibilità ambientale alla fine è un insieme di regole, si tratta di decidere quali applicare e come, ma una volta individuate c’è poco da discutere, si è dentro o fuori dal set definito.

Eccoci quindi alla terza area della sostenibilità, quella sociale, che è senza dubbio quella di cui è più difficile definire i contorni concettuali e le regole, ma è anche quella che impatta in modo più diretto sulla vita delle persone.

L’osservatorio della Fondazione Sodalitas sulla Responsabilità Sociale d’Impresa ha condotto una ricerca su un campione di 100 imprese appartenenti alla Fondazione per capire “a che punto siamo”.

Ne viene fuori un quadro di notevole sensibilità e responsabilità che poggia su alcuni pilastri:

  • l’ascolto degli stakeholder interni ed esterni all’impresa
  • il benessere dei dipendenti
  • l’attenzione e l’integrazione con il territorio
  • l’importanza del fare rete

Certo fa piacere sentire che le aziende sono concentrate su questi temi e che spingono verso una situazione virtuosa, tuttavia è anche facile pensare che si tratti di un’indagine su un campione “drogato” in senso positivo; tutte imprese che fanno parte della Fondazione e che quindi sono molto sensibili al tema.

Ma si potrà dire altrettanto del complesso delle aziende italiane? Non credo proprio di sbagliare se dico che la risposta è no e che c’è ancora molto da fare in questo senso.

Purtroppo, al di là dei molti codici etici, bilanci di sostenibilità, compunte dichiarazioni di CEO molto attenti alla propria immagine, la sostenibilità sociale pare essere un lusso per imprese economicamente molto solide.

Il vero scatto in avanti si farà quando i comportamenti di Corporate Social Responsibility non dipenderanno dalla sensibilità dei singoli ma saranno frutto di una cultura condivisa e di regole riconosciute. Ci vorrà del tempo ma la sfida è questa, non può esistere sostenibilità senza la sua componente sociale.


Distopia tecnoscientifica e immaginazione - Il mondo nuovo di A. Huxley

Non sono un romanziere - soleva dire Huxley - ma un saggista che scrive fiabe.

Perché, allora, affidare alla forma del romanzo una previsione sul futuro?

Per quale ragione proprio la «superorganizzazione» dell’ardito mondo nuovo e dei suoi fantasmagorici prodotti tecnoscientifici, frutto della più fervida capacità immaginativa, sembrano annunciare l’estinzione di quest’ultima?

Perché, infine, il mondo d’Utopia gravita sopra di noi con fare minacciosamente distopico?

 

  1. Utopia, distopia e tecnica

 «Il secolo delle macchine comincia a farsi sentire»[1]. Sono le parole dell’architetto Charles-èdouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (1887-1965). Sempre lui, nel medesimo volume Urbanistica (1925), scriveva con il suo solito ottimismo quasi messianico che «crollava soltanto un mondo vecchio. Su dalle rovine stava arditamente spuntando un mondo nuovo»[2].

È questo lo spirito che anima certe frange avanguardistiche dei primi decenni del secolo scorso, come quando un giovane Antonio Sant’Elia (1888-1916) dichiarava che «come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi - materialmente e spiritualmente artificiali - dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico»[3].

Ancora, è il medesimo mondo che anni più tardi il filosofo Gunther Anders (1902-1992) avrebbe dipinto con tinte fosche e apocalittiche nel

suo L’uomo è antiquato I (1956): «mondo della «matrice»[4] e del «dislivello prometeico»[5], asincronia della psiche umana rimasta irrimediabilmente indietro rispetto alla lineare, efficiente e funzionale perfezione dei «suoi» prodotti tecnoscientifici. Una psiche debole e imperfetta che arranca dietro alla perfezione macchinica, e che modella il suo «umiliante ideale»[6] sulla fredda perfezione che contraddistingue la macchina, «il suo sogno, va da sé, sarebbe quello di diventare uguale alla sua divinità: agli apparecchi, o meglio, di essere compartecipe - in certo modo consustanziale - della loro natura»[7].

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Qualche decennio prima, sempre nella prima metà del secolo scorso, apparve per la prima volta nelle librerie Brave New World (1932) dell’autore inglese Aldous Huxley (1894-1963), racconto fiabesco di una società ideale in cui domina una superorganizzazione di natura tecnoscientifica secondo i tre canoni della «Comunità, Identità e Stabilità»[8]. Utopia o distopia?

 

Di distopie non si è sempre parlato.

La parola stessa, a essere generosi, non ha più di duecento anni. Ma quand’anche facessimo della distopia l’immagine in negativo dell’utopia, ci accorgeremmo, forse con imbarazzo, che neppure di quest’ultima abbiamo una definizione tanto chiara.

È Thomas More a costruire il neologismo e ad affidarlo al suo omonimo racconto del 1516[9].

A seconda dell’etimo l’utopia è un «non-luogo» (U-topia) o un «buon-luogo» (Eu-topia).

Tuttavia, il «non» dell’utopia nulla ha a che spartire con la recente caratterizzazione dell’antropologo Marc Augé (1935-2023)[10]: il «non» di un’utopia definisce il «luogo» come ciò che non è ma dovrebbe essere, «città ideale», come quella descritta dal frate domenicano Tommaso Campanella (1568-1639) ne La città del sole (1623).

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 Huxley aveva a cuore queste distinzioni, tutt’altro che quisquilie o eruditismo da scaffale: egli scrisse una «distopia», Il mondo nuovo, e una «topia»[11], l’isola (1962), ma non si intrattenne mai con l’utopia.

Perché ciò è determinante?

Il «non» dell’utopia, si è detto, non ha alcunché di negativo: è come la storia della tensione amorosa in Platone, immagine a cui tendere.

Perciò, propriamente parlando, l’etimo è una fusione piuttosto che un’alternativa: «non luogo» che, correlativamente, è un «buon luogo».

Si potrà forse obbiettare che un tale racconto è, nonostante tutto, frutto di una mente o di un cervello, che «l’idealità» dell’utopia è frutto della «dannata immaginazione» che ci lega a terra.

Tuttavia, More e Campanella fanno dell’immaginazione un veicolo di purificazione, l’immagine «ideale» dev’essere intimamente legata a una simbologia teologica, garante di un’intima e sacra connessione con il cosmo, «cosmo in piccolo».

In Brave New World nulla di tutto ciò: non è l’immagine della città in armonia con il cosmo, ma piuttosto lo schema di un’ingegnosa macchinazione, di uno schema-mondo, «comunità che grazie all’identità realizza la stabilità»[12].

Non è soltanto l’inversione dell’utopia. Nella narrazione distopica c’è una riformazione della «funzione immaginativa».

Non si tratta più di un veicolo verso l’idealità, ma di un’estensione immaginativa della scienza stessa.

L’immaginazione estende il prodotto tecnoscientifico nelle sue possibilità d’insieme, all’estremo.

Anders da ciò impara il fondamentale principio metodologico dell’«esagerazione», per cui il «dislivello» dell’uomo rispetto ai suoi prodotti richiede, per essere capace di controbattere, una metodologia altrettanto esagerata; insomma «esistono fenomeni che non si possono trattare senza accentuarli e ingrandirli»[13].

L’esagerazione consiste allora nell’estrema immaginazione del prodotto tecnoscientifico: la nascente eugenetica diviene catena di montaggio per esseri umani a base di «ipnopedia» e «persuasione chimica», la nascente farmacologia diviene il soma, «la droga perfetta…euforica, narcotica, gradevolmente allucinante…tutti i vantaggi del Cristianesimo e dell’alcol; nessuno dei difetti»[14].

Ogni prodotto è sviluppato, attraverso l’immaginazione, nella sua singola possibilità utopica: droga senza effetti collaterali, eugenetica senza errori - o quasi -, vita senza tristezza, coraggioso mondo nuovo scevro dal peso del passato; anche la casa, «psichicamente squallida» e fonte degli «attriti della vita che vi si ammucchiavano»[15], è stata scongiurata.

Eppure, di distopia si tratta, e quest’ultima vive un gemellaggio singolare con lo sviluppo tecnoscientifico: che si possa «estendere il presente» è il vago principio comune che li anima.

 

  1. Immaginazione

 Se l’immaginazione tecnoscientifica è indeterminata nel campo del futuro (ragion per cui si «cerca di immaginare cosa accadrà in questo o quel caso»), se l’indeterminatezza è, per così dire, il «campo base» dell’immaginazione, allora Huxley giunge a un esito volutamente paradossale: l’immaginazione approda al tempo futuro della sua estinzione, laddove nulla può essere indeterminato, là, nella «tirannia del benessere di Utopia»[16].

È il tratto più profondo del Mondo nuovo: se il silenzio è potenziale fonte d’indeterminazione[17], allora è necessario sostituirlo con la musica continua e sensuale dei «sessofonisti», con gli spettacoli ipnotici del «cinema odoroso»; se il processo ontogenetico fatto di genitori «vivipari» è fonte d’imprevedibilità, allora bisognerà sostituirlo con un processo di produzione umana che non lasci spazio al dubbio. Osserviamo un altro elemento, altrettanto profondo.

Se uno dei personaggi principali, tale Bernard Marx, è capace di guardare con una dose di sospetto il mondo in cui vive, ciò è dettato dal suo essere «errore» della catena di montaggio: «dicono che qualcuno si sia sbagliato quando era ancora nel flacone»[18].

Possiamo spingerci ancora più in là: nel mondo di Huxley è in atto una sistematica eliminazione del passato, nutrita dalle stesse ragioni di fondo. La «riserva dei selvaggi del New Mexico» dove esseri umani imperfetti e retrogradi «conservano le loro abitudini e i loro costumi ripugnanti»[19] è uno spazio esterno a Utopia.

La riserva sta al di là della città dell’efficienza, percepita da chi vive nel mondo nuovo con un misto di disgusto e timore.

La memoria storica è esternalizzata e rigettata, racchiusa nella riserva che dista diversi giorni di viaggio - non ci sono vecchi nella città ideale. Diversamente, i ricordi custoditi nella città dei civilizzati è pura «memoria operativa», «memoria che ripete senza immaginare», una «memoria priva di passato»[20]; la storia - ripetono i bambini «in training» - «è tutta una sciocchezza»[21].

La vuota memoria fa tutt’uno con l’esclusione dell’imprevedibilità, «la macchina gira e rigira, e deve continuare a girare, sempre. È la morte che si ferma»[22].

Nel mondo nuovo, prendendo in prestito le parole di un saggio apparso di recente, si può dire che «si è liberi di scegliere tutto quello che c’è in menù»[23].

Insomma, tra utopia e distopia avviene una sorta di ritorcimento temporale: il «non luogo» dell’utopia come immagine ideale e principio morale è scivolato nel «non luogo» della distopia come timore che, effettivamente, questa possa realizzarsi.

Perciò, in esergo, Huxley riporta un passo del filosofo Nikolaj Berdjaev (1874-1948), «le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva?»[24]

Se l’utopia è una freccia rivolta verso un futuro ideale, la distopia tecnoscientifica è il tentativo di figurarsi ciò che potrebbe avverarsi già domani, incubo imminente, o come osservava Huxley nella prefazione del 1946, «oggi sembra quasi possibile che l’orrore possa ricadere su di noi nell’arco di un secolo»[25].

Insomma, l’espediente narrativo del genere utopico è sempre stato il «distacco onirico»: è necessario risvegliarsi nel mondo nuovo. Nuovamente, c’è una differenza profonda tra utopia e distopia: se nel primo caso il distacco permette, per così dire, di rendere i piedi leggeri e fare del mondo ideale qualcosa a cui elevarsi, nel secondo caso il sogno si fa angoscioso, rischia di filtrare nello stato diurno.

 

  1. Complottismo e immaginazione

Ecco alcuni fatti curiosi: se Huxley avesse scritto Brave New World nel secolo nuovo, nulla ci impedirebbe di supporre che, come altri, sarebbe finito nel circondario della categoria fittizia di «complottista».

C’è di più, poiché proprio coloro che finiscono per essere gettati, volenti o nolenti, all’interno di questa «categoria», si adoperano per una costante riappropriazione del racconto distopico tecnoscientifico come modo di reazione al presente - «siamo in 1984!»

Ma, se da una parte chi sente l’invivibilità del presente si rifugia nella razionalizzazione che un racconto può fornire, questa stessa azione di appoggio a un auctoritas alternativa rischia di adombrare la «chiamata originale» del racconto distopico, immaginare.

Giungiamo così a una stazione singolare: la militarizzazione della vuota parola «complottismo», ma potremmo inserirvi anche «negazionismo», punta dritto contro il carattere immaginativo che fa di queste forme narrative un’arma contrapposta frontalmente all’utilizzo politico della tecnoscienza a fini di controllo[26].

Anche la scienza - dice il governatore di Utopia in una tranquilla confessione - deve essere imbavagliata, «la scienza è pericolosa»[27] e ancora, «la nostra scienza è una specie di libro di cucina, con una teoria ortodossa dell’arte della cucina che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio»[28].

La «narrazione ufficiale» così precipua in Brave New World - ma vale anche per racconti come 1984 di Orwell, che Huxley elogia profusamente[29] - non solo non sa che farsene dell’immaginazione, deve escluderla sistematicamente. E così, per principio, deve escludere i fuochi d’indeterminazione da cui quest’ultima possa germinare: il silenzio, lo spazio incolto, il discorso svicolato dalla legiferazione; è un «conformismo dinamico», laddove «la riduzione teoretica della molteplicità ingestibile a unità comprensibile si muta in pratica in riduzione della diversità umana a uniformità subumana, della libertà a schiavitù»[30].

Huxley aggiunge: «dobbiamo ritenere più possibile qualcosa che somigli al mondo nuovo e non qualcosa che somigli a 1984»[31]. Infatti, se nel secondo l’immaginazione rimane una possibilità latente di colui che soffre e vuole immaginare qualcosa di diverso - «quando l’individuo sente, la società è in pericolo»[32] -, nel primo la stabilità, alimentata dall’incessante soddisfazione di vuoti piaceri passeggeri, fa dell’immaginazione una scomodità.

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Era il 1958 quando Huxley, in conversazione con Mike Wallace, annunciava l’imminente avverarsi delle sue più fantasiose immaginazioni[33].

Sotto la spinta delle forze impersonali della superorganizzazione e della pressione demografica, prolungate a loro volta dal condizionamento «neopavloviano», chimico e subconscio, il mondo nuovo non sembrava più la fantasiosa fiaba di un futuro remoto.

Eppure, non possiamo fermarci a questo: fare di Brave new world la cartina tornasole del reale significa alzare bandiera bianca.

D’altra parte, ridurre le parole di Huxley a finzione significa misconoscerne l’originale chiamata al prolungamento immaginativo che con tanta insistenza, vediamo tutt’ora scoraggiato.

 

Qual è, quindi, il linguaggio della nostra superorganizzazione?

«Reale», solamente ciò che è stato approvato.

«Possibile e desiderabile», ciò che ne consegue con fredda deducibilità.

«Immaginazione» ciò che vi si adagia sopra come un pacchetto o una copertina,
l’involucro policromo del prodotto perennemente unico.

 

 

NOTE

[1] Le Corbusier, Urbanistica (1925), Il Saggiatore, Milano 2017, p. 92.

[2] Ivi, p. 236.

[3] A. Sant’Elia, Architettura futurista, Abscondita, Milano 2022,  p. 25.

[4] Si veda G. Anders, L’uomo è antiquato I (1956), Bollati Boringhieri editore, Torino 2003,  pp. 97-199.

[5] Ivi, pp. 31-94.

[6] Sulla «vergogna prometeica» si veda Ivi, pp. 40-72.

[7] Ivi, p. 43.

[8] A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), Mondadori Editore, Milano 2015, p. 9.

[9] Secondo Françoise Choay è proprio il racconto di More a inaugurare la letteratura utopica. Si veda F. Choay, La regola e il modello (1980), Officina Edizioni, Roma 1986, pp. 181-220.

[10] Per un testo introduttivo si veda M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi (1997), Bollati Boringhieri editore, Torino 2009.

[11] Per questa distinzione si veda l’intervista del 1958 tra il poeta John Lehmann (1907-1987) e Huxley, disponibile al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=pXS5yWatuE8

[12] A. Maurini, “Il mondo nuovo e i suoi ‘ritorni’, in A. Huxley, Il Mondo Nuovo, cit., p. 364.

[13] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., p. 23.

[14] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 52-53

[15] Ivi, p. 38.

[16] “Prefazione del 1946” in, A. Huxley, Brave New World, cit., p. 246.

[17] Si veda https://www.controversie.blog/indi-gregory-lopzione-del-silenzio/

[18] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 46.

[19] Ivi, p. 94.

[20] R. Ronchi, Bergson, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 127.

[21] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 36.

[22] Ivi, p. 42.

[23] B. Castellane, In terra ostile, Signs Publishing, 2023, p. 14.

[24] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 7.

[25] A. Huxley, “Prefazione del 1946” in, Il Mondo Nuovo, cit., p. 246.

[26] Scrive Huxley ne “Ritorno al mondo nuovo”, in Il mondo nuovo, cit., p. 267, «noi vediamo dunque che la tecnologia moderna ha portato alla concentrazione del potere economico e politico, e alla formazione di una società controllata (spietatamente negli stati totalitari, in modo più pulito e nascosto nelle democrazie».

[27] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 202.

[28] Ivi, p. 204.

[29] si veda A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo, in Il mondo Nuovo, cit., in particolare pp. 265-275.

[30] A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo”, in Il Mondo Nuovo, cit., p. 269.

[31] Ivi, p. 252.

[32] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 87.

[33] Si veda: https://www.youtube.com/watch?v=alasBxZsb40&t=951s


La carne coltivata come «cibo del futuro»? - Controversie tra scienza e pubblici

Il 16 novembre scorso è stata approvata dal parlamento italiano una legge che, tra le altre cose, mette al bando la carne coltivata in laboratorio, prevendendo multe da 10.000 a 60.000 euro per chiunque la somministri, produca o distribuisca sul territorio italiano. Questa legge rende anche illegale qualsiasi riferimento a terminologie legate alla carne e alla macelleria per prodotti a base vegetale che “imitano” quelli tradizionalmente legati ai cibi animali[1]. La mossa del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Lollobrigida (sostenuto dal principale sindacato agricolo italiano, Coldiretti) va chiaramente nella direzione della difesa di un’industria che – per quanto nascosta sotto l’idea del “made in Italy” – di italiano ha ben poco, dal momento che importiamo fino al 60% del fabbisogno nazionale di carne.

Va innanzitutto ricordato che si tratta di una legge di per sé vuota, dal momento che la carne coltivata in laboratorio non ha ancora l’approvazione dell’EFSA, l’agenzia europea che vaglia i cosiddetti novel food prima che siano immessi sul mercato. Qualora invece dovesse essere approvata, la legislazione europea avrebbe la priorità su quella nazionale, per cui la legge italiana diventerebbe una barriera alla libertà di commercio all’interno dell’UE. Si potrebbe in ogni caso aprire una procedura di infrazione nei confronti dello stato italiano.

Vale tuttavia la pena ragionare attorno alle ragioni e ai posizionamenti che emergono dal dibattito su questa legge. Il governo Meloni, conservatore e reazionario, si pone a difesa della salute dei cittadini, delle “tradizioni” e dell’agricoltura “buona” che (in questa costruzione) si pratica nel nostro paese. Coloro che osteggiano la legge, e che invece favoriscono questo nuovo cibo, suggeriscono che l’Italia perda così l’occasione di investire e fare ricerca su una “materia” che diventerà sempre più centrale nel mercato alimentare, fornendo delle risposte ai problemi legati all’industria della carne, tra cui quelli ambientali, di salute e di benessere animale[2].

Ciò che maggiormente colpisce di questo dibattito pubblico è la sua polarizzazione, ossia come sia possibile essere o dalla parte della carne tradizionale, dell’allevamento animale e di una dieta onnivora o dalla parte dell’innovazione alimentare sotto l’egida del biocapitale. In realtà, entrambe le parti sono schiacciate su ciò che c’è: da un lato, il paradigma esistente (e romanticizzato) della produzione agricola e delle tradizioni, dall’altro il dogma scientifico del progresso e della “soluzione” tecnologica alle sfide del presente[3]. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si tratta di una forma di protezione nei confronti dell’ansia che le crisi odierne ci pongono di fronte, una reattiva e una che vede nelle “narrazioni promissorie”[4] dell’innovazione la possibilità di mantenere lo status quo pur di fronte agli sconvolgimenti dell’Antropocene.

Nella polarizzazione del dibattito sulla carne colturale si discute se sia meglio quella animale o quella fatta nel bioreattore. Tertium non datur. Eppure, un discorso circa la riduzione del consumo di carne e derivati animali, se non addirittura la loro eliminazione, è non solo disponibile ma anche supportato scientificamente per i suoi benefici sulla salute umana e del pianeta[5]. Nell’Occidente a capitalismo avanzato non abbiamo nessuna deficienza proteica a livello di popolazione, anzi, siamo in marcato sovrappiù. Non c’è nessuno bisogno “nutrizionale” di inventare alternative alle proteine animali, perché possiamo già fare senza, o con quantità estremamente ridotte. L’avvento di forme di carne o proteine “sostenibili” tende ad accreditare l’importanza, la piacevolezza e il significato stesso di questi prodotti. Potrebbero addirittura, per un ironico effetto di rimbalzo, aumentarne il consumo complessivo. È necessario allora approcciare in modo critico, ma al contempo complesso, questo tema, oltre la polarizzazione ma favorendo il senso critico.

La “cassetta degli attrezzi” dell’ecologia politica può essere utile dal momento che, pur non demonizzando l’innovazione e la tecnologia come mediazione e strumento imprescindibile di convivenza tra umano e non umano, ne considera i regimi di potere e sapere, di dominio ed esclusione, di proprietà e accesso[6]. In quest’ottica non esistono forme di relazione neutre, innocenti o naturali: non lo sono le pratiche di allevamento “tradizionali” (in costante ri-definizione a seconda di tecnologie emergenti e fortemente determinate da materie di sintesi come i farmaci), non lo è la carne coltivata, che non è una mera “risposta” ai problemi delle proteine animali ma un dispositivo che ridefinisce piuttosto che pacificare la questione.

 

L’ecologia politica, in ottica intersezionale, pone alcuni nodi di attenzione. Quello della classe, ad esempio: può un’innovazione supportata da capitali ad alto rischio e multinazionali del bigtech o della carne tradizionale garantire l’accesso a cibo nutriente per i settori più fragili della popolazione? Chi avrà accesso a questo alimento? Inoltre, la carne colturale promette di riarticolare i rapporti di genere, razza e classe – superando la cultura del macello che rende gli animali non umani mera “cosa” disponibile, e così anche problematizzando quelle analogie che supportano il dominio su soggetti femminilizzati e razzializzati in quanto “animali”, “bestie da soma”[7], “carne da macello”[8].

Tuttavia, un’innovazione di per sé non sarà capace da sola di riarticolare questi assi di dominio, che potrebbero anzi riproporsi su scala diversa se le radici sociali, politiche e culturali che la supportano non sono problematizzate. Similmente, è da chiedersi se la promessa di liberare spazi agricoli oggi dedicati alla produzione animale possa davvero intendersi nei termini di una “liberazione” dei territori, o invece come una loro messa a disposizione per nuove recinzioni e valorizzazioni. Tanto più che la carne colturale oggi non si delinea come una sostituzione della carne tradizionale, ma un’aggiunta sul mercato.

Tocca chiedersi allora: a che cosa e a chi serve l’innovazione? Viene presentata come necessaria per soddisfare una richiesta globale in aumento, nell’evidenza che una riduzione del consumo non si è verificata negli ultimi decenni. Tuttavia, questa premessa è basata su un presente in cui il consumo di carne è favorito a livello culturale, economico, scientifico. L’utilità sociale reale in questo contesto non è per nulla data, ma eventualmente da verificare collettivamente, così come la distribuzione delle risorse che ne sostengono la ricerca e la produzione.

La prospettiva dell’ecologia politica in questo senso problematizza l’innovazione alimentare ma non per dismettere qualsiasi tecnologia o idealizzare delle pratiche contadine “tradizionali” come depositarie di un rapporto idilliaco e naturale con l’ambiente. Al contrario, mettendo in discussione la dicotomia naturale/artificiale, pone delle domande politiche circa quali tecnologie possano aiutarci a ristabilire dei rapporti di equilibrio dinamico con il resto della biosfera nel senso di una giustizia non solo ecologica ma anche sociale.

Le destre si collocano in uno spazio di critica al capitale globale in modo populista: indicando in astratte “multinazionali” e “capitale del big-tech” le responsabili dei rischi, della standardizzazione alimentare, e della perdita di sovranità alimentare della popolazione. Questi discorsi intrecciano paure e risentimenti reali, che si intensificano in momenti di incertezza e precarizzazione quali quelli che viviamo. Si possono però nominare e criticare le radici sistemiche delle ingiustizie alimentari: capitalismo, patriarcato, colonialismo, razzismo e specismo sono la matrice di potere che attraversa e dà forma non soltanto all’innovazione alimentare ma alle diete del presente nel loro complesso (carne “tradizionale” inclusa). L’ecologia politica propone allora una lotta per la giustizia ambientale e alimentare nella contestazione di questi assi di potere, e in una riappropriazione dei mezzi tecnologici per sperimentare nuove relazioni sociali, ecologiche, interspecie.

 

NOTE

[1] https://www.corriere.it/politica/23_novembre_16/carne-coltivata-divieto-legge-il-governo-rispetta-agricoltori-3b7998e6-84c0-11ee-87a1-ab403d0b1b3f.shtml

[2] https://www.wired.it/article/carne-coltivata-sintetica-camera-approva-divieto/

[3] https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/

[4] Jönsson, E. (2016) ‘Benevolent technotopias and hitherto unimaginable meats: Tracing the promises of in vitro meat’, Social Studies of Science, 46(5), pp. 725–748. Available at: https://doi.org/10.1177/0306312716658561.

[5] Mazac, R. and Tuomisto, H.L. (2020) ‘The Post-Anthropocene Diet: Navigating Future Diets for Sustainable Food Systems’, Sustainability, 12(6), p. 2355. Available at: https://doi.org/10.3390/su12062355.

[6] Per un approfondimento su questo e ciò che segue, si veda il già citato articolo https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/, o: Dal Gobbo, A. (2023) ‘Of post-animal meat and other forms of food innovation: a critical and intersectional reading from the perspective of political ecology’, Consumption and Society, 1(aop), pp. 1–10. Available at: https://doi.org/10.1332/RVDO1043.

[7] Taylor, S. (2021) Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale. Edizioni degli Animali; si veda anche Ko, A., & Syl, K. (2020). AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero. VandA edizioni.

[8] Adams, Carol. Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana (2020).


La vicenda di Indy Gregory - Chi ha paura del dubbio?

La vicenda di Indi Gregory si può esaminare da varie angolazioni.

Quella che mi interessa di più - a posteriori - non è nel focus principale del caso, ovvero se fosse giusto o meno staccare le macchine e a chi spettasse la decisione ultima.

Su questi punti è stato detto e scritto moltissimo nei giorni scorsi e possiamo trovare tutte le sfumature di opinioni che vanno da “vita a tutti i costi” fino a “staccare le macchine al più presto” [1].

Ognuno di noi avrà la sua posizione in proposito che deriva da sensibilità e background.

Si è parlato molto poco, invece, di come queste argomentazioni siano state presentate all’opinione pubblica e di come abbiano parlato gli “addetti ai lavori”.

Secondario? Non credo, perché nel modo di porre le questioni si gioca una partita di potere culturale.

Diciamo comunque che abbiamo assistito a polemiche feroci decisamente brutte. Decisamente brutte perché il rispetto per il dolore avrebbe suggerito toni diversi e una minor divisione in fazioni con sentori partitici.

Ma torniamo al punto che più mi interessa; mi è dispiaciuto vedere che tutta la vicenda è stata trattata con molta intransigenza da coloro che hanno sostenuto la decisione del tribunale inglese di staccare le macchine, come se una posizione che nasce dalla conoscenza scientifica e dal suo approdo legale, non potesse essere messa in discussione. Naturalmente sto generalizzando, ma chiunque abbia letto i giornali credo convenga con me che “la scienza” ha sdegnosamente rifiutato le ragioni del “sentimento”, forse anche ingenuo.

Abbiamo sentito e letto molte affermazioni tranchant da parte dei medici sull’inutilità e disumanità di prolungare una vita come quella di Indi.

Ma qui sorge una questione non da poco: se sei medico sicuramente valuti meglio la situazione di un paziente e le sue prospettive, ma questo ti dà realmente maggior voce in capitolo sulla decisione finale? Ovvero il tuo giudizio vale più di quello di un cittadino normale? Ovvero appartieni a una categoria eletta (insieme ai giudici) che da sola può stabilire il punto di non ritorno?

Sembrerebbe, in molti addetti ai lavori, che la decisione sia solo un saldo tra voci attive e voci passive. La riduzione in voci attive e passive di sentimenti, emozione, dolore, appare come qualcosa di assurdamente freddo.

Tutto il mondo che ha spinto per lo stacco immediato delle macchine mi è sembrato come arroccato su posizioni che non potevano essere messe in discussione per nessun motivo.

Posizioni col bollino della scientificità, quindi indiscutibili, e voi che scienziati non siete dovete stare zitti, tanto non capite.

Il refrain costante dei giorni che hanno preceduto il distacco delle macchine è stato “quella non è vita e va chiusa al più presto”, affermazione categorica senza possibilità di replica, e chi replicava veniva tacciato di visione oscurantista e reazionaria. Per contro, lasciando da parte gli ultras delle posizioni ultra cattoliche, non si può non notare la prudenza di un giornale come l’Avvenire, che notoriamente riflette le posizioni della CEI, e dello stesso Papa Francesco.

Dietro questa rigidità nel voler chiudere la questione Indi al più presto tacciando di ignoranza reazionaria idee diverse, vedo un brutto fantasma, la soddisfazione di sentirsi categoria eletta (da chi?) e quindi “migliore”.

C’è una grande differenza tra spiegare perché - forse - staccare le macchine sia la decisione migliore e l’atteggiamento di chi non ha voluto neppure prendere in considerazioni opzioni diverse.

E ancora, contesto i molti che hanno detto “con migliaia di bambini sani che muoiono in guerre di cui sono vittime sacrificali, occuparsi di Indi è una sorta di perdita di tempo”.

Non è vero. La tragedia dei bambini di Gaza e dei mille altri posti dove sono vittime, non sminuisce la questione Indi. La vicenda della bambina di Nottingham non interferisce con lo sdegno per le morti innocenti a Gaza; questa argomentazione sembra un pretesto per chiudere in fretta la questione senza rompiscatole che si fanno prendere da dubbi pietistici.

In definitiva, credo che se le ragioni della scienza non tengono conto anche delle ragioni del sentimento si sfocia nell’arroganza di chi si sente investito dalla ragione e sfugge al confronto. Insopportabile.

 

 

NOTE

[1] Ecco, in proposito, alcuni link a diverse posizioni:
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/indi-gregory-nella-scelta-tragica-i-veri-esclusi-sono-stati-i-genitori

https://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=118216

https://www.nicolaporro.it/indi-gregory-deve-morire-tre-motivi-per-cui-nicola-porro-sbaglia/
https://www.scienzainrete.it/articolo/caso-indi-qualche-domanda-riflettere/giovanni-boniolo/2023-11-12
https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/indi-gregory-la-disumanita-di-una-societa-che-tratta-la-vita-come-carta-straccia-271155/
https://www.repubblica.it/cronaca/2023/11/12/news/borgna_intervista_caso_indi_gregory-420134627/
https://www.imolaoggi.it/2023/11/14/remuzzi-per-indi-scelta-giusta/

 


La vicenda di Indi Gregory - L'opzione del silenzio

«Ciò che viene di solito impedito non è l’espressione,
bensì la formazione di un opinione propria»

(G. Anders, La catacomba molussica).

 

Ciò che diverrà la norma, ammoniva Deleuze all’inizio degli anni ’90, sarà avere un'opinione su tutto, necessariamente. Significa essere forzati allo schieramento, per quanto grottesco esso sia.

Come resistere a questa fiumana d’inumanità?

Non lasciandosi trascinare dal tempo della responsabilità, precedente all’atto, e neppure da quello successivo delle colpe, proprio del fatto compiuto.

Abbiamo perso la memoria dello spazio di mezzo, eroso dal richiamo quasi militaresco al giudizio forzato,
adombrato dal costante accanimento della cacofonia mediatica:
il silenzio.

Le religioni (dal latino religāre, unire insieme) fanno del silenzio (dal sancrito Si-nâmi, il lego) una legatura. Raccoglimento invisibile per sua stessa costituzione.

Perciò stesso, effimera fonte d’umanità.

Se credete di perdere l’occasione di dire la «cosa giusta», di farvi scappare l’opinione migliore su ciò che «bisognava fare», allora non avrete compreso di condannare in tal modo una vita infranta alla parodia, di fare delle vostre parole una commedia «all’italiana» dipinta su di un corpo inerme.

Il silenzio è la madre del dubbio, il dubbio la sorgente del pensiero.


La vicenda di Indy Gregory - Paradossi nascosti

La storia triste e dolorosa della fine di Indi Gregory occulta alcuni paradossi:

  • Il primo è – a mio avviso - il più clamoroso: il giudice, per decidere nel miglior interesse del soggetto [1], come impone la legge britannica, ha deciso di sopprimere sia l’interesse che il soggetto.
  • Il secondo paradosso è che i tutori del minore, che dovrebbero avere il dovere e anche il diritto di tutelare, come prima cosa, la vita della figlia minore e, come seconda cosa, i suoi interessi, per decisione di medici e di un giudice non hanno potuto farlo
  • Il terzo paradosso è che i medici che dovrebbero tutelare la vita dei pazienti – come detta la deontologia professionale, che si rifà ad Ippocrate - medici che hanno dichiarato che la bambina non era in condizioni di sofferenza e probabilmente non aveva funzioni cerebrali, hanno optato per non difendere la vita, pur non trovandosi in condizioni di accanimento terapeutico.
  • Ultimo paradosso: se le funzioni cerebrali (in ottica riduzionista) sono la condizione necessaria alla coscienza di piacere e di dolore, allora la bambina non aveva coscienza (consapevolezza) del dolore.
    Se invece le sensazioni (in ottica meno riduzionista) possono essere oggetto di coscienza anche “fuori” dalle funzioni cerebrali, allora la bambina aveva coscienza del dolore, ma anche del piacere, e l’equilibrio tra le sue sensazioni non poteva essere noto.
    In entrambe le opzioni la scelta del miglior interesse è opaca e paradossale.

 

 

NOTE

[1] Di seguito due estratti della motivazione del giudice inglese, Robert Peel:

«With a heavy heart, I have come to the conclusion that the burdens of invasive treatment outweigh the benefits. In short, the significant pain experienced by this lovely little girl is not justified when set against an incurable set of conditions, a very short life span, no prospect of recovery and, at best, minimal engagement with the world around her. In my judgment, having weighed up all the competing considerations, her best interests are served by permitting the Trust to withdraw invasive treatment in accordance with the care plan presented»

«The evidence clearly establishes that she experiences significant pain and distress several times a day, and each painful episodes lasts up to ten minutes. It has been observed by Dr E, other clinical team members, the nursing staff, and the Guardian, all of whose evidence I accept. The descriptions of her wincing, struggling to breathe, gasping and developing tears in her eyes are vivid. Such pain is caused by her multiple treatment interventions including invasive ventilation, suctioning, use of IV lines, blood tests and the like. It will continue for as long as the interventions continue»


La matematica e la logica sono istituzioni sociali

Il sociologo britannico David Bloor (n. 1942) nel 1976 pubblicò un libro, Knowledge & social imagery [1],  che segnò una svolta nella sociologia della scienza. Al suo interno egli si interessa di quelle che vengono comunemente ritenute discipline che hanno una natura cogente, che rispecchiano verità uniche e immutabili: la matematica e la logica. Con l’obiettivo di arrivare al nocciolo (che lui ritiene profondamente sociale) della conoscenza matematica:

«l’idea che la matematica sia variabile, allo stesso modo dell’organizzazione della società,
viene considerata da molti sociologi un’enormità»[2].

Eppure, già il filosofo, storico e scrittore tedesco Oswald Sprengler, nel suo famosissimo Il tramonto dell’Occidente (1918), e Ludwig Wittgenstein, nel difficile Osservazioni sopra i fondamenti della matematica (1956), avevano ipotizzato una connessione tra mondi di numeri e mondi di civiltà.

Anche il matematico, logico e filosofo tedesco Gottlob Frege, ne I fondamenti dell’aritmetica nel 1884, aveva argomentato che la matematica (contrariamente alla posizione di John Stuart Mill, presentata in Sistema di logica raziocinativa e induttiva del 1843) non era una scienza induttiva, nel senso che non si basava sull’esperienza, cioè su operazioni fisiche sugli oggetti. L’idea di Mill poteva tutt’al più essere utile pedagogicamente, ossia a insegnare ai bambini ad apprendere la matematica attraverso la manipolazione di oggetti (sassolini, granelli di pepe, biglie ecc.).

Frege sostiene che i numeri non sono esperienza: chi ha mai avuto esperienza dello zero («zero sassolini») o di numeri estremamente grandi come 10.000.000.000? Avere esperienza di «una cosa», non significa avere esperienza del numero 1, dice Frege. I numeri naturali (0, 1, 2, 3 ecc.) servono per numerare, ma non si identificano con le cose numerate. Infatti, hanno proprietà che non si trovano nella cosa numerata (es. il pari o il dispari), che non si vedono né si toccano, mentre si vedono e toccano le cose a cui essi si riferiscono. Allo stesso modo è difficile sostenere che i numeri ‘immaginari’ (es. 2i), che nascono dal fatto che non è possibile calcolare la radice quadrata di un numero negativo, e i numeri ‘complessi’ (dati dalla somma di una parte reale e una immaginaria - es. 5 + 2i) siano astrazioni ottenute da cose reali.

E anche il matematico tedesco Richard Dedekind, nel suo Essenza e significato dei numeri (1888), riteneva i numeri libere creazioni dello spirito umano, del tutto indipendenti dalla realtà, e un’emanazione diretta delle pure leggi del pensiero.

Come sottolinea il matematico italiano Enrico Giusti (1999) anche gli oggetti della geometria euclidea (retta, piano, lunghezza, area, cerchio, angoli, ecc.) non provengono dall’astrazione di oggetti reali, esterni, indipendenti dall’osservatore, ma da un processo di oggettivazione delle procedure, di pratiche sociali che formalizzano l’operare umano (come tracciare un cerchio sul terreno usando una corda ecc.). La matematica si sviluppa mediante il ripetersi di una sorta di modulo che porta a «fissare», e quindi a far esistere, gli oggetti matematici. Questo avviene in tre fasi: inizialmente vengono introdotti nuovi strumenti, metodi dimostrativi originati da idee innovative; poi essi diventano soluzioni di problemi e insieme oggetti di studio; infine, se vengono accettati, acquistano una vera e propria esistenza oggettiva.

Lo stesso sostiene Bloor (1976/1994, p. 143-4):

i tessitori di tappeti imparano a riprodurre un modello osservando e lavorando con gli altri. Dopo di che possono lavorare autonomamente e applicare più e più volte la tecnica a nuovi casi. Potrebbero, per esempio, mettersi a tessere il tappeto più grande che si sia mai visto: a loro basta solo aver imparato ed essersi esercitati su quelli piccoli.
Questa è la natura delle tecniche.
Analogamente, una spiegazione dell’aritmetica può basarsi su un’esperienza di portata limitata, a condizione che l’esperienza fornisca modelli, procedure e tecniche che possano essere applicati
o riprodotti all’infinito
.

Certamente la matematica non nasce dall’esperienza e dalla percezione (come già sosteneva Frege), ma viene inventata.

Tuttavia, secondo Bloor, essa non è solo un’invenzione (un gioco formale, mentale, puramente soggettivo) senza rapporti con la realtà circostante, perché essa nasce da necessità, da una manipolazione empirica.

In altri termini, essa è un’invenzione sociale, una costruzione (quindi con una certa dose di arbitrarietà) basata su pratiche. Gli enti matematici hanno, quindi, la natura di costrutti ideali, che trovano però un fondamento in una concreta prassi umana che col tempo si stabilizza e si generalizza nella forma di soluzione di problemi.

Bloor, quindi, da una parte accetta la posizione di Frege; dall’altra la porta alle estreme conseguenze, criticando lo stesso Frege e rivalutando e correggendo Mill (che aveva parlato della matematica anche come realtà soggettiva, psicologica): se i numeri non sono basati su una realtà empirica bensì su nozioni teoriche (altamente elaborate, le più fini e le più pure che mai mente sia riuscita a pensare), da dove vengono queste nozioni? Se non dalla natura, allora dalla cultura: «la componente teorica della conoscenza è proprio la componente sociale»[3].

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Bloor comincia quindi, fenomenologicamente, a immaginare una matematica alternativa[4] in cui gli esiti delle operazioni dovrebbero produrre sistematicamente risultati diversi. In questa idea apparentemente assurda, egli trova conforto nella matematica greca antica, dove il numero 1 non era considerato un numero. Non era neppure pari o dispari; esso era entrambi, cioè parimpari, perché era considerato il punto di partenza, il generatore dei numeri (1+1=2; 1+1+1=3 ecc.), sia dei pari che dei dispari, per cui partecipava di entrambe le nature (pp. 155-6). All’interno di questa visione, l’1 è anche il numero più grande perché contiene tutti gli altri numeri; è inoltre il numero con il più alto numero di relazioni/rapporti con gli altri numeri, perché tutti i numeri partono da lui e sono scomponibili nell’unità minima che è 1. Infine, l’1 è la totalità, la parte più grande: se si scompone/taglia l’1 (es. 1 torta), le parti che emergono (2, 3, 5 ecc.) sono più piccole dell’1 interezza o totalità. Peraltro, etimologicamente il numero 2 sembra derivi da «taglio».

La matematica dei pensatori pitagorici e, successivamente, dei platonici era di tipo catalogatorio e riecheggiava le classificazioni in uso nella vita quotidiana. Tale “schema di classificazione simboleggiava la società, la vita e la natura [...] I vari tipi di numeri ‘stavano per‘ proprietà come la Giustizia, l’Armonia e Dio“ (p. 169). Era una matematica applicata, usata per questioni pratiche e carica di magia: per esempio i Pitagorici consideravano il 2 un numero femminile, come tutti i numeri pari, e il numero 10 era collegato alla salute e all’ordine del cosmo. Un po’ come la smorfia napoletana[5] oppure il simbolismo numerico nella Bibbia, dove (ad esempio) il 3 era la perfezione (mentre la stessa, per i Maya, era rappresentata dal 4). Il 4 nel Medioevo era considerato un numero perno e risolutore (quattro sono i punti cardinali, i venti principali, le stagioni, le fasi lunari, le arti liberali del quadrivio, i lati del quadrato a cui veniva paragonata la Terra, in opposizione al triangolo del cielo, simbolo della Trinità). Inoltre, 4 è il numero della perfezione morale e delle proporzioni dell'uomo. Il 7 è il numero buddhista della completezza.

Bloor quindi ha trovato una matematica alternativa: “è chiaro che se non riconosciamo il misticismo del numero come una forma di matematica, nessuna questione di matematica alternativa può essere posta [...] esso rende tautologico il fatto che non via sia una matematica alternativa»[6]. Quindi la matematica non ha una vita propria o un significato intrinseco racchiuso negli stessi simboli che devono essere solo percepiti e compresi[7].

Bloor si chiede: la radice quadrata di 2 è un numero irrazionale (1.41421 35623…), come sostengono i moderni, oppure non è per niente un numero, come dicevano gli antichi greci? Nessuna dimostrazione giungerà a risolvere la questione perché si tratta di visioni matematiche incommensurabili, il cui «significato [non] risiede sulla carta o nelle procedure simboliche del calcolo stesso»[8]. Occorre che esistano determinate condizioni sociali, cioè un sistema di classificazioni e un insieme di significati culturalmente condivisi, perché il calcolo abbia un significato[9].

Quindi il numero è un ruolo[10], una posizione da non confondersi con l’oggetto che incontra stando in quel ruolo. Ma se parliamo di ruoli, posizioni, allora ci troviamo nel campo della sociologia e i numeri possono essere tranquillamente definiti delle istituzioni sociali: «se la matematica riguarda i numeri e le loro relazioni e se queste sono prodotti e convenzioni sociali, allora, effettivamente, la matematica riguarda qualcosa di sociale»[11].

Citando le conclusioni a cui giunge il filosofo (di origini lettoni) Jacob Klein, studioso del pensiero matematico greco, Bloor sostiene che «attribuire alla nozione di numero una tradizione di significato unica e ininterrotta sia un errore [...] la continuità che noi vediamo nella tradizione della matematica è artificiale. Deriva dal fatto che attribuiamo il nostro stile di pensiero a opere precedenti»[12].

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Per concludere, e rafforzare l’idea di un nucleo sociale della matematica, possiamo notare che i numeri raramente vengono usati in forma pura o astratta. Più spesso appaiono sempre insieme a un referente: “possedere 5 case”, “decidere in 2”, “conservare 10 lingotti”.

Il referente è il motore dell’interpretazione, del giudizio, dell’invidia o risentimento. Inoltre, a seconda del referente, possono perdere la loro natura cardinale: avere 3 figli non vuol dire avere 3 volte 1 figlio e non è come avere 3 sassolini o 3 fagioli.

La dinamica sociale, nel primo caso, si mostra in tutta la sua pregnanza: se si hanno 3 figli contemporaneamente si devono affrontare dinamiche molto diverse dall’avere 3 figli a distanza: l’organizzazione sociale ed economica sarà molto diversa nel secondo caso.

Per cui i numeri sono profondamente sociali. Se così non fosse perché gli studenti ci rimangono così male se prendono 29 anziché 30? Perché i/le docenti, in seduta di laurea, danno a malincuore un 109, considerato quasi una beffa nei confronti della/o studente/ssa?

 

NOTE

[1] D. Bloor, Knowledge and Social Imagery, The University of Chicago Press, 1976 – traduzione italiana in La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994

[2] D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994, p. 151

[3] Ibidem, p. 137

[4] Ibidem, p. 152

[5] Essa è una sorta di «dizionario» di interpretazione di sogni (ma a volte anche di situazioni reali), in cui a ciascun vocabolo (persona, oggetto, azione, situazione ecc.) corrisponde un numero da giocare al Lotto. L'origine del termine Smorfia è incerta, ma la spiegazione più frequente è legata al nome di Morfeo, il dio del sonno nell'antica Grecia. Esiste un gran numero di smorfie locali, in uso in altre città.

[6] D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994, p. 170

[7] Ibidem, p. 171

[8] Ibidem, p. 173

[9] Ibidem, p. 174

[10] Ibidem, p. 142

[11] Ibidem, p. 142

[12] Ibidem, p. 157


Dark Ecology - Un'ecologia che rinnega la Natura

Sette proposte.

  1. Gli animali possono godere dell’arte?
  2. Gli animali possono riflettere su sé stessi? Gli umani possono riflettere su sé stessi? L’autoriflessione rispetto alla sofferenza è importante?
  3. Che cos’è la consapevolezza? È una capacità cognitiva “superiore” (meno frequente) o “inferiore” (più frequente)?
  4. I Neanderthal erano dotati di immaginazione? E noi l’abbiamo? È importante?
  5. L’intelligenza artificiale soffre? I batteri possono soffrire? Quali sono i limiti “inferiori” della sofferenza?
  6. La coscienza è intenzionale?
  7. Il pensare e il percepire sono distinti?[1]

 

Chi pone queste domande e a chi? Gli studiosi umanisti agli scienziati scrive Timothy Morton, professore alla Rice University di Houston. Sono proposte che emergono lungo la lettura del suo libro Come un’ombra dal futuro (l’espressione è di P. B. Shelley)[2].

Proposte che nel confronto tra studiosi andranno rielaborate, i concetti ridefiniti, le parole risignificate, eliminate, rivoltate.

Non basta più fornire «pubbliche relazioni migliori» alla scienza o studiarne le conseguenze. C’è un pensiero nuovo sulla soglia che chiede di interagire attivamente con la scienza. Un pensiero che abbandona il nichilismo diffuso del pensiero umanistico postmoderno e interroga la rigidità austera della scienza che nel laissez-faire dominante del capitalismo si trasforma con troppo piacere in scientismo. C’è una strana distanza, sadica, implicita in un atteggiamento che si dice sperimentale, condiviso da teorie economiche e teorie scientifiche.

Questo pensiero vuole chiederne conto, vuole che insieme si scenda nel fango, “umanisti” e “scienziati”, e si ricominci a fare esperienza del nostro mondo. Possiamo vivere in una società in cui le scienze contemplino la negatività, agire nella possibilità dell’errore e del torto, rispondere della nostra opera nella maglia del mondo in mezzo a esseri che si presentano “estranei strani”.

Come un’ombra dal futuro

Complicato? Sì, perché spero le frasi si presentino nella loro forza di suggestione, anche se estrapolate dal libro di Morton. Pubblicato nel 2010 e portato in Italia dalle edizioni Aboca nove anni dopo, Come un’ombra dal futuro si presenta come un manifesto per un nuovo pensiero ecologico» ancora da pensare.

I ragionamenti sono molti, spesso piacevoli in quanto arricchiti da numerose citazioni poetiche e cinematografiche, oltre che da un eloquio che si contraddistingue per lo slancio rivoluzionario, ai limiti dell’escatologico. Sono tesi forti, a tratti appena accennate, in altre parti pensate a lungo e con onestà. Il linguaggio è coinvolgente, ma non rinuncia alla profondità di pensiero e per questi motivi ho pensato fosse interessante dargli risalto.

È un libro che vuole essere divulgazione rivolta a lettori e lettrici che possano affrontarne le pagine dense di contenuti anche senza una conoscenza specialistica.[3] Si presenta a noi come un confronto serrato tra le tesi che caratterizzano il pensiero queer, basate su un’ontologia influenzata dagli scritti di Lévinas e che si oppone a Heidegger scontrandosi con quel pensiero immobilizzante dei paradigmi da fine della storia.

Complicato anche perché l’ecologia dark è come un film noir, afferma Morton. Non è la soddisfacente vittoria deduttiva del pensiero razionale à la Sherlock. Pensiamo di essere di essere esterni e oggettivi, ma ci ritroviamo irrimediabilmente coinvolti. Non solo. Pensiamo di essere umani e come Deckard di Blade Runner – il richiamo al capolavoro è dell’autore – scopriamo di essere replicanti. Cosa succederebbe? Siamo capaci di pensare il negativo delle concezioni che ci hanno accompagnato alla fine della modernità? Siamo capaci di un pensiero che superi il negativo riconoscendo che esso stesso è opera nostra?

Ecologia oscura

Perché proprio riconoscere la nostra opera è ciò che fa scattare il pensiero ecologico per Morton. Sappiamo ora che abbiamo sempre terraformato la Terra. Grazie alle tecnologie di cui disponiamo oggi possiamo decostruire molti costrutti che inquinano il pensiero. Possiamo fare esperienza dell’appartenenza a un mondo più grande, quasi infinito. Più che olistico dice Morton, perché come una geometria frattale si avviluppa e riproduce in ogni sua parte.

L’arte, per esempio, può essere profondamente ecologica (e già lo è). Non solo, essa può diventare visione anche per le scienze. Grazie allo sviluppo dell’utilizzo di tecniche come l’ingrandimento, lo stop motion, il time-lapse, abbiamo oggi accesso a nuove riproduzioni della realtà. Pensate a quei video prodotti in time-lapse che possono narrare la vita di una pianta lungo due anni di tempo, i quali ci consegnano una pianta vitale, in movimento, estranea alla nostra idea di “pianta”.

Così come è possibile ricreare spazi ambientali che esaltino proprio la loro caratteristica di essere ambiente (Morton pensa alle sale del Centre Pompidou, quelle del piano dedicato al contemporaneo). O ancora, la riproduzione delle forme naturali attraverso le già citate geometrie frattali, che da anni hanno tutta la nostra attenzione. Senza parlare di quello che Morton non poteva vedere nel 2010, che vediamo oggi nelle riproduzioni o “creazioni” affidate all’Intelligenza Artificiale o vissute nella realtà virtuale.

Rinnegare la Natura

Vedere questo ci permette di interrogare nuovamente i costrutti che dominano le nostre visioni economiche, ambientaliste e scientifiche. Non c’è alcun mondo da re-incantare o da ritrovare. Al contrario, c’è per Morton un mondo da demistificare e il suo principale obiettivo polemico è la Natura in questo caso. Il concetto di Natura è per l’autore il principale punto debole dell’ambientalismo “verde brillante” che presta il fianco al capitalismo, anche se non vorrebbe. Non si parla solo della produzione di batterie al litio rispetto all’estrazione di petrolio e alla produzione di CO2 in eccesso nell’atmosfera. Il vero greenwashing è nascondere ciò che è negativo della nostra realtà di viventi. Nascondere i rifiuti, parte dell’ambiente di un vivente, sotto il tappeto. Spiego meglio: l’ambientalismo preserva un paesaggio “naturale” dall’installazione di pale eoliche, l’estetica vince sull’etica, mentre sottoterra scorre l’ultimo oleodotto e stagna il bagno chimico. La Natura è fantasma, inconscio collettivo, costruzione da sogno che fa dimenticare all’umano di essere responsabile del mondo.

L’ecologia proposta da Morton non è nichilista, non è ambientalista, rinnega la Natura.
In tutto questo, lo trovo un pensiero liberatorio e interessante, oltre che sicuramente provocatorio.
È un pensiero che si affaccia e che ha bisogno di essere pensato. Non solo.
Ha bisogno delle scienze perché le vuole coinvolgere attivamente nella demistificazione del mondo.
Le domande che ho riportato in apertura sono le domande che Morton inizia a porre per comprendere il nuovo ruolo dell’umano del mondo.
Ruolo millenario, ma che solo oggi iniziamo a conoscere – sembrerebbe.

 

Se potessimo dimostrare che la coscienza non è una sorta di sublime premio aggiuntivo per essere fatti in modo così elaborato, bensì un’impostazione predefinita allegata al software, allora i vermi sarebbero coscienti in ogni senso significativo. Un verme potrebbe diventare Buddha, in qualità di verme. Siamo sicuri che i non umani non abbiano un senso dell’”io”? Siamo sicuri che noi lo abbiamo?[4]

 

 

NOTE

[1]     Timothy Morton – Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico – Aboca edizioni, Sansepolcro (Ar) 2019

[2]     Le proposte sono riassunte così come le porto alle pagine 184 e 185 della traduzione italiana del libro.

[3]     Gli studi e le ipotesi contenute si basano su precedenti libri di Morton Dark Ecology (2016), Ecology without Nature (2007), che il lettore specialistico o in cerca di analisi più approfondite può recuperare facilmente nelle edizioni in lingua originale.

[4]     Timothy Morton – Come un’ombra dal futuro. Per un nuovo pensiero ecologico – Aboca edizioni, Sansepolcro (Ar) 2019


A debate about Apes - La Teoria della Mente nei grandi primati?

Avete presente gli intrecci delle soap opera televisive, quelli basati su dei malintesi che si gonfiano in maniera spropositata per colpa di false credenze? Di quelli che provocano drammi complicatissimi perché tizio crede che lei creda che l’altro la ami (ma non è così), e così via?

Ecco: questi intrecci non potrebbero esistere se l’essere umano non fosse dotato di una teoria della mente (anche denominata ToM: Theory of Mind), ovvero la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri nonché la capacità di comprendere che gli altri possano avere degli stati mentali diversi dai propri. È un concetto intuitivo, di cui diamo per scontata l’esistenza in ogni nostra interazione quotidiana.

Senza addentrarci negli studi di questa teoria applicata all’essere umano, il concetto risulta poco scontato quando lo applichiamo al mondo degli animali non-umani, interrogandoci sulle loro effettive capacità di astrazione e comprensione degli stati mentali propri e altrui. Il tema è curioso e merita un’analisi propria, specialmente se si considera che il concetto stesso di “teoria della mente” è stato sviluppato all’interno di studi sugli scimpanzé, quindi non di psicologia classica, culminando successivamente in un accesissimo dibattito ancora oggi irrisolto.

LE PREMESSE AL DIBATTITO

  • Partiamo da Darwin (ovviamente). Egli ha fortemente influenzato le premesse teoriche su cui si poggiano gran parte degli studi relativi alle capacità cognitive dei primati, in quanto nella sua opera “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” (1871) sosteneva che non vi fossero differenze fondamentali tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori e che, pertanto, qualsiasi differenza tra queste fosse relativa esclusivamente alla gradazione e non al tipo. Queste riflessioni, come vedremo, hanno condotto vari studiosi a legittimare approcci di ricerca basati sul principio dell’analogia, per cui comportamenti animali simili ai nostri si considerano causati dallo stesso tipo di cause psicologiche che riconosciamo nell’essere umano.
  • Nel 1978 i due studiosi David Premack e Guy Woodruff pubblicarono il celebre articolo “Does the chimpanzee have a theory of mind?”, in cui venivano illustrati una serie di esperimenti condotti su un gruppo di scimpanzé che, a parere degli autori, dimostravano che questi fossero in grado di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri, in particolare per quanto concerne il desiderio, il porsi un obiettivo o anche per le loro attitudini affettive. Fu il primo articolo nella Storia a formulare e spiegare il concetto di “Teoria della mente”, poi ripreso con successo in svariati studi.

IL DIBATTITO

Il lavoro di Premack e Woodruff è stato ripreso e approfondito nel corso degli anni da vari studiosi. In particolare, due gruppi di ricerca si sono dedicati ampiamente allo studio della ToM negli scimpanzé, producendo buona parte della letteratura al riguardo: il gruppo di Michael Tomasello a Leipzig e quello di Daniel Povinelli in Louisiana.

Il primo, in continuità con gli studi precedenti, sostiene che una qualche forma di teoria della mente è effettivamente presente negli scimpanzé, mentre il secondo nega completamente che questa possa mai esistere negli scimpanzé o in altri primati.

Ma come mai vi è un tale disaccordo?

  • Secondo Tomasello molteplici evidenze sperimentali hanno confermato che negli scimpanzé sono presenti dei meccanismi cognitivi e psicologici analoghi a quelli degli esseri umani, specialmente per determinati tipi di cognizione, e che pertanto in questo senso è possibile sostenere che tale specie sia dotata di una teoria della mente. Al tempo stesso, l’autore ha anche specificato che con tale definizione si definisce in realtà uno svariato range di processi mentali, che non sono necessariamente condivisi dalle specie più simili a noi, scimpanzé compresi.
  • Povinelli, al contrario, nega categoricamente che possa esistere alcuna forma di ToM negli scimpanzé poiché ogni forma di esperimento fondata sul principio dell’analogia menzionato in precedenza è incapace di dimostrare efficacemente che un determinato comportamento non solo sia causato da uno specifico processo mentale, ma anche che tal processo mentale sia simile a quello dell’essere umano prima di produrre lo stesso tipo di comportamento. Pertanto, quando nel corso degli esperimenti si rilevano analogie tra scimpanzé ed esseri umani, di fatto si sta solo proiettando sul mondo animale la propria percezione del mondo. L’autore, invece, ritiene che una spiegazione molto più adeguata del comportamento sociale degli scimpanzé sia la semplice capacità di questi animali di rappresentarsi e riflettere sui propri comportamenti, senza alcun’altra considerazione di livello superiore relativa a se stessi o agli altri.

QUALCHE CONSIDERAZIONE

In un paper del 1998 Cecilia Heyes scriveva: “In ogni caso in cui il comportamento dei primati non umani è stato interpretato come un segno di teoria della mente, questo si sarebbe anche potuto manifestare per caso o come il prodotto di processi non mentalistici, come un apprendimento per associazione o qualche inferenza basata su categorie non mentali” (trad. mia). Da quando l’autrice scriveva queste parole le cose non sono granché cambiate. Fa quasi sorridere che degli studiosi affermati arrivino ad accendersi a tal punto da pubblicare vignette di scherno l’uno dell’altro (vedi sotto), eppure questo è solo uno dei tanti casi di disaccordo in ambito scientifico e, come in tanti altri casi, ad uno sguardo più accurato ci si rende conto che una tale divergenza si poggia tanto su considerazioni teoriche di base differenti quanto su un diverso approccio empirico.

In primo luogo, gli autori non sono d’accordo su che cosa sia la teoria della mente (quindi l’oggetto stesso dei loro esperimenti!!): per Tomasello costituisce un variegato gruppo di processi cognitivi e psicologici, mentre per Povinelli è una qualità specifica che una specie o possiede o non possiede.

In secondo luogo, risulta particolarmente difficile comprendere se gli esperimenti dimostrino effettivamente quello che vogliono dimostrare oppure possano essere spiegati e interpretati anche attraverso categorie diverse.

In ultimo, l’assetto sperimentale stesso risulta precario e pieno di fragilità.

È evidente che per poter condurre degli esperimenti in laboratorio con un gruppo di scimpanzé è necessario educare gli esemplari di quel gruppo, così da renderli capaci di poter svolgere un esperimento.

Il raggiungimento di un tale traguardo può richiedere anni, rendendo quindi l’assetto sperimentale di difficile replicabilità e per certi versi troppo “artificiale”.

 

 

 

Bibliografia

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Che bella equazione! – Il ruolo della bellezza nelle scienze

«My work always tried to unite the true with the beautiful;
but when I had to choose one or the other,
I usually chose the beautiful»[1] (H. Weyl)

 

INTRODUZIONE

L’obiettivo di questo articolo è di riflettere sulla bellezza, una tematica apparentemente semplice e ordinaria ma che si rivelerà, nel corso dell’esposizione, un nucleo problematico da indagare attentamente.

Iniziamo la nostra disamina con una sezione filosofica, per sottolineare che siamo davanti a una questione complessa, che presenta sfumature concettuali profonde e antiche. Successivamente, analizzeremo questo tema da un punto di vista scientifico, con l’intento di mostrare come la bellezza entri a pieno diritto nei discorsi della scienza.

Lo scopo di questo scritto è di decostruire una narrazione ingenua, limitante e simil-scientista, che vede bellezza e scienza come due argomenti lontani e slegati, che non si incontrano mai, come due rette parallele. Mostreremo come tale separazione sia puramente convenzionale, contingente.

 

1. BELLEZZA E FILOSOFIA

In filosofia, l’analisi della bellezza ha origini antiche; questo tema viene indagato dall’estetica, una disciplina filosofica di ampio respiro che abbraccia numerose tesi e nuclei concettuali come, per esempio, «la produzione e i prodotti dell’arte»[2] o «il giudizio di gusto su di essi»[3].

Platone (427 ca.-347 ca. a.C.) sostiene che la bellezza è collegata all’ordine, alla proporzione e all’armonia; inoltre, la descrive come «la manifestazione più evidente del bene che permea tutte le cose»[4].

Nel Simposio, sviluppa l’idea secondo cui la bellezza attragga Eros (Amore), indicato come un “demone”, un’entità semidivina «sospesa fra cielo e terra»[5]; quindi, «l’amore viene stimolato dalla bellezza, […]: essa è il fine dell’amore, ciò verso cui l’amore riversa il suo slancio»[6].

Nel Fedro, inoltre, Platone afferma che la bellezza sensibile permette all’anima di ricordare l’idea di bellezza, perfetta e divina, ammirata prima dell’incarnazione. Pertanto, la bellezza del mondo fisico, nonostante sia molto lontana dalla compiutezza dell’idea, permette che lo spirito si elevi: «uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali»[7].

Per Platone esistono diverse tipologie di bellezza, ognuna delle quali occupa una posizione gerarchica distinta: sul gradino più basso incontriamo la bellezza del corpo mentre in cima troviamo la bellezza in sé, «idea eterna e immutabile di cui partecipano tutte le cose belle, sia fisiche sia spirituali»[8].

Plotino (205 ca.-270 ca. d.C.), figura centrale del neoplatonismo, «approfondisce e sviluppa la riflessione platonica sul bello, esposta nel Fedro e nel Simposio, associando il bello alla perfezione del mondo ideale»[9]; inoltre, questo autore dedica due trattati alla tematica della bellezza e la sua visione viene a volte qualificata come una “metafisica del bello”[10].

Nel testo enneadico Sul bello, in disaccordo con Platone, Plotino critica l’idea della bellezza considerata nei termini di armonia e proporzione delle parti, specificando che essa si trovi invece in qualità e oggetti semplici, poiché «ogni allontanamento dall’unità verso la molteplicità equivale a una perdita di perfezione»[11].

D’altra parte, Plotino condivide con Platone l’idea che la bellezza abbia valore anagogico, quando afferma che la bellezza sensibile è una tappa del percorso di purificazione dell’anima, cammino che la deve portare sempre più in alto nella scala dell’intelligibile: «compito dell’anima è […] di distogliere gradualmente la propria visione da quei corpi che non sono altro che “immagini e tracce e ombre” della vera fonte della bellezza, e, rientrando in sé, risalire verso quell’Uno […] circondato da ogni parte dal Bello, un “Bello che dispensa la bellezza a tutte le cose […]”»[12].

Pertanto, «è […] attraverso Plotino che si comprende come, nell’Antichità in generale, sia sempre più difficile, e spesso arbitrario, separare il problema della bellezza […] dalle costruzioni metafisiche in cui esso si inserisce»[13].

Infine, neanche per Edmund Burke (1729 ca.-1797) il bello può essere determinato secondo le categorie di armonia e proporzione, perché «l’ordine e la convenienza tra le parti sono […] qualità colte dall’intelletto, là dove l’effetto della bellezza è molto più immediato e sensibile»[14].

Burke contrappone la bellezza a un altro concetto, il sublime: la prima genera l’amore, «una passione […] sociale, intersoggettiva»[15], mentre il secondo dà origine al terrore, un’emozione collegata «alla tendenza di ogni individuo alla propria autopreservazione»[16]. Le divergenze, però, non terminano qui, in quanto il bello «nasce dalla visione di cose piccole e delicate, e dal contatto con tutto ciò che è liscio, levigato, sinuoso»[17]; al contrario, il sublime si origina, per esempio, dalla visione di spazi molto ampi (oceani, montagne ecc.) o dal «sentimento dell’infinito»[18].

 

2. SEMIR ZEKI E LA NEUROESTETICA: UNO STUDIO

Il neurobiologo Semir Zeki è ritenuto l’iniziatore della neuroestetica, «un filone di ricerca nell’ambito delle neuroscienze che indaga le basi neurali e cognitive dell’esperienza estetica»[19].

In una sua ricerca, pubblicata nel 2014, un gruppo di matematici doveva esprimere il proprio giudizio estetico rispetto a sessanta equazioni, mentre ne veniva registrata l’attività cerebrale per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI). I risultati dell’esperimento hanno mostrato, in particolare, l’attivazione di una specifica area nel cervello dei soggetti analizzati, una zona dove «c’è sempre attività neuronale quando si ha esperienza di bellezza»[20], a prescindere dalla sua fonte (un quadro, un brano musicale, un’equazione ecc.). La regione individuata è connessa alle emozioni e viene indicata come «campo A1 della corteccia orbito-frontale mediale (mOFC)»[21]; specifichiamo inoltre che «più la formula è considerata bella e più intensamente si attiva quest’area»[22].

I risultati dell’esperimento non sorprendono i matematici; per esempio, Colin Adams afferma: «“quando vedo una bellissima costruzione matematica, […], provo la stessa sensazione di quando osservo qualche forma di arte che mi colpisce”»[23]. Gli fa eco Daina Taimina, la quale ritiene che le belle soluzioni matematiche «“suonano come una melodia”»[24].

Infine, l’indagine condotta dal professor Zeki ha rivelato che non tutte le equazioni sono belle allo stesso modo: alcune risultano più attraenti di altre. Infatti, nonostante la soggettività che può intervenire in un qualunque giudizio estetico, i partecipanti alla ricerca hanno mostrato quasi unanimemente la propria preferenza per un’equazione in particolare, l’identità di Eulero[25]:

e + 1 = 0

Secondo Adams, tale formula «“richiede complessivamente non più di sette simboli per essere scritta: è sbalorditivo”»[26]. Per i matematici essa rappresenta «una combinazione irresistibile, perché lega cinque costanti fondamentali con tre operazioni aritmetiche basilari»[27].

 

3. UN «ESTETA DELLA SCIENZA»[28]: PAUL DIRAC E IL “PRINCIPIO DI BELLEZZA MATEMATICA”

Paul Adrien Maurice Dirac (1902-1984) è uno dei più importanti fisici del Novecento. Nato a Bristol, Nobel per la Fisica nel 1933, tra i suoi numerosi contributi ricordiamo, per esempio, la «sintesi tra relatività speciale e meccanica quantistica»[29]; inoltre, la sua equazione[30]

(ið – m) ψ = 0

ha previsto l’esistenza di una nuova particella, il positrone[31], la cui scoperta empirica ha aperto il mondo dell’antimateria alla fisica contemporanea.

In questo articolo ci concentriamo su una delle sue “credenze fondamentali”, ovvero il «principio di bellezza matematica»[32], un concetto che, per Dirac, detiene «una duplice funzione: di guida euristica e di criterio valutativo»[33]. Cosa si intende con “bellezza matematica”? Lo stesso Dirac, in uno scritto del 1939, specifica che essa non si può spiegare con precisione ma aggiunge che, nel coglierla, «gli studiosi di matematica non hanno alcuna difficoltà»[34].

Convinto che i criteri estetici dirigano la ricerca scientifica, il fisico inglese non esita a difendere la bellezza delle equazioni anche in caso di contrasto con i dati empirici: «è più importante che le equazioni siano belle piuttosto che in accordo con gli esperimenti»[35].

Quando in fisica si deve elaborare una nuova teoria, Dirac sostiene che, prima di tutto, bisogna individuarne l’impalcatura matematica, ma questa scelta deve seguire una direzione precisa: «bisognerebbe lasciarsi guidare da considerazioni di bellezza matematica»[36]; in un testo successivo, scrive che «se si lavora con il proposito di ottenere equazioni dotate di bellezza, e si possiede un’intuizione davvero solida, si è sicuramente sulla strada del progresso»[37]. In caso di reiterato disaccordo tra ipotesi ed esperimenti, per Dirac si può modificare la teoria, purché se ne sviluppi una con struttura matematica di ancora maggior bellezza.

Dirac elogia la relatività di Einstein: secondo lui, la teoria einsteiniana «ha introdotto – in una misura che non ha precedenti – la bellezza matematica nella descrizione della Natura»[38]. Lo scienziato di Bristol sostiene come sia stata proprio la sua bellezza a permettere alla relatività di ottenere credito presso i fisici. Inoltre, Dirac afferma che Einstein «era guidato solo da considerazioni relative alla bellezza delle equazioni»[39], e che «tutto il suo modo di procedere tendeva alla ricerca di una teoria bella»[40].

In uno scritto del 1979, Dirac elenca alcuni esperimenti che hanno confermato la teoria di Einstein, ma a un certo punto si chiede come ci si debba muovere in caso di contrasto fra questa concezione scientifica e le sue verifiche empiriche. Egli rifiuta nettamente l’idea che la relatività possa essere errata, perché «chiunque apprezzi la fondamentale armonia che esiste tra il modo in cui funziona la Natura e alcuni princìpi matematici generali non può non sentire che una teoria di tale bellezza ed eleganza deve essere sostanzialmente corretta»[41], a prescindere dal fatto che essa sia in sintonia (o meno) con le osservazioni.

Dirac – secondo il fisico Freeman Dyson – «“ancor più di Newton e di Einstein, usò il criterio di bellezza come un modo per trovare la verità”»[42].

 

CONCLUSIONI

All’inizio del nostro percorso abbiamo usato l’immagine delle rette parallele per illustrare la concezione da decostruire, quella che considera scienza e bellezza come due argomenti disgiunti. Questo lavoro ha mostrato come, anziché conferire di rette parallele, si dovrebbe parlare invece di una vera e propria rete epistemologica per spiegare gli intrecci e i collegamenti che uniscono impresa scientifica e filosofia estetica.

Scienziati e scienziate sono esseri umani e anche loro hanno bisogno di quella cosa tanto familiare eppure così misteriosa, ovvia e sfuggente allo stesso tempo, che è la bellezza. Può sembrare una banalità, ma la visione odierna della scienza ha offuscato simili ragionamenti, col risultato di farci separare ambiti che si arricchiscono a vicenda, se li facciamo comunicare.

A questo punto della trattazione, al lettore o alla lettrice è forse rimasta in sospeso una domanda fondamentale: “dunque, che cos’è la bellezza matematica?”. Rispondiamo a tale quesito avvalendoci della legge di gravitazione universale di Newton:

 

Dove:
“F” designa la forza d’attrazione,
“G” è la costante di gravitazione universale[43],
“m” indica le masse dei due corpi che dobbiamo considerare,
“d” rappresenta la loro distanza (espressa al quadrato).

Questa formula mostra che la forza d’attrazione gravitazionale tra due corpi aumenta al crescere delle loro masse, mentre diminuisce all’aumentare della loro distanza. Semplice e logico, vero? Anche la chiarezza fa parte del fascino di questa legge fisica.

Perché tale equazione è così bella? Prima di tutto, si trova scritta in una forma compatta ed elegante, senza risultare eccessivamente contorta né dal punto di vista del significato, né tantomeno da quello del significante.

La sua ampia efficacia empirica rende questa formula particolarmente versatile, anche al giorno d’oggi. Essa serve a spiegare fenomeni fisici che valgono sia sul pianeta Terra sia nell’Universo, dal momento che unisce le leggi di Galileo (che riguardano i fenomeni terrestri) con quelle di Keplero (valevoli invece per il macrocosmo); inoltre, grazie a questa legge, «Newton è in grado di inquadrare e spiegare un’amplissima serie di fenomeni, […] riuscendo anche a risolvere una gran quantità di questioni fisiche e astronomiche rimaste fino ad allora senza una risposta adeguata»[44].

Studiare le equazioni matematiche nella loro storicità le rende meno enigmatiche, più attraenti e più “umane”, perché sono umani coloro che le hanno formulate nei secoli, con le loro idee e visioni del mondo.

A tal proposito, sarà curioso sapere che Newton si occupò anche di ambiti che attualmente non rientrano nella scienza ufficiale come, per esempio, l’alchimia; questi interessi possono aver influenzato il lavoro scientifico di questo autore. La sua legge di gravitazione universale è, in un certo senso, “magica”; infatti, tale equazione prevede che due corpi interagiscano senza che ci sia contatto diretto tra loro, un’idea inconcepibile per Cartesio o Leibniz e che Newton stesso faticava ad accettare, ma «la nascose dietro al formalismo matematico con la sua indubbia efficacia»[45]. Al giorno d’oggi, grazie al concetto di “campo”, questo fenomeno ci appare come qualcosa di assodato, ma all’epoca era un’intuizione rivoluzionaria.

Semplicità, chiarezza ed efficacia, insieme alle considerazioni espresse fin qui, concorrono a rendere affascinante un’equazione matematica, ne eliminano quell’impressione di freddo distacco e la trasformano in qualcosa di vivo e appassionante.

Chiediamoci ora: un quadro, un brano musicale, una statua o un’equazione sono davvero entità così diverse? Sono magnifiche espressioni che generano bellezza, un sentimento umano profondo e necessario, che influenza il nostro quotidiano, orienta le nostre scelte e, last but not least, ci fa stare bene.

 

NOTE

[1] Dyson, F. (1956). Obituary of Hermann Weyl. Nature 177, 457–458, citato in: Frontiers | The experience of mathematical beauty and its neural correlates (frontiersin.org)

[2] estetica nell'Enciclopedia Treccani - Treccani

[3] Ibidem.

[4] Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di Filosofia, Firenze-Milano, Giunti Editore, 1999-2005, p. 566.

[5] Franco Bertini, Io penso, Bologna, Zanichelli editore, 20222, vol. I, p. 233.

[6] Ibidem.

[7] Platone, Fedro, in Tutte le opere, a cura di E. V. Maltese, premessa di G. Caccia, Roma, Newton Compton editori, 20102, p. 945.

[8] Franco Bertini, op. cit., p. 233.

[9] Riccardo Chiaradonna, Plotino, Roma, Carocci editore, 2009, p. 71. Corsivi dell’autore.

[10] Ibidem.

[11] Paolo D’Angelo et al., Estetica, a cura di E. Franzini e A. Somaini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2002, p. 71.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 11.

[14] Ivi, p. 125.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ivi, p. 126.

[18] Ivi, p. 125.

[19] Il senso della mente per la bellezza: intervista con Semir Zeki - Le Scienze

[20] Sesso, bellezza ed equazioni - Il Sole 24 ORE

[21] Ibidem.

[22] La bellezza delle formule matematiche | Lost in Galapagos (corriere.it)

[23] Il senso dei matematici per la bellezza delle equazioni - Le Scienze

[24] Ibidem.

[25] https://sciencecue.it/formula-matematica-identita-eulero/17295/

[26] Il senso dei matematici per la bellezza delle equazioni - Le Scienze

[27] La bellezza delle formule matematiche | Lost in Galapagos (corriere.it)

[28] La fisica tra verità e bellezza - Il Sole 24 ORE

[29] Ibidem.

[30] Questa è la versione corretta, seppur semplificata dell'equazione di Dirac, in cui la derivata parziale è "tagliata" (ð). In notazione più completa può essere scritta così: (iγμμ - m) ψ = 0. La versione popolare (∂ + m) ψ = 0 è errata. Per approfondimenti: https://www.fe.infn.it/~bettoni/particelle/Lezione4-5.pdf

[31] Il positrone è l’antiparticella dell’elettrone; positroni ed elettroni hanno stessa massa e stesso spin, ma le rispettive cariche elettriche sono di segno opposto. Previsto teoricamente da Dirac nel 1928, il positrone è stato scoperto empiricamente da Anderson nel 1932.

[32] Paul A. M. Dirac, La bellezza come metodo, prefazione e a cura di V. Barone, Milano, Indiana Editore, 2013, p. 24.

[33] Ibidem.

[34] Ivi, p. 84

[35] Ivi, p. 104.

[36] Ivi, p. 87.

[37] Ivi, p. 104.

[38] Ivi, p. 84.

[39] Ivi, p. 175.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, pp. 174-175. Corsivo dell’autore.

[42] È la matematica, bellezza! - Il Sole 24 ORE

[43] 6,67⋅10-11N⋅m2kg-2

[44] Newton in "Enciclopedia della Matematica" - Treccani

[45] Entanglement quantistico e viaggi nel tempo? - Controversie

 

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