Solaris, il racconto della scienza - Un manifesto

Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto:
alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte.
Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce,
spesso siamo convinti di essere persone straordinarie.
In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo,
ma estendere la Terra fino alle sue frontiere.[1]

 

 

PERCHÉ UNA RUBRICA CHIAMATA SOLARIS?

 Solaris è un romanzo pubblicato da Stanislaw Lem nel 1961, l’anno in cui Jurij Alekseevič Gagarin accedeva allo spazio per la prima volta nella storia dell’umanità. È la storia di un incontro tra uno psicologo-astronauta e la forma di vita del pianeta Solaris. Ma è anche una riflessione sul senso del “contatto”, sulla straniante alterità del cosmo.

Solaris è un pianeta oceanico che non risponde all’umano: con apparente e incomprensibile volontà crea geometrie megalitiche e “quasi architettoniche”, materializza figure femminee estratte dall’inconscio di chi gli si avvicina e poi disfa ogni sua creazione nell’oblio della sua essenza marina.

“Perché il mondo parla?” Si chiede Kris Kelvin - lo psicologo coinvolto nello studio di Solaris e attorno a cui gira la narrazione - “vuole giocare con noi? O forse punirci?”[2]

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La letteratura parla della scienza esprimendone l’immagine sociale, la scienza parla infondendo le sue fantasie nelle storie che ci raccontiamo.  Libri più o meno noti, pellicole apparentemente super partes partecipano collettivamente alla produzione degli immaginari scientifici e fantascientifici che finiscono inevitabilmente per influire sulle nostre aspettative future, sulla nostra percezione presente, sul modo in cui riorganizziamo il passato.

La letteratura, come le grandi cose, vive nel via vai che oscilla tra l’espressione e la descrizione.

Può raccontare la scienza che conosciamo, favorirne la diffusione; si pensi a Quando abbiamo smesso di capire il mondo (2021) di Benjamín Labatut o a La Bomba (2020) di Alcante, Bollet e Rodier.

La letteratura è avvertimento sul futuro e tentativo di previsione.

Günther Anders scriveva che autori come Huxley, Orwell o Lem lasciano indietro i filosofi che arrancano: i secondi indaffarati a definire chi ha fatto cosa, i primi preoccupati di cosa le cose faranno di noi.[3]

Tramite l’artificio e l’incanto si raccontano i timori di un’intera società, come nei grandi racconti socio-fantascientifici di James Graham Ballard o, ancora, nel romanzo scientifico-distopico che ha ispirato molti racconti del secolo scorso: Noi (1924) di Evgenij Ivanovič Zamjatin.

Alle volte la letteratura è la via privilegiata per testimoniare l’incontro del singolo - così piccolo - rispetto ai grandi Golem della scienza, della medicina, della tecnologia, del progresso.

Ne è esempio: Non morire di Anne Boyer, una lunga lettera di denuncia al mondo delle terapie contro il cancro che sarà oggetto di questa prima uscita.

D’altra parte, L’enorme bagaglio immaginativo di cui la letteratura si fa carico è ciò che, a sua volta, influenza inevitabilmente le pretese e le traiettorie di chi lavora attivamente nel mondo “scientifico”.

Ci sono le scienze, gli scienziati con il camice bianco, le tecnologie, le politiche di controllo e sviluppo, le controversie e le invidie, i dati e le persone.

Poi c’è Kris, “razionale e scientifico”, trascinato nell’alterità policroma di Solaris. C’è la solaristica, fatta di termini dotti ed esperti che su Solaris non avevano mai messo piede, pur scrivendone: solarista-ciberneti, solarista-simmetriologi… Infine c’è Lem che scrive una storia: sua, nostra? È sempre Kelvin a rispondere, rieccheggiando un noto aforisma di Proust: “non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi”.[4]

L’immenso insieme di queste storie mostra le scienze e le tecnologie nel rapporto che instaurano con la singola vita o con un gruppo sociale, con le speranze implicite di un’intera cultura, nel continuo gioco di scambi che le attraversa.

Perciò, noi che vi raccontiamo questi libri, non potevamo che chiamare Solaris questa rubrica: nell’amore per ciò che ci si racconta, speriamo che le parole possano parlarci ancora, e nuovamente.

 

NOTE

[1] S. Lem, Solaris (1961), a cura di M. Cataluccio, 2013, p. 108.

[2] S. Lem, Solaris, cit., p. 110.

[3] G. Anders, L'uomo è antiquato vol. II (1979), tr. it. M. A. Mori, Bollati Boringhieri editore, Torino 2007, p. 396.

[4] S. Lem, Solaris, cit., p. 109.


Etica, morale & Intelligenza Artificiale

L’intelligenza artificiale è una tecnologia “nuova” che sta trovando applicazione in numerosi campi scientifici, industriali, sociali e politici, e – come per ogni nuova tecnologia – nella sua applicazione possono emergere dei problemi di carattere etico e morale.

In questo post:

  • cerco di mettere in rilievo perché sia opportuno dedicare attenzione alla correlazione tra intelligenza artificiale e questioni etiche e morali
  • analizzo due casi concreti di utilizzo di tecnologie intelligenti alla ricerca di spunti di riflessione
  • provo a rappresentare un esempio di catena di responsabilità nella realizzazione di questo tipo di tecnologie
  • e, infine, traggo delle conclusioni di ordine morale – che mi piacerebbe che fossero normative

 Per definire convenzionalmente e localmente – giusto per la lettura di questo post – l’Intelligenza Artificiale, mi attengo a questa coppia di definizioni, la prima di “intelligenza”,  di E. Scribano, in un suo libro su Descartes, da me modificata in senso più generale, e la seconda di “artificiale”, dal Dizionario Treccani:

  • intelligenza: il vivente è una macchina intelligente, se traduciamo questo termine nell'insieme dei comportamenti causati da stati fisici che consentono al corpo vivente di reagire all'ambiente in modo funzionale a degli obiettivi [1], tenendo conto dell'esperienza passata [2]
  • artificiale: fatto, ottenuto con arte

Allo stesso livello di generalità prendiamo in considerazione la definizione che si trova sul sito di un gigante delle tecnologie, la Oracle Corporation:

Intelligenza Artificiale (I.A.): sistemi o macchine che imitano l'intelligenza umana per eseguire certe attività e che sono in grado di migliorarsi continuamente in base alle informazioni raccolte [3]

 

PERCHÈ PARLARE DI ETICA E DI MORALE ASSOCIATE ALL’IA?

La riflessione può nascere in un contesto molto familiare, la guida di una automobile con un sistema intelligente anti-collisione: il sistema ha provocato la frenata, ha letteralmente “inchiodato” la macchina in mezzo al Carrobbio [4], senza che il guidatore (io) capisse perché o potesse intervenire. La ragione della frenata era un gatto che era passato a pochi centimetri dal sensore radar e che, senza anti-collisione, forse non avrei risparmiato.

Le lateralità di questo salvataggio di un gatto del Carrobio sono state, per fortuna, senza conseguenze:

1) il cane di famiglia è finito a gambe all’aria nel bagagliaio

2) l’auto che mi seguiva ha inchiodato a sua volta evitando il tamponamento

Non si può negare, osservando questo caso banale, che un problema morale nell’utilizzo di tecnologie intelligenti c’è.

C’è ed è pervasivo: nel 2022 gli investimenti per l’IA sono di 500 milioni di euro in Italia [5] e di più di 90 miliardi di dollari nel mondo[6].

C’è e prende diverse direzioni: gli investimenti in Italia sono destinati all’Elaborazione Intelligente di Dati (34%), alla Comprensione del Linguaggio Naturale (28%), ai Sistemi di Supporto alla Decisione (19%), alla Visione Computerizzata (10%) e all’Automazione Robotica dei Processi.[7]

Il caso della frenata, del gatto del Carrobbio e del cane di famiglia si colloca tra Visione Computerizzata, Elaborazione Intelligente di Dati e Automazione dei Processi.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie di IA è sostenuto dalle Istituzioni: ad esempio, lo Stato italiano ha elaborato un Programma Strategico per gli anni 2022 – 2024, focalizzato su Talenti (da creare o trattenere), Competenze (da generare) e Applicazioni, nel privato e nella Pubblica Amministrazione. [8]

Le Istituzioni non nascondono il problema morale e alcune preoccupazioni; tra il 2019 e il 2022, l’Unione Europea ha varato 3 deliberazioni [9] che cercano di normare le implicazioni etiche della nuova tecnologia: le “Linee Guida per una IA affidabile” si focalizzano sulla robustezza, sul rispetto della sicurezza degli esseri umani (escludendo il gatto del Carrobbio, il cane di famiglia e altri viventi non umani), della trasparenza, della privacy, della non-discriminazione, del benessere ambientale e sociale, e sulla attribuzione di responsabilità per le azioni delle tecnologie; un Atto per l’Intelligenza Artificiale, che delinea l’approccio corretto per lo sviluppo e l’applicazione; una proposta per stabilire delle norme di responsabilità civile in caso di danni.

Il problema morale è enfatizzato dal comportamento delle Aziende: più di un terzo delle Aziende che utilizzano IA non ritiene rilevante il tema etico, il 40% lo prende in considerazione in termini futuri o in modo destrutturato; solo il 21% ha una strategia definita[10] .

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L’APPROCCIO DEL PARLAMENTO EUROPEO

Una pubblicazione del Parlamento Europeo, su rischi e vantaggi dell’Intelligenza Artificiale, esprime la visione dell’Istituzione che legifera per l’EU sull’IA:

“L’intelligenza artificiale può consentire lo sviluppo di una nuova generazione di prodotti e servizi, anche in settori in cui le aziende europee sono già in una posizione di forza come l’economia circolare, l’agricoltura, la sanità, la moda e il turismo. Può infatti offrire percorsi di vendita più fluidi e ottimizzati, migliorare la manutenzione dei macchinari, aumentare sia la produzione che la qualità, migliorare il servizio al cliente e risparmiare energia.” [11]

“L’intelligenza artificiale potrebbe significare una migliore assistenza sanitaria, automobili e altri sistemi di trasporto più sicuri e anche prodotti e servizi su misura, più economici e più resistenti. Può anche facilitare l’accesso all’informazione, all’istruzione e alla formazione.” [12]

“L’IA aiuta a rendere il posto di lavoro più sicuro, perché il lavoro più pericoloso può essere demandato ai robot, e offrire nuovi posti di lavoro grazie alla crescita delle industrie dell’intelligenza artificiale.”[13]

E stima l’aumento della produttività del lavoro tra l’11% e il 37% entro il 2035. [14]

L’approccio tradisce la visione scientista, positivista ed efficientista –che proviene dalla pratica scientifica e dalle aziende che ricercano efficacia ed efficienza.

Poco viene detto sulle lateralità negative.

Si potrebbe tradurre: benvenuta la nuova tecnologia che aiuta la crescita e il comfort delle persone che già hanno la gran parte delle opportunità e dei privilegi.

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DUE CASI CONCRETI ED EMBLEMATICI

Il primo caso esemplare è quello già accennato del radar anti-collisione dell’automobile.

Tra i soggetti potenzialmente coinvolti negli effetti di applicazione ci sono – oltre al gatto del Carrobbio e al cane di famiglia: il guidatore, i passeggeri che possono riportare danni, i passanti che si possono salvare, gli altri automobilisti che hanno tempi di reazione molto minori del sistema e possono subire danni fisici in caso di tamponamento.

Il problema morale, in questo caso, può essere delineato in questi termini:

  • il sistema deve intervenire o solo “avvisare”, cioè, suggerire al guidatore un intervento?
  • Cosa farebbe un umano senza il sistema?
  • Che frequenza e gravità hanno gli effetti collaterali negativi?
  • Per gestire il trade-off tra danni ad un vivente e un altro, si deve fornire al sistema una scala di valore delle categorie di esseri viventi per decidere cosa fare?
  • Quanto deve essere grande e vicina la sagoma rilevata, per attivare la frenata?
  • Si deve lasciare al guidatore la possibilità di disattivare il sistema?
  • Come sono influenzate dalle culture locali, in Europa, in USA, in Cina, le categorie logiche che informano il sistema? John, Hu, Michelle, Stella darebbero le stesse istruzioni alla macchina? E quando Jack usa la macchina di Michelle?

Il secondo contesto che esaminiamo è quello delle applicazioni in campo medico, in particolare dei sistemi intelligenti di supporto alla diagnosi, per i quali KBV Research stima 1,3 miliardi di dollari di spesa all’anno.[15]

Le principali applicazioni diagnostiche, basate sui grandi numeri e sull’analisi statistica, sono rivolte a pratiche come:

  • la diagnosi differenziale – che è discernimento tra diverse possibili patologie con sintomatologie simili
  • la ricerca di pattern fuori focus – cioè, di sintomi, fenomeni, elementi e manifestazioni minori che, se identificati, possono aiutare a diagnosticare patologie che sono fuori dal focus diagnostico principale
  • l’analisi ex-post del tasso di errore diagnostico umano, per esempio a fronte di determinati schemi di sintomi che “puntano” a diverse possibili patologie

per ridurre il tasso di errore diagnostico umano.

Una ragione per cui si investono capitali così ingenti sulle tecnologie diagnostiche intelligenti è, infatti, l’incidenza di errori diagnostici dei medici, che si stima causi alcune migliaia di morti in Italia e decine di migliaia negli USA;[16] oltre al costo sociale, questi errori comportano anche costi finanziari ingenti – in termini di ulteriori esami, ricoveri e, soprattutto, risarcimenti.

Le cause degli errori diagnostici, secondo uno studio congiunto di Sidney University  e University of Newcastle (Aus), sono per il 15% di tipo cognitivo, legate a:

  • uso errato della statistica
  • ancoraggi, ossia collegamenti rigidi tra situazioni sintomatiche e diagnosi
  • errori di framing
  • pletora o carenza di esami
  • fissazione su esperienze di successo
  • cecità attentiva

In questo senso, i tanti sostenitori dell’utilizzo delle tecnologie intelligenti in diagnostica, che si richiamano al concetto di Medicina Basata sulle Evidenze (EBM, Evidence Based Medicine), ritengono che questi sistemi possano supportare il lavoro diagnostico grazie a:

  • l’uso razionale delle informazioni
  • l’interpretazione automatizzata dei dati diagnostici
  • l’uso intensivo delle statistiche, delle frequenze storiche e delle previsioni probabilistiche

Tuttavia, i sistemi di Intelligenza Artificiale cadono spesso in errori (allucinazioni), come è accaduto a ChatGPT quando ha suggerito che si possono ottimamente sostituire i bisturi con i grissini. [17]

Il problema morale sotteso all’uso di queste tecnologie in diagnostica è correlato a:

  • la possibilità di errore sistematico nella progettazione degli algoritmi di apprendimento e di analisi
  • la prevalenza della statistica sull’esperienza, che può influenzare il medico sulle occorrenze più probabili e ad ignorare le possibilità meno frequenti, replicando gli effetti degli errori cognitivi
  • l’effetto black box, ossia l’accettazione acritica di ciò che suggerisce il sistema.

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PROBLEMA DELLA RESPONSABILITÀ

Il problema morale solleva quello della responsabilità, che vede coinvolta una serie di figure professionali quali, p.e.:  il progettista, l’ingegnere della conoscenza che controlla l’apprendimento, il programmatore che “scrive” i meccanismi di autoapprendimento, il produttore, l’acquirente – p.e.: il dipartimento acquisti della struttura sanitaria, l’utilizzatore tecnico e l’utilizzatore finale che prende la decisione diagnostica e alimenta il meccanismo di autoapprendimento.

Ad esempio: in caso di danni ad un paziente derivanti da malfunzionamento o da una distorsione del sistema, a chi va attribuita la responsabilità? A chi l’ha realizzato oppure a chi l’ha istruito? Al produttore che lo vende sulla base di una promessa di valore che volutamente tralascia le negatività? All’acquirente abbagliato dai risparmi? Oppure all’utilizzatore finale che prende per buono acriticamente il responso della “macchina”?

La responsabilità morale – a mio avviso – ricade su tutti i soggetti che hanno trascurato, con motivazioni differenti, i rischi di errore e di lateralità del sistema.

In assenza di una norma che regoli tutte le fasi del processo, è evidente che anche la responsabilità giuridica è difficile da attribuire.

Forse è più facile agire affinché questi errori accadano con minore frequenza, grazie alla consapevolezza sui rischi legati all’utilizzo delle tecnologie e a un grado superiore di responsabilizzazione preventiva di tutti i soggetti.

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CI SONO DELLE CONCLUSIONI?

Posto che quello della IA può essere un cambiamento epocale con enormi caratteri positivi, vorrei delineare delle possibili raccomandazioni generali di ordine morale:

  • non ci si può sottrarre ad una analisi approfondita dei criteri morali che informano i comportamenti delle macchine;
  • va tenuto presente che i modelli di apprendimento sono altrettanto sensibili al problema morale; come vengono addestrate le macchine, quali euristiche adottano, quali modelli di percezione [18] vengono usati, sono fattori determinanti per il comportamento delle tecnologie e per l’orientamento delle decisioni umane;
  • non è il caso di sostituire l’analisi e l’esperienza con i modelli statistici: in diagnostica, p.e., l’IA può egregiamente svolgere funzioni di supporto ma è preferibile che “non prenda decisioni”
  • ci si deve guardare dall’effetto black box, soprattutto se nei sistemi sono incluse funzionalità di apprendimento;
  • non vanno mai dimenticate le lateralità sociali

Ma questo vale per tutte le nuove tecnologie.

 

 

 

 

NOTE

[1] Il testo originale (vedi nota successiva) recitava “alla conservazione della vita”

[2] E. Scribano, Macchine con la mente, Carocci Editore, 2015

[3] https://www.oracle.com/it/artificial-intelligence/what-is-ai/

[4] Il Carrobbio, da quadrivium, è un largo di Milano le cui origini risalgono all'epoca romana. È posto indicativamente alla confluenza fra via Torino, corso di Porta Ticinese, via San Vito, via Cesare Correnti e via del Torchio. Nei dintorni circolano ancora numerosi gatti randagi.

[5] Politecnico di Milano, Osservatori.net - Osservatorio Artificial Intelligence 2023

[6] AI index report 2022, Stanford University

[7] : Politecnico di Milano, Osservatori.net - Osservatorio Artificial Intelligence 2023

[8] Ibidem

[9] Ibidem

[10] Ibidem

[11] Parlamento Europeo - https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/
20200918STO87404/quali-sono-i-rischi-e-i-vantaggi-dell-intelligenza-artificiale

[12] Ibidem

[13] Ibidem

[14] Ibidem

[15] KBV RESEARCH - https://www.kbvresearch.com/artificial-intellgence-diagnostic-market

[16] Morti in ospedale all’anno per errori diagnostici, in Italia: più di 10.000 (M. Motterlini, V. Crupi, Decisioni Mediche, Raffello Cortina Editore, 2005); in Usa: tra 44.000 e 100.000 (Politecnico di Milano, 2002; United States Institute of Medicine, 1999)

[17] Corriere della Sera, 24.01.2023

[18] A breve sarà a disposizione sul blog un articolo di un filosofo orientale che focalizza l’attenzione sulla dimensione epistemologica dell’IA

 


Non morire, di Anne Boyer - Un confronto con la medicina

Non morire (La nave di Teseo, 2020) è il libro di Anne Boyer dedicato al racconto delle sue esperienze e impressioni successive alla diagnosi di un carcinoma mammario, che ricevette nel 2014 all’età di 41 anni.

Boyer è poetessa e saggista nata e cresciuta in Kansas e, con Non morire, ha vinto il Premio Pulitzer nel 2020.

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Vi parlo di questo libro perché non è il racconto di una malattia, bensì il racconto di una persona che ha il cancro.

La sua ribellione risulta potente proprio nella misura in cui - di fronte a tutto il mondo - Boyer continua imperterrita a affermare la sua completezza come persona.

La sua opposizione è un caleidoscopio di estrema lucidità, nelle sue critiche femministe e sociologiche, nella passione poetica e filologica, nelle sue impressioni, nell’introspezione e intimità delle riflessioni.

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In questo post cerco di riassumere alcune delle sensazioni – non saranno piacevoli – che emergono dalla lettura di Boyer, in particolare dal suo confronto con la medicina e con la scienza.

Sono argomenti che la sociologia della salute ha già trattato, spesso in modo approfondito, dove possibile li segnalerò in nota.

In chiusura riporto uno dei casi che Boyer ha raccolto per raccontare le truffe e la sporcizia nel mondo delle cure del cancro americano.[1]

Per un quadro completo, per comprendere e conoscere meglio, per una visione più ampia e una poetica amarezza nel cuore, leggete il libro!

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Etichette

La prima etichetta è quella diagnostica. «Prendere oggetti e azioni da un sistema e riclassificarli come elementi in un altro sistema è ciò che fa la diagnosi: prende informazioni dai nostri corpi e riorganizza ciò che avevamo dentro in un sistema imposto da lontano». Il radiologo evidenzia la massa, assegna un punteggio.

Si diventa malati, pazienti, clienti.

Boyer descrive la lenta spersonalizzazione di sé che avviene entrando nel dispositivo dell’oncologia. Mentre ancora il corpo non percepisce la differenza tra sano e malato, questo mondo apre le sue porte e comincia a tradurti in numeri e dati.

Quando con la malattia sorge la sofferenza, ci si rivolge alla medicina in cerca di un vocabolario per definire quel male. Non sempre questo avviene - spesso perché, ormai spersonalizzati, non ci si riconosce più - e i malati, racconta Boyer, sviluppano una loro narrazione intorno alla ricerca di risposte.

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Quindi si accede al padiglione, «crudele democrazia dell’apparenza», gli stessi volti, gli stessi segni sul corpo, umori, sudori, sangue e urine.

Può farci ribrezzo, ma sono le condizioni a cui le chemioterapie portano i malati.

«Non sembriamo persone: sembriamo persone col cancro. Somigliamo a una patologia prima di somigliare a noi stessi.»

Nel padiglione la produzione del malato di cancro viene portata a termine. Il nome viene registrato su un codice a barre a quel codice si aggiungono via via tutti i dati del paziente.[2]

Meglio, specifica Boyer, sono le donne a farlo.

Perché il tumore al seno è una malattia che ha un genere[3]. Sono le infermiere che lavorano nel padiglione certo, ma prima ancora sono le pazienti che si prestano a quel lavoro.

Compilano questionari, controllano la correttezza dei dati in database, rispondono alle domande delle persone incaricate della loro cura. «La parola “cura” raramente richiama alla mente una tastiera» scrive Boyer, eppure è così, la cura e la raccolta dati vanno a braccetto in un paradossale sistema sincronizzato che culmina nella richiesta di quantificare il tuo dolore da 1 a 10.[4]

Diventa una paziente fatta di dati, prodotta dal lavoro femminile.

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Vita del paziente

A un certo punto l’autrice deve prendere atto che è diventata una paziente.

Ha provato a lungo a resistere; si è informata sui social network e sui motori di ricerca; ha imparato a consultare le riviste scientifiche di settore, per cercare una comprensione che i medici non le davano.

A resistere è l’immagine del sé precedente alla diagnosi, si cerca di comportarsi normalmente, di truccarsi, di portare parrucche e vestiti che coprano le ferite delle terapie.

Non basta, si crolla, anzi, proprio quell’aspetto che si ricercava viene in odio perché non lo si è fatto per sé stessi, ma per rispondere alle richieste di una società che non vuole prendersi cura dei suoi.

La società chiede di nasconderti in quanto malato di cancro. Chiede di dissimulare, di pensare positivo, di vivere la terapia con coraggio.

Certo, Boyer è forte, nella sua convinzione di voler vincere la malattia.

Ma non può raccontare questo, non può raccontare la sua battaglia con orgoglio e un nastro rosa appuntato perché è arrabbiata: «Preferirei non scrivere nulla piuttosto che far propaganda del mondo così com’è».

Lei, madre, single, riesce a malapena a seguire il percorso di cura grazie all’aiuto di amiche e amici, tanto da chiedersi se fosse stata una persona un poco meno piacevole che fine avrebbe fatto?

I giorni di malattia al lavoro finiscono presto, devi negoziare la tua nuova situazione, ma hai una condanna a morte scritta in faccia.

L’assicurazione copre certe cure.

Dopo la chemioterapia resti devastata, intossicata per giorni, per non parlare di quando si decide per l’asportazione del tumore. Operazione in giornata, la mammella viene rimossa e il paziente rimandato a casa: questi i costi che ci si può permettere.

«Sono sopravvissuta. Eppure, a causa del regime ideologico del cancro, definendomi una sopravvissuta mi sembra di tradire i morti.»

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Certo Boyer è impietosa ma quello che risulta vero è la sua richiesta di essere accettata per come è con la sua malattia.

Chiede che le sia permesso anche di essere debole, di non farcela, di un posto in questo mondo anche per la donna malata di tumore al seno.

Invece la società è letale con chi non collabora alla sua guarigione: «Il rifiuto conduce all’isolamento: l’esecuzione sociale dell’ottemperanza medica intorno a una patologia genderizzata come il tumore al seno può essere brutale.»

Chi muore poi, tradisce il Progresso della società; quella stessa società in cui – come risponde la figlia di Boyer a sua madre– siamo condannati a vivere e che ci fa ammalare.

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Non morire si rivela quindi essere una denuncia poetica delle nostre società tecno-scientifiche.

Se possiamo curare alcune patologie con le “pallottole magiche” o con operazioni ad hoc, il tumore è si rivela più grande di quanto pensiamo.

Di fronte alla persona, il sistema ospedaliero simil-fordista fallisce.

Questo è ancora più marcato quando si è donna (per non parlare di quando si è donna e nera) perché il sistema della cura non è alieno alle dinamiche discriminatorie e patriarcali della società tutta.

Chi si ammala di forme gravi se ha la fortuna di morire presto diventa un “angelo”, le donne che sopravvivono sono invece spesso «abbandonate, tradite, rese disabili, licenziate».

Boyer è sopravvissuta a quel nodulo alla mammella, ma stenta a sopravvivere alla cura: «I fiocchi rosa adornano gli oggetti e i processi che ammazzano la gente. Non esiste cura né c’è mai stata».

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La truffa

Ecco uno dei racconti che Boyer raccoglie, che costituiscono una raccolti di casi e truffe scientifiche legate alle terapie contro il cancro, negli Stati Uniti ma con effetti anche negli altri paesi:

Nel 1991 viene diagnosticato un tumore mammario a Nelene Fox.

La compagnia assicurativa non voleva coprire le spese per una nuova terapia basata su un trapianto di midollo osseo contornato da un’alta dose di chemio.

Fox riuscì a pagarsi le spese da sola, ma morì due anni dopo la diagnosi senza accedere alla terapia.

La famiglia fece causa alla compagnia assicurativa ricevendo 89 milioni di dollari di indennizzo.[5]

A partire da questo evento e incoraggiate dai successi dell’attivismo per l’AIDS[6] - racconta Boyer – le donne con tumore al seno si organizzarono in lobby per avere accesso alla nuova terapia.

«Gli ospedali addebitarono da ottantamila dollari a centomila per l’altamente remunerativa procedura, con un costo ospedaliero di meno di sessantamila dollari.»

Lentamente gli assicuratori si prestano e quarantunomila pazienti ricevono la cura.

La terapia era dolorosa e prevedeva l’isolamento per giorni in ospedale, inoltre erano previsti diversi effetti collaterali anche gravi. «Secondo alcuni documenti, la terapia ha ucciso una donna su cinque.»[7]

L’unico studio a supporto era quello condotto da Werner Bezwoda. Quando i ricercatori replicarono quella procedura per la terapia, quattro delle sei donne trattate riportarono gravi danni cardiaci, di queste quattro due morirono di lì a poco.

Più tardi Bezwoda ammetterà che la sua ricerca era fraudolenta.[8]

 

È del 2016 invece uno studio che conferma[9] i risultati di molte ricerche precedenti: il carcinoma mammario è stato trattato eccessivamente e la maggior parte delle donne con diagnosi di cancro al seno hanno ricevuto trattamenti che non erano necessari. Le mammografie avevano portato all’individuazione precoce di tumori. Questa anticipazione invece di salvarle le ha condannate a trattamenti invasivi e spese insostenibili.

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«Morire di cancro al seno non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti. Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti.»

 

 

 NOTE

[1] Per un’analisi che tenga conto della storia delle politiche italiane sul cancro, comparate a quelle statunitensi, si può leggere G. Vicarelli, Le tappe della politica oncologica in Italia. Riflessioni a margine del caso Di Bella, in “Prospettive sociali e sanitarie”, 2, pp. 6-11.

[2] Boyer racconta nel dettaglio la conformazione del padiglione con cure “passthrough”, che contrappone all’etimo di clinica, alla cura prestata al letto del paziente. Un classico in sociologia al riguardo è D. Sudnow, Passing On. The Social Organization of Death, Englewood Cliffs, Prentice Hall 1967.

[3] Anche gli uomini possono venire colpiti da forme di neoplasia alla mammella, ma i casi sono rarissimi e il tumore al seno si configura come una malattia della donna anche per le implicazioni sociali e politiche che comporta. Queste tematiche sono tutte affrontate da Boyer nel suo libro.

[4] Boyer prova a raccontare il dolore in scale che non siano numeriche, a esempio con frasi tratte dalle poesie di Emily Dickinson – un gioco che fa con le sue amiche per esorcizzare la brutalità della richiesta del medico.

[5] E. Eckholm,  $89 Million Awarded Family Who Sued H.M.O, “The New York Times”, 30 dicembre 1993.

[6] Per approfondire l’impatto della partecipazione pubblica alle policy e terapie riguardanti l’AIDS: S. Epstein, Impure Science: AIDS, Activism and the Politics of Knowledge, University of California Press, Berkeley 1996.

[7] R.A. Rettig, False Hope: Bone Marrow Transplantation for Breast Cancer, Oxford, Oxford University Press, 2007.

[8] D. Grady, Breast Cancer Researcher Admits Falsifying Data, “The New York Times”, 5 febbraio 2000.

[9] M. Healy, Majority of Women Diagnosed with Breast Cancer after Screening Mammograms Get Unnecessary Treatment, “Los Angeles Times”, 12 ottobre 2016.


Matematica, filosofia e poetica della frattalità

Il matematico polacco Benoît Mandelbrot (1924-2010) diede per la prima volta nel 1975 una definizione della figura frattale: dall’aggettivo latino fractus, interrotto o irregolare, “frattale” designa un insieme di figure descrivibili dall’esterno ricorrendo a un insieme di proprietà geometrico-matematiche.

La figura frattale è internamente omotetica, le parti assomigliano al tutto. La sua dimensione non è necessariamente intera: un punto in geometria euclidea è di dimensione pari a 0, una linea pari a 1, una superficie pari a 2 e così via. La dimensione frattale può essere un numero frazionario, un numero irrazionale…

È frattale il cavolo romano, è frattale la curva di Koch (Fig. 1),[1] è frattale il gomitolo di lana, a “metà strada” tra la dimensione euclidea di una linea mono dimensionale (la corda di lana) e la dimensione euclidea di un volume (la sfera del gomitolo).[2]

Fig.1

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Quando nasce il concetto di frattale?

Due acerrimi critici della sociologia della scienza come Alan Sokal e Jean Bricmont non hanno avuto dubbi: la frattalità fa parte del dominio delle matematiche. Di conseguenza, se le discipline umanistiche se ne sono appropriate ne hanno perpetrato un “reiterato abuso”.[3]

Teniamoci però a debita distanza: il padre dei frattali - al tempo - si definì “un vagabondo della scienza”.[4] Forse, il 1975 rappresenta una data troppo recente per poterci orientare. Mandelbrot rispose innanzitutto ad un’insufficienza della geometria, fino ad allora “troppo regolare e troppo fredda” per descrivere le insenature di una costa,[5] o i profili plastici e multiformi di una nuvola.[6]

Dove inizia questo vagabondaggio?

È il matematico polacco stesso a chiamare direttamente in causa un passato recondito.

In una lettera del 1695, Leibniz dichiarava a Bernoulli la possibilità di sviluppare una serie infinita mediante l’applicazione di un esponente frazionario a una base differenziale (d/dx)KF, così da “produrre una progressione geometrica, […] un’analogia meravigliosa”.[7]

Altrove, Leibniz fornisce una concezione teofanica e cosmologica della scalarità frattale: non solo è infinita la materia in perenne flusso in un mondo altrettanto infinito, ma sono infinite anche le anime e ciascuna “è uno specchio vivente perpetuo dell’universo”.[8] Ogni anima include l’intera serie del mondo che rispecchia dal proprio punto di vista, ogni punto di vista include oscuramente ogni altro. Sempre il filosofo tedesco, guardando per la prima volta nel microscopio progettato da Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723) si meravigliò della qualità frattale degli organismi: “c’è un mondo di creature - di esseri viventi e di animali, di entelechie e di anime - anche nella più piccola porzione di materia”.[9]

Paolo Portoghesi (1931-2023) fu tra i primi a cogliere la profonda analogia tra le ricerche de Gli oggetti frattali e le architetture della sua amata Roma.[10]

A sua volta, Gilles Deleuze (1925-1995) ha avuto il merito di situare il Barocco a lato di Leibniz, in prossimità di Mandelbrot: l’architettura barocca si sviluppa passando “attraverso un numero infinito di punti angolosi, […] è la curva di Koch”.[11] Si pensi alle ipnotiche geometrie del Borromini (1599-1667) in Sant’Ivo alla Sapienza, alla cappella della Sacra Sindone del duomo di Torino progettata da padre Guarino Guarini (1624-1683) (Fig.2), all’utilizzo del bugnato con la sua qualità cavernosa.

Fig. 2

Possiamo andare ancora più in là, scorgere una qualità frattale nel radicale principio di pienezza di Giordano Bruno (1548-1600) o nei rapporti di autosimilarità astrologica che innervano le analogie micro e macro cosmiche dell’epoca rinascimentale.

Ancora, potremmo procedere a ritroso sino alle geometrie dell’architettura islamica,[12] come nei motivi decorativi dei “Muqarna” (مقرنص) (fig.3), oppure nel tempio di Brihadeshwara in India (fig.4).

Fig. 3

Fig. 4

Guardando alla storia dei giardini ritroviamo un doppia correlazione omotetica: è frattale la morfologia vegetale (le nervature delle foglie), ma qualcosa di frattale struttura le complesse razionalizzazioni arboree dell’orto botanico di Padova costruito nel 1545 (fig. 5),[13] oppure i giardini cinesi e giapponesi in cui la morfologia del paesaggio “in miniatura” dovrebbe rispecchiare il buon ordine del cosmo.[14]


Fig. 5

Cosa fare di tutta questa casistica? Imitazione della natura o sforzo descrittivo? Puro fatto artistico-espressivo? Cimeli di un passato incommensurabile?

Mandelbrot fu capace di sistematizzare sotto un unico nome un “museo degli orrori”[15]: la curva di Peano (fig.6) che passa per tutti i punti di un quadrato - paradosso di una superficie finita racchiusa da un perimetro infinito; la polvere di Cantor; le intuizioni di Jean Perrin che nel 1913 parlava di “curve senza tangente”.[16]

Fig. 6

Da allora la matematica frattale si è sviluppata in ogni direzione: nello studio delle fluttuazioni finanziare e nell’analisi dei dati biochimici, nella modellazione di fenomeni complessi e, non ultimo, nello sviluppo della Chaos theory a cui Henri Poincaré (1854-1912) diede un impulso fondamentale.

Dove collocare quel “reiterato abuso” dei concetti matematici a cui ci siamo precedentemente richiamati?

Si osservi ciò che scrivono Deleuze e Guattari in Mille piani (1980): l’interdimensionalità non è soltanto l’indicatore della dimensione non intera delle figure frattali, ma è anche segno di un divenire, di qualcosa che si muove tra i piani, una “zona di indiscernibilità propria del ‘divenire’”.[17] Un “tra” in cui la variazione prende vita: tutto ciò che è frattale sembra vivere e germogliare.

Parafrasando il matematico italiano Ernesto Cesaro (1859-1906), si potrebbe dire che la curva di Koch, se fosse viva, rinascerebbe in ogni punto dalle sue profondità.[18]

Le figure frattali hanno tuttavia un limite di scala, non vanno dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo: è una legge matematico-empirica che i due filosofi francesi sembrano violare apertamente.[19] È ciò che spinse Sokal e Bricmont ad affermare che la filosofia non aveva compreso il concetto.

Eppure, per un altro verso, Deleuze e Guattari ripropongono con un’espressione nuova le leggi imposte da Leibniz quasi tre secoli prima: l’anima è specchio dell’universo, ma si percepisce soltanto interamente come ininterrotta variazione metamorfica, rispecchiamento in perpetuo divenire dell’universo sin nelle sue più intime e infinite fibre.

É come l’esempio del movimento della mano proposto da Henri Bergson (1859-1941) ne L’evoluzione creatrice (1941): esternamente appare come figura (meccanicismo) o progetto (finalismo), ma a entrambe le visioni “manca l’essenziale: il divenire”.[20] Per Deleuze e Guattari è la rivendicazione di uno spazio dove al predominio della geometria euclidea si sostituisce l’imprevedibile variabilità della Natura, qualcosa di essenzialmente generativo. Pascal, navigando angosciosamente tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, negava a sua volta le leggi imposte dalle vecchie corrispondenze simboliche micro e macro cosmiche a base di un solo infinito trascendente; Bruno contravveniva apertamente a una vecchia questio della scolastica secondo cui una creatura infinita era, per ciò stesso, contraddittoria.

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Dove arrestare questa violazione delle leggi determinate da ciascuna concettualizzazione?

C’è qualcosa di poetico, come scrive Franco Bifo Berardi: bisogna “far scivolare oltre il sistema stabilito dello scambio simbolico”.[21]

È proprio il filosofo italiano ad aver di recente risignificato la frattalità: segno sinistro - ma pur sempre segno - della frattalizzazione dei mercati e dello spazio pubblico (le bolle di cui si è tanto parlato non sono forse frattali?).

Riappare così l’ineliminabile figura di Leibniz: padre del contemporaneo panlogicismo metastabile e autovariante,[22] Berardi osserva che “gli individui sono frammenti di tempo precari, frattali uniformati dal processo di ricombinazione ininterrotta. […] il frattale automatizzato è il significato profondo dell’individualismo neoliberale”.[23]

Michel Serres (1930-2019), formatosi anch’egli su Leibniz, ha dato un nome a questo produttivo slittamento di principi, a questa non-regola dell’intromissione che sembra regnare anche nella storia della frattalità: parassitismo.[24]

Non dovrebbe sorprendere che anche il parassita sia frattale, è a un tempo parassitario e parassitato. Ed è sempre Michel Serres a chiedere: il parassita genera o corrompe il sistema?[25]

 

NOTE

[1] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali (1975), pp. 7-8. La curva di Kock è di dimensione=1,261859.

[2] B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, W. H. Freedman and company, San Francisco 1982, p. 404, p. 10.

[3] A. Sokal, J. Bricmont, Imposture intellettuali (1997), tr. it. F. Acerbi, M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999, p. 18.

[4] P. Portoghesi, Poesia della curva, Gangemi editore, Roma 2020, p. 61.

[5] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., pp. 21-44.

[6] B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, cit., p. 1.

[7] Ivi., p. 404.

[8] G. W. Leibniz, Monadologia (1720), tr. it. S. Cariati, Bompiani, Firenze 2017, p. 85, §56.

[9] Ivi, p. 89, §66.

[10] Si veda P. Portoghesi, Poesia della curva, cit., pp. 61-69.

[11] G. Deleuze, La piega (1988), tr. it. D. Tarizzo, Giulio Einaudi editore, Torino 1990, pp. 26-27. Per Irénée Scalbert anche l’arte gotica è contraddistinta da un principio di autosimilarità, si veda The nature of Gothic, AA Files, n. 72 (2016), pp. 73-77, 79-91, 93-95.

[12] P. Portoghesi, Poesia della curva, p. 62.

[13] Immagine tratta da L’invenzione del giardino occidentale, p. 56.

[14] Si veda P. Grimal, L’arte dei giardini (1974), Donzelli 2000, pp. 91-100.

[15] Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., p. 01.

[16] Mandelbrot, 1977, The fractal geometry of nature, cit., p. 07.

[17] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, p. 666. A p. 664,: “gli oggetti frattali” sono insiemi il cui numero di dimensioni è frazionario, non intero oppure intero, ma con variazione continua di direzione”. Mandelbrot scrive ne Gli oggetti frattali, p. 16, “là dove finora non si vedevano oche zone di transizione, […] io identifico delle zone frattali”.

[18] Si veda P. Portoghesi, Poesia della curva, cit., p. 64.

[19] Si veda B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, p. 783 e Gli oggetti frattali, pp. 21-44.

[20] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, 1941, p. 81. Un esempio degno di nota è proposto da Tim Ingold in Siamo linee, p. 62, dove scrive che “il suolo, nella sua infinita varietà, ha una qualità frattale”.

[21] F. Bifo Berardi, Respirare, Luca Sossella editore, Roma 2019, p. 20.

[22] Ivi, p. 63.

[23] Ivi, p. 77.

[24] M. Serres, Il parassita (1980), a cura di G. Polizzi, Mimesis edizioni, Milano 2022.

[25] Ivi, p. 40.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Bergson, H., L’evoluzione creatrice (1941), tr. it. F. Polidori, Raffaello Cortina editore, Milano 2002.
  • Bifo Berardi, F., Respirare, Luca Sossella editore, Roma 2019.
  • Deleuze, G., Guattari, F., Mille piani (1980), tr. it. G. Passerone, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
  • Deleuze, G., La piega (1988), tr. it. D. Tarizzo, Giulio Einaudi editore, Torino 1990
  • Grimal, P., L’arte dei giardini (1974), tr. it. M. Magi, Donzelli editore, Roma, 2000.
  • Ingold, T., Siamo linee (2015), it. D. Cavallini, Giovanni Treccani, Roma 2020
  • Leibniz, G., W., Monadologia (1720), tr. it. S. Cariati, Bompiani, Firenze 2017.
  • Mandelbrot, Benoît, “Is nature Fractal?”, Science, 1998, vol. 279, n. 5352, pp. 783-786.
  • Mandelbrot, B., Gli oggetti frattali (1975), a cur di R. Pignoni, Giulio Einaudi editore, Torino 2000.
  • Portoghesi, P., Poesia della curva, Gangemi editore, Roma 2020.
  • Scalbert, I., The nature of Gothic, AA Files, n. 72 (2016), pp. 73-77, 79-91, 93-95.
  • Serres, M., Il parassita (1980), a cura di G. Polizzi, Mimesis edizioni, Milano 2022.
  • Sokal, , Bricmont, J., Imposture intellettuali (1997), tr. it. F. Acerbi, M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999.
  • Vercelloni, M., Vercelloni, V., L’invenzione del giardino occidentale, Jaca Book, Firenze 2019.


Knowledge Management - Una visione critica tra antropologia e sociologia

Il concetto di Knowledge Management[1] - che comprende i sistemi e i processi di gestione della conoscenza di un’organizzazione - è un mito aziendale, un oggetto simbolico a cui si attribuisce il potere magico di “mettere a posto le cose”.

Proprio per questa dimensione mitica e magica, rischia di avere limitati spazi di applicazione pratica e di non mantenere le promesse che evoca.

Spesso l’obiettivo del KM è descritto con tre asserzioni che ne riassumono la promessa di valore:

  • “assicurare, in modo efficace, il passaggio del sapere dall’individuale al collettivo”
  • passare “dal sapere individuale al sapere collettivo”,
  • passare “dal sapere tacito al sapere esplicito”

A questa descrizione dell’obiettivo del KM manca solo l’efficienza, categoria di pensiero che, in pratica, significa “fare di più con un costo minore”

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Il percorso che seguo per spiegare perché sostengo che il KM è un mito che promette e che non mantiene, attraversa:

  1. una breve storia del concetto
  2. i suoi assunti di base applicati alle organizzazioni
  3. gli obiettivi e le promesse dei progetti di KM
  4. il corollario di queste promesse, ossia quali pratiche un KMS dovrebbe sostituire
  5. le difficoltà e le distorsioni incontrate in progetti di KM.

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1. Breve storia del concetto di Knowledge Management

Il KM  “è una disciplina aziendale che si riferisce alla gestione e alla condivisione della conoscenza tra esseri umani. Il Knowledge Management si affaccia sulla scena manageriale a partire dagli anni ’90 grazie al lavoro di due studiosi giapponesi: Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi”[2]; esso si focalizza su come poter mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro.

Questa logica spinge il knowledge management a diventare un sorta di “filosofia” della collaborazione e della condivisione negli ambienti di lavoro, tanto che Ikujiro Nonaka lo definisce come “un processo umano dinamico di giustificazione del credo personale, diretto verso la verità”[4].

Nella pratica, si tratta di “strategie e metodi per identificare, raccogliere, sviluppare, conservare e rendere accessibile la conoscenza delle persone che fanno parte di una organizzazione assume la moderna connotazione e prende il nome di knowledge management, o gestione della conoscenza organizzativa, avvalendosi di strumenti delle tecnologie dell’informazione sempre più sofisticati: i cosiddetti knowledge management system”[3].

I Knowledge Management System sono sistemi informatici che permettono di creare una biblioteca di argomenti e di informazioni relative al know-how di una organizzazione, di indicizzarli e di metterli a disposizione dei membri dell’organizzazione stessa con relativa facilità.

2. Assunti alla base

Ritengo che gli assunti più rilevanti alla base del concetto di KM siano:

  • che esista un corpus disciplinare, cioè un insieme di conoscenze, competenze, norme e procedure che descrive “come si fanno le cose”; il corpus disciplinare è necessario, senza di esso non si può fare Knowledge Management
  • che il corpus disciplinare sia completo, formalizzabile e riassuma quanto serve sapere per “fare le cose”
  • che si possa trascrivere il sapere specialistico delle persone in modo stabile, durevole, organizzabile, indicizzabile e leggibile, per renderlo fruibile - come e quando serve - da parte di altre persone, “che non sanno”.

3. Obiettivi e promesse

Si rilevano di frequente alcune promesse di valore del KM che riguardano più da vicino il modo d’essere delle organizzazioni:

  • oggettivare e formalizzare il sapere specialistico delle persone “che fanno un certo mestiere”
  • facilitare il trasferimento e la collettivizzazione del sapere
  • passare da “formare” sulle competenze a “addestrare alla consultazione”
  • ridurre la formazione e i tempi di apprendimento, imparando la funzione “cerca” e saper leggere
  • aumentare l’efficienza operativa grazie alla immediata e contestualizzata disponibilità di informazioni

È evidente che l’orizzonte di valore proposto dal concetto di Knowledge Management converge in questi due punti: ridurre i costi e svincolare l’organizzazione dai singoli attori depositari della conoscenza.

4. Corollario: l’illusione della sostituzione

Il concetto e i progetti di KM promettono, illusoriamente, di ridurre al minimo - con effetti positivi su tempo e costi:

  • la selezione, il reclutamento e l’onboarding di personale secondo criteri di adeguatezza al compito;
  • le sessioni di formazione;
  • l’apprendistato sul campo – con risparmio anche del tempo dell’esperto che fa e spiega;
  • le curve di apprendimento e l’inefficienza dei nuovi addetti;
  • la dipendenza dalle persone più senior con maggiori competenze e costi più elevati

Provo a fare un paio di esempi:

  • un frigorista che fa attività di assistenza e riparazione presso i clienti è “maturo” dopo circa un anno e mezzo di formazione, affiancamento, tentativi, errori, insuccessi. Dopo un anno e mezzo ha imparato abbastanza bene a riconoscere e diagnosticare i principali guasti, i rumori sospetti e le loro cause, i rischi di rottura a breve, i modi con cui tranquillizzare e vendere gli interventi al cliente.
  • un operatore di assistenza telefonica deve comprendere un insieme complesso di stati d’animo, problemi in primo piano e problemi impliciti, rischi di reclamo, esigenze, e discernere le migliori soluzioni da proporre al cliente, al telefono o via chat. La curva di apprendimento può essere di alcuni mesi e richiede sessioni di formazione, ascolto, counseling di colleghi esperti, imitazione comportamentale, errori e figuracce.

Ho visto personalmente manager seri e navigati emozionarsi all’idea che un buon sistema di KM riduca a 2 mesi il tempo di “messa sul campo” del neo-frigorista, ovvero che l’assistente telefonico possa rispondere in modo corretto e completo alle esigenze del Cliente dopo 2 ore di addestramento.

5. Difficoltà e distorsioni

È opportuno esaminare alcune difficoltà che si incontrano nei progetti di KM:

  • gli utilizzatori degli strumenti di Knowledge Management hanno a disposizione una raccolta ampia di informazioni, istruzioni, procedure, ma non sanno cosa cercare. Infatti, consultare una Knowledge Base richiede una conoscenza almeno superficiale del problema da affrontare; trovare risultati davvero pertinenti ed utilizzabili richiede una capacità di discernimento a volte molto elevata;
  • le informazioni messe a disposizione dell’utilizzatore sono spesso sterilizzate dalla formalizzazione; perdono la caratteristica espressione della forma di vita che le ha generate; sono opache rispetto alla realtà che rappresentano; possono essere superficiali o proceduralmente artificiose e burocratiche;
  • il sapere che viene messo a disposizione è – quindi – carente della componente “locale”, “indigena”; non contiene la forma pratica delle cose, quella generata dalla “conoscenza del corpo”[5][6]
  • le carenze e distorsioni vengono amplificate se l’opera di “registrazione e trascrizione” del sapere “di chi sa e sa fare” è affidata a tecnici esperti di metodologie di KM ma esterni al contesto di riferimento della conoscenza
  • tra gli effetti distorsivi nell’utilizzo si ritrovano: l’induzione di comportamenti stereotipati là dove l’intento è di generare degli standard comportamentali efficaci; errori di esecuzione indotti dall’oscurità, dalla formalizzazione o dalla burocratizzazione

Da un punto di vista economico, si presentano spesso due criticità:

  • i costi di realizzazione di un progetto di KM possono essere molto elevati e l’efficienza prodotta si può rivelare di un ordine di grandezza inferiore; il ritorno sull’investimento può essere molto lungo.
  • il costo di manutenzione necessario a garantire l’efficacia del KM può essere molto rilevante a causa del divario tra i contenuti della base di sapere iniziale e la realtà, che emerge con l’utilizzo dello strumento e dell’evoluzione della disciplina e del contesto che generano una attività continua di revisione della base di conoscenza e delle relative connessioni e indicizzazioni;

Queste due criticità possono ridurre in modo significativo i benefici di efficienza attesi, fino ad azzerarli.

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Un tentativo di conclusione

Possiamo quindi sostenere che il rischio di fallimento dei progetti di Knowledge Management sia determinato da:
a) l’illusione di completezza e fruibilità del sapere “riversato” nello strumento;
b) il sovradimensionamento degli obiettivi, come il desiderio di svincolare l’organizzazione dalle impegnative pratiche tradizionali di trasmissione del sapere basate su: la selezione di soggetti “adeguati”, l’onboarding, l’affiancamento, i tentativi, la correzione, la “conoscenza del corpo”;
c) l’affidamento a “espertiorizzontali” là dove il sapere disciplinare, sociale e culturale è palesemente verticale.

Il concetto di Knowledge Management, però, può risultare efficace e di successo se applicato in condizioni controllate, in una organizzazione, o in una rete di persone competenti in una disciplina, per depositare e trasmettere il sapere che sta intorno ai fatti operativi, raccolto in modo aperto, attivando direttamente i detentori, investendo nel loro tempo.

Le “condizioni controllate” sono: il dimensionamento corretto delle aspettative e l’inserimento in un contesto in cui lo strumento può essere valorizzato; la dimensione di valutazione può essere invece qualitativa: quanti e quali “fatti” all’interno di una certa disciplina possono essere catalizzati o facilitati e quanto significativi possono essere.

 

 

Note


[1] Glossario degli acronimi: KM sta per Knowledge Management, indifferentemente il concetto e gli strumenti; KMS per Knowledge Management System, inteso come strumento; KB sta per Knowledge Base, repository delle informazioni che costituiscono la base del KM; alcuni parlano di Knowledge Transfer Process e di Knowledge Transfer Management: mi sembrano assimilabili alla nozione di Knowledge Management.

[2] Knowledge Management: cos’e’ a cosa serve e che strumenti usa, https://www.aryanna.net/knowledge-management-2/#storia-del-km

[3] ibidem

[4] https://hbr.org/2007/07/the-knowledge-creating-company

[5] Nonaka I. (1991) The Knowledge-Creating Company Harvard Business Review, Nov.-Dec. 96-104; Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, The knowledge creating company: how Japanese companies create the dynamics of innovation, New York, Oxford University Press, 1995, p. 284, ISBN 978-0-19-509269-1.

[6] Jackson M., Conoscenza del corpo, tr. it. in Antropologia Culturale, i temi fondamentali, a cura di S. Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018

 

 

 

 

 


Perché ci chiamiamo ‘mammiferi’? Il persistere dei pregiudizi nella scienza

Contrariamente a chi pensa che scienza e società siano due sfere separate e portatrici di due tipi di conoscenza molto diversi, numerosi studi mostrano che invece esse si influenzano e contaminano reciprocamente.

Tant’è che le conoscenze scientifiche poggiano anche su conoscenze sociali (pregiudizi compresi); e viceversa.

Potrà meglio illuminare questa posizione (apparentemente blasfema) uno studio tratto dalla storia della biologia, pubblicato da Londa Schiebinger nel 1993 (nel American Historical Review, 98: 382-411), dal titolo Why Mammals are Called Mammals: Gender Politics in Eighteenth-Century Natural History. L’autrice, professoressa di storia della scienza presso il Dipartimento di Storia, della Stanford University (https://en.wikipedia.org/wiki/Londa_Schiebinger), sostiene che il termine mammalia (che potremmo rendere con l’espressione “che hanno il seno”) fu introdotto dal botanico svedese Linneo soltanto nella… decima edizione del Sistema Naturae (1758).

Quindi non nelle edizioni precedenti.

Tale termine cominciò a indicare quella specie che, da allora, conosciamo come mammiferi; mentre per secoli essi erano stati chiamati quadrupedi, secondo le indicazioni di Aristotele. Perché questo cambio di nome? Era proprio necessario? Peraltro Linneo, scegliendo quel termine, considerò solo una fra le diverse proprietà comuni ai mammiferi. Nonostante fosse adatta, a stretto rigore di termini, solo alle femmine di quella specie. Infatti Schiebinger sostiene che Linneo poteva ricorrere ad altre possibili definizioni equivalenti, quali: Pilosa (“che hanno peli”); Aurecaviga (“che hanno orecchie cave”); Lactentia (“che allattano”); Sugentia (“che succhiano”); Vivipora (“che allevano i piccoli”). Che tuttavia non scelse. Perché?

Peraltro, scegliendo Aurecaviga oppure Vivipora egli avrebbe individuato un attributo in comune fra uomini e donne (al contrario delle mammelle). Certamente il termine ‘mammifero’ suonava particolarmente bene foneticamente, per la facile assonanza di mammalia sia con il termine animalia che quello di mamma (forse la prima parola che i bambini imparano).

Nel cercare una spiegazione, l’autrice nota che la «fissazione di Linneo per le mammelle femminili”» (1993, p. 64) si inseriva in un più ampio processo culturale di erotizzazione del seno femminile che proprio in quegli anni giunse a compimento, con esiti ben visibili anche nella storia dell’abbigliamento.

Inoltre Linneo era anche politicamente schierato in una battaglia socio-culturale (nella quale egli era stato appena coinvolto) di reazione all’uso che andava diffondendosi fra le donne delle classi agiate di dare i figli da allattare alle balie. Proprio per arginare questo fenomeno, nel 1793 in Francia, e subito dopo in Prussia, fu promulgata una legge volta a promuovere l’allattamento materno. Tuttavia la pratica dell’allattamento da balia era ormai diffusa non solo tra le famiglie aristocratiche o quelle più ricche, ma anche in altre fasce sociali: infatti a Parigi e a Lione nel 1780 il 90% dei neonati andava a balia (Schiebinger 1993, p. 66).

Schiebinger osserva, inoltre, il differente trattamento che Linneo riserva al genere femminile e a quello maschile, visto che introduce l’espressione Homo sapiens per la nostra specie.

Questo passaggio è particolarmente interessante: se da una parte egli unisce la nostra specie agli altri animali mammiferi attraverso un attributo distintivo della donna (le mammelle), dall’altra per distinguere la specie umana da quella animale, usa un altro attributo pregiudizialmente (soprattutto ai tempi di Linneo) assegnato agli uomini: la ragione o razionalità. Anche se, sostiene Schiebinger, egli probabilmente non era consapevole della scelta politica che lo stava guidando nella sua classificazione.

Inoltre Linneo riteneva l’allattamento “mercenario” una catastrofe sociale, mentre l’allattamento al seno derivava da una legge naturale; quindi, una pratica benigna sia per il neonato che per la madre. Tuttavia, questa battaglia nascondeva una più generale avversione all’emancipazione femminile, al fine di ricondurre la donna al ruolo domestico tradizionale. Se pensiamo che a quel tempo una donna faceva (mediamente) 7-8 figli, questo comportava il suo allontanamento dal lavoro pubblico per almeno una decina d’anni.

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In conclusione, nel campo scientifico spesso si usano termini e classificazioni che hanno un fondamento profondamente sociale (con pregiudizi annessi) e che continuano ad essere attive anche quando questi pregiudizi sono superati.

Per cui scienza e società sono fortemente compenetrate. Nel bene e nel male. Che lo si voglia o no.


Giocattoli di genere - Psicologia e influenza sociale

La psicologia, la filosofia e la sociologia hanno documentato come i giocattoli per l’infanzia siano portatori di modelli sociali legati al genere. In questa sede, ci concentreremo prevalentemente sul gioco in età infantile, cercando di esaminare non solo come esso trasmetta stereotipi di genere già in questa fase della vita, ma anche come sia un momento molto importante nei processi di sviluppo per bambini e bambine.

Innanzitutto, cos’è il gioco? La Treccani lo definisce così: “esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche”[1]. Se diamo a questa definizione generica una sfumatura, funzionale allo scopo di questo post, potremmo aggiungere che il gioco non è un’entità statica ma si modifica, mutando i propri contenuti e la loro fruizione, al variare dei contesti (socioculturali, anagrafici ecc.).

Andiamo ad approfondire il discorso esaminando alcune riflessioni psicologiche sul fenomeno del gioco:

  • Secondo H. Spencer (1820-1903), attraverso il gioco si bruciano le energie che si dovrebbero consumare nella lotta per la sopravvivenza; lotta che gli esseri umani non attuano più, in quanto “evoluti”. C’è dunque un patrimonio energetico che non si sfrutta più, ma che deve essere scaricato «in modo istintivo»[2]; il suo sfogo è individuato nell’attività ludica, grazie alla quale «il bambino sprigiona l’eccesso di energia psichica accumulata»[3].
  • La “teoria catartica” di S. Freud (1856-1939) e A. Adler (1870-1937) afferma che «il gioco avrebbe la funzione di liberare l’individuo da tendenze o istinti incompatibili con le esigenze della vita sociale»[4]. Inoltre, lo stesso Freud «per primo ha posto in evidenza la funzione del gioco come manifestazione simbolica di disturbi profondi, di un conflitto psichico inconscio che richiede risoluzione»[5].
  • Winnicott (1896-1971) «ha studiato lo sviluppo del bambino e le diverse fasi che lo contraddistinguono a partire dal grado di dipendenza del bambino dalla figura di accudimento. Egli ha sottolineato come il gioco permetta al bambino di prendere consapevolezza di sé stesso e, attraverso la creatività, di imparare a conoscersi»[6].

Per quanto riguarda le teorie dello sviluppo, citiamo:

  • Per K. Groos (1861-1946), il gioco è un bisogno innato che ha valore di esercizio preparatorio alla vita adulta (spesso, infatti, i bambini si divertono a imitare il comportamento dei “grandi”). Pertanto, «con il gioco, […] il bambino acquisisce abilità e schemi mentali man mano più complessi che risultano indispensabili per condurre una vita autonoma»[7].
  • Vygotskij (1896-1934) ritiene che il gioco abbia una funzione fondamentale per lo sviluppo del bambino su più livelli (cognitivo, emotivo e sociale)[8]. Egli evidenzia, inoltre, «come nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenti per il bambino un utile strumento per la gestione dell’emotività ansiogena e per la realizzazione di desideri insoddisfatti, mentre si sta relazionando con difficili compiti evolutivi, quali la differenziazione e il distacco dalla figura materna, la scoperta del Sé, la dilazione dei propri desideri»[9].
  • Secondo J. Piaget (1896-1980), il gioco ha «la funzione di palestra di sviluppo, di esercitazione attiva e interattiva con l’ambiente, in grado di apportare competenze e abilità all’individuo in stretta correlazione con lo sviluppo neurobiologico e cognitivo del medesimo»[10]. In breve: «il giocare muta nella sua forma con il crescere del fanciullo»[11]; rimarcando così «una corrispondenza diretta tra gioco e sviluppo mentale del bambino»[12]. La teoria di questo autore prevede dunque degli stadi, secondo cui «il bambino matura superando una serie di tappe»[13].

Dal punto di vista sociale, infine, riportiamo:

  • Fröbel (1782-1852) ritiene che il gioco sia lo strumento grazie al quale il bambino si relaziona sia col mondo esterno, sia con gli altri individui[14].
  • Huizinga (1872-1945) «ha considerato il gioco come il fondamento della cultura e della vita umana organizzata in società»[15]; per questo autore, l’essere umano «è soprattutto Homo ludens più che sapiens»[16].
  • Caillois (1913-1978) distingue quattro categorie:
    • «Giochi di competizione (agon): tutte le gare in generale»[17], fisiche e mentali;
    • «Giochi di fortuna (alea): dove il fattore primario è il caso»[18] (lotterie, scommesse, gioco dei dadi, “testa o croce” ecc);
    • «I giochi incentrati sulla finzione e il mimetismo»[19], definiti «di simulacro (mimicry)»[20], nei quali si imita qualcun altro (rientrano in questa categoria, per esempio, anche i giochi dove i bambini emulano le attività degli adulti);
    • «Giochi di vertigine (ilinx)»[21], dove vengono sfidati il pericolo e le leggi fisiche come, per esempio, gli sport estremi.

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Questa carrellata di teorie e di pensatori permette di capire come il gioco sia un’attività complessa, dalle infinite finalità e sfaccettature, e che sia un’occupazione decisamente più “seria” di quanto saremmo portati a pensare a prima vista. Essa coinvolge numerose abilità, impegnandoci sotto diversi punti di vista. Non a caso, «la principale caratteristica delle ricerche psicologiche degli ultimi decenni del 20° sec. è la rinuncia a una spiegazione unitaria ed esaustiva del significato psicologico del gioco»[22]; pertanto, «viene riconosciuta l’esistenza di forme distinte di gioco: ciascuna di esse assolverebbe diverse funzioni psicologiche, utili alla crescita fisica e psichica dell’individuo, oltre che all’adattamento e alla sopravvivenza della specie»[23]. Ricordiamo, inoltre, che i giochi di gruppo e i giochi sociali permettono relazioni interpersonali e stimolano attività condivise, ma possono creare ruoli e gerarchie; ed è proprio su questi concetti (ruoli e gerarchie) che ci dobbiamo soffermare per proseguire nell’esposizione.

Esaminiamo ora la nostra società, approfondendo il tema dei giocattoli e analizzando le imposizioni sociali che essi trasmettono a bambini e bambine, con particolare riferimento al genere.

Sotto un punto di vista evoluzionistico anche il genere sessuale e le caratteristiche temperamentali svolgono un ruolo discriminante a livello dell’evoluzione e della sperimentazione ludica, creando differenze tra maschi e femmine evidenti già dall’età infantile: i maschi sono infatti più orientati ad attività aggressive, competitive, realizzate singolarmente e basate sul movimento, sulla scoperta, sull’azione e la sperimentazione concreta, mentre le bambine appaiono propense a giochi realizzati in gruppo e fondati sull’accudimento, l’immaginazione, la cooperazione; tale differenza sembra generalmente dovuta ad una serie di influenze ambientali/esperienziali che rendono le femmine soggette ad un’educazione più improntata al controllo emotivo e alla bassa competizione rispetto al corrispondente maschile.[24]

Il discorso che ora dobbiamo affrontare prende le mosse dalla consapevolezza che i giocattoli sono (anche) uno strumento di controllo e conformismo sociale, costruiti per trasmettere (nonché conservare) modelli, ruoli e gerarchie fin dall’infanzia. Infatti, «è chiaro che anche i giocattoli sono fruitori di stereotipi di genere, intesi come rappresentazioni semplificate e riduzionistiche della realtà, socio-culturalmente condivise, che attribuiscono determinate caratteristiche agli uomini, alle donne e ai rapporti tra loro»[25]. Finalmente ci siamo: anche i giocattoli sono fautori di binarismo di genere! (Per intenderci: «si definisce binarismo di genere quella rigida distinzione tra maschile e femminile, uomo e donna, da cui deriva una altrettanto rigida aspettativa su quali debbano essere i comportamenti, gli atteggiamenti, l'aspetto, l'abbigliamento, i compiti di uomini e donne, chi debbano amare»[26]).

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Come si applicano le osservazioni e le analisi compiute fino a questo punto con uno sguardo su possibili sviluppi futuri?

Iniziamo parlando di “COFACE Families Europe”. Esso è un network che lavora per garantire pari opportunità e benefici a tutte le famiglie; co-fondato dall’Unione Europea, tra i suoi valori fondanti troviamo, per esempio, la non-discriminazione (il riconoscere tutte le forme di famiglia), il rispetto dei diritti umani e l’inclusione sociale. Vediamo adesso uno studio che ha coinvolto questa organizzazione:

"Con COFACE Families Europe lo scorso dicembre 2015 abbiamo lanciato una campagna sui social media, chiedendo a genitori e a chiunque volesse partecipare di inviarci foto di giocattoli e pubblicità, che mostrassero esempi positivi o stereotipi. La campagna, con l’hashtag #ToysAndDiversity ha avuto un buon successo e abbiamo deciso di andare più a fondo, con uno studio che ci facesse avere un’immagine più chiara di cosa ci fosse in Europa.

I primi anni della vita di un bambino sono fondamentali per il suo sviluppo e il gioco e i giocattoli contribuiscono a formare la personalità e gli interessi del bambino, influenzando così anche le scelte che farà nel suo futuro. Abbiamo quindi deciso, per cominciare, e per avere materiale abbastanza omogeneo, di guardare i cataloghi di giocattoli in diversi paesi europei. Con l’aiuto delle ONG che sono membri [sic] della rete di COFACE, con l’esperienza della campagna inglese “Let Toys Be Toys” e con il supporto scientifico di due professoresse universitarie, abbiamo raccolto i cataloghi e creato un questionario, composto da oltre 200 domande) che ci servisse per analizzarli."

Un anno dopo, ecco i risultati.

"Abbiamo analizzato le immagini di 3125 bambini in 32 cataloghi di 9 paesi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.

  • 12 cataloghi erano divisi in sezioni “per maschi” e “per femmine”. 20 cataloghi non avevano questa divisione formale ma le sezioni e i giocattoli per maschio/femmina erano facilmente individuabili con il colore delle pagine (rosa e colori pastello per le bambine, colori più scuri e marcati per i bambini), dall’associazione di giocattoli nella stessa pagina (bambole e peluche per le femmine, treni e dinosauri per i maschi).
  • i maschi erano almeno due terzi dei bambini presenti in 5 sezioni (su 13 in cui era diviso il nostro questionario): videogames (67%), costruzioni [sic] (69%), droni (72%), macchine e mezzi di trasporto (74%), guerra e armi (88%). Le femmine erano più di due terzi del totale solo in due sezioni: attività di cura, bambole (87%) e prodotti di bellezza (94,5%). Nelle altre sezioni, sebbene i numeri siano più bilanciati, si possono vedere delle grandi differenze guardando con quali giochi sono rappresentati i maschi e le femmine all’interno della stessa sezione (es. nella sezione “animali” i maschi giocano con dei dinosauri, le femmine coi peluche).
  • La sezione dei costumi e maschere è particolarmente interessante: nei cataloghi divisi tra […] maschi/femmine, la sezione per maschi aveva costumi per supereroi, personaggi di film e cartoni animati e professioni, come dottore, pompiere, poliziotto…, la sezione per femmine aveva un numero ridotto di personaggi dei cartoni e professioni e un altissimo numero di principesse. Nei cataloghi formalmente non divisi, maschi e femmine apparivano vestiti, in pagine diverse, con lo stesso tipo di vestiti proposti nei cataloghi con categorie separate. Due proposte quindi completamente diverse. Ma se scegliamo noi per loro, proponendo solo una parte delle maschere e dei costumi disponibili, non stiamo influenzando le loro scelte? Non stiamo già dicendo come “è normale” che si immaginino?

[…]

  • Sui 3125 bambini, 2908 sono stati identificati come bianchi, 120 neri, 59 di famiglie miste, 31 asiatici, 7 medio-orientali. Su 3125 bambini, nessuno aveva disabilità visibili." [27]

COFACE Families Europe si è impegnata, nel tempo, a promuovere campagne di sensibilizzazione sugli stereotipi trasmessi nei giocattoli rivolgendosi a diversi settori chiave, con lo scopo di sottolineare quanto sia importante che bambini e bambine decidano liberamente con cosa giocare, che non vengano limitati nel loro divertimento da imposizioni e pregiudizi[28].

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Esaminiamo adesso altri casi, che mostrano come (forse) le cose stiano cambiando:

  • Il 25 settembre 2019, l’azienda di giocattoli Mattel lancia sul mercato una nuova bambola “gender free”, descritta come «né maschio né femmina» e «libera di essere come vuole, senza etichette»; l’idea alla base di questo prodotto è quella di pensare un mondo più inclusivo, che oltrepassi i vecchi stereotipi. Infatti, si può creare un numero elevato di bambole, grazie alle molteplici possibilità di personalizzazione (il colore della pelle, i capelli, gli indumenti ecc.), nonché a una corporatura definita “neutra”, permettendo così a bambini e bambine di liberare la propria fantasia[29].
  • In Francia, nel 2019, una spiacevole consapevolezza ha portato a dei cambiamenti importanti. Infatti, «la mancanza di rappresentazione femminile scoraggerebbe le bambine nel perseguire una carriera nei campi delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)»[30]; tra i responsabili di questo problema sono stati individuati anche i messaggi trasmessi dai giocattoli per l’infanzia, i quali possono portare a cattiva comunicazione, ponendo il focus su una ristretta narrazione del mondo: «molto spesso, infatti, le bambine vengono associate a cucine, bambole, casette, che rimandano all’ambiente domestico, come a dire che da adulte saranno madri e donne di casa, al contrario dei maschietti, più di frequente raffigurati davanti a un microscopio»[31]. Così, il cambio di rotta: «l’accordo per una rappresentazione nel mondo del giocattolo più equilibrata è stato firmato dal governo francese, dalla Federazione Francese dei produttori di giocattoli e dalle associazioni di settore»[32]; uno statuto, quindi, che dovrebbe abbattere gli stereotipi di genere. Infatti, «i giocattoli legati alla scienza e alla tecnologia prodotti d’ora in avanti dovranno […] includere le ragazze e, che bella novità, i giochi legati alla sfera domestica dovranno includere anche i maschietti»[33]. Infine, sottolineiamo che «le nuove linee guida punteranno […] a spostare le attenzioni dei giocattolai verso il potenziale dei bambini e ciò che amano»[34].
  • Nel 2021, dopo aver commissionato un sondaggio internazionale, la Lego annuncia che eliminerà gli stereotipi di genere dai suoi giocattoli. È emerso, infatti, che «mentre le bambine sono sicure di sé e pronte a giocare anche con le confezioni di mattoncini pensate per i maschi, il 71% dei bambini intervistati ha confessato di temere di essere presi in giro qualora avessero utilizzato scatole descritte come “giocattoli per ragazze”»; l’articolo riporta, inoltre, che questa è «una paura […] condivisa se non più accentuata nei genitori». La Lego, insieme al togliere le etichette di genere sui suoi giocattoli, ha diviso i giochi per “passione”.[35]

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È giunto il momento di tirare le conclusioni. Lo scopo di questo articolo è di esporre il delicato tema dei giocattoli per l’infanzia, cercando di mostrare il grande potere che tali strumenti hanno nella creazione di un conformismo collettivo, che ci influenza fin da piccoli. Per esporre le mie riflessioni in modo efficace, ho voluto iniziare con un’analisi del fenomeno “gioco”, in modo da falsificare i miti che lo vogliono vedere solo come un momento di svago fine a sé stesso; successivamente, ho voluto studiare la società in cui ci muoviamo. Come ho cercato di mostrare, le influenze sociali sono ovunque, immateriali e silenziose, ma ci plasmano in ogni momento della nostra vita dicendoci, per esempio, cosa pensare, dove andare, chi vedere ecc. E’ il prezzo da pagare per vivere in una società ordinata e non caotica. Tuttavia, voler comprendere questi schemi intorno a noi è il primo passo per una maggiore consapevolezza, grazie alla quale si può fendere il velo che avvolge la superficie delle cose, scavando più in profondità e accedendo così a un mondo completamente nuovo, invisibile e sotterraneo. È fondamentale, infatti, imparare a riflettere e a decostruire i modelli sociali, guardare la realtà con occhio attento e critico, non pensare che sia tutto immutabile, ma capire che la linea di demarcazione può essere rinegoziata e spostata «sempre un po’ più in là...» (per citare una raccolta di storie di Corto Maltese). I giocattoli, per tornare a noi, sono dunque uno dei tanti modi con cui siamo bombardati da influenze e scelte che (forse) in realtà non ci appartengono, tra l’altro in un periodo della nostra vita davvero importante: avere (o non avere) determinati stimoli in età infantile può plasmare gli adulti che saremo. Se è vero che il giocare prepara i piccoli alla vita “da grandi”, è innegabile che molti giocattoli in commercio assolvono a questa funzione, ma al costo di incanalare bambini e bambine nei ruoli che la società ha costruito per loro e per la loro vita futura, stabilendo che tipo di adulti saranno e discriminando chiunque non si conformi a questa collocazione. I giocattoli, pertanto, aprono un’interessante finestra sulla nostra stessa realtà sociale, sul mondo in cui viviamo, con tutti i suoi stereotipi da individuare (sono ben nascosti), esaminare, comprendere e, lo ripeto, decostruire.

 

Note e Bibliografia

[1] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[2] https://www.studenti.it/gioco-in-pedagogia-come-strumento-educativo.html

[3] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[4] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[5] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[6] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[7] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[8] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[9] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[10] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[11] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[12] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it)

[13] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[14] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[15] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[16] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivi in origine)

[17] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[18] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[19] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[20] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[21] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[22] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[23] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[24] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[25] Sinapsi - Spiderman non è una principessa e non è rosa... eppure ad Emma piace! Gli stereotipi di genere nei giocattoli (unina.it)

[26] Sinapsi - Binarismo di genere: fin dove possono spingersi le sue conseguenze? (unina.it)

[27] Stereotipi di genere: l'educazione inizia dai giocattoli - Netural Family-Attività per bambini a Matera e proposte innovative per famiglie felici.

[28] #ToysAndDiversity | COFACE Families Europe (coface-eu.org)

[29] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: Barbie, arriva la bambola "gender free": "Libera da ogni etichetta perché i bambini sono contrari agli stereotipi" - Il Fatto Quotidiano

[30] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[31] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe

[32] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[33] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe

[34] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[35] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: La Lego annuncia, niente più etichette di genere sui giocattoli - Notizie - Ansa.it


"Terre contese". Controversie e orizzonti per la biodinamica

“Coltivare con l’abracadabra. Soldi pubblici all’agricoltura biodinamica”.[1] Questo è uno dei titoli che si poteva trovare sui quotidiani nel maggio del 2021. Il tutto nacque  dalle accuse di stregoneria rivolte all’agricoltura biodinamica da una senatrice in occasione del dibattito sul Ddl 988 Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico.[2] Obiettivo delle accuse era emendare l’equiparazione dell’agricoltura biodinamica a quella biologica, contenuto nell’articolo 1, comma 3 del Ddl.

In questo post[3] vorrei riportare quanto ho appreso indagando nella letteratura su questa agricoltura, oltre a mostrare alcuni esempi dalla ricerca biodinamica che permettono di farsi un’idea delle metodologie utilizzate, ben distanti da magia e stregoneria. Mi preme però descrivere lo sviluppo del dibattito pubblico e parlamentare, rimasto purtroppo molto superficiale.

La prima anomalia di questo dibattito riguarda l’asimmetria delle posizioni. A partire dal 20 maggio 2021, fino a circa la fine del mese successivo, alcune delle radio più importanti per numero di ascolti dedicarono uno spazio solamente all’accusa, supportata da un esperto (più o meno del settore). Sui quotidiani (cartacei e online) su un totale di 22 articoli comparsi, solo 4 davano spazio a voci in difesa dell’agricoltura biodinamica. Dei 12 giornali che ho seguito in quel periodo, solo 3 presentavano un dibattito; i restanti 9 diedero spazio solo all’accusa, alla critica se non alla ridicolizzazione di questo tipo di approccio all’agricoltura.

In generale lo spazio dato agli esponenti dell’agricoltura biodinamica fu pressoché nulla. Anche grazie a questa asimmetria nell’informazione si è riusciti a deviare l’attenzione da ciò che era davvero in gioco. I difensori del disegno di legge precisavano come quest’ultimo fosse stato scritto dalla commissione parlamentare competente a seguito di audizioni con numerosi esperti. In esso si prescriveva l’equiparazione del biodinamico al biologico nei limiti in cui rispettasse la normativa europea vigente per il biologico. Il biodinamico si inseriva quindi in un piano di normazione più ampio, che garantiva il controllo di qualità e produzione.

La disparità del trattamento mediatico, il richiamo alla Scienza e la caccia alle streghe nel “paese di Galilei” hanno permesso la creazione di un fronte compatto di opposizione al decreto, che ha spinto anche i rappresentanti dei partiti inizialmente sostenitori del Ddl a ritrarsi davanti alle accuse, permettendo all’emendamento (che eliminava ogni riferimento alla biodinamica dal testo) di venire approvato.

Ma che cos’è l’agricoltura biodinamica? Essa nasce da alcune indicazioni operative del filosofo Rudolf Steiner (1861-1925), date agli agricoltori in un serie di conferenze, poco prima di morire nel 1925. Queste indicazioni si rivolgevano alla messa in opera di un nuovo modello di agricoltura, biodinamica appunto. L’agricoltura biologica ancora non esisteva; nascerà successivamente derivando conoscenze e esperienze dall’agricoltura biodinamica. La morte di Steiner non permise una revisione delle indicazioni emerse dalle conferenze, né Steiner lasciò alcun testo sistematico sull’argomento. Tutto quel che circola sono testi redatti dagli uditori, senza una revisione da parte di Steiner; nel dibattito, questo punto essenziale è stato sottaciuto, preferendo far discendere direttamente le pratiche da presunti scritti di Steiner.

Lo sviluppo sperimentale della biodinamica, invece, fu seguito da scienziati e docenti universitari tra i quali: il chimico Ehrenfried Pfeiffer (1899-1961), laurea honoris causa in Medicina e professore di Scienza della nutrizione; la microbiologa Lili Kolisko (1889-1976) e Eugen Kolisko (1893-1939), medico e docente di Chimica medica dell’Università di Vienna. La prima formalizzazione matematica dei principi che sono alla base della biodinamica fu del matematico George Adams, poi laurea ad honorem in Chimica a Cambridge.

Oggi il metodo biodinamico è particolarmente diffuso in Germania - dove la biodinamica è presente in tutte le facoltà di agraria – e la sua ricerca e sperimentazione sono presenti in molte università e centri di ricerca accreditati in Olanda, Svizzera, Svezia, Danimarca, Australia, Stati Uniti e Egitto. Dal 2005 è stato costituito il Biodynamic Research Network, esso federa diversi centri di ricerca operanti nel biodinamico in tutto il mondo.[4]

In Italia gli agricoltori biodinamici sono più di 4000 (stime Mipaaf). Per quanto riguarda la ricerca, esistono molti scienziati e ricercatori impegnati (a titolo di esempio si vedano le numerose pubblicazioni sull’humus del chimico prof. Alessandro Piccolo, vincitore del premio Humboldt per la chimica)[5], ma nessun centro o istituto riconosciuto come competente da parte dello Stato Italiano. In Europa la certificazione biodinamica viene rilasciata dall’ente certificatore Demeter all’azienda agricola che soddisfi i requisiti richiesti, tra questi l’utilizzo dei tanto citati corni di mucca ripieni di letame o quarzi di silicio. Questi ultimi sono definiti “preparati biodinamici” e vengono utilizzati in minime dosi nella funzione di “bio-regolatori” per incentivare la vita dell’hummus oltre che  crescita, salute e qualità di piante e animali.

È importante notare che non c’è nessuna pretesa di stregoneria (sembrerà banale) nel biodinamico. Al contrario, non si esime dal confronto con il regime scientifico vigente, prestandosi ad analisi quantitative e persino proponendo nuovi metodi di misurazione dei risultati ottenuti. Warner (2008), ad esempio, sostiene che le agricolture organiche si propongono da un lato di introdurre nuovi mezzi per la ricerca scientifica, e dall’altro adottano e plasmano gli strumenti della scienza ridefinendola e ampliandone la partecipazione. [6]

Due brevi esempi possono dare un’idea del panorama della ricerca biodinamica.

Il primo è uno studio pubblicato nel 2013 da Giannattasio, Vendramin e Fornasier. Studi precedenti avevano rilevato gli effetti positivi per la qualità del suolo dei preparati 500 (il vituperato cornoletame) e 501.[7] Lo studio in questione si rivolge invece all’analisi microbiologica del suolo trattato con questi preparati, evidenziandone l’effetto auxino-simile (auxin-like, auxine sono i fitormoni che regolano crescita e sviluppo delle piante), almeno pari a quello di alcuni dei principali fertilizzanti di sintesi in commercio.[8]

Secondo esempio è una ricerca del 2019, collaborazione tra il centro di Darmstadt per la ricerca biodinamica e l’Università di Bonn.  A conclusione della ricerca - che riporta alcuni riscontri positivi nel nutrimento del suolo a livello di macromolecole, in linea con lo studio citato poco sopra - gli autori suggeriscono alcune implementazioni negli strumenti di ricerca, nel tentativo di studiare gli aspetti qualitativi dei cibi prodotti e il loro apporto al nutrimento dello spirito. Uno di questi è l’utilizzo della cristallografia per studiare la corretta formazione dei vegetali durante la fase di crescita. Altra proposta è quella di un “Empathic Food Test” che possa standardizzare l’apporto emotivo-spirituale di questi cibi per il consumatore, interrogando lo stesso.[9]


In conclusione, il dibattito pubblico e parlamentare italiano si è presentato inquinato da pregiudizi, incomprensioni e da una certa dose di malafede, mossi da interessi che certo non rappresentano l’interesse del consumatore, della sua salute e quella dei nostri ecosistemi. La vicenda rappresenta un’occasione mancata, l’ennesima, per discutere dati alla mano di un fenomeno sempre più emergente.

L’esclusione della biodinamica dalla legge ormai approvata non limita il lavoro degli agricoltori e dei ricercatori biodinamici. Essi possiedono tutti la certificazione di produzione biologica e operano secondo la relativa normativa.

La legge esclude però la biodinamica dai fondi per la ricerca e da una normalizzazione, operando una discriminazione che si ripercuote sulle capacità della società intera di approfondire il fenomeno e godere dei suoi frutti.

 

 

Note

[1] https://www.huffingtonpost.it/economia/2021/05/22/news/coltivare_con_l_abracadabra_soldi_pubblici_sull_agricoltura_biodinamica-5150276/

[2] Oggi legge Legge 23/22 del 9 marzo 2022. L’iter della legge è riassunto alla pagina internet del Senato al seguente indirizzo: https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51061.htm

[3] Questo lavoro riprende precedenti ricerche fatte in occasione di un incontro tenuto all’interno del Circolo di Milano, gruppo informale di ricerca in Sociologia delle Scienze dell’Università degli Studi di Milano.

[4] In Olanda abbiamo l’Università di Wageningen e il Louis Bolk Instituut, sorto nel 1976 a Driebergen.
In Germania, l’Università di Hohenheim ha una sua azienda agricola (denominata “Klein Hohenheim”) dedicata alla ricerca in biodinamica. A Darmstadt, l’istituto di ricerca Forschungsring für Biologisch-Dynamische Wirtschaftsweise, opera dal 1950; negli stessi anni si avviarono i lavori al Forschung & Züchtung Dottenfelderhof, (Bad Vilbel, Francoforte); nell’Università di Kassel, risiede un centro di ricerca per la biodinamica.
In Svizzera sono presenti la Sezione di Scienze Naturali, la Sezione di Agricoltura e il Forschungsinstitut am Goetheanum a Dornach (vicino a Basilea), in attività dai primi anni Venti del Novecento. Nello stesso paese ha sede il FiBL – Forschungsinstitut für biologischen Landbau. In Svezia vi è il Biodynamic Research Institute a Ierna, sorto nei primi anni Cinquanta.
Nel Regno Unito vi è l’Università di Conventry. In Danimarca, il Biodynamisk Forskningsforening, ente di ricerca riconosciuto dallo Stato, sorto nel 1997. In Australia, il Bio-dynamic Research Institute, fondato nel 1952 e riconosciuto dallo Stato.
In Egitto vi è un corso di laurea in agricoltura biodinamica con sede nella Heliopolis University, presso il          Centro Sekem.
Negli USA, Paese dove la ricerca fu avviata fin dagli anni Trenta, esistono  il Michael Fields Agricultural Institute, il Josephine Porter Institute e il Rodale Institute.

[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Piccolo_(agricultural_scientist), https://generiamosalute.it/ecologia-e-ambiente/agricoltura-biodinamica-e-cornoletame-le-basi-scientifiche/

[6] Warner, Keith. 2008. “Agroecology as Participatory Science: Emerging Alternatives to Technology Transfer/Extension Practice.” Science, Technology & Human Values 33(6):754–777.

[7] Entrambi i preparati 500 e 501 sono inclusi nella lista di materiali e tecniche permesse nell’agricoltura biologica dalla regolamentazione della Commissione Europea 834/2007.

[8] Giannattasio M, Vendramin E, Fornasier F, et al. Microbiological features and bioactivity of a fermented manure product (preparation 500) used in biodynamic agriculture. J Microbiol Biotechnol. 2013;23(5):644-651. doi:10.4014/jmb.1212.12004  L’articolo è open-access e fruibile a tutti, quantomeno nelle parti meno tecniche di discussione.

[9] Brock, Christopher, Uwe Geier, Ramona Greiner, Michael Olbrich-Majer, and Jürgen Fritz. “Research in Biodynamic Food and Farming – a Review.” Open Agriculture 4, no. 1 (2019): 743–757.


Ripensare la scienza - Un programma di lavoro

Da qualche anno la scienza è diventata un tema centrale nelle conversazioni quotidiane, nei talk show, nei quotidiani e nei social. Non era mai successo prima.

Quello che (almeno all’apparenza) dovrebbe essere un fenomeno positivo, in realtà nasconde diversi pericoli: semplificazione dei contenuti, banalizzazione dei temi, visione poco realista della scienza stessa. Spesso si scambia l’essere (della scienza) con il suo dover essere.

Ciò fa male sia alla scienza (nella storia certi idealismi sono stati nefasti) che alla società, che in questi ultimi anni è diventata sempre più divisa, dicotomica, contrapposta.

Questo blog (fatto da student* e studios* delle pratiche scientifiche) intende portare un contributo per contrastare e invertire questa recente tendenza, di sapore neopositivista. Essa è costituita da una retorica infarcita di espressioni quali “fake news”, “post-verità”, “pseudoscienze”, “realtà dei fatti”, “evidence-based…”, “anti-scientifico”, “naturale”, “oggettivo”, ecc. Una costellazione di termini tesa a fornire una visione rassicurante della scienza, pensata come impresa dai confini precisi e dai risultati inequivocabili, e a demonizzare i pensieri divergenti.

Le conseguenze sono un ritorno a una visione ingenua della scienza, il riaffacciarsi di un certo dogmatismo, maggiori ostacoli alla libertà di pensiero e a chi esercita il dubbio metodico e il pensiero critico, la sistematica delegittimazione (e, talvolta, gogna mediatica) di pensatori non allineati, un eccesso di fiducia nella tecnologia. Tuttavia, l’effetto più preoccupante è la polarizzazione dei punti di vista, cioè la riduzione della complessità e molteplicità delle posizioni (su una questione) a due soltanto: scientifiche e anti-scientifiche, razionale e irrazionale, pro o contro.

Nel frattempo notiamo anche il riemergere dello scientismo, quell’atteggiamento intellettuale in base al quale il sapere scientifico dev’essere a fondamento di tutta la conoscenza in qualunque dominio, anche in etica e in politica. Visione verso cui si scagliarono, con accenti diversi, il premio Nobel per l’economia (1974) Friedrich von Hayek, i filosofi Karl Popper, Hilary Putnam e Tzvetan Todorov, e i sociologi Max Horkheimer  e Jürgen Habermas. La deriva scientista porta a pensare che di qualsiasi tema (scientifico, sociale, politico, etico ecc.) se ne debbano occupare solo gli “esperti”, gli unici ad avere le conoscenze adatte per affrontare i problemi e risolverli. E a lamentare il fatto che i politici ascoltano troppo poco gli scienziati e gli esperti, prefigurando i governi tecnocratici come quelli più adatti.

Questo blog, ricordando la lezione parzialmente dimenticata della "nuova filosofia della scienza" (Hanson, Kuhn, Feyerabend) e accogliendo i risultati degli studi sociali della scienza (Bloor, Latour, Collins) intende presentare una visione più equilibrata della scienza: pur riconoscendone la sua specificità, vuole anche far luce sulla sua natura di impresa umana, radicata nello spirito dei tempi. Storicizzazione e sociologizzazione della scienza (cioè pensare la scienza e la tecnologia come imprese culturali e collettive) non vanno considerate come qualcosa di negativo, ma semplicemente come un processo inevitabile, inerente a qualsiasi impresa umana (senza eccezioni). Anzi, è solo attraverso il riconoscimento del carattere sociale della scienza che sarà ripristinato un rapporto più equilibrato con la essa (e un atteggiamento più tollerante verso le opinioni e ipotesi diverse), a beneficio sia della società che della scienza.

Come scrivono lucidamente Collins e Pinch (1993), la scienza è un’attività controversa: da una parte ci fornisce i mezzi per curare gli ammalati; dall’altra produce l'infido veleno causato dagli incidenti nucleari; da una parte ci offre migliori condizioni di vita e dall’altra la possibilità di trovare la morte a causa degli effetti collaterali di un farmaco. La scienza è quindi simile a un Golem, una creatura della mitologia ebraica, né buona né cattiva in sé, ma potente e potenzialmente pericolosa, un gigante mite che può in qualunque momento impazzire e spargere terrore. Soltanto in questo modo è possibile comprendere questa potente ma imperfetta (e quindi umana) creazione che chiamiamo scienza, imparando ad amare il gigante maldestro per quello che è.


Orsi e umani – Una serie di problemi di confine

Il 5 aprile 2023, l’orsa JJ4, lungo un sentiero isolato, uccise Andrea Papi - un pacifico essere vivente che amava correre in montagna e nei boschi del Trentino.

Il successivo 1° settembre, un abitante di San Benedetto dei Marsi, nei pressi della propria casa, uccise l’orsa F17, detta Amarena - un pacifico essere vivente amante delle amarene, che a volte attraversava i paeselli della Marsica.

Questi due eventi sono apparentemente antitetici: nel primo caso un umano viene ucciso da un’orsa; nel secondo un’orsa viene uccisa da un umano.

Tuttavia, nel loro essere antitetici, presentano delle simmetrie:

1) gli uccisi sono due esseri viventi, che hanno acquisito confidenza l’uno con il territorio dell’altro: l’orsa con il territorio “naturale” dell’umano, l’umano con il territorio “naturale” dell’orso. Attenzione, però, al termine “naturale”: lo scrivo tra virgolette per anticiparne il carattere ambiguo.

2) presumibilmente, entrambi gli esseri viventi che hanno compiuto l’assassinio hanno agito per paura o, forse, per difesa, legittima ma purtroppo eccessiva

3) in entrambi i casi, i due uccisori sono stati minacciati di morte: l’orsa JJ4 dalla Provincia Autonoma di Trento, l’umano di San Benedetto dei Marsi che ha sparato ad Amarena da numerosi individui e odiatori, in rete, al telefono e sui muri vicino a casa. Per proteggere entrambi è intervenuto lo Stato: il Consiglio di Stato ha giudicato sproporzionata la richiesta di soppressione dell’orsa; la Polizia di Stato ha messo sotto protezione l’abitante di San Benedetto e la sua famiglia.

Queste due storie, entrambe culminate con l’uccisione di due esseri viventi, parlano di confini:

  • il confine tra antropico e “naturale”: in questo caso tra territorio degli orsi (il bosco) e territorio degli umani (il paese); l’immaginazione sociale e l’idea di confine suggeriscono che ciascuna specie di esseri viventi debba rispettarli; il pensiero comune, anzi, pretende che l’orso non debba sconfinare ma che l’umano possa farlo (attenzione ai verbi: “non debba” e “possa”), purché con giudizio e prudenza.
  • il confine tra cultura e natura: sono, devono essere due cose distinte, la cultura è attribuita agli animali umani, la natura sono gli animali non umani; distinte, salvo la sempre possibile subordinazione della natura alla cultura, in termini di uso e asservimento.
  • il confine tra tradizione e ecologia: la tradizione porta con sé abitudini di prudenza, ma legittima anche la violenza (se l’orso mi mangia le galline, gli sparo); l’ecologia, che si nutre di scienze naturali ed etologiche, preserva e conserva la specie, la “reintroduce”, ne favorisce la riproduzione.

In realtà, questi confini sono evidentemente immaginari, sono costruzioni sociali (degli animali umani, ovviamente, non credo che nessun capriolo, orso o picchio abbia mai partecipato alla discussione).

Diversamente dal desiderio di chi li traccia, sono sempre permeabili, nelle due direzioni: l’orso entra in paese e a volte fa danni, l’autore di questo articolo cammina e pedala nei boschi dell’Abruzzo e a volte fa scappare alcuni animali con il suo rumore; ci sono sempre individui che frequentano l’oltre confine.

Anche il confine tra natura e cultura non è chiuso. La discussione filosofica, da Levi-Strauss a Descola e Ingold è vivacissima su questo tema. Personalmente sto dalla parta di chi considera le due “zone” in ampia sovrapposizione.

Infine, il confine tra tradizione e ecologia, uno dei più delicati: le due aree sono spesso in contrapposizione, e i due terribili eventi di morte da cui siamo partiti ne sono un esempio e hanno dato nuovo impulso al dibattito tra la tradizione, intesa come equilibrio deciso dagli esseri umani che parlano, ad esempio, di “prelievi” di animali in eccesso (cioè uccisioni programmate e legittimate) e di  controllo territoriale forzoso e l’ideologia di una certa ecologia, che fa leva sul presunto valore assoluto “della ”, dell’idea di specie, che va a tutti i costi preservata e conservata.

Purtroppo, alla morte dei due individui, unici e insostituibili, un umano e un’orsa, non c’è rimedio e temo che non possa fare più di tanto per assicurarci che non ci siano casi di sconfinamento che finiscono così.

È il caso invece di riflettere su questi punti:

  • disegnare confini dà sicurezza a chi li disegna; ma questa sicurezza è effimera perché l’altro non li conosce e perché questi confini sono immaginari;
  • chi parla di specie, da confinare, da preservare, da estirpare, commette un grave errore: le specie non esistono nella realtà, sono state inventate dal ‘700; le specie non sono soggetti con una volontà, delle caratteristiche unitarie, definite, incorruttibili e fissate; filosoficamente parlando non sono soggetti morali né universali;

Invece che disegnare confini e preservare specie, è, infatti, utile pensare a convivenze pacifiche e timorose, in cui siano sviluppati e diffusi comportamenti che – come viene suggerito, ad esempio, dalla Regione Abruzzo - contrastino la “confidenza” dell’animale selvatico, non trasformino la presenza di un orso in paese in un fenomeno turistico, in una attrazione da fotografare, non favoriscano l’ingresso nei centri abitati con cibo esposto e raggiungibile.

È utile creare deterrenti simmetrici al ringhio dell’orso infastidito, che fa passare la voglia di camminare in quella parte del bosco, come recinti elettrificati, fonti di rumore, campanelli.

È utile essere consapevoli che la presenza umana nelle zone di prevalente pertinenza del selvatico non è neutrale, che può infastidire, che deve essere discreta e non generare allarme e spavento: l’orso, il lupo, i selvatici si allontanano dalla presenza umana nel bosco, se non è minacciosa.

È anche importante – da un punto di vista teorico – che l’ecologia “scientifica” si smarchi da due errori di approccio: in primis dalla convinzione di origine cartesiana che costruisce l’animale come soggetto con caratteristiche fisse, immutabili e meccaniche su cui basare la relazione; in secondo luogo dal conseguente approccio quantitativo, per il quale l’animale non umano è un rappresentante numerico di una specie, per cui ogni esemplare è sostituibile: tanti ne muoiono, tanti ne vengono “reimmessi”.

Una volta messe da parte queste distorsioni, la scienza ecologica può rifocalizzarsi sul fatto che ogni orso, ogni lupo, coniglio e vitello, è un individuo, come lo è ognuno di noi umani; e che il benessere di ognuno di questi individui può essere il fondamento di una società ampia, interspecifica, che riconosce pari diritti di vita, di rispetto, di salute e di sviluppo, di sicurezza ad ogni singolo soggetto, umano e non umano.