Le teorie del complotto, terza parte - Che si tratti di ossessione per la verità?
Questa è la terza puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte). Qui ci interroghiamo sulla corrente, ed epidemica, ossessione per la verità scientifica e per i (presunti) deficit cognitivi dei rispettivi oppositori politici, malattia che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
ROVESCIANDO LA PROSPETTIVA: E SE IL PROBLEMA FOSSE INVECE L'OSSESSIONE PER LA VERITÀ?
Un rovesciamento di prospettiva dalle potenzialità decisamente più fertili ci viene indicato da Dotson (2021), quando, rifiutando l’intera lettura basata sull’avvento dell’era della post-verità, suggerisce che il problema non sia tanto che le persone trascurerebbero i fatti privilegiando pregiudizi e opinioni soggettive, ma consista proprio nella corrente, epidemica, ossessione per la verità scientifica.
La malattia contemporanea da cui ben pochi di noi possono sinceramente dirsi immuni, che provoca polarizzazioni estreme e mette a repentaglio ogni possibilità di confronto democratico, consisterebbe, nella sua prospettiva, proprio nell’abitudine a dare per scontato che solo una fazione – la propria, ovviamente – sia quella in grado di pensare razionalmente e con la scienza a supporto delle proprie tesi. Quindi l’altra, inevitabilmente, è in errore, s-ragiona, è in preda a deliri, allucinazioni e alle “buche” del complottismo. È così che siamo diventati ossessionati dai (presunti) deficit cognitivi dei nostri oppositori politici.
Una malattia, questa, che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici: come le persone preoccupate per i cambiamenti climatici accusano i cosiddetti “negazionisti” di ignoranza e anti-scienza, specularmente chi contesta la matrice umana o l’emergenzialità della questione climatica si richiama a ricerche scientifiche ritenute più affidabili per dimostrare che la scienza mainstream sarebbe prona a interessi politici/economici e rea di soffocare il dissenso interno alla comunità scientifica. Tuttavia, questo atteggiamento così sprezzante e liquidatorio è particolarmente prevalente nelle retoriche liberal nei confronti dei conservatori, perché si sa, «the facts have a liberal bias» (Dotson 2021, p. 42): i fatti tenderebbero cioè per loro stessa natura a dare ragione ai progressisti.
Questo atteggiamento mentale, che viene indicato come scientismo politico, ha come corollario il diagnostic style of politics di cui parla lo storico Ted Steinberg (2006, cit. in Dotson 2021, p. 43), ovvero la tendenza a liquidare il dissenso politico come conseguenza di deficit cognitivi o problemi psicologici. In questo modo, il dissenso non è più dissenso: non più posizioni differenti e contrapposte con cui cercare un dialogo o esplorare, almeno, margini di compromesso. Anzi, la possibilità stessa del compromesso diventa un anatema. Perché con quella gente non si può, né si deve, ragionare. In questo modo il fanatismo scientista mina la democrazia, o almeno – suggerirei, ritenendo la democrazia già ampiamente minata di suo – compromette ulteriormente qualunque possibilità di confronto democratico e pure di trattazione con un’ambizione minima di approfondimento dei temi di cui si parla.
Nel trattare quindi in modo meno superficiale e sbrigativo del rapporto complesso tra scienza, “ignoranza” e politica, al cui interno inevitabilmente il tema del complottismo si inserisce, occorre tenere presente almeno tre questioni principali.
LA CORRUZIONE DELLA SCIENZA
La prima, per certi versi la più evidente – anche se tutt’altro che evidente è la portata delle sue conseguenze – ragione per cui dovremmo essere cauti di fronte al “l’ha detto la scienza, e quindi se non sei d’accordo sei ignorante”, riguarda la possibile strumentalizzazione della scienza a opera di interessi industriali e politici. Matthieu Amiech vi dedica opportuno spazio, riferendosi in particolare al bel libro di Foucart, Horel e Laurens, Les guardiens de la raison (2020). Ciò che mi preme mettere a fuoco qui è come sono cambiate le strategie di lobbismo politico: la fase dei “mercanti del dubbio”, quando le multinazionali reclutavano ricercatori e scienziati per produrre conoscenza scientifica solida, cioè capace di mettere in dubbio la credibilità delle ricerche che dimostravano la pericolosità dei loro prodotti, è ampiamente superata.[1] Oggi, infatti, gli interessi dell’industria, e in particolare quelli delle industrie maggiormente nocive, sono sostenuti in nome della scienza e della sostenibilità; come, cioè, se fossero non i desiderata delle corporations, ma verdetti oggettivi della scienza che finalmente ci permettono di superare le parzialità dell’opinione e le fallacie della politica. La professionalizzazione dell’influenza digitale fa poi sì che, grazie a raffinate tecniche di inbound marketing, a ribadire le ragioni dell’industria camuffate da verità scientifiche inattaccabili non siano solo scienziati, politici o celebrità, bensì persone (quasi) comuni, che ci appaiono più credibili perché disinteressate, cioè sinceramente interessate solo a difendere e valorizzare il ruolo della scienza nel dibattito pubblico. È un gioco di specchi, che fa sì che al green/pink/ethics-washing oggi si aggiunga l’insidia del participatory-washing: la sottile arte di far passare gli interessi del settore industriale come se fossero verità scientifiche e per giunta sostenute dal basso, un tappeto di erba sintetica (in inglese astroturf, il termine tecnico per designare questa strategia) a simulare l’erba vera (grassroots, cioè le rivendicazioni popolari, di movimento, genuinamente dal basso).[2]
Credo che non abbiamo ancora preso consapevolezza della portata del problema: della potenza, cioè, con cui il combinato disposto di questi meccanismi consolida ulteriormente il potere delle élite tecnocratiche e parallelamente indebolisce i movimenti e le proteste dal basso, delegittimandoli e sottraendo loro le loro stesse parole.
Perché nel momento in cui movimenti genuinamente emancipativi, grassroots, si battono contro ciò che veste i panni di una scienza addirittura legittimata e richiesta dal basso, le loro parole ancora più facilmente potranno venire negate come forme di partecipazione e invece fraintese, e liquidate, come semplice fatto di ignoranza e complottismo. Siamo consapevoli, giustamente, della repressione sempre più feroce che si abbatte contro chi protesta: fatichiamo invece a scorgere come il dissenso sempre più spesso venga prima ancora sterilizzato a monte, delegittimato sul piano semantico, e quindi non visto, scambiato per altro. Ma la delegittimazione semantica rafforza e giustifica la repressione legislativa e giudiziaria: perché, in fondo, se non è dissenso ma solo odiosa ignoranza, perché scomodarsi a denunciare la sproporzionalità di idranti, misure di privazione della libertà, sanzioni o se a chi protesta viene negato l’accesso al proprio conto bancario (come accaduto con il Freedom Convoy canadese)…?
«Qual è la differenza tra la verità e una teoria del complotto? Tra gli otto e i nove mesi». Questa battuta, che secondo gli estensori del Manifeste circolava all’interno dell’OMS (p. 34), richiama causticamente l’intervallo di tempo che troppe volte è intercorso tra la dismissione di posizioni minoritarie o critiche come mero complottismo e la constatazione che forse queste contenevano qualcosa di più di qualche «nucleo di verità», per riprendere l’espressione coniata da Wu Ming 1 (2021). Peccato che quegli otto-nove mesi siano anche l’intervallo di tempo fatale, quello in cui si sarebbe potuto discutere e agire, e chissà forse anche imprimere un diverso corso agli eventi. Se solo l’etichettamento delle critiche come “complottismo”, e spesso dell’intera controversia come “roba da complottisti”, non avesse reso impraticabile il terreno – troppo alto il rischio di essere scambiati per complottisti, meglio parlare d’altro – minando ogni possibilità di critica e dibattito. Così che la consapevolezza, se arriva, arriva troppo tardi. Quando ormai l’ennesima “innovazione” è diventata elemento del paesaggio del new normal, e indietro non si torna.
Un esempio emblematico è quello della protesta contro i TEA (Tecniche di evoluzione assistita), culminata nel recente episodio di Mezzana Bigli (Pavia), dove il gesto dei falciatori notturni di una coltura sperimentale di riso promossa dall’Università di Milano è stato oggetto di un coro unanime di attacchi dal mondo politico, scientifico e “ambientalista”, che l’hanno dipinto come esito di oscurantismo anti-scientifico, ignoranza e addirittura terrorismo. Impedendo così non solo il riconoscimento della dignità di azione politica a quel gesto, ma sbarrando anche la strada allo svilupparsi di un dibattito intorno a un tema che infatti oggi non mobilita che uno sparuto gruppo di coraggiose/i attiviste/i, laddove non più di vent’anni fa intorno agli OGM una certa compattezza del mondo ambientalista era stata capace di imprimere una svolta significativa sul corso degli eventi.[3]
Ma molti altri esempi possono essere individuati, nel Sud globale, dove i saperi contadini e le resistenze ai programmi di modernizzazione ecologica – targati Monsanto e sostenuti dai filantrocapitalisti alla Bill Gates – diventano superstizioni anti-moderne da estirpare. Nel Sud come nel Nord del mondo, le resistenze contro gli impatti devastanti della corsa ai minerali necessari per la transizione green e digitale, così come le proteste contro le speculazioni legate alle rinnovabili, devono oggi vedersela non più solo con la vecchia accusa di egoismo Nimby, ma anche con lo stigma di essere contro la scienza, negazionisti, ignoranti. Infine, come non evocare l’occasione persa conseguente all’incapacità di cogliere l’importanza (e di rispondere alla domanda di tematizzazione pubblica, prima che sia troppo tardi) di alcune questioni sollevate dalle proteste contro la gestione pandemica – dai rischi dell’ipermedicalizzazione a quelli dell’identità digitale e della sorveglianza tecnologica. Un’occasione persa che è difficile non attribuire all’ansia di non provare nemmeno a parlare di ciò di cui parlano “i complottisti”.
NOTE
[1] È salutare ricordare che è proprio così che nasce la nozione di sound science: introdotta dall’industria del tabacco, per screditare la trash science (scienza spazzatura) prodotta dalla ricerca indipendente e accademica che metteva in luce la pericolosità del fumo passivo.
[2] Ne abbiamo parlato in modo più articolato in Lello e Saltelli (2022).
[3] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
Le teorie del complotto, seconda parte - Il populismo epistemologico e le sue aporie
Questa è la seconda puntata della riflessione avviata la settimana scorsa. Qui ci interroghiamo sulle ragioni del crescente scetticismo popolare verso la - o meglio, verso una parte della - scienza, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni delle risposte oggi largamente prevalenti nel dibattito pubblico e in quello accademico, incentrate sulla post-verità, sul populismo e sulla divisione del lavoro scientifico. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
IL POPULISMO EPISTEMOLOGICO E LE SUE APORIE
Del resto quelle letture sbrigative che riducono il problema all’analfabetismo funzionale e all’ignoranza del popolo trovano pieno supporto nelle chiavi di lettura prevalenti nel dibattito accademico, che sono decisamente significative. Vediamole.
Molta elaborazione accademica sul tema ha preso le mosse dall’accettazione pressoché acritica della categoria di post-verità. Si è così sviluppata un’ampia letteratura che spiega come siamo entrati in un’era nuova, in cui le persone tendono ad attribuire peso a emozioni e sentimenti più che alla razionalità, a credenze soggettive più che a dati oggettivi, a opinioni più che a fatti, a discorsi seduttivi più che a spiegazioni analitiche, alle esperienze dirette e al senso comune dell’uomo/donna della strada più che a generalizzazioni e astrazioni.[1] Molti lavori hanno così introdotto concetti come quelli di pseudo-science o troll-science (Ylä-Anttila 2018), al punto che l’intero dibattito tende a ruotare intorno ai perni del populismo epistemologico (Saurette e Gunster 2011) e del science-related populism (Mede e Schäfer 2020).
Si parte cioè da un concetto, quello di populismo, per poi stirarlo in modo che il classico risentimento popolare verso le élite finisca per abbracciare, insieme ai detentori del potere politico ed economico, anche università, esperti, istituzioni scientifiche e sapere accreditato. Il problema è che già nella sua accezione propriamente politica, l’uso corrente del concetto di “populismo” appare problematico: in una fase in cui è difficile trovare un partito/leader che non faccia ricorso a strategie e registri discorsivi “populisti”, quella categoria tende a perdere la sua utilità analitica, e piuttosto ad ampliare, di converso, la sua valenza normativa (Schadee et al. 2019; Bazzoli e Lello 2022). Diventa, cioè, un modo per tenere insieme e distinguere tutti quegli attori politici che non piacciono (al mainstream), perché alternativi – o presunti tali – ad esso; e, al contempo, per scaricare la responsabilità di mutamenti e terremoti elettorali sgraditi (sempre ai partiti tradizionali) sugli elettori, che voterebbero partiti populisti perché sono diventati gretti, ignoranti e razzisti, o nella versione più edulcorata – ma la sostanza non cambia – per la rabbia e la frustrazione di essere stati abbandonati, impoveriti, espropriati. In ogni caso, la responsabilità è degli elettori, che non agiscono in base a ragioni ragionevoli ma sarebbero agiti da pulsioni di rabbia e frustrazione. Isolando in questo modo le élite e i partiti tradizionali di centro sinistra e centro destra da qualunque dovere di auto-critica rispetto al loro essersi trasformati in oligarchie intercambiabili in difesa degli interessi del capitalismo estrattivista nelle sue diverse facce.
Lo stesso esito che è possibile rinvenire nel populismo legato alla scienza, o epistemologico: in fondo, un modo per spiegare le critiche e la crescente diffidenza popolare verso le istituzioni del sapere accreditato facendo leva su questa stessa rabbia “irrazionale”, psicopatologica, nutrita da patetiche nostalgie dell’eden perduto, esentando quelle stesse istituzioni dal doversi porre domande scomode, ma molto serie, circa la propria crescente autoreferenzialità e sulle ragioni profonde che ne stanno intaccando credibilità e prestigio.
Poco importa se queste letture auto-assolutorie basate su populismo e post-verità aprono contraddizioni evidenti. Una principale: come è possibile che proprio la diffusione della scolarizzazione e l’accresciuta facilità di accesso a fonti di informazione scientifica abbiano prodotto crescente sfiducia nella scienza stessa e il proliferare dei complottismi?
Anche perché, nel frattempo, assistiamo al recupero surrettizio del vecchio Deficit Model, risalente agli anni Ottanta dello scorso secolo e ormai superato da decenni di studi nell’ambito della filosofia e sociologia della scienza e degli STS (Bucchi e Neresini 2002; Coniglione 2010). Quel modello assumeva che le critiche popolari verso le innovazioni tecnoscientifiche fossero riconducibili all’ignoranza del pubblico e alla sua incapacità di capire il metodo scientifico. Secondo quella visione paternalista della cittadinanza, è dunque sufficiente comunicare meglio le innovazioni che si intende introdurre e promuovere l’alfabetizzazione scientifica per superare resistenze e diffidenze popolari.
E invece, proprio oggi che l’accesso a PubMed e SciHub, la fruizione di programmi di divulgazione scientifica e l’apprendimento quanto meno dei rudimenti del metodo si sono democratizzati quanto mai prima, monta la diffidenza popolare verso la scienza: com’è possibile?[2]
Da notare, per inciso, che il recupero di una teoria anacronistica come il Deficit Model costituisce il pilastro “teorico” del burionismo, ovvero di quel modo – altrettanto fuori dal tempo – di concepire la relazione tra scienza e società massimamente rappresentato, in Italia, dall’autoproclamatosi paladino della lotta in difesa della scienza contro le fake news. Eppure, proprio il fatto che le perplessità verso le politiche vaccinali o l’adesione a medicine alternative siano derubricabili a questione di «asini raglianti» è, questa sì, una fake news, come dimostra una consolidata tradizione di studi che ha chiarito le differenti ragioni per cui la scienza debba essere democratica. Riassumendole: primo, perché non è plausibile né fondato ri(con)durre le ragioni di critica e perplessità all’ignoranza, e anzi quelle ragioni vanno prese in considerazione, visto che le innovazioni tecnoscientifiche in discussione andranno a ricadere sulla vita dei cittadini non-esperti, che quindi devono avere voce in capitolo (Coniglione 2010). E, secondo, perché il coinvolgimento dei non esperti nella produzione scientifica è fondamentale per conseguire risultati che avranno maggiori probabilità di godere di legittimazione sociale, dunque di essere accettati socialmente (Jasanoff 2021), ma che saranno anche di migliore affidabilità e qualità da un punto di vista propriamente conoscitivo (Harambam 2021, Dotson 2021).
Ancora più improbabili, quasi acrobatici, sono i tentativi di darsi una spiegazione nei casi in cui l’analisi empirica individui atteggiamenti critici verso le innovazioni tecnoscientifiche più diffusi presso settori sociali che difficilmente possono essere sospettati di essere affetti da ressentiment populista in conseguenza di disagio sociale o impoverimento; né che possano essere liquidati come ignoranti o incapaci di comprendere il metodo scientifico a causa di presunti deficit culturali.
Prendiamo, ancora, il caso della esitanza vaccinale, che diverse ricerche hanno rilevato essere maggiormente diffusa all’interno di segmenti sociali che possono contare sia su redditi che su livelli di istruzione più elevati della media (per es., Smith et al. 2004; Wei et al. 2009; Lello 2020), tanto che in alcuni casi se ne è parlato come di una scelta legata a situazioni di privilegio (Reich 2014). E non a torto, perché, come fa notare Goldenberg (2021), se dubbi e perplessità sono diffusi nei diversi gradini della scala sociale, sono però soprattutto le persone che possono fare affidamento su più risorse – economiche, culturali, relazionali etc. – quelle più attrezzate per sostenere i costi (economici e non solo) conseguenti alla scelta di non rispettare le prescrizioni vaccinali previste per sé (nel caso del Covid-19) o e/o per i propri figli (nel caso delle vaccinazioni pediatriche).
Ebbene: in questi casi, si tende a fare ricorso (per es.: Grignolio 2016) a spiegazioni complesse e contorte, facendo leva sulla teoria della razionalità limitata di Kahneman (2012) e sugli studi di Gigerenzer (2015), per cui l’abbondanza informativa non porta necessariamente a compiere scelte ottimali. Ma anche in questo modo non si riesce a spiegare perché mai proprio le persone più acculturate dovrebbero anche essere le più sprovviste delle risorse necessarie per distinguere tra fake news e notizie attendibili, finendo così per diventare addirittura vittime privilegiate delle «trappole cognitive» e dei vari bias (distorsioni, pregiudizi) che vengono associati a modelli cognitivi chiusi e dogmatici.
Ogni genere di piroetta, insomma, pur di non riconoscere l’ovvio. Cioè, che assistiamo ormai da anni, a livello di organizzazioni sovranazionali deputate all’elaborazione delle strategie di global health, a un impoverimento esiziale del concetto di salute, che si è tanto assottigliato da arrivare a coincidere sempre più con quello di immunizzazione; e che tale impoverimento dipende da motivazioni di ordine politico ed economico, più che da ragioni scientifiche (Dentico e Missoni 2021). È dall’assenza di dibattito e trasparenza sulle commistioni tra ricerca e finanziamenti privati che occorrerebbe partire per trovare spiegazioni più plausibili dell’esitanza vaccinale e delle proteste ad essa correlate, più che dalla post-verità o dai deficit cognitivi. Tanto più che sono diverse le ricerche empiriche (Goldenberg 2016) che da tempo mostrano come dietro all’esitanza vaccinale e alle proteste conseguenti non ci sia anti-scienza, bensì una richiesta di apertura della black box – cioè di chiarire gli intrecci tra scienza, politica e interessi – insieme a una domanda di più ricerca indipendente e di coinvolgimento nella definizione delle linee di indagine scientifica (per esempio, orientando i finanziamenti sulla ricerca sugli effetti avversi e sulle variabili soggettive che incidono sulla probabilità del loro manifestarsi).
Più raffinata – e ancora più significativa, nell’economia del nostro ragionamento – la posizione di quegli studiosi che, avendo potuto constatare, sulla base di ricerche statistiche, come un aumento dell’esposizione all’informazione scientifica non “protegga” di per sé le persone da teorie pseudoscientifiche e complottiste, invocano una maggiore enfasi, nelle scelte comunicative, sull’importanza della «divisione del lavoro scientifico» tra specialisti e profani. Si tratterebbe, cioè, di fornire alle persone comuni «ragioni preventive» (Zagzebski 2012) perché queste possano credere nelle affermazioni degli esperti. Come sostiene Keren (2018), «una migliore comprensione dei contenuti scientifici, non accompagnata da una comprensione appropriata della divisione del lavoro cognitivo, potrebbe tentare alcune persone comuni a basare le proprie credenze su questioni scientifiche sulle loro proprie valutazioni delle evidenze scientifiche più che sull’autorità degli esperti».[3] Occorre, cioè, spiegare alle persone che devono credere agli esperti a scatola chiusa, e diffidare delle proprie pericolosissime capacità di pensiero critico.
Sulla stessa linea, solo portate più esplicitamente alle loro conseguenze, le posizioni, riprese in un noto articolo del “New York Times”, di Micheal Caulfield, un esperto di Digital Literacy.[4] Il modo in cui ci è stato insegnato a usare il pensiero critico – consultando, comparando, soppesando diverse fonti informative per approfondire un tema, risalendo alle fonti primarie, senza fermarci alla prima apparenza – sarebbe, sostiene l’accademico, essenzialmente sbagliato e del tutto inadatto di fronte al caos informativo prodotto da Internet. Perché tentare di ragionare con la propria testa può rivelarsi pericoloso e controproducente. Inoltre, la nostra attenzione è una merce rara, che dobbiamo imparare a spendere saggiamente. Quindi, siccome sarebbe lungo e faticoso costruirsi una propria opinione su questioni controverse – e si sa, il tempo è denaro – meglio evitare di fare ricorso a fonti primarie e soprattutto evitare come la peste il pericolo di prestare ascolto a più campane. Meglio limitarsi a una ricerca di 15 secondi (riporto letteralmente) che si riduce al googlare un nome o una parola chiave: se – senza leggere, bene inteso, lo studioso ci intima di limitarci allo scrolling – da questa edificante attività si ricava una maggioranza di titoli che asseriscono che quella persona o teoria non è credibile, ci si deve fermare qui. Il metodo ha anche un nome, SIFT.[5] E si basa sulla premessa del tutto oggettiva secondo cui l’informazione più credibile è quella che troviamo in cima alla pagina della ricerca su Google (…). L’unità didattica che serve a insegnarlo – di sei ore, che effettivamente dovrebbero essere più che sufficienti – è stata adottata da decine di università negli Stati Uniti e in alcune scuole superiori canadesi. L’orgoglio del metodo è che il fact-checking basato su SIFT deve portare a esprimere un giudizio sulla veridicità o meno di una teoria, o sull’attendibilità di un personaggio pubblico, in 30, 60 o 90 secondi. Rivelatori anche i presupposti psicologici su cui si basa: i diffusori di conspiracy theories avrebbero successo perché cercano di lusingare le capacità intellettive delle persone comuni trattandole come adulti che potrebbero – non a caso si parla di informational hybris – (ambire a) capire ciò di cui si parla e ragionare con la propria testa: manco fossero esseri senzienti. Ma no, non ce la puoi fare, se conservi qualche autonomia critica inevitabilmente cadi nella rabbit hole. Per contrastare quell’attraente ma fallace lusinga, allora il metodo SIFT cerca a sua volta di adularti, ma lo fa ricordandoti che il tuo tempo e la tua attenzione sono preziosi: dicendoti insomma che, anche se sei tonto e meriti di essere trattato come un bambino (o meglio come nessun bambino andrebbe trattato), ciononostante “Tu vali”. Ti rimette, insomma, al tuo posto, nell’unico ruolo che puoi legittimamente reclamare: quello di consumatore. E alla fine del corso, tra gli apprezzabili “risultati di apprendimento”, si nota che nelle discussioni è meno probabile che gli studenti ricorrano a ragionamenti motivati. Che sollievo, eh?
NOTE
[1] È un tema che abbiamo affrontato in modo articolato e critico in Lello e Raffini (2023)
[2] Un’ipotesi interessante che può rispondere a questo (apparente) paradosso, radicalmente alternativa rispetto alle letture focalizzate sulla post-verità, è quella della democratizzazione del boundary work, sviluppata da Harambam e Aupers (2015), secondo cui alla radice della crescente critica popolare verso il sapere esperto e scientifico non ci sarebbe tanto l’ignoranza quanto il fatto che, proprio per via delle maggiori possibilità di accesso alla conoscenza scientifica, i conflitti anche radicali intorno a questioni epistemologiche e metodologiche escano dalla torre d’avorio delle professioni deputate alla produzione di conoscenza e trovino una via per essere dibattuti e combattuti anche tra i non-specialisti, in contesti della vita quotidiana. Ne abbiamo parlato in modo più analitico in Lello e Raffini (2023).
[3] Keren (2018), citato in Bordignon (2023), traduzione e corsivi miei.6 Charlie Warzel, Don’t go down the rabbit hole, “New York Times”, 18 febbraio 2021, <https://www.nytimes.com>.
[4] Charlie Warzel, Don’t go down the rabbit hole, “New York Times”, 18 febbraio 2021, <https://www.nytimes.com>.
[5] Acronimo dei 4 principi/fasi del metodo: 1) Stop. 2) Investigate the source. 3) Find better coverage. 4) Trace claims
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
Scienza Post Normale - Un approccio normativo per l’incertezza e la complessità
Di recente l’Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti (la Treccani, per intenderci), ha pubblicato l’undicesima appendice di aggiornamento, in cui è compresa la voce “SCIENZA POST-NORMALE”, redatta da A. Saltelli.
Approfittiamo di questa occasione per parlare, ora, in generale del concetto di Scienza Post Normale, o PNS – Post Normal Science, e del perché può esserci utile; poi – in un prossimo articolo – di alcuni esempi di applicazione; infine, cercheremo di concludere il discorso con alcune nostre valutazioni, in un ultimo articolo, tra qualche settimana.
Per una trattazione più precisa e circostanziata rimandiamo volentieri ad A. Saltelli, da cui sono tratti tutti i passaggi in corsivo.
LE SCIENZE IN SOCCORSO DELLE ISTITUZIONI?
Accade spesso che ricercatori e scienziati – fisici, biologi, chimici, ingegneri, sociologi – vengano interpellati dai governi, dagli enti governativi e dalle istituzioni sovranazionali, per analizzare, studiare ed interpretare problemi, situazioni e fenomeni che possono avere impatti rilevanti sulla vita delle comunità.
Gli stessi scienziati e ricercatori – a conclusione delle loro analisi - sono poi chiamati dalle istituzioni a ricercare e a proporre delle soluzioni a questi problemi.
Un esempio è il problema del contenimento delle emissioni di gas serra sul quale la FAO ha coinvolto numerosi scienziati di diversa estrazione per studiare lo stato della situazione e definire delle linee guida[1] di comportamento (ne abbiamo parlato qui), un altro è la gestione della pandemia di Covid-19 tra 2020 e 2021 (ne abbiamo parlato qui per quanto riguarda l’Italia).
Questi due casi esemplificano alcuni dei caratteri frequenti di questo tipo di problemi: la loro complessità, il numero elevato di agenti endogeni ed esogeni che vi incidono, le poste in gioco molto rilevanti, l’urgenza di intervento, e – infine – l’elevata incertezza epistemica.
IL MITO DELL’OGGETTIVITÀ SCIENTIFICA
Ora, perché le istituzioni si rivolgono agli scienziati per analizzare e tentare di risolvere questo tipo di problemi?
Le ragioni potrebbero essere, sinteticamente, queste: la prima è perché, nell’immagine che ne hanno le istituzioni, gli scienziati sanno. Sanno di che si parla, sanno come si fa a studiare i fenomeni, grazie ai loro metodi disciplinari, sanno ponderare i diversi fattori, semplificare, modellizzare e ridurre alla sua essenza il problema. In termini filosofici: hanno in mano strumenti epistemici adeguati.
Una seconda ragione è che gli scienziati – e le scienze - sono considerati neutrali: i corpus disciplinare e il metodo scientifico godono di uno status di neutralità, equidistanza, oggettività e – soprattutto – di indipendenza da condizionamenti morali e politici[2].
Questi due presupposti – nell’immaginario istituzionale e del grande pubblico – sono la base della credibilità delle analisi scientifiche e del teorema per cui le istituzioni prendono le loro decisioni in modo responsabile, consapevole e per il bene della collettività, sulla base di dati e analisi incontrovertibili, oggettivi e di origine specialistica.
Gli scienziati chiamati in soccorso epistemico delle istituzioni, da parte loro e per lo più, credono nell’oggettività dei dati a disposizione, credono nei modelli che fanno, e – soprattutto – credono nella propria patente di neutralità e nell’assenza di distorsioni del proprio lavoro.
E sperano di lasciare al mondo politico e istituzionale il compito di discernere e decidere, in nome del bene comune[3].
IL MITO SFATATO
In realtà, sappiamo che questa auspicata condizione scientifica di neutralità ed oggettività delle scienze e degli scienziati può essere vera solo in alcuni casi molto circoscritti, ad esempio, con condizioni al contorno ben definite, con dati completi e di origine certificabile, in cui lo spazio per la distorsione, seppur involontari, è minimo.
Nei casi, invece, complessi, con numerose sfaccettature, con molti fattori endogeni ed esogeni, con poste in gioco multiple e rilevanti, con contorni sfumati, in condizioni di urgenza, – infine – con elevata incertezza epistemica, la presunta oggettività garantita dal metodo scientifico è una chimera.
Infatti, nelle scienze come in altre attività, ogni volta che si semplifica e si modellizza un problema, si fanno selezioni euristiche di dati (a volte si ricevono insiemi di dati e informazioni già selezionati dalle istituzioni), si prediligono risultati che confermano alcune ipotesi a priori[4], si è indirizzati da convinzioni personali, si accantonano informazioni che possono produrre distorsioni apparentemente fuorvianti, spesso si evitano conclusioni in aperto contrasto con il sentire comune oppure difficili da gestire all’interno della comunità scientifica[5].
In alcuni casi, le pratiche scientifiche si imbattono in questioni, scoperte e fatti che possono assumere una dimensione morale – o politica – rilevante e, a volte, pericolosa per singoli individui o per intere collettività: la fissione nucleare, con i suoi due correlati di produzione di energia ad uso civile e di morte di centinaia di migliaia di persone innocenti, è l’esempio più banale ed eclatante; i LLM, modelli generativi di intelligenza artificiale sono un esempio più recente, più complesso e più articolato.
Spesso, invece, la distorsione epistemica è indotta dalla pressione di finanziamenti, di programmi di ricerca istituzionalizzati, di risultati attesi, che orientano la direzione della ricerca o le attese di risultati.
LA PROPOSTA NORMATIVA DELLA “SCIENZA POST NORMALE”
Il concetto di Scienza Post Normale, introdotto nei primi anni Novanta da Silvio Funtowicz e Jerome R. Ravetz[6], non è una nuova scienza, né una nuova disciplina, ma un insieme di precetti e raccomandazioni miranti a un migliore rapporto fra scienza e politica. I proponenti ne raccomandano l’uso quando i fatti sono incerti, la posta in gioco alta, i valori in conflitto, e le decisioni urgenti.
È – di fatto - un tentativo di venire in soccorso e di indirizzare normativamente scienziati e istituzioni che si trovano di fronte a problemi di questo tipo, come cambiamento climatico, biodiversità, divario Nord-Sud e politiche post- o neo-coloniali, organismi geneticamente modificati, pandemie, salute globale su cui le istituzioni chiamano in aiuto le scienze.
La proposta di S. Funtowicz e J. Ravetz, di metodo per la Scienza Post Normale, quella che va oltre le aree disciplinari delle scienze applicate e delle conoscenze esperienziali degli esperti:
- è orientata, invece, a demistificare la ricerca di verità assolute, la promessa di risultati certi grazie all’accumulo di fatti incontrovertibili;
- si autodefinisce programmaticamente non neutrale
- suggerisce di non credere nella neutralità delle cifre, dei dati disponibili: per questi, richiede di valutarne con occhio attento l’origine, la consistenza, la completezza – attraverso la metodologia NUSAP[7] - e di ricercare eventuali set di dati e informazioni trascurati, dimenticati e accantonati
- ricorda di adottare una consapevolezza dei limiti del pensiero scientifico;
- consiglia di non chiudere l’analisi su un orizzonte disciplinare unico ma – al contrario – di aprire l’analisi e la ricerca a una pluralità di discipline e a coinvolgere comunità estese di pari che comprendano da non accademici quali giornalisti, meglio se investigativi, a whistle blowers – cioè persone che portano alla luce problemi sorti all’interno di istituzioni o organizzazioni – e infine a tutte le persone coinvolte dal, o interessate al, problema discusso»;
- raccomanda a ciascun scienziato e ricercatore, produttore e fruitore di conoscenza, un atteggiamento autoriflessivo, di critica epistemica[8], orientato a identificare e riconoscere i rischi di distorsione a cui può, soggettivamente, essere soggetto.
Concludiamo, con A. Saltelli, che una delle forze della PNS, è quella di aprire un utile canale di comunicazione fra comunità disciplinari, tra le quali quelle delle scienze sociali e delle scienze naturali, che non sempre agiscono di concerto in situazioni dove la scienza è chiamata in aiuto dalla società.
Secondo Saltelli, è forse questa la chiave più importante offerta dalla PNS. Una chiave, beninteso, utile solo se si desidera aprire una porta.
NOTE
[1] Cfr. il Rapporto Fao “Pathways towards lower emissions. A global assessment of the greenhouse gas emissions and mitigation options from livestock agrifood systems”
[2] Una ulteriore ragione – quasi inconfessabile ma ben nota a chi, nel mondo delle aziende chiede pareri agli specialisti – è che i risultati delle ricerche possono essere influenzati dai dati messi a disposizione e selezionati in modo tale da dimostrare e legittimare teorie a priori.
[3] Cfr Oppenheimer ecc.
[4] «Observation is Theory-laden», Cfr. N.R.Hanson, Patterns of Discovery: An Inquiry into the Conceptual Foundations of Science, Cambridge University Press, 2010)
[5] Cfr. V. Marcheselli e G. Gobo, Sociologia della scienza e della tecnologia. Un'introduzione, Carocci, 2021
[6] Cfr. Funtowicz, Ravetz 1990a, 1993, 1994
[7] NUSAP: NUSAP (Numeral, Unit, Spread, Assessment and Pedigree) si propone come un sistema organizzato per testare e/o descrivere la qualità di un dato numerico: Numeral corrisponde al valore numerico del dato,
Unit è l’unità di misura corrispondente: se numeral è una temperatura, unit può essere, per es., gradi centigradi,
Spread è una misura dell’errore associato alla misura, generalmente accompagnato dal simbolo, Assessment è una sintesi del giudizio espresso da una comunità estesa di pari in merito alla qualità del processo che ha portato alla misura. Può fare riferimento al valore della significatività statistica, o essere espresso in linguaggio corrente come ‘conservativo’ oppure ‘ottimistico’. Pedigree infine è un giudizio, sempre espresso dalla stessa comunità, sulla qualità del team o istituzione che ha prodotto l’informazione. (A. Saltelli, cit.); cfr.: Uncertainty and quality in science for policy (Funtowicz, Ravetz, 1990; si può vedere qui)
[8] Facendo proprio, ci pare, lo stimolo di Edmund Husserl a non appiattirsi sul realismo metafisico; Cfr.: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Saltelli, SCIENZA POST-NORMALE, in Enciclopedia Italiana, Undicesima Appendice, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2024
Funtowicz, S., & Ravetz, J. R. (1993). Science for the post-normal age, Futures, 25(7), 739–755
Funtowicz, S., & Ravetz, J. R. (1990a). Post-normal science: A new science for new times. Scientific European, 169, 20–22.
Le mani sulla montagna - “Consumismo sciistico” o sviluppo sostenibile?
Questo articolo è pubblicato in contemporanea
dal Gruppo di divulgazione e discussione online
“Ideeinformazione”
Nelle aree alpine – si è notato più volte in questi anni – il fenomeno del cambiamento climatico si sta facendo sentire con particolare acutezza. Ma a farsi sentire sembra anche una scarsa volontà di cambiare stili di vita e atteggiamenti culturali, in particolare l’idea di sviluppo del territorio. Come del resto nelle grandi pianure. Fortunatamente, però, crescenti sono anche le reazioni delle popolazioni locali, sempre più consapevoli della necessità di “cambiare rotta” dal punto di vista economico-sociale, orientandosi verso un modello di sviluppo meno consumistico e “quantitativo”. Qualcosa che può insegnare molto (e – perché no – dare anche un po’ di speranza) a chi nelle aree montane non vive.
Nelle prealpi lombarde ci sono ameno due casi di scuola, che illustrano bene questa situazione.
IL COMPRENSORIO SCIISTICO VILMINORE-LIZZOLA (BG)
Vilminore e Lizzola sono due comprensori sciistici nella Bergamasca: il primo in valle di Scalve, sopra il comune di Vilmonore, e il secondo nella parallela Val Seriana, sopra Valbondione (di cui Lizzola è frazione). In mezzo c’è il Pizzo di Petto (mt.2.227) che può essere valicato a piedi attraverso il Passo di Manina. Ebbene, da qualche tempo sta prendendo forma un progetto per la “valorizzazione” turistica e sciistica dell’area attraverso la realizzazione di un tunnel che colleghi i due comprensori. Bucando evidentemente la montagna. Grazie a questa grande opera sciistica (potremmo forse coniare al proposito un nuovo acronimo: GOS), dunque lo sciatore potrebbe godere senza scendere dagli sci né perdere quota delle due aree di divertimento. Peccato che su questi tracciati, in gran parte tra i 1.800 e i 2.200 mt., cade sempre meno neve negli ultimi anni, anche durante le stagioni buone, e per periodi sempre più brevi…
Il progetto, il cui costo previsto è di 70 milioni di euro di cui 50 pubblici, sta muovendo solo i primi passi; sono comunque previsti, oltre agli estremamente invasivi lavori di perforazione per il tunnel di collegamento, sbancamenti, vasche di accumulo dell’acqua per l’innevamento artificiale, infrastrutture viarie, la dismissione delle funivie esistenti per sostituirle con una nuova.
Quello che però va qui segnalato è che appena la notizia ha fatto il giro dei paesi della valle la popolazione è insorta decisamente contro l’insensatezza di questo ipotetico mega-progetto, e così sul finire del 2024 la petizione lanciata dal locale collettivo Terre Alt(r)e[1] ha raggiunto rapidamente le 25.000 firme (!), mentre il 3 gennaio di quest’anno una prima assemblea pubblica, a Vilminore, ha raccolto oltre trecento persone che per quattro ore hanno seguito attentissime e preoccupate i relatori convocati da una rete di associazioni, tra e quali il CAI locale.[2]
I NUOVI IMPIANTI SUL MONTE SAN PRIMO (CO)
Il progetto denominato “Oltre Lario” è, se possibile, ancora più folle. Qui parliamo del monte San Primo, il rilievo più elevato del cosiddetto “Triangolo lariano”, ovvero di quel “triangolo” avente come vertici ideali Como, Lecco e Bellagio. Il massiccio montuoso supera di poco i 1.600 mt. e non ci ha mai nevicato troppo (oltretutto si tenga presente che quella zona risente dell’effetto mitigazione esercitato dal lago). In passato, comunque vi erano state costruite delle piste da sci con relativi impianti, da molto tempo abbandonati, secondo il destino comune a gran parte degli impianti a media altezza delle aree prealpine[3] (in verità non solo per ragioni climatiche, ma anche per cambiamenti degli stili di vita e delle pratiche turistiche).
Dal 2022, dunque, un progetto finanziato da Ministero dell’Interno, Regione Lombardia e Comunità montana del Triangolo lariano, e fortemente sostenuto dal Comune di Bellagio, prevede tra le altre cose la costruzione di un nuovo impianto sciistico sul Monte San Primo con ovviamente creazione di piste, cannoni sparaneve e un laghetto di accumulo per l’innevamento artificiale, tapis-roulants e una serie di parcheggi. Da subito una grande mobilitazione ha attraversato i paesi dell’area, dando vita al Coordinamento “Salviamo il Monte San Primo” (che riunisce decine di associazioni locali)[4] e che ha per ora ottenuto, se non altro, un “ripensamento” del progetto. Che però – denunciano di recente i sostenitori del coordinamento – non è cambiato in modo significativo e continua a impegnare oltre due milioni di euro dei cinque previsti per le opere legate, appunto, a questi nuovi, surreali, impianti sciistici.
Le associazioni temono che un simile progetto trasformi «la montagna lariana in un dispendioso luna-park, sperperando ingenti soldi pubblici per depauperare un territorio di grande pregio naturale e culturale». Tra le maggiori preoccupazioni, oltre al danno per un’area che è di grandissimo pregio naturalistico e inevitabilmente vocata a un turismo “dolce” (è il caso del percorso escursionistico noto come “Dorsale del Triangolo lariano” da Como a Bellagio), quella relativa agli impianti per il prelievo di acqua funzionali alla produzione della neve artificiale (la zona presenta carsismi e difficoltà nel prelievo di acqua per gli usi civili nelle lunghe estati siccitose di questi ultimi anni – ci manca questo prelievo extra del tutto insensato!).
Passando da vicende di portata locale a questioni più ampie, è evidente che queste tendenze si trovano nella concezione che sta alla base della progettazione delle future Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026, i cui lavori nei prossimi mesi conosceranno una forte accelerazione (il 6 febbraio scorso è stato infatti il “One year to Go”, la cerimonia ufficiale a un anno dall’inizio dei giochi). Anche in questo caso, dietro qualche rapida frase di facciata “green” (il sindaco di Milano Sala ha assicurato che i Giochi saranno molto «sostenibili» e che alla fine come ai tempi di Expo 2015 «saranno tutti contenti»[5] – ma tutti chi?), c’è una micidiale operazione di opere «essenziali» sparse a pioggia tra Lombardia e Veneto, che non faranno che lasciare i territori più sfigurati e cementificati. O meglio, i segni si vedono già.[6]
RIPENSARE LO SVILUPPO E I TERRITORI. A PARTIRE DALLE AREE MONTANE
Le due vicende che abbiamo richiamato – ma molte altre si potrebbero rintracciare – ci mostrano in definitiva come forti siano le tenenze conservative nel modo di pensare l’impresa, lo sviluppo e il turismo (è difficile uscire dal mito della crescita illimitata), ma come anche in questi ultimi decenni tante popolazioni, imprese, amministrazioni locali, intellettualità diffusa abbiano maturato una visione nuova, capace di pensare strade inedite e inaspettate per coniugare vita moderna e tutela dell’ambiente.
Le vicende e i luoghi che abbiamo visto parlano, tra l’altro, di quelle aree che sono state definite «montagne di mezzo», cioè quella media montagna che non presenta i caratteri della “eccellenza turistica” per come è comunemente intesa. È una «dimensione intermedia» – ha osservato in un libro intelligente il geografo Mauro Varotto – tra le montagne per antonomasia, specializzate «in direzione della modernizzazione turistico-industriale» e della «compensazione naturalistica»,[7] e le aree urbane industrializzate (anzi, “post-industrializzate”, se mi consente lo scherzo terminologico), caotiche affollate e inquinate. Aree dunque destinate, in questo modello di (mal)sviluppo ad abbandono e “regressione”, a invecchiamento e spopolamento. Contro questo “destino”, che in realtà è solo l’effetto di un ben preciso orientamento dello sviluppo territoriale basato sugli imperativi del profitto, è necessario ripensare ai modelli di telefrequentazione di una montagna panoramica a disposizione del tempo libero della popolazione urbana: serve una rivoluzione copernicana che non intenda più la montagna al servizio del turista o escursionista, ma l’escursionista e il turista al servizio della montagna.[8]
Vi è oggi in Italia, per fortuna, un vasto movimento, di pensiero, di opinione, ma anche di “pratiche di vita”) che si oppone fermamente a queste visioni incentrate su un mito della crescita economica che, applicato alle aree montane, appare perfino ridicolo. Un movimento che, peraltro, non può essere derubricato a “politica del no”, ma che al contrario intende dare un “altro futuro”, di economia alternativa, al mondo delle montagne che peraltro rappresenta oltre un terzo del territorio italiano. Tra i punti alti di questa riflessione troviamo, infatti, il Manifesto di Camaldoli, un documento elaborato al termine di un convegno nazionale svoltosi appunto a Camaldoli nel 2019,[9] dove si legge tra l’altro: L’idea che la montana lasciata alle forze della natura ritrovi da sola un equilibrio stabile – la cosiddetta ri-naturazione – è del tutto infondata. Come tutti i manufatti la montagna richiede manutenzione. In netto contrasto con i comportamenti odierni di tipo distruttivo e predatorio va riscoperta la tradizionale cultura del limite, che dovrà anche presiedere all’uso produttivo della terra, ai consumi di suolo e agli altri usi del territorio. (…)
Occorre dunque lavorare a uno scenario alternativo a quello della città che invade la montagna, della proliferazione delle seconde case, delle piste da sci sempre più dipendenti dall’innevamento artificiale e dal prelievo idrico. Nuovi modelli di vita, di socialità e di compresenza culturale richiedono un’alleanza fra anziani restanti, depositari di saperi contestuali, e “nuovi montanari” innovativi. Vi concorrono iniziative e nuovi strumenti come cooperative di comunità, ecomusei che attivano coscienza di luogo, osservatori del paesaggio, comunità del cibo, feste paesane “sagge”, forme attive e inclusive di valorizzazione delle minoranze linguistiche e di integrazione dei migranti.[10]
Un pensiero altro sulla e della montagna, da cui ci sarebbe molto da imparare. Anche qui in pianura.
NOTE
[1] https://terrealtre.noblogs.org/
[2] Si veda la puntuale cronaca di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/2025/01/27/nuovo-comprensorio-sciistico-colere-lizzola-prosegue-la-raccolta-di-firme-contraria-e-in-preparazione-nuove-iniziative/. E qui il video dell’incontro del 3 gennaio a Vilminore, intitolato “Comprensorio sciistico Colere-Lizzola. Patrimonio di tutti o parco divertimenti per pochi?”: https://terrealtre.noblogs.org/post/2025/01/10/video-dellincontro-pubblico-comprensorio-sciistico-colere-lizzola-patrimonio-di-tutti-o-parco-divertimenti-per-pochi-organizzato-a-vilminore-il-03-01-2025/
[3] Nell’Appennino le cose vanno anche peggio, per ovvie ragioni climatiche: dei cento impianti esistenti la metà sono chiusi. E nonostante questo – ha osservato Giuliano Bonomi, naturalista dell’Università di Napoli che ha condotto su questa realtà un’ampia ricerca – «negli ultimi anni stiamo assistendo a un paradosso: sono proliferati i progetti volti a costruire nuovi impianti di risalita in tutto l’Appennino, grazie anche a finanziamenti in parte o totalmente pubblici» (cfr. Alessandro Pirovano, La montagna che non si arrende a “grandi eventi” e impianti sciistici senza futuro, “Altreconomia”, 5 febbraio 2025, https://altreconomia.it/la-montagna-che-non-si-arrende-a-grandi-eventi-e-impianti-sciistici-senza-futuro/).
[4] https://bellagiosanprimo.com/
[5] https://stream24.ilsole24ore.com/video/economia/milano-cortinasala-fascino-cinque-cerchi-dara-grande-visibilita/AGQg6qkC
[6] Per una presentazione d’insieme degli scempi che porteranno con sé le Olimpiadi invernali 2026, si veda Luigi Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026. Il “libro banco” delle Olimpiadi invernali, Milano, Altreconomia, 2022. Qui il video della presentazione del libro alla Casa della Cultura di Milano, il 15 dicembre 2022: https://www.youtube.com/watch?v=RoMk-HK9s9c&t=10s. E per un aggiornamento, l’articolo di Duccio Facchini, “L’impronta olimpica”: le opere di Milano Cortina 2026 dall’alto,“Altreconomia”, n. 278 / febbraio 2025, p. 21-25, che documenta, foto satellitari alla mano, gli effetti tutt’altro che “sostenibili” sui territori interessati dalle opere olimpiche.
[7] Mauro Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Torino, Einaudi, 2020, p. 165.
[8] Ivi, p. 167-68.
[9] Il manifesto è stato approvato al termine del convegno nazionale “La nuova centralità della montagna” (Camaldoli, 8-9 novembre 2019), e si trova in Luigi Casanova, Avere cura della montagna. L’Italia si salva dalla cima, Milano, Altreconomia, 2020, p. 29-36.
[10] Ivi, p. 32-33.
Intelligenza artificiale e creatività - Terza parte: un lapsus della storia
Nei mesi scorsi abbiamo iniziato una riflessione sul rapporto tra processo creativo e Intelligenza artificiale (Intelligenza artificiale e creatività – I punti di vista di tre addetti ai lavori, 10/09/2024, e Intelligenza artificiale e creatività – Seconda parte: c’è differenza tra i pennelli e l’I.A.?, 17/12/2024), riflessione che si è sviluppata grazie ai contributi di Matteo Donolato - Laureando in Scienze Filosofiche, professore e grafico di Controversie (usando l’I.A.); Paolo Bottazzini - Epistemologo, professionista del settore dei media digitali e esperto di Intelligenza Artificiale; Diego Randazzo e Aleksander Veliscek - Artisti visivi.
Riflessioni che ruotavano attorno alla domanda se le immagini prodotte dall’IA, pur partendo da un input umano, si possano considerare arte.
A completamento di quelle riflessioni, interviene ancora Paolo Bottazzini per disegnare degli scenari futuri che mettono in discussione il concetto di arte come lo conosciamo oggi.
Tutto è in discussione… buona lettura!
---------
Credo che, quando definiamo l’I.A. uno strumento nelle mani dell’artista non dobbiamo cadere nell’ingenuità di ridurre il ruolo del dispositivo a quello di un mezzo trasparente, un utensile che trasferisca in modo neutrale nella materia sensibile un contenuto già compiuto nella mente dell’agente umano. Spetta di sicuro al soggetto che elabora il prompt offrire l’impulso della creazione, attraverso la formulazione della domanda, e tramite la selezione dei risultati che possono essere accolti come utili. Tuttavia, il software introduce elementi che influiscono sia sulle modalità creative, sia sui processi più o meno inconsapevoli di invenzione del prompt.
Benjamin, nella fase pionieristica del cinema, suggeriva che la macchina da presa e il formato del film ci avrebbero permesso di scorgere qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto invisibile nell’inconscio dei nostri movimenti; intuiva che lo scatto della fotografia nella sua autenticità sarebbe sempre stato l’inquadratura della scena di un delitto, e che nella sua deviazione di massa avrebbe inaugurato l’epoca del Kitsch.
Elizabeth Eisenstein ha dimostrato che la stampa a caratteri mobili ha contribuito alla nascita di una cultura che vedeva nel futuro una prospettiva di miglioramento progressivo dell’uomo – mentre la copia a mano dei libri nel periodo precedente, con l’aggiunta di errori ad ogni nuova riproduzione, aveva alimentato una visione del mondo in cui l’origine è la sede della verità, e la storia un cammino inesorabile di decadenza. Credo che il compito della critica filosofica e sociologica dovrebbe ora essere quello di comprendere quale sia la prospettiva di verità e di visibilità, o di disvelamento, che viene inaugurata con l’I.A..
In questo momento aurorale dell’uso delle reti neurali possiamo sapere che il loro talento consiste nel rintracciare pattern di strutture percettive nelle opere depositate negli archivi, che in gran parte sono sfuggiti ai canoni proposti negli insegnamenti dell’Accademia. L’I.A. non sviluppa nuovi paradigmi, o letture inedite di ciò che freme nello spirito del nostro tempo, ma è in grado di scoprire ciò che abbiamo riposto nel repertorio del passato, senza esserne consapevoli: rintraccia quello che gli autori non sanno di aver espresso con il loro lavoro. La metafora dell’inconscio adottata da Benjamin sembra quindi essere adeguata a descrivere quello che il lavoro dei software riesce a portare alla luce: in questo caso però il rimosso appartiene al corpus delle opere che scandiscono la tradizione estetica, da cui viene lasciato emergere ciò che vi è di latente, cancellato, rifiutato, dimenticato.
La possibilità di far redigere a chatGPT un testo nello stile di Foscolo o di Leopardi, o di chiedere a Midjourney di raffigurare un’immagine alla maniera di Monet, o di renderla con l’estro dei cubisti, o di mimare Caravaggio, Raffaello, Leonardo, conduce alla produzione di una specie di lapsus della storia dell’arte – qualcosa che l’autore invocato avrebbe potuto creare, o i suoi discepoli, ma che non è mai esistito.
Qual è lo statuto ontologico ed estetico di questo balbettio della tradizione, di questa eco di ciò che dovrebbe essere unico, e che invece resuscita in un sosia, ritorna nello spettro di un doppio scandaloso? Kant insegna che l’idea estetica è definita dal fatto di essere l’unica rappresentazione possibile di un’idea universale: il gesto produttivo dell’I.A. viola questo assunto che si trova alla radice di gran parte delle teorie dell’arte moderne e contemporanee.
Stiamo allora abbandonando per sempre la concezione dell’arte come creazione del genio, come gesto unico e non riproducibile dell’artista? Dobbiamo rivedere la prospettiva monumentale che l’Occidente ha coltivato dell’arte, per avvicinarci alla sensibilità del gesto nella sua infinita riproducibilità, sempre uguale e sempre differente, che appartiene alla tradizione orientale? O forse, l’attenzione con cui la possibilità di variare, di giocare con la latenza e il rimosso, avvicina l’arte ad un’esperienza quasi scientifica di osservazione e di scoperta, alla trepidazione e al timore (che sempre accompagnano il ritorno del trauma, la ricomparsa sulla scena del delitto) di mostrare lo schematismo di ciò che scatena l’emozione, di esibire i segni che suscitano la reputazione di verità, di configurare l’allestimento in cui avviene la recita di ciò che riconosciamo come bello e giusto.
Qualunque sia la soluzione che si verificherà nella prassi dei prossimi anni, se l’I.A. diventerà un dispositivo protagonista dell’attività creativa nelle mani degli artisti di professione e in quelle del pubblico generalista, e non si limiterà a rappresentare una moda passeggera, il suo impatto sarà destinato a introdurre un processo di ri-mediazione sulle forme espressive dell’arte e anche sui mezzi di comunicazione in senso ampio. Allo stesso modo, oltre un secolo e mezzo fa, la fotografia ha trasformato le modalità creative della pittura e delle arti plastiche, liberandole dalla fedeltà mimetica al loro soggetto e inaugurando percorsi di indagine che contrassegnano l’epoca moderna. Tutti i media subiranno una ristrutturazione che ne modificherà la destinazione, e le attese da parte del pubblico, con una nuova dislocazione della loro funzione comunicativa, laddove l’immediatezza documentaristica è minacciata dalle deep fake, la meccanicità della produzione di cronaca è coperta dalle I.A. generative trasformative, l’esercizio di riflessione sugli stili del passato è coperto dalla ricognizione dei pattern dalle reti neurali.
C’è molto spazio per la sperimentazione!
Recensione di "Eppure non doveva affondare - Quando la scienza ha fatto male i conti"
Il saggio Eppure non doveva affondare - Quando la scienza ha fatto male i conti (Bellucci D., Bollati Boringhieri, 2024) offre una riflessione approfondita sugli errori scientifici, mettendo in evidenza come questi non siano da considerarsi come semplici fallimenti ma opportunità, fondamentali per il progresso della conoscenza. Attraverso una serie di casi emblematici, l’autore mostra l’importanza di un’analisi critica e della capacità di apprendere dagli errori per migliorare le tecnologie e il metodo scientifico.
Uno degli ambiti in cui gli errori hanno avuto conseguenze drammatiche è l’ingegneria. Bellucci analizza alcuni fallimenti progettuali clamorosi, come quello degli aerei con finestrini quadrati. Questo design, apparentemente banale, si rivelò fatale: la forma degli angoli causava una concentrazione eccessiva delle sollecitazioni meccaniche, portando alla rottura della fusoliera in volo. Un altro caso emblematico riguarda le navi che si spezzano in due a causa di calcoli errati sulla distribuzione del peso e delle forze strutturali. Questi esempi mostrano quanto sia essenziale un’analisi accurata nella progettazione, perché anche il minimo errore può trasformarsi in una catastrofe.
Il libro si sofferma poi sugli errori nel campo dell’hardware e dell’informatica, mostrando come difetti nei microchip possano compromettere operazioni matematiche fondamentali. Un singolo errore nella progettazione di un processore può avere ripercussioni enormi, rendendo necessarie operazioni costose di aggiornamento o sostituzione. Anche nel software gli sbagli possono avere conseguenze impreviste e pericolose: sistemi che perdono la cognizione del tempo possono causare problemi gravi, soprattutto in ambiti critici come il settore bancario o le telecomunicazioni. A volte, persino un dettaglio apparentemente insignificante—come un cavo allentato—può mandare in fumo esperimenti scientifici di grande importanza.
Un altro ambito in cui gli errori possono avere conseguenze drammatiche è la medicina. L’autore analizza i problemi legati alla ricerca farmaceutica e alla produzione di medicinali, evidenziando come piccole variazioni nella formulazione o nella fase di sperimentazione possano rendere un farmaco inefficace o addirittura pericoloso. Inoltre, Bellucci mette in luce le criticità legate ai trial clinici, spiegando come un’interpretazione errata dei dati possa compromettere l’affidabilità delle cure e generare rischi per i pazienti.
L’intelligenza artificiale è un altro settore in cui gli errori assumono un ruolo centrale. Bellucci evidenzia i pericoli legati ai modelli predittivi, che possono produrre risultati distorti o discriminatori se vengono addestrati su dati errati. Un ulteriore problema riguarda la trasparenza: la cosiddetta “scatola nera” delle reti neurali rende difficile comprendere i meccanismi decisionali degli algoritmi, complicando l’individuazione e la correzione degli errori. Questo solleva questioni cruciali non solo dal punto di vista tecnico, ma anche etico.
Ma come si possono prevenire questi errori? Il libro dedica una sezione alle strategie utilizzate dalla scienza per ridurre i rischi e migliorare l’affidabilità delle scoperte. Tra queste, l’autore cita la peer-review nella ricerca accademica, il debugging nel software, i trial clinici randomizzati in medicina e l’uso della ridondanza strutturale in ingegneria, ovvero l’inserimento di margini di sicurezza nei progetti per evitare cedimenti improvvisi. Questi metodi mostrano che, pur non potendo eliminare completamente gli errori, è possibile limitarne gli effetti attraverso un’attenta verifica e un approccio sistematico.
Infine, Bellucci sottolinea come la scienza sia un processo collettivo: gli errori sono inevitabili, ma è proprio grazie al metodo scientifico che possono essere individuati, corretti e trasformati in nuove conoscenze. Il progresso non è mai il risultato del lavoro di un singolo, ma della condivisione e della verifica incrociata tra esperti. In definitiva, Eppure non doveva affondare offre una panoramica affascinante su come anche i più clamorosi fallimenti possano diventare strumenti preziosi per migliorare la nostra comprensione del mondo e affinare le nostre tecnologie.
DEVIS BELLUCCI
Devis Bellucci, nato nel 1977, è un fisico, scrittore e divulgatore scientifico italiano. Ha conseguito la laurea in Fisica nel 2002 e il dottorato nel 2006 presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove attualmente ricopre il ruolo di ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali. La sua attività di ricerca si concentra principalmente sui biomateriali per applicazioni in ortopedia, odontoiatria e medicina rigenerativa.
Oltre alla carriera accademica, Bellucci è autore di numerosi romanzi e saggi. Tra le sue opere narrative si annoverano "La memoria al di là del mare" (2007), "L'inverno dell'alveare" (2010), "La ruggine" (2011), "La sete dei pesci" (2013) e "La cura" (2017). Nel campo della divulgazione scientifica, ha pubblicato "Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo" (2020) e "Eppure non doveva affondare" (2024), in cui esplora gli errori nella scienza e le loro conseguenze.
Come divulgatore, Bellucci ha collaborato con diverse testate, scrivendo di scienza, viaggi e cultura. È attivo anche sui social media, attraverso i quali condivide contenuti legati alla scienza e alla tecnologia.
Le teorie del complotto, prima parte - Tra populismo, scientizzazione della politica e disincanto del mondo
Quella che segue è la prima di cinque puntate di un testo sul complottismo, indagato al crocevia tra populismo, scientizzazione della politica e disincanto del mondo. Il testo originale è stato pubblicato come prefazione al volume di Matthieu Amiech, "L'industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente" (Edizioni Malamente, 2024). Elisa Lello
--------
Scrivo queste pagine durante un soggiorno a Coimbra come pesquisadora (ricercatrice) visitante presso un Centro universitario che deve molto del suo prestigio a una importante tradizione di studi che ha avuto il merito di fare luce sul ruolo cruciale della dimensione epistemologica nei rapporti di dominio. In particolare, nel mettere sotto esame critico il ruolo che la scienza occidentale ha avuto nel legittimare e implementare le forme della dominazione coloniale storica – e che continua a esercitare attraverso la colonialità (Quijano 2005) – alla luce del fatto che il modo in cui vediamo e descriviamo il mondo determina anche i modi in cui pensiamo sia possibile, o non possibile, agire su di esso per trasformarlo. Una tradizione che si è dunque concentrata sull’epistemologia come strumento di potere, che spoglia la scienza della sua pretesa neutralità mostrando come questa risponda ai rapporti di forza in campo e questi contribuisca a consolidare, marginalizzando, invisibilizzando o ridicolizzando modi altri di stare al mondo, di conoscerlo e rappresentarlo (Chalmers 2017; Nunes e Louvison 2020; Santos et al. 2022).
Eppure, anche in un contesto come questo, quando mi capita di raccontare a colleghe/i i temi intorno cui gravitano i miei studi durante questi ultimi anni – essenzialmente: movimenti sociali e tecnoscienze, i rapporti tra politica e scienza, tra critica sociale e complottismo, tra epistemologia e populismo – quasi sempre mi imbatto in reazioni a cui sono fin troppo abituata. Dopo sorrisi e attestazioni di quanto tutto questo sia interessante, quella che mi si cerca (senza successo) di proporre è una complicità fondata sull’indignazione, e sullo scherno, a partire da qualche aneddoto che invariabilmente vorrebbe dimostrare quanto ci sia gente, là fuori – e, ça va sans dire, soprattutto tra chi ha orientamenti conservatori – così irrimediabilmente ignorante e anti-scientifica che ha completamente perso il lume della ragione, che crede in teorie strampalate, risibili e complottiste, e come è possibile che costoro abbiano diritto di parola e, quel che è peggio, pure di voto.
La mia perplessità, ma a volte è quasi scoramento, nasce non solo dal constatare la mancanza di qualunque cautela nel trattare del rapporto tra scienza, “ignoranza” e politica – ancor di più qui, appunto. Ma anche dal vedere come si tratti quasi sempre di ricercatrici/tori che si autodefiniscono militanti, di sinistra, che rivendicano un’attenzione estrema all’inclusività nelle pratiche e nel linguaggio quando si parla di identità di genere, orientamenti sessuali o body-shaming, eppure tutta questa inclusività, sensibilità e attenzione letteralmente svaniscono quando si è di fronte a opinioni non del tutto allineate, per esempio, sulla crisi eco-climatica o, a maggior ragione, quando si tratta di scelte sanitarie. Non solo svaniscono: peggio, troppo spesso si trasformano in un disprezzo profondo, antropologico, che apre la porta a battute feroci, che rivolte ad altre categorie desterebbero, giustamente, scandalo e reazioni ben sicure di sé. Il tutto senza poi indugiare troppo sulla eterogeneità delle critiche né sulle ragioni che vengono mosse, appunto, dai non allineati; senza interrogarsi sulla complessità delle questioni che pongono e che tutti ci dovremmo porre. Ci si accontenta invece, troppo spesso, di alzare steccati identitari per frapporre una distanza netta tra sé e gli “altri”: anti-vax, antiscientifici, trumpiani, complottisti, negazionisti, terrapiattisti. Un po’ tutti in odore di estrema destra e fascismo.
Sollevando, con ciò, contraddizioni che gridano giustizia, ma che raramente vengono affrontate. Per iniziare col piede giusto, prendiamo la sineddoche per eccellenza del vasto panorama del complottismo: gli odiatissimi “anti-vax”, categoria che finisce per catalizzare indignazioni, ironie e disprezzo, nonché solitamente inclusiva di chiunque per qualunque ragione abbia dubbi sulle politiche pandemiche. Bene, l’avere (più di) qualcosa da ridire sul fatto che le linee politiche essenziali che hanno guidato la gestione globale del Covid-19 siano state scritte da CEPI (Coalition for Epidemic Preparedness) – Fondazione B. & M. Gates, DARPA (NATO) e Wellcome Trust – è una posizione in perfetta continuità con ciò che denunciava il “movimento dei movimenti” tra Seattle e Genova al volgere del millennio e con ciò che qualunque movimento di sinistra variamente intesa dovrebbe ancora combattere oggi: com’è possibile che questa posizione non solo non sia più (percepita come) coerente con ideali di sinistra ed emancipativi, ma sia addirittura diventata patologica e pure fascista?
Poi, però, in questi stessi ambienti accademici (come in molti della militanza di sinistra) ci si straccia le vesti di fronte all’“onda nera” che travolge Europa e Stati Uniti, spesso, ancora una volta, con studi che, se finalmente prendono in considerazione il ruolo delle “emozioni”, il più delle volte lo fanno per dare una spiegazione tendenzialmente psico-patologica del voto a destra, che lascia a intendere quanto sia invece “razionale” quello progressista.
Sono convinta che ci sia un nodo da affrontare, qui. E che questo nodo abbia a che fare con ciò che impedisce un dialogo tra sinistra e classi popolari, dove la prima non fa nulla per dissimulare il suo disprezzo verso i valori e i modi di vita delle seconde proprio mentre si dispera perché queste non le tributano più i loro consensi e preferiscono cercare e inseguire altre narrative.
Ma è un nodo che riguarda anche l’accademia. La quale, muovendosi lungo percorsi in fondo molto simili, denuncia con tanta veemenza quanta superficialità i pericoli delle fake news e del complottismo, malattie che ovviamente contagerebbero di preferenza il “popolino”, e nel contempo si allarma di fronte alla perdita di credibilità delle “autorità epistemiche consolidate”, cioè università e istituzioni scientifiche, agli occhi (di parti rilevanti) del popolo stesso. Tendendo però a liquidare ogni problema, come vedremo, attraverso le interpretazioni auto-assolutorie del populismo, politico ed epistemologico, e della post-verità.
Per questi motivi credo sia importante affrontare in modo serio, finalmente, un tema come quello del complottismo, di ciò che lo produce, delle dinamiche storiche in cui si inserisce, e di ciò che esso stesso alimenta. E, in questo senso, il libro di Matthieu Amiech, come cercherò di evidenziare nelle prossime pagine, fornisce parecchi elementi preziosi, illuminanti. Quello che invece farò io, in queste pagine, sarà provare a introdurre il tema partendo dall’individuare aporie e contraddizioni nelle sue interpretazioni oggi largamente prevalenti (da parte del giornalismo, ma anche della sinistra e del sapere accademico), per poi contestualizzarlo all’interno del più ampio problema del rapporto tra scienza e politica, rintracciandone alcune connessioni con la scientizzazione della politica e con il disincanto del mondo.
In questo percorso, seguirò principalmente il filo argomentativo del libro; cercherò però anche di intessere un dialogo tra questo e alcune ricerche e pubblicazioni che ho portato avanti negli ultimi anni, con amici/he e colleghi/e, su temi affini o contigui; e con varie altre letture recenti. Tra queste, in particolare, si potranno riconoscere le impronte significative del Manifeste conspirationniste (Seuil 2022), di The divide: how fanatical certitude is destroying democracy (di Taylor Dotson, MIT Press 2021) e di Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione (di Stefania Consigliere, Derive Approdi 2020).
INIZIAMO A SFATARE QUALCHE LUOGO COMUNE
Cosa c’è dunque che non va in quelle reazioni così frequenti e automatiche? Cosa non funziona in quelle diagnosi che in modo così lineare, e semplice, individuano quasi tutti i problemi dell’oggi nell’ignoranza e nell’“analfabetismo funzionale” che rende il popolo (o comunque sempre “gli altri”) facile preda di fake news e complottismo?
Proviamo a sollevare qualche velo. Un primo problema è dato dal focalizzarsi su una fotografia istantanea senza tenere in considerazione come siamo arrivati a questo punto. Quando invece occorrerebbe partire dalla presa di consapevolezza, suggerita da Frédérique Lordon e ripresa da M. Amiech, della colpevole confisca del dibattito pubblico che ha sistematicamente privato la cittadinanza della possibilità e dei mezzi per capire le forze storiche che la dominano e per partecipare ai processi decisionali che disegnano gli scenari in cui dovrà vivere. Il complottismo, in questa prospettiva, appare piuttosto come sintomo di un’espropriazione, e come rifiuto, al tempo stesso e nonostante tutto, ad abdicare alla volontà di capire, di darsi una spiegazione.
Ci imbattiamo, continuando a sollevare qualche velo, nell’inadeguatezza e nella parzialità dell’informazione offerta dalle testate del mainstream, che in maniera crescente e accelerata negli ultimi anni si è intrecciata con dinamiche di militarizzazione del confronto, conformismo, censura e autocensura, dove su troppi temi i punti di vista dissonanti vengono immediatamente respinti come fake news, in un dibattito chiuso prima ancora di averlo aperto. Il complottismo, dunque – o meglio, l’etichettamento di posizioni critiche come complottiste – usato come arma politica per screditare il dissenso. Ma questa stigmatizzazione di posizioni minoritarie non si limita al piano verbale: come nel caso dei vaccini (per ora), ha legittimato soluzioni autoritarie nel segno dell’esclusione, della privazione di diritti essenziali, della separazione della cittadinanza tra meritevoli e non, sulla base dell’adesione e dell’obbedienza. È chiaro, e pure un’abbondante letteratura scientifica lo dimostra, che questo tipo di scelte – sia comunicative che politiche e legislative – determina un effetto boomerang (Attwell e Smith 2017; Goldenberg 2021), provocando la rottura della sfera pubblica come luogo di confronto di habermasiana memoria e, quindi, radicalizzazione delle posizioni (da entrambe le parti però, anche se si tende a dimenticarlo). Ma, tra chi viene escluso, si tratta di molto di più: di un senso di crescente estraniazione dal sistema di valori dominante e dalle sue categorie di lettura della realtà, di vissuti di lacerazione profonda e sofferta di legami e appartenenze, di «continenti percettivi che si allontanano, di forme di vita che diventano inconciliabili» (Manifeste, p. 31). Da qui occorre partire per capire come mai, a volte, si possa anche passare da una salutare diffidenza verso le narrazioni del potere alla convinzione, più problematica, che “tutto ciò che ci è stato insegnato è falso”.
Se solleviamo un altro velo, ci imbattiamo questa volta nella superficialità che conduce a un classismo evidentemente ignaro di sé. Quando parliamo di persone, e magari studiose/i, di sinistra, colpisce lo sbrigativo appiattimento sulle categorie ipersemplificanti e stigmatizzanti introdotte dal giornalismo mainstream (anti-vax, complottista e tutte le altre richiamate sopra). Soprattutto perché sono diversi gli studi che hanno invitato a uno sguardo più attento e cauto quando si parla di “complottismo”. Sottolineando, innanzitutto, come questo tenda a proliferare dove lo scostamento tra la realtà esperita dalle persone e la sua rappresentazione da parte di media e istituzioni supera una soglia critica. Il complottismo – o quello che molti definiscono con questa categoria, comunque problematica – prospera, insomma, sulle bugie delle élite. E ancor prima, sul non detto: prospera, cioè, laddove questioni che hanno un peso cruciale sulle nostre vite non diventano oggetto di un dibattito pubblico, aperto e capace di dare cittadinanza e legittimità ai diversi punti di vista.[1] Che è come dire, rovesciando la prospettiva, che sempre più spesso i presunti “complottisti” sono (lasciati) i soli a trattare, con mezzi e risorse eterogenei, questioni assolutamente vitali: dalle tecnologie 5(6)G all’impatto della più generale digitalizzazione della società, dal transumanesimo alle politiche sanitarie emergenziali.
E poi, soprattutto: chi decide quali teorie sono complottiste? Cosa distingue una teoria sociale critica da una conspiracy theory? Puntando l’attenzione sulle traiettorie seguite delle teorie sociali, Pelkmans e Machold (2011) mostrano come siano quelle promosse e sostenute dalle classi subalterne quelle che, con maggiore probabilità, finiranno per essere etichettate come complottiste. Non è insomma questione di fondatezza o razionalità, poiché non è agevole né forse possibile individuare criteri di distinzione su un mero piano epistemologico. Alla fine, la differenza la fanno i rapporti di potere. Tanto che una teoria del complotto, se sostenuta da attori in posizioni di potere, difficilmente sarà riconosciuta e ricordata come tale, anche qualora ne venga chiaramente dimostrata l’infondatezza, la strumentalità, talvolta la portata nefasta dei risultati (classico l’esempio delle “armi di distruzione di massa” suppostamente detenute da Saddam Hussein).
Del resto, a proposito di classismo, non ha destato le reazioni che avrebbe meritato la presa fortissima che ha recentemente acquisito, sugli scambi comunicativi di tutti i giorni, l’idea per cui solo chi ha un titolo di studio specifico sia titolato a parlare. Frutto avvelenato (uno dei tanti) del burionismo. Eppure, una tale idea è stata accolta e fatta propria, anche, o forse soprattutto, a sinistra. Senza la minima preoccupazione di quanto ciò significasse legittimare il silenziamento di quanti non hanno un titolo di studio elevato, il che poi sottende evidenti implicazioni di classe e giustizia sociale; né di quanto, in questo modo, si alimenti acriticamente la logica pericolosa per cui tanto si riserva il potere di decidere agli “esperti”, quanto inevitabilmente si spinge verso la depoliticizzazione delle questioni, restringendo lo spazio del dissenso e del confronto (ci tornerò più avanti).
Ma continuiamo a scavare. Siamo sicuri che sia (solo) il complottismo il problema? Non sarebbe urgente problematizzare anche, o forse soprattutto, quello che alcuni hanno battezzato il “dispositivo anti-complottista” e le sue implicazioni politiche?[2] Un’operazione, questa, che svolge il Manifeste conspirationniste, mostrando le vicende storiche che legano strettamente le origini della retorica anti-complottista – quindi fin da Karl Popper – con la genesi del neoliberalismo e del suo There Is No Alternative. Se tentare di produrre una intelligibilità storica del corso degli eventi è una presunzione fatale; se chiunque tenti di dire qualcosa su questo mondo che questo non dica già da sé oltrepassa i suoi diritti epistemologici: allora, non resta che adattarvisi. La funzione del dispositivo anti-complottista è fin dalle sue origini, questa la tesi degli autori, quella di legittimare l’ordine sociale esistente, ambendo a riservare per sé la facoltà di cospirare.
NOTE
[1] Cfr. Pelkmans e Machold (2011), Lagalisse (2020); sul tema del prosperare del complottismo sulle bugie dei potenti si può vedere anche la mia intervista a Erica Lagalisse, Teorie della cospirazione e critica sociale. Come il complottismo prospera, non sempre a torto, sulle bugie delle élite, “Malamente”, n. 20, gennaio 2021, p. 47-62, <https://rivista.edizionimalamente.it>.
[2] In Italia se ne è occupato per es. Lolli (2023)
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.
Il puzzle del sesso biologico - Il proposito di Trump e un possibile diverso atteggiamento
Il 20 gennaio 2025, Donald J. Trump ha pronunciato il suo discorso presidenziale durante la cerimonia di insediamento come 47esimo presidente degli Stati Uniti. Fra i tanti propositi espressi, c’è quello di mettere fine alla «alla politica governativa di manipolare socialmente genere e razza. Da oggi, la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti sarà che ci sono solo due generi: maschi e femmine» . Si è dimenticato che esistono gli intersex e che la materia è molto più complessa. Ma si sa, politici e giornalisti sono noti per banalizzare questioni serie e stravolgere la realtà.
In alcuni post precedenti (La costruzione di una identità, prima parte - Sesso (biologico), genere (sociale) e orientamento sessuale: 3 concetti non sovrapponibili, Seconda parte – Il sesso nell’antichità, Individuare il sesso, una storia infinita, e Cosa succede quando si nasce intersessual*?), abbiamo analizzato come nel campo biomedico si è costruito (nel tempo) il sesso biologico e diversi casi controversi nell’attribuzione dell’identità sessuale. L’antropologia, poi, è un campo privilegiato per conoscere come (in molte culture) l’identità sessuale sia uno “spettro” (nel senso di un fascio policromatico, un raggio d'azione, un range) più che un’ontologia dicotomica o binaria. Siamo quindi giunti alla conclusione che il sesso biologico è un puzzle costituito da molteplici tessere: cromosomi, marcatori genetici molecolari, dotti riproduttivi, gonadi, ormoni, organi riproduttivi per la loro funzione, genitali per la forma e funzione, pubertà (intesa come flusso ormonale secondario) e funzioni riproduttive incluse (ma non unicamente), produzione del seme, inseminazione, gestazione e caratteristiche sessuali secondarie quali sporgenza della cartilagine tiroidea che circonda la laringe (o pomo d’Adamo), crescita dei capelli, rapporto tra massa grassa e muscolare, crescita mammaria, voce, sesso psicologico, educazione ecc. L’intersessualità, nella larga maggioranza dei casi, non incide in modo significativo sulla salute della persona. E i genitali sono, quindi, soltanto una parte del corpo, che varia da persona a persona, come i nasi o le orecchie o altre parti del corpo. L’aspetto e loro dimensioni non sono determinanti per l’attribuzione sessuale.
LA MANIA DELLE CLASSIFICAZIONI
Al di là delle varie (controversie) metodiche per attribuire il sesso a una persona, forse vale la pena chiedersi: ma perché è così importante stabile se quello davanti a me è un maschio o una femmina (ammesso che lo si possa determinarlo così facilmente)? Qual è lo scopo di una classificazione?
Il sociologo Harold Garfinkel, il padre dell’etnometodologia , sosteneva che qualsiasi categorizzazione (o il collocamento di un oggetto/pianta/animale/persona in un tipo) è una costrizione, sempre relativa perché stabilita in relazione agli scopi pratici (“for all practical purposes”) di coloro che classificano[1]. In altre parole, non c’è nulla nella referente osservata che indichi a quale categoria essa debba necessariamente appartenere. Una posizione anti-essenzialista, che condivide con la filosofia taoista dove non esistono valori assoluti, enti fissi o immobili, esseri o cose a sé stanti, come invece le categorie vorrebbero.
Per cui, ogni volontà di classificazione risponde a una necessità pratica. Nello sport, dove in tempi recenti sono stati sollevati i casi dell’ostacolista spagnola Maria José Martínez-Patiño, della mezzo-fondista sudafricana Caster Semenya, della calciatrice zambiana Barbra Banda e (pochi mesi fa) della pugile algerina Imane Khelif (vedi Individuare il sesso, una storia infinita), lo scopo sarebbe di porre tutte e tutti nelle medesime condizioni di partenza. Che è un’assurdità, perché non siamo tutti e tutte uguali, neanche… alla partenza. Giancarlo Antonioni (grande n. 10 della Fiorentina) non era uguale a Pelè (n. 10 del Santos). Lo scontro, se fosse stato un duello individuale, sarebbe stato impari. Come lo fu, nel 1970 e 1971, tra Carlos Monzon e Nino Benvenuti. Eppure stavano nella stessa categoria (pesi medi).
Inoltre, se la differenza tra uomini e donne fosse così netta, come mai certe tenniste (ma l’esempio lo si può fare per tutti gli sport) possono benissimo battere certi tennisti? Non ci sono solo il testosterone o 1 coppia cromosomica a fare la differenza, ma una molteplicità di altre variabili. Che sfuggono alle categorizzazioni, che le categorie non riescono a gestire. Il pugile Primo Carnera combatteva con quelli del suo peso, eppure forse aveva un vantaggio datogli da una presunta malattia genetica (l’acromegalia), in cui l'eccessiva produzione di ormone della crescita (Growth Hormone, GH) indotto spesso da un adenoma dell'ipofisi produce una serie di modificazioni degli arti e dei tratti facciali (anche il campione statunitense di wrestling André The Giant sembra esserne affetto). Attorno alle atlete sopra ricordate nacquero molte polemiche (che produssero anche squalifiche). Eppure loro erano nate così. Invece il velocista sudafricano Oscar Pistorius non era nato con le protesi in fibra di carbonio; eppure dal 2008 fu ammesso a gareggiare con i (cosiddetti) normodotati.
Ma non perdiamo la domanda di partenza: qual è la necessità pratica che presiede questa particolare necessità di classificazione binaria (maschi e femmine) nello sport? La competizione. Stabilire chi è il migliore, chi è il primo, chi è il più bravo. Lo scopo (eminentemente pratico) è solo questo. Non ci sono altre ragioni. Togliamo questa ragione (eminentemente pratica) e tutto crolla. Infatti, sono certo che se le pugili Imane Khelif (accusata di essere un uomo) e Angela Carini lavorassero nella stessa azienda, nessun politico chiederebbe (perché contrattualmente, purtroppo, le cose stanno ancora così in molte professioni) per Khelif uno stipendio maggiore perché ha una coppia di cromosomi XY. Perché se lo facesse, arriveremmo al paradosso che, lei sarebbe un maschio per lo sport e una femmina per il lavoro.
UNA PROPOSTA DI SOLUZIONE PER GLI SPORT DI SQUADRA
In attesa di trovare delle soluzioni per gli sport individuali, qualcosa invece si potrebbe già fare, almeno per quelli collettivi. Unico settore dove ancora esiste una rigida divisione tra maschi e femmine (con tutti i controlli necessari per incasellare le persone in una delle due categorie) ormai scomparsa a scuola, nei collegi, nella polizia e perfino nell’esercito, un tempo autentica palestra machista. Perché mantenere questo apartheid sportivo, anziché dissolverlo in squadre miste e intersex?
NOTE
[1] Ad esempio i censimenti e le classificazioni anagrafiche sono nate per scopi pratici: il controllo sociale della popolazione, la quantificazione dei beni, il reclutamento di militari ecc. Infatti, le prime informazioni riguardo a indagini sulla popolazione risalgono addirittura al 3800 a.C. dove i Sumeri affrontavano vere e proprie indagini per misurare la quantità di uomini e beni di cui si poteva disporre. Le informazioni acquisite erano utili soprattutto in caso di guerra o di carestie. Nella Bibbia si fa riferimento al censimento effettuato da Mosè nel Sinai: il Signore parlò a Mosè, (…), e disse: ‹‹Fate il censimento di tutta la comunità degli Israeliti, secondo le loro famiglie, secondo il casato dei loro padri, contando i nomi di tutti i maschi, testa per testa, dall'età di venti anni in su, quanti in Israele possono andare in guerra (…)››. (Numeri 1, 1-3. Vedi anche Esodo 30,11-16): https://it.wikipedia.org/wiki/Censimento. Il controllo sociale è anche il principale motivo per cui è nata la statistica sociale.
Internet ci rende transumani - La fattoria degli umani di Enrico Pedemonte
1. QUELLO CHE L’UTOPIA NON SA
«Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa». Il rammarico dell’Antonio di Shakespeare potrebbe essere rivolto alle utopie che hanno accompagnato la nascita di Internet e dei dispositivi digitali, e i nomi di di Vannevar Bush o di Douglas Engelbart potrebbero sostituirsi a quello di Cesare. Nel 2008 Nicholas Carr si domandava se Google ci rende stupidi, e di sicuro oggi molti analisti concordano sul fatto che non siamo qui a lodare la convinzione che le macchine possano contribuire ad aumentare l’intelletto umano – ma a seppellirla. Dalla presentazione del 9 dicembre 1968, con cui Engelbart ha mostrato per la prima volta l’interazione con un computer tramite mouse e interfaccia grafica, siamo passati attraverso la commercializzazione massiva della Rete, la formazione dei monopoli delle Big Tech, il saccheggio dei dati personali, lo sviluppo della società del controllo, la dipendenza patologica dalle piattaforme, la filter bubble, la polarizzazione delle opinioni e il dibattito sulla disinformazione. Di sicuro si è persa l’innocenza delle origini, la promessa di un nuovo mondo della comunicazione, la speranza di una libertà che il principio di realtà aveva negato nel mondo offline, la fiducia in comunità virtuali, senza confini, dove raggiungere una piena espressione del sé di ognuno.
Enrico Pedemonte ripercorre la storia che porta da Vannevar Bush fino ai nostri giorni in La fattoria degli umani, cercando di capire cos’è successo all’utopia degli spazi digitali, cosa si è inoculato nel sogno di un’umanità più perspicace e più emancipata precipitandolo in un incubo, nel terrore che tutto possa concludersi con lo sterminio della nostra specie da parte di un’AI superintelligente. L’ipotesi che un giorno o l’altro una macchina assuma l’aspetto di Terminator e compia una strage, come in un film di fantascienza, non è una preoccupazione realistica; ma è significativo che la retorica da cui viene accompagnato lo sviluppo delle nuove tecnologie abbia dismesso l’entusiasmo per l’intelligenza connettiva di Pierre Lévy, e abbia abbracciato il timore di scenari catastrofici. Pedemonte sospetta che un vizio sia presente fin dall’origine, e che i suoi effetti si siano amplificati con l’espansione della forza economica e del potere politico dei giganti della Silicon Valley.
2. IMMUNITÀ LEGALE
Anzi, i difetti sono almeno due, e si sono rafforzati l’un l’altro, o sono forse due sintomi di una stessa crisi, ancora più profonda. Il primo ha origine fuori dall’ambiente culturale della Silicon Valley, e si sviluppa nel cammino tormentato con cui il parlamento americando ha raggiunto la versione definitiva del Communications Decenct Act. La legge stabilisce che le piattaforme online non devono essere equiparate agli editori tradizionali, e le tutela da ogni intervento del governo nei loro confronti: in questo modo attori del nascente mercato digitale, come Google, Facebook, Twitter, sono stati messi al riparo da qualunque regolamentazione sia sul controllo dei contenuti, sia sulla ripartizione della distribuzione pubblicitaria – e più in generale sulla valutazione delle loro posizioni monopolistiche nei settori della ricerca, dei social media, dell’intelligenza artificiale. La supervisione che viene applicata ai giornali, alle radio e alle reti televisive, non agisce sugli algoritmi che gestiscono il ranking dei listati di risposte, la selezione dei post e la composizione delle bacheche personali, la profilazione dell’advertising: eppure tra il 2004 e il 2021 il numero di giornali nel mondo è quasi dimezzato (-47%), mentre l’accesso alle notizie tramite i social media è diventato una consuetudine tra gli utenti del Web.
Ma l’obiettivo delle piattaforme tecnologiche non è quello di consolidare la fiducia dei lettori nella verità dei contenuti divulgati, bensì quello di trattenerli il più possibile nella compulsione delle bacheche, e nell’incentivare il più possibile l’interazione con like, commenti, condivisioni. Mentre la verità si sta ancora allacciando le scarpe, una bugia ha già fatto il giro del mondo: così chiosava Mark Twain. Il controllo delle informazioni richiede tempo, e il più delle volte una storia esposta in buona fede è affetta da lacune, passaggi critici, contraddizioni; l’artefazione, o (quando serve) l’invenzione completa dei fatti, possono invece adattarsi all’ecosistema ideologico degli interlocutori, e sfrecciare da una mente all’altra senza ostacoli. La fatica che è richiesta all’utente nella ricognizione della complessità del reale, gli viene del tutto risparmiata quando la notizia è costruita attorno all’effetto emotivo, che suscita scandalo, orrore, sdegno o pietà. Le notizie a tinte forti attraggono i clic, coinvolgono i lettori, accendono il dibattito – spingono verso la radicalizzazione dei pregiudizi, a detrimento della riflessione e della mediazione. Gli esiti sono tossici per lo stato di salute delle democrazie e per la coesione sociale; per i bilanci delle società che amministrano le piattaforme sono invece un toccasana, perché assicurano il buon funzionamento della loro attività produttiva principale, l’estrazione dei dati.
3. DATI
Shoshana Zuboff ha sottolineato l’affinità tra il modello di business di imprese come Google e Facebook da un lato, e l’industria mineraria o petrolifera dall’altro lato. Le informazioni che le Big Tech estraggono dal comportamento degli utenti permettono loro di conoscere le caratteristiche sociodemografiche, gli interessi, le opinioni, le abitudini, le relazioni personali, le disponibilità di spesa, le paure di ognuno e di tutti – e naturalmente anche di controllarli, manipolarli, sfruttarli. Nessun settore imprenditoriale si è mai rivelato tanto promettente dal punto di vista dei profitti, e nessuno è stato così agevolato nella crescita, e messo al riparo dalle difficoltà minacciate dalle istituzioni a tutela della privacy e della libera concorrenza, nonché dalle interferenze di attivisti e giornalisti troppo curiosi. Motori di ricerca e social media serbano una biografia di ciascuno di noi più ampia, più ricca e obiettiva, di quella che noi stessi sapremmo confessare nel segreto del nostro foro interiore: nella registrazione di tutte le nostre domande, dei nostri like e dei nostri post, protratta per anni, si deposita una traccia delle aspirazioni, degli interessi e delle paure di cui spesso non conserviamo una memoria cosciente, ma che i database di Google e di Facebook mettono a disposizione degli inserzionisti. Inconscio, abitudini e passioni, individuate nel momento in cui emergono da pulsioni interne o da opportunità sociali, diventano la leva ideale per vendere prodotti e servizi – ma anche candidati elettorali, ideologie, priorità e strategie politiche.
Le piattaformi digitali tendono al monopolio: le persone frequentano i posti dove si trovano già tutti i loro amici, o cercano le informazioni che sono condivise dai loro clienti e dagli interlocutori in generale. In questo modo chi ha accumulato più dati è in grado di offrire esperienze più divertenti e informazioni più personalizzate, intercettando quindi nuovi utenti e appropriandosi ancora di più dati. Chi vince piglia tutto, come accade a Google che detiene circa il 90% delle quote del mercato della ricerca online mondiale. La tensione che ha alimentato questa forma di capitalismo trova la sua ispirazione e giustificazione ideologica nella letteratura di Ayn Rand e della fantascienza che ha nutrito imprenditori, tecnici, guru, profeti e visionari nerd della Silicon Valley: è questo il secondo vizio – questa volta del tutto interno alla cultura tech – che ha segnato dalle origini il percorso delle utopie della Rete. L’umanità deve essere salvata da se stessa, dalla sua imperfezione e dalla sua mortalità, e questo compito può essere assunto solo da un eroe che trascende qualunque limite gli venga opposto dalla società, dalla legge, dalle tradizioni e persino dal buon senso (anzi, da questo prima di tutto). L’individualismo senza rimorsi, la tensione a diventare l’eletto che porterà gli altri uomini oltre se stessi, anche a costo della loro libertà – sono il codice in cui è scritto il programma utopistico della Rete, come sede della vita che vale la pena di essere vissuta. Chi non ce la fa, o chi cerca di resistere – o addirittura chi tenta di non essere d’accordo – è destinato a soccombere e a scivolare nell’oblio della storia. La violazione della privacy, il prelievo dei dati, la manipolazione delle intenzioni, non sono quindi attività illegali, ma sono i doni che l’eroe riversa sull’umanità, per liberarla dalle sue limitazioni, dalle sue paure irrazionali, dalla sua mortalità.
4. L’UOMO (?) CHE VERRÀ
Pedemonte elenca sette movimenti in cui si possono classificare le mitologie principali da cui è guidato il capitalismo della Silicon Valley: Transumanesimo, Estropianesimo, Singolarismo, Cosmismo, Razionalismo, Altruismo Efficace, Lungotermismo. Le categorie non sono esclusive, si può aderire a più parrocchie nello stesso tempo, o transitare nel corso del tempo da una all’altra. In comune queste prospettive coltivano il culto dell’accelerazione nello sviluppo di nuove tecnologie, l’ambizione di realizzare simbionti tra uomo e macchina, dilatando le capacità cognitive degli individui, riprogrammando la vita e la natura, eliminando imprevisti, patologie e – ove possibile – anche la morte.
Le aspirazioni appartengono alla fantascienza, le intenzioni utopistiche sono sepolte e dimenticate, ma lo sviluppo di metodi di controllo, l’accentramento monopolistico, la violazione della proprietà intellettuale, l’abbattimento progressivo dello stato sociale e la privatizzazione dei suoi servizi, sono ormai la realtà del capitalismo dei nostri giorni – che ha trovato nelle tecnologie digitali, e nell’etica hacker che ne sostiene la progettazione, la piattaforma su cui reinventarsi dopo la crisi degli ultimi decenni del XX secolo. La realtà che è sopravvissuta alle utopie novecentesche è un mercato che ha assorbito la politica e la cultura, dove l’unico individuo che può esprimersi liberamente è quello transumanistico, che pone la macchina come obiettivo, e l’autismo del nerd come modello di vita.
BIBLIOGRAFIA
Carr, Nicholas, Is Google Making Us Stupid?, «The Atlantic», vol. 301, n.6, luglio 2008.
Engelbart, Douglas, Augmenting human intellect: A conceptual framework, SRI Project 3578 Stanford Research Institute, Menlo Park California October 1962.
Lévy, Pierre, L'Intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberespace, La Découverte, Parigi 1994.
Pedemonte, Enrico, La fattoria degli umani, Treccani, Milano 2024.
Zuboff, Shoshana, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Profile Books, Londra 2019.
Biochar, il carbone amico
Quando pensiamo al carbone, andiamo subito col pensiero all’inquinamento, a colonne di fumo nero e denso e alle città coperte di fuliggine di non tanti decenni orsono. E, nonostante i progressi tecnologici che hanno reso progressivamente meno inquinanti i sistemi di combustione del carbone, questa visione è ancora attuale, perché il carbone è ancora largamente usato in tutto il mondo nelle centrali per la produzione di energia elettrica (circa il 30% dell’energia elettrica mondiale è prodotta da centrali a carbone, fonte IEA - International Energy Agency).
Ma in questo articolo parliamo di un altro tipo di carbone che - al contrario - ha delle proprietà che lo pongono agli antipodi del carbone fossile e dei suoi utilizzi: questo prodotto si chiama biochar e la sua scoperta è relativamente recente, i primi studi scientifici si devono al professor Johannes Lehmann della Cornell University negli anni 80.
Il biochar è il residuo carbonioso ottenuto dalla combustione in assenza di ossigeno di biomassa (materia organica). Qualsiasi tipo di biomassa di origine vegetale o animale, sottoposta al processo di combustione in assenza di ossigeno – pirolisi – produce biochar. Evidentemente la materia di partenza (feedstock), influisce sulle caratteristiche chimiche del prodotto finale.
Proviamo, qui, a dare una breve panoramica globale delle qualità di questo composto e a focalizzare un aspetto di particolare interesse, ovvero la sua capacità di stoccare CO2, diventando, quindi, anche un elemento per contrastare l’immissione di gas a effetto serra in atmosfera.
COME SI FA IL BIOCHAR
Il carbone vegetale si fa dalla notte dei tempi; in tutta l’Europa mediterranea c’erano le carbonaie dove si bruciavano residui legnosi per produrre carbone, il biochar è l’evoluzione scientifica di questo sapere antico.
Oggi esistono sofisticate apparecchiature che per produrre il biochar attivano un processo di combustione lenta a temperature di circa 500-600 gradi Celsius in assenza di ossigeno.
A partire dal feedstock introdotto, si realizzano essenzialmente tre prodotti:
- il biochar, ovvero la frazione solida del processo di pirolisi
- il syngas, i residui gassosi del processo
- il bio-olio, residuo liquido del processo
In realtà la questione è più complessa e se il processo di combustione prevede la presenza di limitate quantità di ossigeno, parliamo di “gassificazione” e l’output del processo è diverso.
Tuttavia, concentrandoci sul solo biochar, esso viene prodotto essenzialmente a partire da biomassa vegetale, residui legnosi di qualsiasi origine.
Si comprende facilmente che questo tipo di processo permette l’utilizzo e la valorizzazione circolare di materiale che altrimenti andrebbe disperso o bruciato senza alcun vantaggio. Parliamo dei residui di potature, sfalci, rami degli alberi che diventano tronchi puliti destinati alle segherie per usi industriali.
E su questo punto va aperta una parentesi: i boschi vanno gestiti e i piani di tagli programmati non solo non arrecano alcun danno ma, al contrario, fanno bene alla salute dei boschi.
Il problema è il disboscamento selvaggio e illegale (che non esiste in Europa), non certo la gestione forestale sostenibile che prevede dei tagli programmati mirati a rinforzare lo stato di salute del bosco o della foresta.
Nel processo di pirolisi, fatto cento in quantità il feedstock, la resa è del 25 – 30% circa, ovvero si ottiene, dalla combustione della massa vegetale, il 30% di biochar.
Ne risulta un prodotto simile alla carbonella che si usa per i barbecue, ma più fine, le cui caratteristiche principali sono la porosità, la capacità di trattenere l’acqua, il potere alcalinizzante dei terreni.
APPLICAZIONI IN AGRICOLTURA
Il biochar può essere utilizzato in agricoltura, come filtro nella depurazione di acque inquinate, nell’edilizia come materiale per l’isolamento, nella produzione di biocarburanti.
Ma il suo utilizzo attualmente più diffuso e importante è quello agricolo.
Distribuito sui terreni è un potente ammendante[1], quindi migliora la qualità chimiche, fisiche e biologiche dei terreni, rendendoli molto più produttivi e contrastando gli effetti della siccità perché trattiene l’acqua nei terreni.
Immesso nel terreno, il biochar aumenta il ph, quindi rende la terra più alcalina, aumenta la disponibilità di acqua, migliora le condizioni di sviluppo delle radici, migliora l’apporto e l’assorbimento di nutrienti per le piante, aumenta la resistenza alle malattie e ai fattori di stress ambientale.
In pratica, è una specie di potentissimo ricostituente dei terreni.
In funzione del tipo di terreno di cui si vogliono migliorare le caratteristiche chimico – fisiche, si potranno produrre diversi tipi di biochar (variando la composizione del feedstock e le condizioni di pirolisi) che daranno risposte mirate per obiettivi specifici. Risultati eccellenti si stanno raggiungendo con i terreni aridi, sabbiosi, sovrasfruttati.
BIOCHAR E ATMOSFERA
Ma c’è un’altra caratteristica di grande interesse di questo prodotto, esso è efficace per il sequestro di CO2 dall’atmosfera.
Infatti, al termine del processo di produzione, la CO2 presente nel materiale vegetale viene mineralizzata e quindi “intrappolata” nel biochar. Circa il 90% di questa CO2 resta inglobato nella struttura molecolare del prodotto che rimane stabile per centinaia di anni.
È bene precisare che è giusto parlare di sequestro e non di stoccaggio della CO2 in quanto si tratta di carbonio di origine vegetale fotosintetizzato a partire da CO2 atmosferica.
In questo modo il biochar diventa anche uno strumento di lotta all’effetto serra, e infatti la sua produzione permette anche di emettere crediti di carbonio (al termine di un processo di certificazione) da vendere sul mercato volontario (quindi non per le aziende obbligate a compensare le proprie emissioni).
Che i boschi bruciati rinascano velocemente e con grande forza è un fenomeno conosciuto da sempre; una delle ragioni che determinano questa situazione è la modifica delle caratteristiche del suolo dovuta alle ceneri. È esattamente ciò che fa il biochar.
A volte la scienza va avanti guardando al passato.
PER APPROFONDIRE
Ichar, Associazione Italiana Biochar
International Biochar Initiative
Unibo, Biochar, presente e futuro
NOTE
[1] La differenza tra una sostanza ammendante e un fertilizzante è che la prima interviene sulla struttura del suolo e apporta migliorie stabili nel tempo, i fertilizzanti sono solo l’immissione nel terreno di sostanze nutritive che vengono utilizzate e consumate dalle piante.