Ripensare le Scienze - Perché "Controversie"?
L'intento alla base di Controversie è di ripensare le Scienze e le Tecnologie. Infatti, questa rivista è nata appunto per riesaminare – o rinegoziare – l’idea che considera le scienze come portatrici di verità assolute e oggettive, nonché distanti dalle influenze umane, come se abitassero dunque in una sorta di moderno pantheon laico. Questa visione, di stampo positivista e scientista, vuole esaltare l’impresa scientifica ma spesso non comprende che la banalizza e, in aggiunta, la mette su una sorta di piedistallo epistemologico; così facendo, le scienze vengono isolate da altre – fondamentali – attività umane con le quali devono necessariamente dialogare come, per esempio, arte, filosofia, linguistica, sociologia o storia. Tale isolamento può quindi portare a gravi errori di valutazione, su più livelli.
Inoltre, il termine scienza (al singolare) allontana da una presa di posizione consapevole della disciplina stessa. Infatti, scienza, se espressa al singolare, rappresenta un termine ombrello che raccoglie al suo interno elementi molto diversi [1], i quali trattano oggetti di studio differenti come, per esempio, l'astronomia e la zoologia, oppure l'ingegneria e la microbiologia. Se mettiamo tutte queste discipline "sotto lo stesso tetto", quindi, ne annulliamo le differenze e relative specificità.
Scopo di Controversie è dunque di ripensare concezioni limitanti e banalizzanti delle scienze e delle tecnologie, far riflettere sul fatto che esse possono dialogare in modo proficuo con altre importanti imprese umane e, di conseguenza, far capire che tutte queste discipline sono immerse in una bellissima rete e non, invece, in categorie separate le une dalle altre. Mostrare le controversie, gli errori, i non sequitur nello sviluppo delle scienze può aiutare in questo intento. Così facendo, si possono anche percepire le peculiarità e le bellezze insite nell'impresa scientifica stessa.
In conclusione, quando parliamo di scienze è necessario considerare più elementi possibili – una pluralità di voci – perché tutte queste componenti possono (e devono) lavorare insieme, in quanto nessuna di esse vive isolata e in un mondo a parte.
Ciò che si ottiene è una visione delle scienze (e delle tecnologie) più aperta, ampia e completa.
NOTE
[1] Possiamo fare un ragionamento simile anche con i termini animale o femminismo.
Scienza Post Normale – Due casi concreti di applicazione delle prescrizioni
Un paio di settimane fa abbiamo parlato – in linea molto generale – del concetto di Scienza Post Normale, che abbiamo definito un “approccio normativo per la complessità e l’incertezza”. Un approccio che può guidare il lavoro di scienze e scienziati quando vengono chiamati in soccorso dalle istituzioni in condizioni, appunto, di incertezza, di rischio elevato, di conflitti valoriali e di urgenza.
Funtowicz e Ravetz sostengono che questo approccio – normativo, ricordiamolo - è utile quando la scienza normale, quella della soluzione di rompicapo all’interno di un paradigma stabile e consolidato[1] non può essere applicata perché le condizioni sfuggono alle classificazioni standard; e quando nemmeno le esperienze anche tacite, maturate dagli esperti nel corso della loro pratica, l’area della Professional Consultancy, non trovano un terreno solido su cui poggiare, a causa – soprattutto - delle condizioni di incertezza e della complessità ed intreccio delle poste in gioco.
Diagramma della scienza post-normale. Fonte: Scienza, politica e società, 2022
Può essere interessante, per comprendere la portata e l’applicabilità di questo approccio, di vedere due casi pratici, uno in cui le raccomandazioni sono state applicate in modo consapevole e uno in cui – rileggendone la storia a posteriori – si riscontrano le tracce di un utilizzo inconsapevole delle norme PNS.
L’INCONTRO PERSONALE DI ANDREA SALTELLI CON LA SCIENZA POST NORMALE
Nella sua vita “pre-post-normal-science”, Andrea Saltelli lavorava per la Commissione Europea, sullo sviluppo e sul controllo della qualità di modelli quantitativi da utilizzare nello studio e nella valutazione delle politiche comunitarie, in particolare, sull’educazione. Stimolato dal dibattito sull’approccio fondato da Funtowicz e Ravetz – comprese che il suo lavoro di controllo dei modelli “presupponeva” i modelli stessi, come se questi fossero scontati, naturali e la loro genesi non fosse affatto problematica.
C’erano domande sulla genesi dei modelli, racconta Saltelli, che fino allora non si era posto erano di questo tenore: “Perché è stato sviluppato questo modello? Chi l’ha richiesto? Con quali obiettivi e aspettative?”; e, ancora: “Quali voci sono state ascoltate nella costruzione del modello? Qual è la nozione di progresso che lo anima?”.
Tutte domande che lo spingevano a situare il focus del suo lavoro in un contesto socio-politico e in una visione del mondo, a cercare di comprenderne le distorsioni, le influenze e – soprattutto a valutarne gli effetti positivi e negativi sui programmi educativi e sui rapporti di forza tra stati o fra regioni.
In poche parole, l’approccio della PNS ha suggerito a Saltelli che i modelli quantitativi sviluppati per simulare lo sviluppo delle politiche, controllarne e monitorarne l’applicazione, a volte già contenevano quelle stesse politiche e il loro sviluppo era una forma di legittimazione delle politiche stesse. In poche parole, l’obiettivo silente dei modelli poteva in certi casi risultare nella riduzione delle politiche nelle loro dimensioni quantitative e – in questo modo – farne risaltare l’immagine oggettiva e neutrale: “lo dicono i numeri”[2].
Numeri che, volutamente, per evitare la proliferazione di scenari alternativi - con i relativi impatti socio-politici – e garantire la linearità, tralasciano i fattori di incertezza e le potenziali condizioni di deviazione. Di tanti possibili scenari, ne “scelgono” uno, quello che legittima e conferma le scelte iniziali e le assunzioni di valore della politica che descrivono.
Applicare alcune delle raccomandazioni della PNS quali, ad esempio, la ricerca del pedigree dei dati e delle assunzioni preliminari di valore, contaminando la modellistica “ufficiale” non trovò un terreno fertile ma, al contrario, incomprensione e ostilità. Questo genere di contaminazione, racconta Saltelli, significava mettere in discussione il candido positivismo e la convinzione nella neutralità della scienza verso cui inclinano la maggior parte delle istituzioni comunitarie.
Le linee di ricerca che si sono aperte dopo questa presa di coscienza, tuttavia, si sono rivelate costruttive e produttive: è iniziato per questo ricercatore un periodo di “cooperazione con statistici che guardavano con interesse alla crisi della riproducibilità in termini di problemi epistemologici e normativi, che provavano diversi approcci all’interpretazione dei legami tra scienze, tecnologie e nuovi mezzi di comunicazione, che correlavano questi approcci alla cosiddetta post-verità e alle istanze dell’integrità delle scienze”
Oggi non sembra possibile, per questi ricercatori, sviluppare e adottare modelli statistici che non prendano in considerazione le incertezze, l’origine dei dati, le diversità valoriali e la molteplicità delle voci coinvolte.
IL CASO DELLA PANDEMIA DI H1N1 NEL 2009
Nel caso della pandemia influenzale del 2009-2010, causata dal virus H1N1[3], possiamo rintracciare alcuni elementi caratteristici delle prescrizioni della Scienza Post Normale, probabilmente messe in atto in modo non consapevole.
Vediamo qualche elemento chiave che delinea questa storia[4] come esempio di applicazione della PNS. Come prima cosa va ricordato che 1) solo la WHO (World Health Organisation) può dichiarare che la diffusione di una malattia è una pandemia e 2) che la dichiarazione dovrebbe seguire un percorso quasi meccanico, in cui i fatti sono stabili e chiari, il processo e le nozioni che lo delineano sono ben definiti e le risposte sono nette, quasi da manuale.
Nel caso della diffusione del H1N1, invece, i fatti scientifici emersi – come la ampiezza della diffusione della malattia, la sua velocità di riproduzione e il suo grado di gravità - furono tutt’altro che chiari e stabili, e la nozione stessa di pandemia venne messa in discussione nel corso del processo di studio del fenomeno.
Quello che accadde nel primo periodo epidemico fu che la diffusione - apparentemente ampia e veloce - e la gravità della malattia furono difficilmente misurabile a causa dell’incertezza dei dati sul numero di persone infette nelle diverse nazioni o regioni colpite e sul numero di morti, e della evidente divergenza di percezione che si verificò tra area ed area.
In questa situazione di incertezza, il processo che portò – nel giugno 2009 - alla dichiarazione di pandemia da parte della WHO, porse il fianco a una serie di critiche, sia da parte di numerosi scienziati che non riscontrarono nel fenomeno i caratteri epidemiologici necessari per chiamarlo pandemia; che da parte del Consiglio d’Europa, il quale ritenne non giustificabile l’effetto di paura collettiva generato per una malattia che – dopo alcune settimane – si rivelò molto più lieve di quanto prospettato ; sia, infine, da parte di molti altri osservatori, per l’approccio ondivago della WHO[5]
Nel corso del processo, infatti, la WHO dovette rivedere più volte – sotto la pressione delle critiche di numerose nazioni e istituzioni, e di fronte al grado di incertezza sull’andamanto quantitativo e qualitativo della diffusione – sia la nozione di pandemia, che progressivamente incluse i fattori di novità, mutazione, diffusione, attività della malattia, e quello di imprevedibilità. Il fattore gravità fu anch’esso oggetto di discussione: prima fu escluso, a favore della dimensione della diffusione[6], poi fu reintrodotto tra i parametri di valutazione.
Ora, questa vicenda sembra avere tutte le caratteristiche di una situazione di scienza post normale: l’incertezza sui dati e sul fenomeno, la rilevanza della posta in gioco, quella della salute di grandi parti della popolazione mondiale, i conflitti tra attori e istanze valoriali, e l’urgenza di prendere decisioni.
Se, in un primo momento, la WHO si appellò al principio di precauzionalità, dando priorità al fattore urgenza, in un secondo momento diede ascolto alla pluralità di voci che si manifestarono a favore e contro la controversa dichiarazione di pandemia e, progressivamente, de-costruì e ricostruì la nozione di pandemia, includendo – tra gli altri - i fattori critici della imprevedibilità e le istanze delle istituzioni delle aree colpite.
Si tratta, quindi e con evidenza, di una costruzione sociale di un concetto che – secondo il mito della scienza intonsa (ne parla Elisa Lello qui) – dovrebbe avere confini scientifici chiari e ben definiti ma che, in realtà, è facile che non li abbia affatto e debba essere oggetto di negoziazione e di decisioni pluraliste.
QUALCOSA DI NUOVO SOTTO IL CIELO DELLA SCIENZA?
Forse no, forse l’analisi delle problematiche scientifiche proposta da Funtowicz e Ravetz non è nulla di nuovo, né di eccezionale; i critici della PNS sostengono – infatti - che la PNS non ha scoperto nulla, ma ricalca temi noti da sempre alla sociologia della scienza.
Però, posto che sia così, senza la traduzione intelligente di questi temi proposta dalla Scienza Post Normale, il messaggio – quello della necessità di organizzarsi con una nuova e più variegata cassetta degli attrezzi per affrontare i grandi temi scientifici - non sarebbe arrivato né agli scienziati naturali, che non hanno una formazione sociologica o filosofica, né alla sfera politica.
NOTE
[1] Cfr.: Kuhn H., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 2009
[2] “I formed the opinion that there is a political economy of quantification whereby epistemic authority is purchased via recourse to models whose role is to objectify—and possibly sterilize—political issues making them appear determined and solvable through impersonal objectivity” Saltelli, A. What is Post-normal Science? A Personal Encounter. Found Sci 29, 945–954 (2024). https://doi.org/10.1007/s10699-023-09932-x
[3] Fu chiamata, erroneamente, influenza o febbre suina poiché «il virus sembra essere un nuovo ceppo di H1N1, che risulta da un precedente riassortimento triplo tra virus influenzali di maiale, uccello e umano, successivamente ulteriormente combinato con l'influenza euro-asiatica dei maiali,[4] da cui deriva il nome "influenza suina"» (Wikipedia, Pandemia influenzale del 2009-2010)
[4] La vicenda della dichiarazione della pandemia da H1N1 è analizzata dettagliatamente da Sudeepa Abeysinghe, in Global Health Governance and Pandemics: Uncertainty and Institutional Decision-Making,
[5] Oltre a questi fatti, fu ampiamente criticato il rilievo che – sembra di leggere una storia più recente – la WHO diede alla prevenzione vaccinale, ignorando altre misure di contenimento come – ad esempio - lavarsi frequentemente le mani, controllare le frontiere, utilizzare degli antivirali, che fu interpretata come un tentativo di favorire le grandi case farmaceutiche.
[6] Questa scelta fu il risultato di un tentativo di neutralizzare le critiche dello European Centre for Disease Control (ECDC) che non conveniva sulla gravità della malattia.
Scienza ed arte - Per una rinnovata sinergia
Oggi, il rapporto tra arte e scienza è oscurato e perduto. L’han detto e scritto in molti: Feyerabend e Thomas (1989), Greco (2013), Odifreddi (2023), solo per citare che pochi autori. Un tema enorme, su cui un post può solo abbozzare alcune considerazioni.
Nel 1929, Norbert Wiener, il matematico che sarebbe poi diventato noto come il padre della cibernetica, affermava che la scienza dei numeri è, in senso stretto, un'arte. Secondo Wiener, la matematica poteva (e doveva) essere considerata parte integrante della storia dell'arte (Odifreddi 2023).
Sul rapporto benefico tra arte e scienza ci sono moltissimi esempi, dalla storiografia alla musica, dall'architettura e alla fisica e alle neuroscienze. Eppure, l’età scientista in cui stiamo vivendo tende a trascurarlo o a nasconderlo. Questa visione scientista è stata contrastata dalla controversia scatenata dallo scrittore e fisico inglese Charles Percy Snow, con il suo libro Le Due Culture e la rivoluzione scientifica (1959). Con esso Snow denunciava la crescente frattura tra la cultura scientifica e quella umanistica. La sua accusa risuonò con forza tra molti intellettuali, poiché questa separazione era estranea a figure come Dante, Galileo, Empedocle, Leonardo, Cartesio, Goethe, Einstein, gli anonimi architetti delle cattedrali gotiche e Michelangelo. Ancora oggi, questa divisione è sconosciuta ad artigiani esperti e fisici che affrontano i misteri dell'ignoto (cfr. Greco 2013).
Per mostrare concretamente l’utilità di questa sinergia, farò tre esempi.
SINERGIE TRA ARTE E MEDICINA
Non è sempre facile stabilire quando alcune malattie sono sorte per la prima volta. A tal fine i romanzi ci ha fornito informazioni importanti relativamente alla peste, il colera, il vaiolo etc. che si sono manifestati nel corso dei secoli. La pittura è un’altra fonte inesauribile. Infatti, nei personaggi ritratti nei quadri si possono ritrovare i segni di una malattia: la sindrome di Mondor nella Betsabea di Rembrandt (1654); l’esadattilismo nell’Uomo vitruviano di Leonardo (1490), nella Madonna di Casa Santi (1498) e nella Madonna Sistina (1513-14) di Raffaello; la neurofibromatosi di tipo I ne La Camera degli Sposi di Mantegna (1465-1474); l’ipertricosi nel Petrus Gonsalvus di un anonimo pittore tedesco (1580 circa); il tumore al seno nella scultura La notte di Michelangelo (1534). E così via per molte altre malattie come la tubercolosi, l’herpes zoster, la depigmentazione cutanea, il rinofima, l’artrite etc.
Un caso esemplare è il Bacchino malato di Caravaggio (1593), affetto dal morbo di Addison, dal nome del medico britannico che per primo lo descrisse. Ma solo nel 1855, ben 250 anni più tardi!
Bacchino malato, Caravaggio (1593)
Come ha scritto il chirurgo vascolare italiano Paolo Zamboni, nelle pagine del Journal of Thrombosis and Haemostasis (28 April 2020), il modello è pallido, con riflessi scuri in alcune aree della cute; forse ha anche dolori addominali, come fa pensare la posizione curva in avanti; si sta cibando di uva come se avesse bisogno di zuccheri a causa di una possibile ipoglicemia. Inoltre, l’angolo interno dell’occhio, poco irrorato, depone per un’anemia. Il pollice scuro e l’unghia nerastra e opaca (anziché entrambi rosei) rivelano una acantosi nigricans (una condizione in cui la pelle si presenta iperpigmentata, ispessita, vellutata e di colore più scuro rispetto alle zone circostanti).
LETTERATURA E TECNOLOGIA: QUANDO FANTASIA E SCIENZA SI FONDONO
Jules Verne (1828-1905) è considerato, uno dei padri nobili della fantascienza moderna o, come veniva definita all’epoca, “narrativa d’anticipazione”. Guidato da una forte passione per la tecnologia, con i suoi racconti ambientati nell’aria, nello spazio, nel sottosuolo e nel fondo dei mari ha ispirato molti scienziati delle epoche successive.
Nel romanzo Dalla Terra alla Luna (1865), Verne descrive un viaggio a bordo di un proiettile sparato da un gigantesco cannone e uno sbarco sulla Luna. All’epoca questa idea fu contestata da molti scienziati ma, dopo tutto, si trattava di un romanzo d’avventura e di fantascienza. Un po' più tardi fu pubblicato Intorno alla Luna (1869); questo romanzo va oltre il viaggio e segue le avventure degli eroi sulla Luna.
In Ventimila leghe sotto i mari (1869-1870), Verne immagina un grande sottomarino elettrico, il Nautilus. E il Nautilus non vi ricorda forse il DSV Alvin varato nel 1964? Il Nautilus, come il DSV Alvin, era una propulsione esclusivamente elettrica. Infatti, Verne rifiutò il carbone come combustibile, proponendo invece batterie elettriche (di una composizione chimica sconosciuta) per azionare il congegno. Ciò rende Verne un precursore dei carburanti alternativi. Nello stesso libro scrive di una pistola che dà una forte scossa elettrica, molto simile all'attuale taser.
Gli studi per creare macchine volanti risalgono agli schizzi di Leonardo da Vinci, ma fu verso la fine dell'Ottocento che l'elicottero, come lo conosciamo, cominciò a prendere forma. Nello stesso periodo, Jules Verne pubblicò Robur il conquistatore (1886), un romanzo in cui il personaggio principale costruiva un velivolo di truciolato (quindi aveva grande resistenza e leggerezza allo stesso tempo) che volava tramite rotori, proprio come fanno gli elicotteri moderni. Rotori aggiuntivi a prua e a poppa servivano a spingere il velivolo verso il cielo. Verne prese i prototipi di elicottero esistenti e immaginato come si sarebbero sviluppati.
In un breve racconto scritto nel 1889, La giornata di un giornalista americano nel 2889, Verne descrive un'alternativa ai giornali: “ogni mattina, invece di essere stampato come nell'antichità, l'Earth Herald viene 'parlato'. È attraverso una vivace conversazione con un giornalista, un personaggio politico o uno scienziato che gli abbonati possono apprendere tutto ciò che capita di interessarli”. Ci vollero molto meno dei mille anni previsti da Verne per avere i primi giornali radio (negli anni Venti) e poi i primi telegiornali (negli anni Quaranta).
Jules Verne era ben lungi dall’essere uno scienziato, ma le sue opere e i progressi che si stavano realizzando all’epoca servirono a introdurre molte delle invenzioni che sarebbero arrivate successivamente e che, nel tempo, sono finite per diventare elementi ordinari della nostra vita quotidiana. Si può quindi sostenere che la letteratura ha fornito la vision alla scienza e tecnologia.
ARTE, SCIENZA E AMBIENTE
La nefologia è una branca della meteorologia che studia le nuvole (dal greco nephos che significa appunto nube, nuvola). Gli cloudspotters (osservatori di nuvole) classificano accuratamente le nuvole una a una, dando loro un’identità (con tanto di descrizione) e seguendo uno schema simile a quello degli organismi viventi, basato su aspetto e altitudine. Si contano 10 gruppi principali o generi (stratus, cumulus, stracumulus, nimbostratus, cumulonimbus, altocumulus, altostratus, cirrostratus, cirrocumulus e cirrus), che a loro volta si suddividono in specie e varietà.
Moltissimi pittori come John Constable, Joseph Mallord, Caspar David Friedrich, Gustave Courbet si sono cimentati all'interno delle loro opere nella raffigurazione delle nuvole. Il primo fra tutti fu Andrea Mantegna.
Il greco Christos Zerefos, specialista in scienze atmosferiche, sostiene che attraverso l'analisi dei colori (soprattutto le quantità di rosso e di verde) dei cieli delle pitture dei paesaggisti si può calcolare lo spessore ottico dell'atmosfera, cioè la quantità di aerosol presente nell'atmosfera al momento in cui la tela è stata dipinta. Conoscere la qualità dell'aria prima della rivoluzione industriale permette di comprendere l'impatto delle attività umane sull'inquinamento. Zeferos si è concentrato, in particolare, sul pittore e incisore inglese William Turner. I pigmenti rossi e verdi che hanno colorato i cieli dei suoi dipinti sono la prima testimonianza dei livelli di inquinamento dell'aria di un paio di secoli fa. All'epoca si sapeva poco e niente circa l'inquinamento e, anzi, nessuno scienziato fino al 1829 si preoccupò di tracciare le polveri nocive che fluttuavano nel cielo. Ai tempi di Turner le fabbriche (con i loro fumi) si moltiplicavano, le locomotive a vapore si diffondevano velocemente, i vulcani continuavano ad esplodere ― come nel caso dell'indonesiano Tambora, che nel 1815 scagliò 36 miglia cubiche di roccia frantumata nell'atmosfera ed ebbe ripercussioni sull'intero pianeta poiché le ceneri fecero più volte il giro della terra trasformando l’anno successivo (il 1816) “nell'anno senza estate”. I ricercatori hanno infatti osservato che i cieli dipinti negli anni successivi alle eruzioni vulcaniche contenevano una maggiore dose di rosso. Dura doverlo ammettere, ma, spesso, i tramonti dai colori bellissimi quanto curiosi che vediamo nei dipinti di Turner - un po' rossi, un po' arancioni - sono il frutto dell’inquinamento…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Feyerabend, Paul K. e Christian Thomas (1989), Arte e scienza, Roma: Armando.
Greco Pietro (2013) (a cura di) Armonicamente. Arte e scienza a confronto, Milano: Mimesis
Odifreddi, Piergiorgio (2023), Arte e matematica, due visioni complementari per descrivere la realtà, in “Le Scienze”, 18 agosto,
Snow, Charles P. (1959), trad. it. Le due culture, Milano: Feltrinelli, 2017.
Le teorie del complotto, quarta parte – I miti della scienza intonsa e della politica senza bias
Questa è la quarta puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte, terza parte). Qui ci parliamo del fatto che una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non è altro che un mito, alimentato anche dalla credenza che possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
IL MITO DELLA SCIENZA INTONSA
Se quella appena vista – la scienza può venire corrotta e strumentalizzata – è la ragione in fondo più facile da individuare tra quelle che dovrebbero indurci alla prudenza nel mettere la scienza al centro della politica, il problema è però decisamente più complesso. Perché il punto è che non è solo quando è corrotta, o volutamente strumentalizzata, che la scienza è influenzata da valori, interessi economici o politici, condizionamenti di tipo culturale, sociale o religioso. Anzi, in ogni sua fase – dalla scelta del tema, a quella dei metodi e della prospettiva, fino alla produzione e interpretazione dell’evidenza empirica – la produzione di conoscenza scientifica è condizionata da fattori altri, extra-scientifici. Molte/i colleghe/i all’interno delle scienze sociali, per parlare del mio campo disciplinare, rivendicano la propria identità di ricercatrici/tori militanti partendo proprio dalla consapevolezza che la posizione di chi fa ricerca non possa essere neutrale e dall’acquisizione che ogni sapere non possa che essere “situato”. Anche e forse soprattutto quello che si pretende oggettivo. Quello di una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non sarebbe che un mito, come fa notare Sarewitz (1996), sulla scia di lunghe tradizioni di ricerca in diverse discipline.
Un mito pericoloso, tra l’altro: perché mentre certi tipi di condizionamento vengono stigmatizzati e destano scandalo (per esempio, le ricerche che dimostrano l’innocuità del fumo passivo o di certi pesticidi, di cui risulti la sponsorizzazione a opera delle lobby dei rispettivi settori), altre forme di influenza non meno importanti non destano alcun allarme, anzi sono naturalizzate come parte del normale così vanno le cose. Per esempio, il fatto che gli investimenti per la ricerca si concentrino nelle direzioni dove si addensano importanti interessi del complesso militare-industriale (per esempio, la costruzione di armi, la digitalizzazione, l’IA) lasciando sprovvisti aree e filoni di indagine che pure sarebbero più rispondenti alle esigenze di vita di ampi settori della popolazione mondiale; o la sproporzione di investimenti nella ricerca medica a favore di patologie che colpiscono i paesi più ricchi e bianchi rispetto a quelli più poveri e abitati da maggioranze con altre gradazioni del colore della pelle. Ecco: proprio il mito di una scienza intonsa, non condizionata, “pura”, impedirebbe, sottolinea ancora Dotson (2021), l’avviarsi di un dibattito circa le misure che potrebbero continuare a condizionare, ma questa volta in modo più democratico, equo ed emancipativo, la produzione della conoscenza scientifica. Per esempio, aprendo una discussione su quali aree e filoni di ricerca serve effettivamente privilegiare, e su chi sia chiamato a prendere decisioni in merito; o favorendo la partecipazione di scienziati e cittadini di paesi del Sud del mondo nell’elaborazione dell’agenda di ricerca. E molti altri esempi potrebbero seguire.
I BIAS INTRODOTTI DALLA PRETESA DI UNA POLITICA SENZA BIAS (SCIENTIZZATA)
La credenza fasulla e insidiosa che dovremmo aggredire è dunque quella secondo cui ci sarebbe una netta separazione tra scienza e politica, laddove è vero piuttosto il contrario, cioè che è difficile capire dove l’una finisca e l’altra inizi. Anche perché proprio questa falsa credenza costituisce il presupposto della crescente scientizzazione della politica (Pielke 2005) – da qui discendono le aporie e contraddizioni che questa pone.
Con scientizzazione della politica si intende la tendenza che si va affermando sempre più a descrivere controversie che contemplano aspetti sociali, etici e politici in termini esclusivamente scientifici; pretendendo che una scienza suppostamente oggettiva possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi (unbiased): meglio, dunque, di quanto farebbe quel vecchio e screditato arnese della politica, ambito della ricerca di sintesi e compromessi.
Se è vero che la ricerca scientifica può essere di utilità nell’elaborazione delle politiche, il punto è mettere a fuoco le criticità che si aprono qualora si decida di mettere la scienza al centro della politica e dei processi decisionali. Per iniziare, se è facile dire che è la scienza che deve decidere, le cose si complicano quando ci chiediamo quali expertise mobilitare, o quali discipline. È evidente come la controversia legata agli OGM – di vecchia o di nuova generazione che siano – venga letta in modo differente, e dia quindi risposte sempre scientifiche ma diverse e contrapposte, a seconda se utilizziamo le lenti dell’ingegneria genetica o quelle dell’ecologia (Dotson 2021). Altro effetto nefasto della scientizzazione della politica è la tendenza a marginalizzare conoscenze differenti da quelle degli esperti. Il non tenere conto, per esempio, che persone che non hanno titoli di studio specifici in un determinato campo detengano conoscenze, expertise, informazioni che possono essere non visibili alla disciplina scientifica degli esperti di turno, eppure decisamente rilevanti. Nella storia dei disastri e delle nocività industriali è una costante la denuncia, da parte delle popolazioni colpite, del diffondersi anomalo di patologie che vengono a lungo screditate come mera “aneddotica” (o isteria e fobia, dalla “radiofobia” dei cittadini di Černobyl, alle patologie delle vittime del piombo e dell’amianto… e che dire della mancanza di sorveglianza attiva e quindi di dati affidabili sull’epidemia di “nessuna correlazione” recente?)[1] dagli esperti di turno, e che saranno poi riconosciute come fondate e reali solo molto più tardi, solitamente quando è troppo tardi.
Infine, la scientizzazione in sé introduce a sua volta bias e distorsioni. Perché induce a dare importanza solo agli aspetti che più facilmente possono essere analizzati, misurati e tradotti in numeri e grafici.[2] Un punto, questo, di cui dovremmo essere consapevoli sia per imparare a maneggiare le narrative del potere, sia – e questo forse è ancora più cruciale, e meno evidente, ci torno in chiusura – nel mettere a punto le nostre risposte e resistenze.
Per esempio, basare le decisioni politiche sugli OGM (o sui TEA) su una valutazione puramente scientifica della loro pericolosità accertata per la salute umana o per l’ambiente significa far slittare verso i margini altre questioni che non sono certo meno importanti. Significa, per esempio, non vedere né prendere in considerazione i diritti dei coltivatori biologici, o delle società tradizionali o indigene, a coltivazioni non contaminate e alla conservazione, trasmissione e scambio non monetario di sementi tradizionali. Significa preferire la via del soluzionismo tecnologico – manteniamo il modello agroindustriale che mina la biodiversità e impone abuso di diserbanti e pesticidi e poi tamponiamo (forse) il problema creando varietà che ne richiedano minori quantità – anziché mettere in discussione il modello di agricoltura che è all’origine di quei problemi. Significa marginalizzare valutazioni circa la perdita di autonomia – e quindi la dipendenza sempre più forte dalle multinazionali, la diminuzione del numero di aziende e la concentrazione della proprietà etc. – che queste tecnologie impongono al settore, assestando l’ennesimo colpo ferale all’agricoltura contadina, che poi è la stessa direzione verso cui spinge la digitalizzazione dell’agricoltura 4.0.[3] E significa escludere qualunque possibilità di discutere circa la desiderabilità della visione del mondo che è sottesa a quelle tecnologie.
Ma anche il riduzionismo climatico può essere individuato come esempio. Se quella che attraversiamo è una crisi ecologica estremamente complessa, data dall’intrecciarsi di più dimensioni dell’inquinamento – dell’aria, delle acque superficiali e delle falde, del suolo, luminoso, elettromagnetico… – con i cambiamenti climatici, con la perdita di biodiversità e con questioni come il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo, le nocività industriali, le servitù e l’industria militari, l’agroindustria, il sistema della logistica e della distribuzione (eccetera), è arduo mettere a punto strumenti di misurazione così come è politicamente scomodo e complicato elaborare risposte: perché queste, per essere efficaci, non possono eludere l’intreccio con la dimensione sociale né evitare di mettere al centro della critica il modello di sviluppo e quindi l’idea stessa di crescita.
Di fronte a tutto questo, isolare invece il cambiamento climatico dal suo contesto ambientale e sociale è una strategia che, se da una parte si presta meglio all’elaborazione di indicatori quantitativi, parametri e scenari predittivi che possano fungere da base per politiche evidence-based, dall’altra supporta una narrativa utile a un capitalismo che sussume nella sua logica di espansione perpetua la crisi ecologica stessa. Non solo la crisi ecologica non basta a mettere in discussione l’espansione capitalista: essa diventa un pretesto per la creazione di nuovi mercati e per dare nuovo slancio all’estrattivismo dipinto di green.
NOTE
[1] Un aspetto rilevante di questa vicenda è relativo ai cambiamenti nelle procedure e negli algoritmi utilizzati in seno all’OMS per rilevare il nesso di causalità tra vaccini ed effetti avversi, un tema trattato da Osimani e Ilardo (2022).
[2] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).
[3] Si veda il contributo de l’Atelier Paysan, Agricoltura 4.0 e nuovi OGM: la tecnoscienza all'assalto del vivente, 1 novembre 2023, <www.laterratrema.org>.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
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La legge di Huang - Recensione di Geopolitica dell’intelligenza artificiale di A. Aresu
«Non abbiamo alcuna meta né qualità spirituali. Tutto quel che vogliamo sono le cose materiali. L'unica cosa che ci importa.»
«Dagny,» mormorò, «qualsiasi cosa possiamo essere, siamo noi che muoviamo il mondo, siamo noi che lo facciamo camminare.»
Ayn Rand, La rivolta di Atlante
1 RITRATTI
Alcuni libri imprimono sul volto del lettore una maschera di ansia e di malinconia che resta insensibile alle transizioni di tono e di argomento, come quella con cui Buster Keaton affronta qualunque evento nei film di cui è protagonista. Geopolitica dell’intelligenza artificiale di Alessandro Aresu irradia disagio ad ogni ogni pagina accumulata dalla sua movenza narrativa, che si articola sui personaggi dell’attualità tecnologica, più che sui temi economici, sui blocchi continentali e sui confini delle tensioni militari e politiche. Dopo quasi 600 pagine a stampa il lettore sa tutto sulla giacca di pelle del CEO e fondatore di NVIDIA Jensen Huang, sul talento per la falegnameria del premio Nobel Geoffrey Hinton, sull’orologio al polso dell’ex ministro del Commercio USA Gina Raimondo, sul fastidio per il multiculturalismo di Peter Thiel: più che ad una galleria di ritratti, il lettore viene esposto all’apologia delle gesta degli imprenditori e dei computer scientist che hano costruito l’industria contemporanea dell’intelligenza artificiale.
Aresu adotta l’armatura concettuale del Cacciari del Lavoro dello spirito per definire il ruolo che i protagonisti della saga rivestono sullo scenario internazionale. L’essenza del sistema della scienza coincide con una rivoluzione continua, resa possibile dalla tecnica, quindi dalla potenza di calcolo che viene sviluppata dai processori con cui si elaborano i modelli di intelligenza artificiale più avanzati – che a loro volta permettono di progettare e realizzare hardware ancora più potente. L’accelerazione del progresso viene scandita dalla Legge di Moore e dalle formulazioni più recenti del principio, che Aresu etichetta come Legge di Kurzweil e Legge di Huang. In nessun caso si tratta di necessità fisiche, ma di evidenze emergenti dal ritmo di aggiornamento dei prodotti della manifattura tecnologica. Quello più antico risale a Moore, uno dei fondatori di Intel, e fissa il periodo di raddoppio della potenza di calcolo per chip ogni 18 mesi; Kurzweil ha osservato che l’introduzione dell’intelligenza del software modifica la curva di crescita – secondo la regola dei «ritorni accelerati» – convertendola da lineare ad esponenziale. Jensen Huang fissa la misura della nuova curva, che ha andamento logaritmico e che si fonda sulle GPU di NVIDIA, con un miglioramento di 25 volte ogni 5 anni.
2 LA GRANDE TRASFORMAZIONE
L’I.A. comporta un rinnovamento di tutti i processi industriali, della gestione dell’agricoltura, del consumo di energia, della mobilità, dell’infrastruttura militare. Negli impianti di TSMC, il principale fornitore di NVIDIA, le filiere di produzione sono manovrate da robot e l’intervento degli esseri umani è concentrato sulla progettazione e sul controllo del buon funzionamento delle macchine. Gli stabilimenti principali si trovano a Taiwan, e rappresentano il modello della Grande Trasformazione che ha investito l’Asia negli ultimi decenni – a giudizio di Aresu, più ampia e più radicale di quella che Polanyi ha descritto nell’Europa del XVIII-XIX secolo. La manifattura rappresenta ancora l’asse portante del sistema culturale, scientifico e politico del mondo; ma i settori strategici sono cambiati, così come le modalità di organizzazione del lavoro e la distribuzione geografica delle aree più avanzate. L’Europa ha abdicato da tempo a qualunque ruolo di primo piano: non è in grado di interpretare lo spirito del tempo, di identificare le industry su cui investire e i volumi di capitale necessari per la competizione su terreni come transistor, robotica, I.A. – e non è nemmeno capace di regolarle, dal momento che non ne ha alcuna comprensione reale. Il tentativo eroico di Angelo Dalle Molle e del suo istituto IDSIA a Lugano, o la permanenza di DeepMind a Londra, sono eccezioni da cui si evince solo che, senza l’intervento dei capitali americani, le poche operazioni di eccellenza del Vecchio Continente sono destinate alla marginalità.
Taiwan si trova al centro della rivoluzione tecnologica dell’Asia Orientale: il modello di organizzazione delle fabbriche allestite sull’isola non è riproducibile negli USA, dove tempi di messa a punto e di tassi di produttività non riescono a tenere il passo della madrepatria. Dai chip stampati a Formosa dipende lo sviluppo dell’automazione sia americana, sia cinese: l’interruzione del processo di globalizzazione, e l’introduzione delle logiche di friendshoring da parte di Washington e di Pechino, collocano le imprese taiwanesi sul tracciato del confine geopolitico, con l’obbligo di rinuncia a quasi metà del fatturato per schierarsi dalla parte della sicurezza nazionale di cui sono tributari i clienti maggiori.
La stessa linea di confine, e le stesse criticità, attraversano società nate e cresciute in pieno territorio americano, come NVIDIA, Intel o AMD, che realizzano l’hardware indispensabile per lo sviluppo di tutti i settori, dai videogame alla ricerca sulle molecole proteiche. Il comparto privato dell’industria, la ricerca avanzata in campo fisico, chimico, biologico, sono il teatro stesso della storia politica successiva all’interruzione del processo di globalizzazione, con l’incertezza sugli ambiti decisivi in uno scenario bellico – ora che la guerra si può manifestare anche come sabotaggio nei sistemi di controllo delle centrali nucleari, negli apparati informatici di funzionamento delle borse, delle transazioni commerciali di ogni genere, degli archivi pubblici, delle infrastrutture, della mobilità, persino delle lampadine e dei termostati nelle case «intelligenti». Secondo Carl Schmitt la dimensione della politica si può riassumere nella decisione su chi è il nemico; quella della tecnologia stabilisce se l’amico può godersi il caldo del divano nelle sere di inverno, e con cosa può distrarsi sul suo cellulare o con la smart TV. Ma anche nella quotidianità estranea alla deflagrazioni militari, la capacità del blocco cinese di riversare sul mercato prodotti di tutti i settori industriali, con un livello qualitativo paragonabile a quello occidentale (se non migliore, come nel caso delle automobili della BYD), e ad un prezzo inferiore, equivale ad un sovvertimento degli equilibri commerciali e di potere ereditati dalla seconda metà del XX secolo: sul divano di casa, quando l’amico scorre le notizie del giorno le compulsa con la maschera di smarrimento alla Buster Keaton.
3 LA RIVOLTA DI ATLANTE
Morris Chang sottolinea nelle interviste che la crescita di TSMC è stata resa possibile dalle politiche di gestione del personale umano negli impianti di Taiwan. Ingegneri e tecnici non possono iscriversi ad alcun sindacato, accedono agli spazi di lavoro il lunedì mattina, vivono e pernottano nelle aree aziendali fino al venerdì sera, quando possono rientare a casa per il fine settimana – purché non sia sopraggiunta qualche emergenza, la cui soluzione richieda la loro presenza in ufficio anche il sabato e la domenica. In ogni caso, la loro disponibilità a raggiungere la sede della fabbrica non prevede limiti di tempo e di orario, perché se una crisi dovesse verificarsi alle due di notte del sabato, l’ingegnere TSMC risponde al telefono, saluta la moglie e parte per la sua missione salvifica all’interno delle pareti della fabbrica.
Solo con questi metodi di devozione medievale all’impresa è possibile obbedire ai ritmi di crescita della Legge di Huang; ed è per questo che anche NVIDIA, Tesla e gli altri stabilimenti di Musk, non ammettono la sindacalizzazione dei dipendenti. Alla maschera di sconcerto di Buster Keaton con cui il lettore accoglie queste informazioni, Aresu aggiunge altri motivi di turbamento, approvando la denuncia di Morris Chang contro il freno allo sviluppo che si deve scontare negli USA, per le limitazioni imposte allo sfruttamento della manodopera, e per il favore accordato all’inseguimento del modello taiwanese da parte dei fondatori delle società nella Silicon Valley. Dalla (giusta) critica nei confronti dell’ignoranza con cui i politici affrontano le questioni del progresso tecnologico e della civiltà digitale, alla giustificazione del turbine insensato del capitalismo contemporaneo e della sua tirannia sociale, il passo è breve. Anche i lettori di Cacciari accolgono questo slittamento nel testo di Aresu con lo smarrimento di Buster Keaton, perché per il filosofo la tensione tra tecnica e politica non può mai risolversi in un lavoro di amministrazione burocratica delle esigenze del profitto economico.
In Aresu la constatazione che la corsa verso l’incremento della potenza di calcolo è sempre più forsennata in tutto il mondo, e che la sfida tra blocco occidentale e blocco cinese si recita sulla scena dell’avanzamento tecnologico, non viene bilanciata dalla domanda: a quale scopo? La fuga in avanti degli eroi che Aresu glorifica nel suo testo, con un peana che è un tributo ad Ayn Rand più che a Cacciari, finisce per precipitare il mondo in un divenire senza avvenire, nella corsa senza fine di un futuro senza un fine. Geoffrey Hinton si è ritirato da Google nel 2023 sottoponendo a dure critiche il modello di intelligenza artificiale che lui stesso ha contribuito a sviluppare, con la delusione di aver mancato l’obiettivo di conoscere il funzionamento del cervello umano; Demis Hassabis ha vinto il Premio Nobel per la chimica rimanendo in Europa, e utilizzando qui l’I.A. sviluppata in DeepMind. L’emergenza di un significato, o il fallimento della sua ricerca, non obbediscono alla geografia di Aresu, e per la verità non sembrano obbedire ad alcuna regola. L’Autore rimprovera i politici di impedire la libera circolazione dei capitali, dei cervelli e delle idee, frammentando il mondo lungo i confini della sicurezza nazionale; e in effetti senza le GPU di Huang è impossibile avviare progetti di ricerca scientifica o di progettazione tecnologica che aspirino ad un interesse universale. Ma la pressione dell’utilità commerciale conduce a risultati che sono davvero interessanti? Il mondo con l’onnipervasività degli smartphone, del cloud, e ora dell’I.A. – che solo pochi anni fa non è stata in grado di evitare la terapia medievale del lockdown contro un virus che ha contribuito a smistare per i quattro angoli del pianeta – è davvero il luogo in cui vorremmo vivere? L’abrogazione della separazione tra lavoro e tempo libero, la proibizione delle pause nella reperibilità, l’esposizione allo scivolamento nella depressione che è endemica nella «società della stanchezza», sono un prezzo che siamo disposti ad accettare per conversare con ChatGPT?
Non dovrebbe la politica poter decidere su questo?
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Robert F. Kennedy Jr ministro della Sanità USA. Perché non è necessariamente una brutta notizia
Il 13 febbraio 2025, Robert F. Kennedy Jr è stato nominato ministro della sanità. Avrà anche la supervisione della Food and Drug Administration, la potente agenzia federale che vigila su cibo e farmaci, e il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), che si occupa espressamente anche di vaccinazioni. Il suo intento sarebbe quello di rendere l’America più sana (MAHA – Make America Healthy Again https://www.maha.vote/), combattendo il cibo-spazzatura e lo strapotere delle Big Pharmas.
Sì è molto parlato di lui, nei media mainstream. Generalmente male.
71 anni compiuti, avvocato di molte cause ambientaliste (ne ha vinte alcune contro importanti industrie accusate di inquinamento) e dei diritti delle tribù native, è figlio di Robert Francis Kennedy (candidato alla Casa Bianca mentre fu ucciso a 43 anni) e nipote di John Fitzgerald Kennedy (che invece Presidente era riuscito a diventarlo, ma anche lui fu ucciso, a 46 anni).
Contro la sua nomina si sono scagliate più di 80 organizzazioni, numerose scienziate (sempre usando il femminile sovraesteso), 25.000 professioniste dell’American Public Health Association, 15.000 mediche.
Il (risicatissimo – 14 a favore e 13 contrarie) parere favorevole alla sua nomina da parte della commissione Finanze del Senato, è coinciso con un vistoso calo del titolo Pfizer (-2,3%) e Moderna (6,2%) sulla borsa di Wall-Street. E anche in Senato la sua conferma è passata per soli 4 voti: 52 senatori/trici repubblicani/e a suo favore (di cui 2 incerti fino all’ultimo), e 48 contrari (di cui 45 democratici/che, 2 indipendenti e Mitch McConnell, senatore repubblicano, per decenni alla guida dei repubblicani del Senato, in forte contrasto con Trump e che si definisce “un sopravvissuto alla poliomielite”.
Le accuse, tutte vere, nei confronti di Kennedy sono di:
- essere un traditore del Partito Democratico (il quale però ostacolò fortemente la sua corsa alle primarie nel partito);
- essere stato un consumatore di droghe per molti anni (sembra però che ora abbia smesso, mentre molte altre politiche continuano…)
- aver avuto una relazione extraconiugale con una nota reporter di sinistra (ma noi di queste cose non ci scandalizziamo, avendo avuto un Presidente del Consiglio sicuramente molto più esperto in materia)
- aver confessato di aver ucciso un orso per poi abbandonarne il cadavere a Central Park (almeno in Trentino queste cose le fanno dopo una delibera)
- essere un nemico dell’industria agroalimentare e farmaceutica (cosa però stranamente apprezzata sia a destra che a sinistra, e in particolare da giovani, ambientaliste radicali, salutiste, new age, ultras dell’anti-capitalismo tipo Occupy Wall Street)
- voler contrastare la diffusione di prodotti chimici inquinanti e pesticidi (che idea balzana)
- voler abolire le pubblicità dei farmaci, danneggiando così le TV (non lo sa che sono soltanto dei “consigli per gli acquisti”, come li chiamava Maurizio Costanzo?)
- voler imporre normative per la messa al bando di vari additivi alimentari tossici o di organismi geneticamente modificati (direttive peraltro già adottate nell’Unione Europea e nella California, governata dai democratici).
- abbracciare teorie complottiste senza fondamento (tra cui gli assassinii del padre e dello zio, da lui attribuiti alla Cia, agenzia che mai ha commissionato omicidi o organizzato colpi di stato da quanto è stata costituita nel lontano 1947).
- essere un anti-vaccinista e di credere che alcuni vaccini possano causare (indirettamente) l’autismo nelle bambine. Con queste convinzioni, numerose scienziate prevedono il ritorno negli Usa di malattie scomparse o fortemente ridimensionate proprio per merito delle vaccinazioni. Non tutte le scienziate però la pensano così e il tema è molto più complesso delle semplificazioni proposte da molte scienziate e giornaliste (vedi Gobo e Sena 2019).
Complessivamente, però, se Kennedy riuscisse a mettere in pratica solo metà del suo programma (almeno quella metà che trova d’accordo tutte le persone di buon senso), ne vedremo delle belle.
Ma le vere domande sono: lui è in grado di farlo? Ha le competenze necessarie?
Alla prima è difficile rispondere. Per quanto motivata e decisa, una persona sola non è in grado di imprimere tutti questi cambiamenti. C’è bisogno della collaborazione di molte altre persone e istituzioni. Occorrono quindi capacità manageriali oltre che vision.
Veniamo quindi alla seconda domanda. Che competenze dovrebbe avere una ministra della sanità? Essere un’esperta di sanità? E chi è un’esperta di sanità: una medica? Una paziente? Una manager della sanità? Forse nessuna di queste.
La prima laurea di Sergio Marchionne era in filosofia. Poi si laureò in giurisprudenza. Successivamente in Discipline Commerciali e poi ottenne un Master in business administration. È stato, nell’ordine: direttore finanziario al Lawson Group, società di consulenza su salute e sicurezza (1992); amministratore delegato si Lonza Group Ltd, azienda operante nel settore della chimica farmaceutica e biofarmaceutica (2000); amministratore delegato della SGS, azienda attiva nei servizi di ispezione, verifica e certificazione (2002); nel CdA del gruppo biotecnologico Serono; nel 2008 vicepresidente non esecutivo e direttore indipendente senior di UBS (banche) e amministratore delegato FIAT.
Marchionne era forse un esperto dei settori dove operavano le “sue” aziende? No.
Eppure non pare abbia fatto peggio (anzi…) di Carlos Tavares, che è un ingegnere e ha fatto tutta la sua carriera nel settore automobilistico.
In Italia, come ministre delle sanità abbiamo avuto di tutto e di più. Nell’ordine: Nicola Perrotti (psicoanalista), Mario Cotellessa (medico), Tiziano Tessitori (avvocato), Angelo Giacomo Mott (medico), Vincenzo Monaldi (medico), Camillo Giardina (giurista), Angelo Raffaele Jervolino (avvocato e giurista), Giacomo Mancini (avvocato penalista), Luigi Mariotti (commercialista), Ennio Zelioli-Lanzini (avvocato), Camillo Ripamonti (Ingegnere), Athos Valsecchi (insegnante di scuola media), Remo Gaspari (avvocato), Luigi Gui (insegnante di filosofia), Vittorino Colombo (dirigente d’azienda), Antonino Pietro Gullotti (avvocato), Luciano Dal Falco (giornalista), Tina Anselmi (insegnante elementare e sindcalista), Renato Altissimo (dirigente d’azienda), Aldo Aniasi (pubblicista), Costante Degan (ingegnere), Carlo Donat-Cattin (giornalista e sindacalista), Francesco De Lorenzo (medico e accademico), Raffaele Costa (avvocato e giornalista); Mariapia Garavaglia (insegnante di lettere e giornalista), Elio Guzzanti (medico), Rosy Bindi (giurista), Umberto Veronesi (oncologo), Girolamo Sirchia (medico accademico), Francesco Storace (giornalista), Livia Turco (insegnante elementare), Maurizio Sacconi (funzionario), Ferruccio Fazio (medico e accademico), Renato Balduzzi (giurista), Beatrice Lorenzin (giornalista), Giulia Grillo (medico legale), Roberto Speranza (laureato in scienze politiche) e Orazio Schillaci (medico e accademico).
Eppure, almeno fino a poco tempo fa, il sistema sanitario italiano era considerato un’eccellenza mondiale.
Ma allora, che competenze servono per fare la ministra della sanità (o di un altro dicastero)? Non competenze specifiche, bensì trasversali come la capacità di: scegliersi le collaboratrici (queste sì) competenti nel settore, leadership, gestire i gruppi, mediare tra le diverse istituzioni, gestire i conflitti, motivare le collaboratrici e farle lavorare ecc. Insomma capacità gestionali, relazionali e comunicative.
Kennedy le ha? Molte persone lo dubitano…
Vedremo se riuscirà davvero a rendere l’America più sana.
Sempre che non lo uccidano prima…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Le teorie del complotto, terza parte - Che si tratti di ossessione per la verità?
Questa è la terza puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte). Qui ci interroghiamo sulla corrente, ed epidemica, ossessione per la verità scientifica e per i (presunti) deficit cognitivi dei rispettivi oppositori politici, malattia che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
ROVESCIANDO LA PROSPETTIVA: E SE IL PROBLEMA FOSSE INVECE L'OSSESSIONE PER LA VERITÀ?
Un rovesciamento di prospettiva dalle potenzialità decisamente più fertili ci viene indicato da Dotson (2021), quando, rifiutando l’intera lettura basata sull’avvento dell’era della post-verità, suggerisce che il problema non sia tanto che le persone trascurerebbero i fatti privilegiando pregiudizi e opinioni soggettive, ma consista proprio nella corrente, epidemica, ossessione per la verità scientifica.
La malattia contemporanea da cui ben pochi di noi possono sinceramente dirsi immuni, che provoca polarizzazioni estreme e mette a repentaglio ogni possibilità di confronto democratico, consisterebbe, nella sua prospettiva, proprio nell’abitudine a dare per scontato che solo una fazione – la propria, ovviamente – sia quella in grado di pensare razionalmente e con la scienza a supporto delle proprie tesi. Quindi l’altra, inevitabilmente, è in errore, s-ragiona, è in preda a deliri, allucinazioni e alle “buche” del complottismo. È così che siamo diventati ossessionati dai (presunti) deficit cognitivi dei nostri oppositori politici.
Una malattia, questa, che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici: come le persone preoccupate per i cambiamenti climatici accusano i cosiddetti “negazionisti” di ignoranza e anti-scienza, specularmente chi contesta la matrice umana o l’emergenzialità della questione climatica si richiama a ricerche scientifiche ritenute più affidabili per dimostrare che la scienza mainstream sarebbe prona a interessi politici/economici e rea di soffocare il dissenso interno alla comunità scientifica. Tuttavia, questo atteggiamento così sprezzante e liquidatorio è particolarmente prevalente nelle retoriche liberal nei confronti dei conservatori, perché si sa, «the facts have a liberal bias» (Dotson 2021, p. 42): i fatti tenderebbero cioè per loro stessa natura a dare ragione ai progressisti.
Questo atteggiamento mentale, che viene indicato come scientismo politico, ha come corollario il diagnostic style of politics di cui parla lo storico Ted Steinberg (2006, cit. in Dotson 2021, p. 43), ovvero la tendenza a liquidare il dissenso politico come conseguenza di deficit cognitivi o problemi psicologici. In questo modo, il dissenso non è più dissenso: non più posizioni differenti e contrapposte con cui cercare un dialogo o esplorare, almeno, margini di compromesso. Anzi, la possibilità stessa del compromesso diventa un anatema. Perché con quella gente non si può, né si deve, ragionare. In questo modo il fanatismo scientista mina la democrazia, o almeno – suggerirei, ritenendo la democrazia già ampiamente minata di suo – compromette ulteriormente qualunque possibilità di confronto democratico e pure di trattazione con un’ambizione minima di approfondimento dei temi di cui si parla.
Nel trattare quindi in modo meno superficiale e sbrigativo del rapporto complesso tra scienza, “ignoranza” e politica, al cui interno inevitabilmente il tema del complottismo si inserisce, occorre tenere presente almeno tre questioni principali.
LA CORRUZIONE DELLA SCIENZA
La prima, per certi versi la più evidente – anche se tutt’altro che evidente è la portata delle sue conseguenze – ragione per cui dovremmo essere cauti di fronte al “l’ha detto la scienza, e quindi se non sei d’accordo sei ignorante”, riguarda la possibile strumentalizzazione della scienza a opera di interessi industriali e politici. Matthieu Amiech vi dedica opportuno spazio, riferendosi in particolare al bel libro di Foucart, Horel e Laurens, Les guardiens de la raison (2020). Ciò che mi preme mettere a fuoco qui è come sono cambiate le strategie di lobbismo politico: la fase dei “mercanti del dubbio”, quando le multinazionali reclutavano ricercatori e scienziati per produrre conoscenza scientifica solida, cioè capace di mettere in dubbio la credibilità delle ricerche che dimostravano la pericolosità dei loro prodotti, è ampiamente superata.[1] Oggi, infatti, gli interessi dell’industria, e in particolare quelli delle industrie maggiormente nocive, sono sostenuti in nome della scienza e della sostenibilità; come, cioè, se fossero non i desiderata delle corporations, ma verdetti oggettivi della scienza che finalmente ci permettono di superare le parzialità dell’opinione e le fallacie della politica. La professionalizzazione dell’influenza digitale fa poi sì che, grazie a raffinate tecniche di inbound marketing, a ribadire le ragioni dell’industria camuffate da verità scientifiche inattaccabili non siano solo scienziati, politici o celebrità, bensì persone (quasi) comuni, che ci appaiono più credibili perché disinteressate, cioè sinceramente interessate solo a difendere e valorizzare il ruolo della scienza nel dibattito pubblico. È un gioco di specchi, che fa sì che al green/pink/ethics-washing oggi si aggiunga l’insidia del participatory-washing: la sottile arte di far passare gli interessi del settore industriale come se fossero verità scientifiche e per giunta sostenute dal basso, un tappeto di erba sintetica (in inglese astroturf, il termine tecnico per designare questa strategia) a simulare l’erba vera (grassroots, cioè le rivendicazioni popolari, di movimento, genuinamente dal basso).[2]
Credo che non abbiamo ancora preso consapevolezza della portata del problema: della potenza, cioè, con cui il combinato disposto di questi meccanismi consolida ulteriormente il potere delle élite tecnocratiche e parallelamente indebolisce i movimenti e le proteste dal basso, delegittimandoli e sottraendo loro le loro stesse parole.
Perché nel momento in cui movimenti genuinamente emancipativi, grassroots, si battono contro ciò che veste i panni di una scienza addirittura legittimata e richiesta dal basso, le loro parole ancora più facilmente potranno venire negate come forme di partecipazione e invece fraintese, e liquidate, come semplice fatto di ignoranza e complottismo. Siamo consapevoli, giustamente, della repressione sempre più feroce che si abbatte contro chi protesta: fatichiamo invece a scorgere come il dissenso sempre più spesso venga prima ancora sterilizzato a monte, delegittimato sul piano semantico, e quindi non visto, scambiato per altro. Ma la delegittimazione semantica rafforza e giustifica la repressione legislativa e giudiziaria: perché, in fondo, se non è dissenso ma solo odiosa ignoranza, perché scomodarsi a denunciare la sproporzionalità di idranti, misure di privazione della libertà, sanzioni o se a chi protesta viene negato l’accesso al proprio conto bancario (come accaduto con il Freedom Convoy canadese)…?
«Qual è la differenza tra la verità e una teoria del complotto? Tra gli otto e i nove mesi». Questa battuta, che secondo gli estensori del Manifeste circolava all’interno dell’OMS (p. 34), richiama causticamente l’intervallo di tempo che troppe volte è intercorso tra la dismissione di posizioni minoritarie o critiche come mero complottismo e la constatazione che forse queste contenevano qualcosa di più di qualche «nucleo di verità», per riprendere l’espressione coniata da Wu Ming 1 (2021). Peccato che quegli otto-nove mesi siano anche l’intervallo di tempo fatale, quello in cui si sarebbe potuto discutere e agire, e chissà forse anche imprimere un diverso corso agli eventi. Se solo l’etichettamento delle critiche come “complottismo”, e spesso dell’intera controversia come “roba da complottisti”, non avesse reso impraticabile il terreno – troppo alto il rischio di essere scambiati per complottisti, meglio parlare d’altro – minando ogni possibilità di critica e dibattito. Così che la consapevolezza, se arriva, arriva troppo tardi. Quando ormai l’ennesima “innovazione” è diventata elemento del paesaggio del new normal, e indietro non si torna.
Un esempio emblematico è quello della protesta contro i TEA (Tecniche di evoluzione assistita), culminata nel recente episodio di Mezzana Bigli (Pavia), dove il gesto dei falciatori notturni di una coltura sperimentale di riso promossa dall’Università di Milano è stato oggetto di un coro unanime di attacchi dal mondo politico, scientifico e “ambientalista”, che l’hanno dipinto come esito di oscurantismo anti-scientifico, ignoranza e addirittura terrorismo. Impedendo così non solo il riconoscimento della dignità di azione politica a quel gesto, ma sbarrando anche la strada allo svilupparsi di un dibattito intorno a un tema che infatti oggi non mobilita che uno sparuto gruppo di coraggiose/i attiviste/i, laddove non più di vent’anni fa intorno agli OGM una certa compattezza del mondo ambientalista era stata capace di imprimere una svolta significativa sul corso degli eventi.[3]
Ma molti altri esempi possono essere individuati, nel Sud globale, dove i saperi contadini e le resistenze ai programmi di modernizzazione ecologica – targati Monsanto e sostenuti dai filantrocapitalisti alla Bill Gates – diventano superstizioni anti-moderne da estirpare. Nel Sud come nel Nord del mondo, le resistenze contro gli impatti devastanti della corsa ai minerali necessari per la transizione green e digitale, così come le proteste contro le speculazioni legate alle rinnovabili, devono oggi vedersela non più solo con la vecchia accusa di egoismo Nimby, ma anche con lo stigma di essere contro la scienza, negazionisti, ignoranti. Infine, come non evocare l’occasione persa conseguente all’incapacità di cogliere l’importanza (e di rispondere alla domanda di tematizzazione pubblica, prima che sia troppo tardi) di alcune questioni sollevate dalle proteste contro la gestione pandemica – dai rischi dell’ipermedicalizzazione a quelli dell’identità digitale e della sorveglianza tecnologica. Un’occasione persa che è difficile non attribuire all’ansia di non provare nemmeno a parlare di ciò di cui parlano “i complottisti”.
NOTE
[1] È salutare ricordare che è proprio così che nasce la nozione di sound science: introdotta dall’industria del tabacco, per screditare la trash science (scienza spazzatura) prodotta dalla ricerca indipendente e accademica che metteva in luce la pericolosità del fumo passivo.
[2] Ne abbiamo parlato in modo più articolato in Lello e Saltelli (2022).
[3] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).
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Le teorie del complotto, seconda parte - Il populismo epistemologico e le sue aporie
Questa è la seconda puntata della riflessione avviata la settimana scorsa. Qui ci interroghiamo sulle ragioni del crescente scetticismo popolare verso la - o meglio, verso una parte della - scienza, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni delle risposte oggi largamente prevalenti nel dibattito pubblico e in quello accademico, incentrate sulla post-verità, sul populismo e sulla divisione del lavoro scientifico. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
IL POPULISMO EPISTEMOLOGICO E LE SUE APORIE
Del resto quelle letture sbrigative che riducono il problema all’analfabetismo funzionale e all’ignoranza del popolo trovano pieno supporto nelle chiavi di lettura prevalenti nel dibattito accademico, che sono decisamente significative. Vediamole.
Molta elaborazione accademica sul tema ha preso le mosse dall’accettazione pressoché acritica della categoria di post-verità. Si è così sviluppata un’ampia letteratura che spiega come siamo entrati in un’era nuova, in cui le persone tendono ad attribuire peso a emozioni e sentimenti più che alla razionalità, a credenze soggettive più che a dati oggettivi, a opinioni più che a fatti, a discorsi seduttivi più che a spiegazioni analitiche, alle esperienze dirette e al senso comune dell’uomo/donna della strada più che a generalizzazioni e astrazioni.[1] Molti lavori hanno così introdotto concetti come quelli di pseudo-science o troll-science (Ylä-Anttila 2018), al punto che l’intero dibattito tende a ruotare intorno ai perni del populismo epistemologico (Saurette e Gunster 2011) e del science-related populism (Mede e Schäfer 2020).
Si parte cioè da un concetto, quello di populismo, per poi stirarlo in modo che il classico risentimento popolare verso le élite finisca per abbracciare, insieme ai detentori del potere politico ed economico, anche università, esperti, istituzioni scientifiche e sapere accreditato. Il problema è che già nella sua accezione propriamente politica, l’uso corrente del concetto di “populismo” appare problematico: in una fase in cui è difficile trovare un partito/leader che non faccia ricorso a strategie e registri discorsivi “populisti”, quella categoria tende a perdere la sua utilità analitica, e piuttosto ad ampliare, di converso, la sua valenza normativa (Schadee et al. 2019; Bazzoli e Lello 2022). Diventa, cioè, un modo per tenere insieme e distinguere tutti quegli attori politici che non piacciono (al mainstream), perché alternativi – o presunti tali – ad esso; e, al contempo, per scaricare la responsabilità di mutamenti e terremoti elettorali sgraditi (sempre ai partiti tradizionali) sugli elettori, che voterebbero partiti populisti perché sono diventati gretti, ignoranti e razzisti, o nella versione più edulcorata – ma la sostanza non cambia – per la rabbia e la frustrazione di essere stati abbandonati, impoveriti, espropriati. In ogni caso, la responsabilità è degli elettori, che non agiscono in base a ragioni ragionevoli ma sarebbero agiti da pulsioni di rabbia e frustrazione. Isolando in questo modo le élite e i partiti tradizionali di centro sinistra e centro destra da qualunque dovere di auto-critica rispetto al loro essersi trasformati in oligarchie intercambiabili in difesa degli interessi del capitalismo estrattivista nelle sue diverse facce.
Lo stesso esito che è possibile rinvenire nel populismo legato alla scienza, o epistemologico: in fondo, un modo per spiegare le critiche e la crescente diffidenza popolare verso le istituzioni del sapere accreditato facendo leva su questa stessa rabbia “irrazionale”, psicopatologica, nutrita da patetiche nostalgie dell’eden perduto, esentando quelle stesse istituzioni dal doversi porre domande scomode, ma molto serie, circa la propria crescente autoreferenzialità e sulle ragioni profonde che ne stanno intaccando credibilità e prestigio.
Poco importa se queste letture auto-assolutorie basate su populismo e post-verità aprono contraddizioni evidenti. Una principale: come è possibile che proprio la diffusione della scolarizzazione e l’accresciuta facilità di accesso a fonti di informazione scientifica abbiano prodotto crescente sfiducia nella scienza stessa e il proliferare dei complottismi?
Anche perché, nel frattempo, assistiamo al recupero surrettizio del vecchio Deficit Model, risalente agli anni Ottanta dello scorso secolo e ormai superato da decenni di studi nell’ambito della filosofia e sociologia della scienza e degli STS (Bucchi e Neresini 2002; Coniglione 2010). Quel modello assumeva che le critiche popolari verso le innovazioni tecnoscientifiche fossero riconducibili all’ignoranza del pubblico e alla sua incapacità di capire il metodo scientifico. Secondo quella visione paternalista della cittadinanza, è dunque sufficiente comunicare meglio le innovazioni che si intende introdurre e promuovere l’alfabetizzazione scientifica per superare resistenze e diffidenze popolari.
E invece, proprio oggi che l’accesso a PubMed e SciHub, la fruizione di programmi di divulgazione scientifica e l’apprendimento quanto meno dei rudimenti del metodo si sono democratizzati quanto mai prima, monta la diffidenza popolare verso la scienza: com’è possibile?[2]
Da notare, per inciso, che il recupero di una teoria anacronistica come il Deficit Model costituisce il pilastro “teorico” del burionismo, ovvero di quel modo – altrettanto fuori dal tempo – di concepire la relazione tra scienza e società massimamente rappresentato, in Italia, dall’autoproclamatosi paladino della lotta in difesa della scienza contro le fake news. Eppure, proprio il fatto che le perplessità verso le politiche vaccinali o l’adesione a medicine alternative siano derubricabili a questione di «asini raglianti» è, questa sì, una fake news, come dimostra una consolidata tradizione di studi che ha chiarito le differenti ragioni per cui la scienza debba essere democratica. Riassumendole: primo, perché non è plausibile né fondato ri(con)durre le ragioni di critica e perplessità all’ignoranza, e anzi quelle ragioni vanno prese in considerazione, visto che le innovazioni tecnoscientifiche in discussione andranno a ricadere sulla vita dei cittadini non-esperti, che quindi devono avere voce in capitolo (Coniglione 2010). E, secondo, perché il coinvolgimento dei non esperti nella produzione scientifica è fondamentale per conseguire risultati che avranno maggiori probabilità di godere di legittimazione sociale, dunque di essere accettati socialmente (Jasanoff 2021), ma che saranno anche di migliore affidabilità e qualità da un punto di vista propriamente conoscitivo (Harambam 2021, Dotson 2021).
Ancora più improbabili, quasi acrobatici, sono i tentativi di darsi una spiegazione nei casi in cui l’analisi empirica individui atteggiamenti critici verso le innovazioni tecnoscientifiche più diffusi presso settori sociali che difficilmente possono essere sospettati di essere affetti da ressentiment populista in conseguenza di disagio sociale o impoverimento; né che possano essere liquidati come ignoranti o incapaci di comprendere il metodo scientifico a causa di presunti deficit culturali.
Prendiamo, ancora, il caso della esitanza vaccinale, che diverse ricerche hanno rilevato essere maggiormente diffusa all’interno di segmenti sociali che possono contare sia su redditi che su livelli di istruzione più elevati della media (per es., Smith et al. 2004; Wei et al. 2009; Lello 2020), tanto che in alcuni casi se ne è parlato come di una scelta legata a situazioni di privilegio (Reich 2014). E non a torto, perché, come fa notare Goldenberg (2021), se dubbi e perplessità sono diffusi nei diversi gradini della scala sociale, sono però soprattutto le persone che possono fare affidamento su più risorse – economiche, culturali, relazionali etc. – quelle più attrezzate per sostenere i costi (economici e non solo) conseguenti alla scelta di non rispettare le prescrizioni vaccinali previste per sé (nel caso del Covid-19) o e/o per i propri figli (nel caso delle vaccinazioni pediatriche).
Ebbene: in questi casi, si tende a fare ricorso (per es.: Grignolio 2016) a spiegazioni complesse e contorte, facendo leva sulla teoria della razionalità limitata di Kahneman (2012) e sugli studi di Gigerenzer (2015), per cui l’abbondanza informativa non porta necessariamente a compiere scelte ottimali. Ma anche in questo modo non si riesce a spiegare perché mai proprio le persone più acculturate dovrebbero anche essere le più sprovviste delle risorse necessarie per distinguere tra fake news e notizie attendibili, finendo così per diventare addirittura vittime privilegiate delle «trappole cognitive» e dei vari bias (distorsioni, pregiudizi) che vengono associati a modelli cognitivi chiusi e dogmatici.
Ogni genere di piroetta, insomma, pur di non riconoscere l’ovvio. Cioè, che assistiamo ormai da anni, a livello di organizzazioni sovranazionali deputate all’elaborazione delle strategie di global health, a un impoverimento esiziale del concetto di salute, che si è tanto assottigliato da arrivare a coincidere sempre più con quello di immunizzazione; e che tale impoverimento dipende da motivazioni di ordine politico ed economico, più che da ragioni scientifiche (Dentico e Missoni 2021). È dall’assenza di dibattito e trasparenza sulle commistioni tra ricerca e finanziamenti privati che occorrerebbe partire per trovare spiegazioni più plausibili dell’esitanza vaccinale e delle proteste ad essa correlate, più che dalla post-verità o dai deficit cognitivi. Tanto più che sono diverse le ricerche empiriche (Goldenberg 2016) che da tempo mostrano come dietro all’esitanza vaccinale e alle proteste conseguenti non ci sia anti-scienza, bensì una richiesta di apertura della black box – cioè di chiarire gli intrecci tra scienza, politica e interessi – insieme a una domanda di più ricerca indipendente e di coinvolgimento nella definizione delle linee di indagine scientifica (per esempio, orientando i finanziamenti sulla ricerca sugli effetti avversi e sulle variabili soggettive che incidono sulla probabilità del loro manifestarsi).
Più raffinata – e ancora più significativa, nell’economia del nostro ragionamento – la posizione di quegli studiosi che, avendo potuto constatare, sulla base di ricerche statistiche, come un aumento dell’esposizione all’informazione scientifica non “protegga” di per sé le persone da teorie pseudoscientifiche e complottiste, invocano una maggiore enfasi, nelle scelte comunicative, sull’importanza della «divisione del lavoro scientifico» tra specialisti e profani. Si tratterebbe, cioè, di fornire alle persone comuni «ragioni preventive» (Zagzebski 2012) perché queste possano credere nelle affermazioni degli esperti. Come sostiene Keren (2018), «una migliore comprensione dei contenuti scientifici, non accompagnata da una comprensione appropriata della divisione del lavoro cognitivo, potrebbe tentare alcune persone comuni a basare le proprie credenze su questioni scientifiche sulle loro proprie valutazioni delle evidenze scientifiche più che sull’autorità degli esperti».[3] Occorre, cioè, spiegare alle persone che devono credere agli esperti a scatola chiusa, e diffidare delle proprie pericolosissime capacità di pensiero critico.
Sulla stessa linea, solo portate più esplicitamente alle loro conseguenze, le posizioni, riprese in un noto articolo del “New York Times”, di Micheal Caulfield, un esperto di Digital Literacy.[4] Il modo in cui ci è stato insegnato a usare il pensiero critico – consultando, comparando, soppesando diverse fonti informative per approfondire un tema, risalendo alle fonti primarie, senza fermarci alla prima apparenza – sarebbe, sostiene l’accademico, essenzialmente sbagliato e del tutto inadatto di fronte al caos informativo prodotto da Internet. Perché tentare di ragionare con la propria testa può rivelarsi pericoloso e controproducente. Inoltre, la nostra attenzione è una merce rara, che dobbiamo imparare a spendere saggiamente. Quindi, siccome sarebbe lungo e faticoso costruirsi una propria opinione su questioni controverse – e si sa, il tempo è denaro – meglio evitare di fare ricorso a fonti primarie e soprattutto evitare come la peste il pericolo di prestare ascolto a più campane. Meglio limitarsi a una ricerca di 15 secondi (riporto letteralmente) che si riduce al googlare un nome o una parola chiave: se – senza leggere, bene inteso, lo studioso ci intima di limitarci allo scrolling – da questa edificante attività si ricava una maggioranza di titoli che asseriscono che quella persona o teoria non è credibile, ci si deve fermare qui. Il metodo ha anche un nome, SIFT.[5] E si basa sulla premessa del tutto oggettiva secondo cui l’informazione più credibile è quella che troviamo in cima alla pagina della ricerca su Google (…). L’unità didattica che serve a insegnarlo – di sei ore, che effettivamente dovrebbero essere più che sufficienti – è stata adottata da decine di università negli Stati Uniti e in alcune scuole superiori canadesi. L’orgoglio del metodo è che il fact-checking basato su SIFT deve portare a esprimere un giudizio sulla veridicità o meno di una teoria, o sull’attendibilità di un personaggio pubblico, in 30, 60 o 90 secondi. Rivelatori anche i presupposti psicologici su cui si basa: i diffusori di conspiracy theories avrebbero successo perché cercano di lusingare le capacità intellettive delle persone comuni trattandole come adulti che potrebbero – non a caso si parla di informational hybris – (ambire a) capire ciò di cui si parla e ragionare con la propria testa: manco fossero esseri senzienti. Ma no, non ce la puoi fare, se conservi qualche autonomia critica inevitabilmente cadi nella rabbit hole. Per contrastare quell’attraente ma fallace lusinga, allora il metodo SIFT cerca a sua volta di adularti, ma lo fa ricordandoti che il tuo tempo e la tua attenzione sono preziosi: dicendoti insomma che, anche se sei tonto e meriti di essere trattato come un bambino (o meglio come nessun bambino andrebbe trattato), ciononostante “Tu vali”. Ti rimette, insomma, al tuo posto, nell’unico ruolo che puoi legittimamente reclamare: quello di consumatore. E alla fine del corso, tra gli apprezzabili “risultati di apprendimento”, si nota che nelle discussioni è meno probabile che gli studenti ricorrano a ragionamenti motivati. Che sollievo, eh?
NOTE
[1] È un tema che abbiamo affrontato in modo articolato e critico in Lello e Raffini (2023)
[2] Un’ipotesi interessante che può rispondere a questo (apparente) paradosso, radicalmente alternativa rispetto alle letture focalizzate sulla post-verità, è quella della democratizzazione del boundary work, sviluppata da Harambam e Aupers (2015), secondo cui alla radice della crescente critica popolare verso il sapere esperto e scientifico non ci sarebbe tanto l’ignoranza quanto il fatto che, proprio per via delle maggiori possibilità di accesso alla conoscenza scientifica, i conflitti anche radicali intorno a questioni epistemologiche e metodologiche escano dalla torre d’avorio delle professioni deputate alla produzione di conoscenza e trovino una via per essere dibattuti e combattuti anche tra i non-specialisti, in contesti della vita quotidiana. Ne abbiamo parlato in modo più analitico in Lello e Raffini (2023).
[3] Keren (2018), citato in Bordignon (2023), traduzione e corsivi miei.6 Charlie Warzel, Don’t go down the rabbit hole, “New York Times”, 18 febbraio 2021, <https://www.nytimes.com>.
[4] Charlie Warzel, Don’t go down the rabbit hole, “New York Times”, 18 febbraio 2021, <https://www.nytimes.com>.
[5] Acronimo dei 4 principi/fasi del metodo: 1) Stop. 2) Investigate the source. 3) Find better coverage. 4) Trace claims
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Scienza Post Normale - Un approccio normativo per l’incertezza e la complessità
Di recente l’Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti (la Treccani, per intenderci), ha pubblicato l’undicesima appendice di aggiornamento, in cui è compresa la voce “SCIENZA POST-NORMALE”, redatta da A. Saltelli.
Approfittiamo di questa occasione per parlare, ora, in generale del concetto di Scienza Post Normale, o PNS – Post Normal Science, e del perché può esserci utile; poi – in un prossimo articolo – di alcuni esempi di applicazione; infine, cercheremo di concludere il discorso con alcune nostre valutazioni, in un ultimo articolo, tra qualche settimana.
Per una trattazione più precisa e circostanziata rimandiamo volentieri ad A. Saltelli, da cui sono tratti tutti i passaggi in corsivo.
LE SCIENZE IN SOCCORSO DELLE ISTITUZIONI?
Accade spesso che ricercatori e scienziati – fisici, biologi, chimici, ingegneri, sociologi – vengano interpellati dai governi, dagli enti governativi e dalle istituzioni sovranazionali, per analizzare, studiare ed interpretare problemi, situazioni e fenomeni che possono avere impatti rilevanti sulla vita delle comunità.
Gli stessi scienziati e ricercatori – a conclusione delle loro analisi - sono poi chiamati dalle istituzioni a ricercare e a proporre delle soluzioni a questi problemi.
Un esempio è il problema del contenimento delle emissioni di gas serra sul quale la FAO ha coinvolto numerosi scienziati di diversa estrazione per studiare lo stato della situazione e definire delle linee guida[1] di comportamento (ne abbiamo parlato qui), un altro è la gestione della pandemia di Covid-19 tra 2020 e 2021 (ne abbiamo parlato qui per quanto riguarda l’Italia).
Questi due casi esemplificano alcuni dei caratteri frequenti di questo tipo di problemi: la loro complessità, il numero elevato di agenti endogeni ed esogeni che vi incidono, le poste in gioco molto rilevanti, l’urgenza di intervento, e – infine – l’elevata incertezza epistemica.
IL MITO DELL’OGGETTIVITÀ SCIENTIFICA
Ora, perché le istituzioni si rivolgono agli scienziati per analizzare e tentare di risolvere questo tipo di problemi?
Le ragioni potrebbero essere, sinteticamente, queste: la prima è perché, nell’immagine che ne hanno le istituzioni, gli scienziati sanno. Sanno di che si parla, sanno come si fa a studiare i fenomeni, grazie ai loro metodi disciplinari, sanno ponderare i diversi fattori, semplificare, modellizzare e ridurre alla sua essenza il problema. In termini filosofici: hanno in mano strumenti epistemici adeguati.
Una seconda ragione è che gli scienziati – e le scienze - sono considerati neutrali: i corpus disciplinare e il metodo scientifico godono di uno status di neutralità, equidistanza, oggettività e – soprattutto – di indipendenza da condizionamenti morali e politici[2].
Questi due presupposti – nell’immaginario istituzionale e del grande pubblico – sono la base della credibilità delle analisi scientifiche e del teorema per cui le istituzioni prendono le loro decisioni in modo responsabile, consapevole e per il bene della collettività, sulla base di dati e analisi incontrovertibili, oggettivi e di origine specialistica.
Gli scienziati chiamati in soccorso epistemico delle istituzioni, da parte loro e per lo più, credono nell’oggettività dei dati a disposizione, credono nei modelli che fanno, e – soprattutto – credono nella propria patente di neutralità e nell’assenza di distorsioni del proprio lavoro.
E sperano di lasciare al mondo politico e istituzionale il compito di discernere e decidere, in nome del bene comune[3].
IL MITO SFATATO
In realtà, sappiamo che questa auspicata condizione scientifica di neutralità ed oggettività delle scienze e degli scienziati può essere vera solo in alcuni casi molto circoscritti, ad esempio, con condizioni al contorno ben definite, con dati completi e di origine certificabile, in cui lo spazio per la distorsione, seppur involontari, è minimo.
Nei casi, invece, complessi, con numerose sfaccettature, con molti fattori endogeni ed esogeni, con poste in gioco multiple e rilevanti, con contorni sfumati, in condizioni di urgenza, – infine – con elevata incertezza epistemica, la presunta oggettività garantita dal metodo scientifico è una chimera.
Infatti, nelle scienze come in altre attività, ogni volta che si semplifica e si modellizza un problema, si fanno selezioni euristiche di dati (a volte si ricevono insiemi di dati e informazioni già selezionati dalle istituzioni), si prediligono risultati che confermano alcune ipotesi a priori[4], si è indirizzati da convinzioni personali, si accantonano informazioni che possono produrre distorsioni apparentemente fuorvianti, spesso si evitano conclusioni in aperto contrasto con il sentire comune oppure difficili da gestire all’interno della comunità scientifica[5].
In alcuni casi, le pratiche scientifiche si imbattono in questioni, scoperte e fatti che possono assumere una dimensione morale – o politica – rilevante e, a volte, pericolosa per singoli individui o per intere collettività: la fissione nucleare, con i suoi due correlati di produzione di energia ad uso civile e di morte di centinaia di migliaia di persone innocenti, è l’esempio più banale ed eclatante; i LLM, modelli generativi di intelligenza artificiale sono un esempio più recente, più complesso e più articolato.
Spesso, invece, la distorsione epistemica è indotta dalla pressione di finanziamenti, di programmi di ricerca istituzionalizzati, di risultati attesi, che orientano la direzione della ricerca o le attese di risultati.
LA PROPOSTA NORMATIVA DELLA “SCIENZA POST NORMALE”
Il concetto di Scienza Post Normale, introdotto nei primi anni Novanta da Silvio Funtowicz e Jerome R. Ravetz[6], non è una nuova scienza, né una nuova disciplina, ma un insieme di precetti e raccomandazioni miranti a un migliore rapporto fra scienza e politica. I proponenti ne raccomandano l’uso quando i fatti sono incerti, la posta in gioco alta, i valori in conflitto, e le decisioni urgenti.
È – di fatto - un tentativo di venire in soccorso e di indirizzare normativamente scienziati e istituzioni che si trovano di fronte a problemi di questo tipo, come cambiamento climatico, biodiversità, divario Nord-Sud e politiche post- o neo-coloniali, organismi geneticamente modificati, pandemie, salute globale su cui le istituzioni chiamano in aiuto le scienze.
La proposta di S. Funtowicz e J. Ravetz, di metodo per la Scienza Post Normale, quella che va oltre le aree disciplinari delle scienze applicate e delle conoscenze esperienziali degli esperti:
- è orientata, invece, a demistificare la ricerca di verità assolute, la promessa di risultati certi grazie all’accumulo di fatti incontrovertibili;
- si autodefinisce programmaticamente non neutrale
- suggerisce di non credere nella neutralità delle cifre, dei dati disponibili: per questi, richiede di valutarne con occhio attento l’origine, la consistenza, la completezza – attraverso la metodologia NUSAP[7] - e di ricercare eventuali set di dati e informazioni trascurati, dimenticati e accantonati
- ricorda di adottare una consapevolezza dei limiti del pensiero scientifico;
- consiglia di non chiudere l’analisi su un orizzonte disciplinare unico ma – al contrario – di aprire l’analisi e la ricerca a una pluralità di discipline e a coinvolgere comunità estese di pari che comprendano da non accademici quali giornalisti, meglio se investigativi, a whistle blowers – cioè persone che portano alla luce problemi sorti all’interno di istituzioni o organizzazioni – e infine a tutte le persone coinvolte dal, o interessate al, problema discusso»;
- raccomanda a ciascun scienziato e ricercatore, produttore e fruitore di conoscenza, un atteggiamento autoriflessivo, di critica epistemica[8], orientato a identificare e riconoscere i rischi di distorsione a cui può, soggettivamente, essere soggetto.
Concludiamo, con A. Saltelli, che una delle forze della PNS, è quella di aprire un utile canale di comunicazione fra comunità disciplinari, tra le quali quelle delle scienze sociali e delle scienze naturali, che non sempre agiscono di concerto in situazioni dove la scienza è chiamata in aiuto dalla società.
Secondo Saltelli, è forse questa la chiave più importante offerta dalla PNS. Una chiave, beninteso, utile solo se si desidera aprire una porta.
NOTE
[1] Cfr. il Rapporto Fao “Pathways towards lower emissions. A global assessment of the greenhouse gas emissions and mitigation options from livestock agrifood systems”
[2] Una ulteriore ragione – quasi inconfessabile ma ben nota a chi, nel mondo delle aziende chiede pareri agli specialisti – è che i risultati delle ricerche possono essere influenzati dai dati messi a disposizione e selezionati in modo tale da dimostrare e legittimare teorie a priori.
[3] Cfr Oppenheimer ecc.
[4] «Observation is Theory-laden», Cfr. N.R.Hanson, Patterns of Discovery: An Inquiry into the Conceptual Foundations of Science, Cambridge University Press, 2010)
[5] Cfr. V. Marcheselli e G. Gobo, Sociologia della scienza e della tecnologia. Un'introduzione, Carocci, 2021
[6] Cfr. Funtowicz, Ravetz 1990a, 1993, 1994
[7] NUSAP: NUSAP (Numeral, Unit, Spread, Assessment and Pedigree) si propone come un sistema organizzato per testare e/o descrivere la qualità di un dato numerico: Numeral corrisponde al valore numerico del dato,
Unit è l’unità di misura corrispondente: se numeral è una temperatura, unit può essere, per es., gradi centigradi,
Spread è una misura dell’errore associato alla misura, generalmente accompagnato dal simbolo, Assessment è una sintesi del giudizio espresso da una comunità estesa di pari in merito alla qualità del processo che ha portato alla misura. Può fare riferimento al valore della significatività statistica, o essere espresso in linguaggio corrente come ‘conservativo’ oppure ‘ottimistico’. Pedigree infine è un giudizio, sempre espresso dalla stessa comunità, sulla qualità del team o istituzione che ha prodotto l’informazione. (A. Saltelli, cit.); cfr.: Uncertainty and quality in science for policy (Funtowicz, Ravetz, 1990; si può vedere qui)
[8] Facendo proprio, ci pare, lo stimolo di Edmund Husserl a non appiattirsi sul realismo metafisico; Cfr.: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
BIBLIOGRAFIA MINIMA
Saltelli, SCIENZA POST-NORMALE, in Enciclopedia Italiana, Undicesima Appendice, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2024
Funtowicz, S., & Ravetz, J. R. (1993). Science for the post-normal age, Futures, 25(7), 739–755
Funtowicz, S., & Ravetz, J. R. (1990a). Post-normal science: A new science for new times. Scientific European, 169, 20–22.
Le mani sulla montagna - “Consumismo sciistico” o sviluppo sostenibile?
Questo articolo è pubblicato in contemporanea
dal Gruppo di divulgazione e discussione online
“Ideeinformazione”
Nelle aree alpine – si è notato più volte in questi anni – il fenomeno del cambiamento climatico si sta facendo sentire con particolare acutezza. Ma a farsi sentire sembra anche una scarsa volontà di cambiare stili di vita e atteggiamenti culturali, in particolare l’idea di sviluppo del territorio. Come del resto nelle grandi pianure. Fortunatamente, però, crescenti sono anche le reazioni delle popolazioni locali, sempre più consapevoli della necessità di “cambiare rotta” dal punto di vista economico-sociale, orientandosi verso un modello di sviluppo meno consumistico e “quantitativo”. Qualcosa che può insegnare molto (e – perché no – dare anche un po’ di speranza) a chi nelle aree montane non vive.
Nelle prealpi lombarde ci sono ameno due casi di scuola, che illustrano bene questa situazione.
IL COMPRENSORIO SCIISTICO VILMINORE-LIZZOLA (BG)
Vilminore e Lizzola sono due comprensori sciistici nella Bergamasca: il primo in valle di Scalve, sopra il comune di Vilmonore, e il secondo nella parallela Val Seriana, sopra Valbondione (di cui Lizzola è frazione). In mezzo c’è il Pizzo di Petto (mt.2.227) che può essere valicato a piedi attraverso il Passo di Manina. Ebbene, da qualche tempo sta prendendo forma un progetto per la “valorizzazione” turistica e sciistica dell’area attraverso la realizzazione di un tunnel che colleghi i due comprensori. Bucando evidentemente la montagna. Grazie a questa grande opera sciistica (potremmo forse coniare al proposito un nuovo acronimo: GOS), dunque lo sciatore potrebbe godere senza scendere dagli sci né perdere quota delle due aree di divertimento. Peccato che su questi tracciati, in gran parte tra i 1.800 e i 2.200 mt., cade sempre meno neve negli ultimi anni, anche durante le stagioni buone, e per periodi sempre più brevi…
Il progetto, il cui costo previsto è di 70 milioni di euro di cui 50 pubblici, sta muovendo solo i primi passi; sono comunque previsti, oltre agli estremamente invasivi lavori di perforazione per il tunnel di collegamento, sbancamenti, vasche di accumulo dell’acqua per l’innevamento artificiale, infrastrutture viarie, la dismissione delle funivie esistenti per sostituirle con una nuova.
Quello che però va qui segnalato è che appena la notizia ha fatto il giro dei paesi della valle la popolazione è insorta decisamente contro l’insensatezza di questo ipotetico mega-progetto, e così sul finire del 2024 la petizione lanciata dal locale collettivo Terre Alt(r)e[1] ha raggiunto rapidamente le 25.000 firme (!), mentre il 3 gennaio di quest’anno una prima assemblea pubblica, a Vilminore, ha raccolto oltre trecento persone che per quattro ore hanno seguito attentissime e preoccupate i relatori convocati da una rete di associazioni, tra e quali il CAI locale.[2]
I NUOVI IMPIANTI SUL MONTE SAN PRIMO (CO)
Il progetto denominato “Oltre Lario” è, se possibile, ancora più folle. Qui parliamo del monte San Primo, il rilievo più elevato del cosiddetto “Triangolo lariano”, ovvero di quel “triangolo” avente come vertici ideali Como, Lecco e Bellagio. Il massiccio montuoso supera di poco i 1.600 mt. e non ci ha mai nevicato troppo (oltretutto si tenga presente che quella zona risente dell’effetto mitigazione esercitato dal lago). In passato, comunque vi erano state costruite delle piste da sci con relativi impianti, da molto tempo abbandonati, secondo il destino comune a gran parte degli impianti a media altezza delle aree prealpine[3] (in verità non solo per ragioni climatiche, ma anche per cambiamenti degli stili di vita e delle pratiche turistiche).
Dal 2022, dunque, un progetto finanziato da Ministero dell’Interno, Regione Lombardia e Comunità montana del Triangolo lariano, e fortemente sostenuto dal Comune di Bellagio, prevede tra le altre cose la costruzione di un nuovo impianto sciistico sul Monte San Primo con ovviamente creazione di piste, cannoni sparaneve e un laghetto di accumulo per l’innevamento artificiale, tapis-roulants e una serie di parcheggi. Da subito una grande mobilitazione ha attraversato i paesi dell’area, dando vita al Coordinamento “Salviamo il Monte San Primo” (che riunisce decine di associazioni locali)[4] e che ha per ora ottenuto, se non altro, un “ripensamento” del progetto. Che però – denunciano di recente i sostenitori del coordinamento – non è cambiato in modo significativo e continua a impegnare oltre due milioni di euro dei cinque previsti per le opere legate, appunto, a questi nuovi, surreali, impianti sciistici.
Le associazioni temono che un simile progetto trasformi «la montagna lariana in un dispendioso luna-park, sperperando ingenti soldi pubblici per depauperare un territorio di grande pregio naturale e culturale». Tra le maggiori preoccupazioni, oltre al danno per un’area che è di grandissimo pregio naturalistico e inevitabilmente vocata a un turismo “dolce” (è il caso del percorso escursionistico noto come “Dorsale del Triangolo lariano” da Como a Bellagio), quella relativa agli impianti per il prelievo di acqua funzionali alla produzione della neve artificiale (la zona presenta carsismi e difficoltà nel prelievo di acqua per gli usi civili nelle lunghe estati siccitose di questi ultimi anni – ci manca questo prelievo extra del tutto insensato!).
Passando da vicende di portata locale a questioni più ampie, è evidente che queste tendenze si trovano nella concezione che sta alla base della progettazione delle future Olimpiadi invernali Milano-Cortina 2026, i cui lavori nei prossimi mesi conosceranno una forte accelerazione (il 6 febbraio scorso è stato infatti il “One year to Go”, la cerimonia ufficiale a un anno dall’inizio dei giochi). Anche in questo caso, dietro qualche rapida frase di facciata “green” (il sindaco di Milano Sala ha assicurato che i Giochi saranno molto «sostenibili» e che alla fine come ai tempi di Expo 2015 «saranno tutti contenti»[5] – ma tutti chi?), c’è una micidiale operazione di opere «essenziali» sparse a pioggia tra Lombardia e Veneto, che non faranno che lasciare i territori più sfigurati e cementificati. O meglio, i segni si vedono già.[6]
RIPENSARE LO SVILUPPO E I TERRITORI. A PARTIRE DALLE AREE MONTANE
Le due vicende che abbiamo richiamato – ma molte altre si potrebbero rintracciare – ci mostrano in definitiva come forti siano le tenenze conservative nel modo di pensare l’impresa, lo sviluppo e il turismo (è difficile uscire dal mito della crescita illimitata), ma come anche in questi ultimi decenni tante popolazioni, imprese, amministrazioni locali, intellettualità diffusa abbiano maturato una visione nuova, capace di pensare strade inedite e inaspettate per coniugare vita moderna e tutela dell’ambiente.
Le vicende e i luoghi che abbiamo visto parlano, tra l’altro, di quelle aree che sono state definite «montagne di mezzo», cioè quella media montagna che non presenta i caratteri della “eccellenza turistica” per come è comunemente intesa. È una «dimensione intermedia» – ha osservato in un libro intelligente il geografo Mauro Varotto – tra le montagne per antonomasia, specializzate «in direzione della modernizzazione turistico-industriale» e della «compensazione naturalistica»,[7] e le aree urbane industrializzate (anzi, “post-industrializzate”, se mi consente lo scherzo terminologico), caotiche affollate e inquinate. Aree dunque destinate, in questo modello di (mal)sviluppo ad abbandono e “regressione”, a invecchiamento e spopolamento. Contro questo “destino”, che in realtà è solo l’effetto di un ben preciso orientamento dello sviluppo territoriale basato sugli imperativi del profitto, è necessario ripensare ai modelli di telefrequentazione di una montagna panoramica a disposizione del tempo libero della popolazione urbana: serve una rivoluzione copernicana che non intenda più la montagna al servizio del turista o escursionista, ma l’escursionista e il turista al servizio della montagna.[8]
Vi è oggi in Italia, per fortuna, un vasto movimento, di pensiero, di opinione, ma anche di “pratiche di vita”) che si oppone fermamente a queste visioni incentrate su un mito della crescita economica che, applicato alle aree montane, appare perfino ridicolo. Un movimento che, peraltro, non può essere derubricato a “politica del no”, ma che al contrario intende dare un “altro futuro”, di economia alternativa, al mondo delle montagne che peraltro rappresenta oltre un terzo del territorio italiano. Tra i punti alti di questa riflessione troviamo, infatti, il Manifesto di Camaldoli, un documento elaborato al termine di un convegno nazionale svoltosi appunto a Camaldoli nel 2019,[9] dove si legge tra l’altro: L’idea che la montana lasciata alle forze della natura ritrovi da sola un equilibrio stabile – la cosiddetta ri-naturazione – è del tutto infondata. Come tutti i manufatti la montagna richiede manutenzione. In netto contrasto con i comportamenti odierni di tipo distruttivo e predatorio va riscoperta la tradizionale cultura del limite, che dovrà anche presiedere all’uso produttivo della terra, ai consumi di suolo e agli altri usi del territorio. (…)
Occorre dunque lavorare a uno scenario alternativo a quello della città che invade la montagna, della proliferazione delle seconde case, delle piste da sci sempre più dipendenti dall’innevamento artificiale e dal prelievo idrico. Nuovi modelli di vita, di socialità e di compresenza culturale richiedono un’alleanza fra anziani restanti, depositari di saperi contestuali, e “nuovi montanari” innovativi. Vi concorrono iniziative e nuovi strumenti come cooperative di comunità, ecomusei che attivano coscienza di luogo, osservatori del paesaggio, comunità del cibo, feste paesane “sagge”, forme attive e inclusive di valorizzazione delle minoranze linguistiche e di integrazione dei migranti.[10]
Un pensiero altro sulla e della montagna, da cui ci sarebbe molto da imparare. Anche qui in pianura.
NOTE
[1] https://terrealtre.noblogs.org/
[2] Si veda la puntuale cronaca di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/2025/01/27/nuovo-comprensorio-sciistico-colere-lizzola-prosegue-la-raccolta-di-firme-contraria-e-in-preparazione-nuove-iniziative/. E qui il video dell’incontro del 3 gennaio a Vilminore, intitolato “Comprensorio sciistico Colere-Lizzola. Patrimonio di tutti o parco divertimenti per pochi?”: https://terrealtre.noblogs.org/post/2025/01/10/video-dellincontro-pubblico-comprensorio-sciistico-colere-lizzola-patrimonio-di-tutti-o-parco-divertimenti-per-pochi-organizzato-a-vilminore-il-03-01-2025/
[3] Nell’Appennino le cose vanno anche peggio, per ovvie ragioni climatiche: dei cento impianti esistenti la metà sono chiusi. E nonostante questo – ha osservato Giuliano Bonomi, naturalista dell’Università di Napoli che ha condotto su questa realtà un’ampia ricerca – «negli ultimi anni stiamo assistendo a un paradosso: sono proliferati i progetti volti a costruire nuovi impianti di risalita in tutto l’Appennino, grazie anche a finanziamenti in parte o totalmente pubblici» (cfr. Alessandro Pirovano, La montagna che non si arrende a “grandi eventi” e impianti sciistici senza futuro, “Altreconomia”, 5 febbraio 2025, https://altreconomia.it/la-montagna-che-non-si-arrende-a-grandi-eventi-e-impianti-sciistici-senza-futuro/).
[4] https://bellagiosanprimo.com/
[5] https://stream24.ilsole24ore.com/video/economia/milano-cortinasala-fascino-cinque-cerchi-dara-grande-visibilita/AGQg6qkC
[6] Per una presentazione d’insieme degli scempi che porteranno con sé le Olimpiadi invernali 2026, si veda Luigi Casanova, Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026. Il “libro banco” delle Olimpiadi invernali, Milano, Altreconomia, 2022. Qui il video della presentazione del libro alla Casa della Cultura di Milano, il 15 dicembre 2022: https://www.youtube.com/watch?v=RoMk-HK9s9c&t=10s. E per un aggiornamento, l’articolo di Duccio Facchini, “L’impronta olimpica”: le opere di Milano Cortina 2026 dall’alto,“Altreconomia”, n. 278 / febbraio 2025, p. 21-25, che documenta, foto satellitari alla mano, gli effetti tutt’altro che “sostenibili” sui territori interessati dalle opere olimpiche.
[7] Mauro Varotto, Montagne di mezzo. Una nuova geografia, Torino, Einaudi, 2020, p. 165.
[8] Ivi, p. 167-68.
[9] Il manifesto è stato approvato al termine del convegno nazionale “La nuova centralità della montagna” (Camaldoli, 8-9 novembre 2019), e si trova in Luigi Casanova, Avere cura della montagna. L’Italia si salva dalla cima, Milano, Altreconomia, 2020, p. 29-36.
[10] Ivi, p. 32-33.