Il Giappone abolisce i floppy disk - Agende digitali, tecnologie e competenze
I floppy disk non si producono più dal 2011.
Ma il Governo giapponese ha deciso solo nel mese di giugno - sì, del 2024 – di abolirne l’uso in tutti i suoi sistemi. In Giappone, infatti, fino a quest’estate, erano in vigore 1.034 leggi che regolavano – in alcuni casi imponevano – l’utilizzo dei floppy disk nelle funzioni burocratiche.
Strano Paese, il Giappone, avanzatissimo per molti aspetti ma spesso ancorato a strumenti di altri tempi come i floppy disk e gli hanko, dei timbri tradizionali personalizzati ancora usati per vidimare i documenti e che hanno suscitato molte critiche, per esempio, durante la pandemia, perché il conteggio dei contagi e dei vaccini avveniva ancora via fax e il lavoro da casa era stato molto rallentato dalla necessità di uso dei timbri.
Sembra, però, che anche per il Giappone sia arrivato il momento di provare ad allinearsi alle politiche e regolamentazioni che stanno adottando la maggior parte delle nazioni occidentali e “occidentalizzate” per promuovere la trasformazione digitale nei loro paesi.
Le principali e più diffuse linee guida di queste politiche sono: programmi di sviluppo delle competenze digitali di dipendenti pubblici imprenditori e cittadini, integrazione del curriculum digitale per integrare competenze e abilità digitali nei programmi delle scuole pubbliche, iniziative di e-Government, cioè politiche e regolamenti per digitalizzare i servizi pubblici e promuovere l'adozione dei servizi sui canali digitali, sandbox regolamentati per consentire la sperimentazione e l'innovazione con nuove tecnologie digitali, garantendo al contempo la coerenza con regolamenti generali già esistenti come il GDPR, sussidi e incentivi finanziari e incentivi per promuovere il passaggio al digitale di processi di piccole e medie imprese (PMI). Oltre a questo, molti governi hanno implementato misure punitive, multe e sanzioni, per scoraggiare le PMI e i terzi dall'evitare o rifiutare di partecipare agli sforzi di trasformazione digitale.
In quasi tutti i governi di tratta di un approccio poliedrico che coinvolge lo sviluppo delle competenze, l'erogazione di servizi pubblici digitali, quadri normativi e incentivi finanziari/punitivi per guidare e accelerare la trasformazione digitale delle loro economie e società. L'obiettivo è sbloccare i benefici delle tecnologie digitali gestendo al contempo i rischi e le sfide associate al cambiamento.
L'iniziativa del governo Giapponese sull’abolizione dei floppy disk si inquadra nelle misure di e-Government finalizzate a – finalmente - digitalizzare i propri servizi pubblici in modo aperto e promuoverne l'adozione nella società.
Questa decisione può avere effetti:
- sull’interoperabilità, che consente di sfruttare meglio e senza soluzione di continuità gli standard tecnici già condivisi, i modelli di dati le e interfacce di servizio che consentono alle diverse agenzie governative di trasmettere informazioni e condividere iniziateive in modo più semplice. Ad esempio, il Quadro Europeo di Interoperabilità dell'Unione Europea fornisce linee guida per raggiungere l'interoperabilità transfrontaliera e transettoriale.
- sull’erogazione di servizi ai cittadino: rendere i canali digitali l'opzione predefinita per accedere ai servizi pubblici, pur fornendo alternative offline per chi ne ha bisogno, richiede di abbandonare le tecnologie desuete che ne bloccano o rallentano i processi. Il principio del "once-only" USA secondo cui i cittadini devono fornire le informazioni al governo una sola volta, è un esempio di questo approccio.
- lo stesso vale per la graduale eliminazione dei servizi offline come la digitalizzazione di moduli, pagamenti e altri processi amministrativi per ridurre la dipendenza dalle interazioni di persona. Ad esempio, l'Estonia ha reso il 99% dei suoi servizi pubblici disponibili online.
Lo scopo comune di queste iniziative di e-government – come l’abolizione dei floppy disk - è migliorare l'efficienza e l'accessibilità dei servizi anche promuovendo un maggiore coinvolgimento dei cittadini, con il meta-obiettivo di sbloccare i benefici della trasformazione digitale sia per i governi che per il pubblico.
Tuttavia, questo è possibile se - da una parte - non ci sono di mezzo tecnologie fisicamente localizzate come i floppy disk e se - dall’altra – una parte molto rilevante della popolazione ha compiuto una buona parte del percorso di integrazione di competenze e abilità digitali.
Ogni azione di sviluppo digitale non può prescindere da un intenso lavoro di scolarizzazione e di diffusione degli strumenti e delle attitudini intellettuali nella popolazione sia quella nativamente digitale che quella che non lo è.
Infatti, «I nativi digitali italiani non sono tanto digitali. Solo il 58,3% dei giovani tra 16 e 19 anni, infatti, nel 2021 possiede competenze adeguate» e della popolazione italiana tra i 16 e i 74 solo il 45% ha competenze di base e il 22% ne di avanzate.
Rimuovere le tecnologie desuete è importante ma più importante è trovare delle leve e delle motivazioni per “arruolare” chi ha meno competenze in percorsi di graduale apprendimento, che non saranno immediati ma richiederanno tempo.
E adeguare tempi e aspettative dei programmi governativi a questi tempi di trasformazione delle persone.
Soluzioni Basate sulla Natura (NBS) - Un nuovo approccio per lo sviluppo equilibrato
Buongiorno Emanuele. Tu - nel tuo percorso di dottorato - ti stai occupando degli ecosistemi nell’ambiente urbano e delle possibilità di quantificare i benefici che questi generano in favore degli esseri umani.
Recentemente abbiamo sentito parlare – per lo più in ambienti istituzionali - di NBS, di Nature Based Solutions, a proposito – ad esempio – di come affrontare le emergenze come alluvioni, frane e siccità.
Puoi darci un’idea concreta di cosa sono le NBS?
La nozione di “Soluzioni Basate sulla Natura”, il cui acronimo è “NBS”, raffigura l’attuale ricerca di nuovi approcci per perseguire lo sviluppo integrando, in modo equilibrato, obiettivi sociali, ambientali ed economici.
Per chiarirne il senso possiamo usare alcune fonti istituzionali illustri come la Commissione Europea ed Il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP), che rappresenta la principale autorità ambientale globale.
La prima qualifica le NBS come “soluzioni ispirate e supportate dalla natura, efficaci dal punto di vista dei costi, che forniscono benefici ambientali, sociali ed economici e contribuiscono a costruire la resilienza”.
La seconda fonte, invece, fornisce la definizione più attuale e completa per descrivere le NBS. Nello specifico, l’UNEP le riconosce come “azioni volte a proteggere, conservare, ripristinare, utilizzare in modo sostenibile e gestire ecosistemi terrestri, d'acqua dolce, costieri e marini naturali o modificati che affrontano le sfide sociali, economiche e ambientali in modo efficace e adattivo, fornendo contemporaneamente benessere umano, servizi ecosistemici, resilienza e benefici per la biodiversità".
Queste definizioni identificano l’equilibrio tra le diverse dimensioni come elemento chiave e imprescindibile. Le NBS, infatti, non rappresentano sicuramente la panacea per le crisi climatiche e ambientali, ma, se ben progettate e implementate, a livello locale possono generare molteplici benefici su tutte e tre le dimensioni obiettivo: ambientale, sociale ed economica.
Perché è opportuno affrontare temi come – ad esempio - il dissesto idrogeologico, e le alluvioni che spesso ne conseguono, affidandosi a queste metodologie e non puntando – invece – su altre soluzioni più “ingegneristiche”?
La risposta non è semplice e per nulla scontata. Come accennato poco fa, se le NBS venissero ben progettate, nonché integrate con la pianificazione a livello locale, dovrebbero essere costruite, sviluppate e inserite nel paesaggio circostante per aiutare a proteggere, ripristinare e gestire in modo sostenibile gli ecosistemi naturali e modificati nel processo; inoltre, allo stesso tempo dovrebbero risultare economicamente vantaggiose nonché fornire benefici sociali, ambientali ed economici a lungo termine.
La loro grande innovazione sta proprio nell’elaborare una visione completa e a lungo termine, concetto che risulta sempre un po’ ostico da assimilare. L’essere umano infatti, nella sua storia, ha sempre avuto la tendenza a massimizzare il profitto ottenibile da una specifica risorsa, meglio se in tempi brevi. Questa logica, se osservata da un punto di vista individuale, risulta difficilmente confutabile ma, se analizzata da un punto di vista più ampio come quello di “comunità” in cui noi tutti viviamo, mostra facilmente segni di debolezza.
Lo scienziato e scrittore Nicholas Amendolare, nella sua "tragedy of the commons", descrive in modo chiarissimo il motivo per il quale una visione individualista non sia più perseguibile da una specie complessa e sociale come quella umana. Egli approfondisce il dilemma in cui individui, agendo autonomamente e razionalmente in base al proprio interesse, sfruttano in modo eccessivo una risorsa comune e condivisa, portandola al suo esaurimento. Infatti, quando tutti cercano di ottenere il massimo beneficio personale senza considerare l'impatto cumulativo delle proprie azioni, la risorsa viene sovrasfruttata, riducendo o addirittura impedendo così la capacità futura per tutti di poterne trarre beneficio.
La mancanza di regolamentazione o di gestione collettiva delle risorse comuni – come pascoli, foreste, pesci nei mari, o l'atmosfera – porterà facilmente ad una vera e propria “tragedia” con conseguenti implicazioni sociali e morali. Proprio per questo, le NBS rappresentano uno strumento importante e, forse, irrinunciabile, in quanto permettono di conciliare lo sviluppo umano, senza però esaurire irreversibilmente le risorse che l’ambiente ci offre, garantendo pertanto un maggior beneficio collettivo.
Puoi farci un esempio?
Certamente: una vecchia piazza urbana, magari con pavimentazione rovinata e deteriorata, potrebbe essere il soggetto ideale per un progetto di rigenerazione che voglia adottare la metodologia NBS. Analizzando specificatamente le condizioni ambientali che la caratterizzano, le dinamiche sociali e politiche locali e identificando la visione del pianificatore a lungo termine, è possibile progettare la sua riurbanizzazione in modo da ottenere benefici sociali, economici e ambientali. Sostituendo, ad esempio, i materiali della pavimentazione - vecchi e danneggiati - con materiali nobili, che assorbano meno calore, si potrebbe migliorare esteticamente la piazza e contemporaneamente diminuirne l’effetto “isola di calore”, migliorando quindi le condizioni di vita per umani, piante e animali. Oppure, inserendo delle zone verdi, non solo si creano aree di sviluppo e mantenimento della biodiversità ma - sicuramente - si facilita l’assorbimento delle acque meteoriche, riducendo il rischio di allagamenti e inondazioni che sempre più spesso provocano danni (anche economici) alle nostre città.
Per concludere, le NBS possono essere un ponte che collega obiettivi apparentemente molto distanti tra loro; tuttavia, per evitare che siano solo bellissime idee, è necessario che siano progettate e pianificate con la dovuta attenzione e cura.
La fine del futuro - I.A. e potere di predizione
1. Terapie del discorso
«La predizione è difficile, specie se riguarda il futuro», è un’arguzia attribuita al fisico Niels Bohr, ad altri fisici, ma anche a letterati come Mark Twain. La riflessione che Gerd Gigerenzer elabora nel libro Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi riguarda l’efficacia dei sistemi di intelligenza artificiale e i costi sociali che siamo disposti a sostenere per svilupparli e utilizzarli. Questo compito si traduce in due strategie di terapia del pensiero: una è rivolta al modo in cui percepiamo i risultati dei software, l’altra alla comprensione delle policy dell’infosfera, al fine di comprendere i modi e i fini della razzia di dati personali che alimenta le banche dati delle AI.
Il titolo del saggio sembra suggerire che sia in corso un’aggressione, o almeno una sfida, da parte delle macchine. Lo sviluppo dell’argomentazione invece non segue questa traccia, perché sotto la lente dell’analisi finiscono le promesse del marketing (e le attese del pubblico) sulle potenzialità dei software, senza che a questi venga attribuita alcuna intenzione di competizione: unici protagonisti sono i discorsi che gli uomini si scambiano sui dispositivi digitali. Gli interventi di terapia sono condotti anzitutto sul nostro linguaggio e sull’archivio di enunciati con cui vengono descritti i servizi digitali: si sarebbe potuto scegliere come titolo del libro Perché si può sempre tentare di curare l’intelligenza umana dalla propria stupidità, ma in questo modo sarebbe mancata l’evocazione del Golem elettronico, che nelle vetrine delle librerie esercita sempre il suo (stupido) fascino.
2. Prevedere il passato
Gigerenzer illustra al lettore una galleria di attività realizzate dall’AI, dalla selezione dei partner sessuali alla guida autonoma, dalla traduzione automatica alla polizia predittiva, dal riconoscimento dei volti alla profilazione marketing. In tutte queste pratiche le narrazioni dei produttori (spesso poi rilanciate dai media istituzionali) tendono a esagerare i risultati raggiunti dal software sulla base di una costruzione argomentativa che viene etichettata «fallacia del cecchino texano». Immaginiamo un cowboy che spari da grande distanza sulla parete del fienile, e vada poi a disegnare i cerchi del bersaglio attorno all’area in cui si raggruppa buona parte dei fori che ha prodotto nel muro. L’adattamento dell’obiettivo ai buchi dei proiettili comporta un’ammirazione nei confronti della mira del cecchino che è molto inferiore a quella che avrebbe conquistato se i fori si fossero concentrati dentro il perimetro di un bersaglio già tracciato. Quello che accade nella descrizione delle prestazioni delle macchine è molto simile: i risultati che vengono divulgati e commentati riguardano la capacità del software di adeguare la capacità predittiva a fatti avvenuti in passato: gli eventi trascorsi sono gli unici di cui si conoscono già gli effetti, sui quali può essere condotto il training delle AI, e su cui può essere misurata la loro efficacia.
I modelli di calcolo riuscirebbero però garantire la replica della loro accuratezza profetica sui casi futuri soltanto se si potesse verificare che gli ambiti delle relazioni umane, quello dei comportamenti individuali, quello della storia, persino quello del traffico stradale, obbedissero sempre agli stessi parametri di decorso. Se l’amore tra le persone scoccasse sempre per le stesse ragioni, se il piano di una rapina o di un omicidio derivasse sempre dagli stessi moventi, se la circolazione di mezzi e pedoni ripetesse sempre le stesse traiettorie e non violasse mai il codice – il grado di successo registrato dalle I.A. in fase di test sarebbe una promessa affidabile per il futuro. Ma nelle situazioni di complessità, quali sono quelle sviluppate dalle azioni degli uomini, l’adattamento di un modello agli effetti del passato tramite la selezione e l’interpretazione dei parametri opportuni, e il talento profetico per il futuro, non si sovrappongono con alcuna ragionevole certezza. Il mondo dovrebbe essere di una stabilità (e di una noia) meccanica per corrispondere a requisiti simili; invece la realtà sociale continua a essere mutevole, e la predizione dei software molto meno affidabile di quanto venga propagandato.
I giochi come gli scacchi, la dama e il Go, inquadrano alcune condizioni ideali per il miglior funzionamento dell’I.A.. Le situazioni cambiano sempre, ma l’ontologia dentro i confini delle partite è stabile come quella dei pianeti e delle stelle, di cui si calcolano le orbite con determinismo assoluto: le dimensioni e la forma della plancia, il valore dei pezzi, le regole di movimento, le finalità degli spostamenti, rimangono costanti. Non ci sono bambini che attraversano la scacchiera all’improvviso, alfieri caratteriali che decidono di muovere in verticale, regine con appetiti segreti che mangiano il proprio re. Per decenni si è ritenuto che l’abilità nel giocare a scacchi esprimesse l’essenza dell’intelligenza, ma le prove empiriche sembrano smentire questo assunto: le doti per vincere una partita contro il campione del mondo non permetterebbero alla macchina di sopravvivere nel traffico delle vie di Milano – o di assicurare l’incolumità dei milanesi. Una delle soluzioni del problema potrebbe essere quella di riservare le strade alla sola circolazione delle automobili guidate da I.A., ma non sembra un’ipotesi percorribile a breve. Le attese non migliorano quando si passa all’assortimento di coppie con lo scopo che non divorzino entro un anno, o al riconoscimento di volti sospetti senza il rischio di arrestare innocui passanti – o ancora peggio, la divinazione di profili psicologici per le sentenze di libertà sulla parola (o per la personalizzazione dei messaggi marketing).
3. Euristiche e stabilità del mondo
Gigerenzer insiste sull’opportunità di confidare in software costruiti su euristiche trasparenti. Il successo delle I.A. è stato sostenuto da due pregiudizi che ciascuno di noi coltiva in favore della complessità e dell’opacità, visto che ci sentiamo più sicuri dei risultati di una macchina complicata e incomprensibile. Invece una «lista di decisione» con poche regole permette di ottenere predizioni che, nel confronto empirico, funzionano meglio delle I.A.: Angelino et al. (2018) mostra che è quanto che accade con i tre parametri e le tre clausole del software CORELS, in grado di prevedere se l’imputato sarà arrestato nei prossimi due anni con un’accuratezza del 65%, la stessa dell’I.A. COMPAS acquistata dal governo americano, che calcola innumerevoli combinatorie su 137 parametri.
L’autorità di Kahnemann ha squalificato le euristiche equiparandole al «pensiero veloce», che tende ad affrettarsi verso soluzioni inquinate da errori e pregiudizi, pur di trovare un criterio per la condotta nell’immediatezza della situazione. Gigerenzer invece consacra il repertorio delle nostre regole pratiche come una «cassetta degli attrezzi» che ha superato la selezione dell’ambiente in cui viviamo, ed è quindi adeguata alla razionalità dei compiti che ci attendono. Una delle sue missioni più importanti è cementare la stabilità del mondo, che le intelligenze artificiali faticano a evincere tra i molti pattern di relazioni che si allacciano nei dati con cui si svolge il loro training. Le reti neurali peraltro amano nascondersi, come la natura di Eraclito, e dopo poche generazioni di addestramento diventa impossibile anche ai loro sviluppatori comprendere quali siano i segnali intercettati ed elaborati: si può scoprire solo con test empirici sugli output se il software ha imparato a riconoscere i tank russi, o se li distingue da quelli americani perché nel dataset delle foto per caso il cielo sullo sfondo dei mezzi corazzati slavi è sempre nuvoloso mentre è soleggiato negli scatti USA. Ancora più difficile è spiegare perché l’introduzione di pochi pixel colorati converta la percezione di uno scuolabus in quella di uno struzzo. Se il mondo deve essere noiosamente stabile, anche per il bene dei bambini che viaggiano sugli scuolabus, almeno che la noia sia quella dei nostri pregiudizi, e non quella di un mondo possibile sorteggiato a caso.
Bibliografia
Angelino, E., Larus-Stone, N., Alabi, D., Seltzer, M., Rudin, C., Learning certifiably optimal rule lists for categorical data, «Journal of Machine Learning Research», n. 18, 2018, pp. 1-78.
Gigerenzer, Gerd, How to Stay Smart in a Smart World Why Human Intelligence Still Beats Algorithms, Penguin, New York 2022.
Kahnemann, Daniel, Thinking, Fast and Slow, Farrar, Straus and Giroux, New York 2011
Intelligenza artificiale e creatività - I punti di vista di tre addetti ai lavori
Ancora solo pochi anni fa, tutti sapevamo che nei laboratori della Silicon Valley – ma non solo, anche in laboratori di Paesi meno trasparenti – si lavorava a forme di intelligenza artificiale; ma in fondo, se non si faceva parte della schiera degli addetti ai lavori, tutto questo tema rimaneva confinato come una questione ancora lontana e più adatta alle fiction.
E invece, come una bomba, nel dopo pandemia l’AI è esplosa nelle vite di tutti noi – lasciando i più attoniti e frastornati – e di certo andrà a cambiare professioni e modi di lavorare che abbiamo sempre ritenuto di esclusiva pertinenza dell’intelligenza umana.
L’intelligenza artificiale non si limita a processare a velocità inconcepibili da mente umana miliardi di dati, con l’AI si possono creare immagini, testi. Insomma, sconfinare nei territori di pertinenza dell’arte, anche se è difficile definire in modo certo e univoco cosa sia l’arte.
Abbiamo quindi pensato di chiedere a tre persone che fanno parte del gruppo di Controversie e che usano l’intelligenza artificiale per creare immagini, quale sia il loro rapporto con la “macchina” e con il processo creativo.
La prima specifica domanda fatta è la seguente: Creare un’immagine con l’AI è un atto creativo?
Vediamo le risposte…
Matteo Donolato – Laureando in Scienze Filosofiche, professore e grafico di Controversie
Credo proprio di sì: dal punto di vista umano, la generazione di immagini con l’Intelligenza Artificiale non è un atto così passivo come forse potremmo pensare, in quanto rappresenta un vero lavoro artistico e creativo. Inoltre, in questa interazione tra macchina e persona in carne e ossa non c’è una protagonista assoluta, ma entrambe collaborano per il raggiungimento dell’obiettivo finale: le due intelligenze, dunque, operano insieme, senza una preponderanza di una sull’altra. Tuttavia, a prima vista si può ritenere che l’I.A. sia la vera “artista”, e si potrebbe inoltre immaginare che esegua tutto il lavoro, con l’essere umano che semplicemente impartisce dei comandi e aspetta che essa “faccia la magia”. Ragionando così, sottovalutiamo (e di molto) il nostro potere di intervento, concedendo tutto il credito della prestazione creativa alla macchina; le cose, in realtà, non sono così semplici, in quanto è l’artista umano a dettare le regole del gioco. Infatti, questi stabilisce tutta una serie di fattori molto importanti come, per esempio, il comando iniziale (o prompt), lo stile che avrà la sessione immagini, il tempo dedicato a essa, il numero di tentativi, le eventuali variazioni o i dettagli che tali rappresentazioni devono possedere, con la macchina che esegue. Alla fine del lavoro, quando l’I.A. avrà realizzato le proprie opere, è l’artista umano che garantisce l’adesione di essa a ciò che si era stabilito nel prompt; inoltre, è nuovamente lui (o lei) a decretare se il risultato ottenuto sia soddisfacente, in linea con le volontà iniziali. Insomma, l’intelligenza umana è la prima e ultima arbitra dell’immagine, colei che inizia e orienta la sessione di lavoro e che, alla fine, giudica l’operato dell’I.A.; siamo noi, quindi, a tessere i fili, a stabilire la qualità artistica e creativa del prodotto restituito dalla macchina. Quest’ultima costituisce, pertanto, il mezzo attraverso cui la nostra creatività e la nostra immaginazione si possono esprimere. In conclusione, l’I.A. rappresenta uno strumento, come tanti altri, a supporto dell’intelligenza e della fantasia umane...
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Paolo Bottazzini – Epistemologo, professionista del settore dei media digitali ed esperto di Intelligenza Artificiale
Credo sia legittimo attribuire un riconoscimento di creatività alla generazione delle immagini con IA in ugual misura a quanta ne è stata riconosciuta agli artisti degli ultimi decenni. Il ruolo dell'artista, come è stato incarnato da personaggi importanti come Hirst o Kapoor, consiste nell'elaborazione del modello concettuale dell'opera, non nella sua realizzazione pratica, che per lo più è affidata ad operatori artigianali specializzati. Anche la produzione con l'IA richiede una gestazione concettuale che prende corpo nel prompt da cui l'attività dell'IA viene innescata. Si potrebbe discutere del grado di precisione cui arriva il progetto degli artisti "tradizionali" e quello che è incluso nelle regole che compongono il prompt: ma credo sarebbe difficile stabilire fino a che punto la differenza sia qualitativa e non semplicemente quantitativa. Più interessante sarebbe valutare se il risultato dell'operazione condotta con l'IA sia arte, al di là dei meriti di creatività: anche i pubblicitari si etichettano come "creativi", e di certo lo possono essere - però difficilmente saremmo disposti a laureare tutti gli annunci pubblicitari come "arte".
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Diego Randazzo – Artista visivo
Molto semplicemente: dipende.
Penso che anche rimanendo ancorati alla tradizione, addentrandosi nella miriade di produzioni odierne, realizzate con le canoniche tecniche artistiche (la pittura, la scultura, la fotografia, etc.) sia piuttosto difficile trovare “l’opera d’arte”. Semplificando, ma non troppo, oggi anche le risultanze di tecniche storicizzate spesso si avvicinano più alle forme della ‘tappezzeria', o anonimo complemento d’arredo, che al manufatto artistico, testimone di senso.
Il semplice atto creativo non ha nulla a che fare con l’elaborazione e produzione artistica, se non ambisce a costruire un percorso di senso e di ricerca progettuale.
Questa piccola premessa vuole essere una provocazione per far riflettere su un principio ancora oggi saldo e indissolubile: la tecnica e lo strumento in sé sono ‘oggetti monchi’, se privati di un valore che solo il radicamento concettuale nella contemporaneità può attribuirgli. Non mi piace snocciolare citazioni, ma credo che Enzo Mari, quando nel 2012 sentenziava ‘’Non esiste oggi parola più oscena e più malsana della parola creatività. Si produce il nulla, la merda con la parola creatività’’ aveva plasticamente intercettato certe tendenze che, di lì a poco, avrebbero preso il sopravvento. La creatività, intesa come paradigma vincente e performante per risolvere ogni questione di non facile risoluzione.
Sgombrato quindi il campo dalle generalizzazioni, su cosa sia o non sia un atto di creatività, si può sicuramente affermare che l’IA sia uno strumento potentissimo e, se usato finemente, con intelligenza e cura, può condurre alla creazione di un’opera d’arte.
Ma cerchiamo da subito di fare dei distinguo: l’IA deve rimanere uno strumento e non una finalità. Nello specifico - e questa è una mia personalissima teoria - il creativo/artista di turno non può pensare di fermarsi, dopo qualche interrogazione, all’output grezzo generato dall’IA, convincendosi di aver dato vita a qualcosa di unico, affascinante e interessante.
Come avveniva già nella tradizione classica della pittura, le influenze e lo studio sono fondamentali; una volta si viaggiava, gli artisti si incontravano, si contaminavano scambiandosi tecniche e saperi, mentre oggi si può attingere ad un patrimonio di dati sconfinato in rete. Il rischio omologazione è altissimo, perciò è fondamentale conoscere e confrontarsi con il passato, il presente ed immaginare un possibile futuro che tenga insieme tutto. Quindi passato, presente e futuro sono i fondamentali per poter imbastire una progettualità, non finalizzata a costruire ‘immagini nitidissime di mondi impossibili e surreali’ - come vediamo nel repertorio più di tendenza nella generazione di immagini con l’IA - bensì volta a costruire delle riflessioni sui processi narrativi e sulla storia delle immagini stesse.
E chi è che oggi può fare tutto questo con consapevolezza, senza farsi ingabbiare dall’effetto decorativo, dal rischio tappezzeria? Senza ombra di dubbio è l’Autore, l’unica figura che può padroneggiare questi strumenti, mettendoli al servizio della propria poetica.
Riprendo brevemente il tema sull’autorialità tratto da una precedente intervista rilasciata sempre su questo blog:
‘’Autore è colui che interroga e, soprattutto, rielabora e reinterpreta secondo la propria attitudine il risultato dell’Intelligenza artificiale. La macchina fa le veci del ricercatore: mette insieme e fonde tantissimi dati e, in ultima istanza, restituisce un ‘abstract grezzo’. Quell’abstract non può rimanere tale. Deve essere decostruito e manipolato dall’artista per assurgere ad opera d’arte. L’IA, come processo generativo, è quella cosa che sta in mezzo, tra il pensiero, l’idea iniziale e l’opera finale. Tutto qui. Non è semplificazione, è come dovrebbe essere inteso il ruolo dell’intelligenza artificiale nella creazione artistica.’’
Quest’opera dal titolo 24 intime stanze è un esempio pratico della mia idea di utilizzo di Ai in campo artistico e soprattutto della necessità di far emergere una concatenazione virtuosa tra passato, presente e futuro: dall’utilizzo della cianotipia (antica tecnica di stampa a contatto) e la pittura ad olio, all’uso dell’I.A. per elaborare le referenze del soggetto protagonista.
24 intime stanze / dalla serie ‘Originali riproduzioni di nuovi mondi’ (Opera finalista al Combat Prize 2024, nella sezione pittura), Cianotipia e pittura a olio su tela grezza, 120x100x2 cm, 2024
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Non c’è dubbio che queste tre risposte siano estremamente stimolanti e che vi si possa rintracciare un minimo comune denominatore che le lega: l’idea che l’IA sia solo un mezzo, per quanto potente, ma che l’atto creativo resti saldamente appannaggio di colui che ha nel suo animo (umano) l’obiettivo concettuale.
Ottenere un risultato con l’IA si delinea, qui, come un vero atto creativo, che, però e ovviamente, non è detto che si trasformi in arte, ovvero in una manifestazione creativa in grado di dare emozione universale.
In termini più concreti: molti di noi, forse, potrebbero avere “nella testa” La notte stellata di Van Gogh (giusto per fare un esempio), ma la differenza tra la grandissima maggioranza di noi e il genio olandese è che non sapremmo neppure lontanamente “mettere a terra” questa intuizione.
Con l’IA, a forza di istruzioni che la macchina esegue, potremmo invece, avvicinarci al risultato di Vincent?
Se fosse così, in che modo cambierebbe l’essenza stessa dell’artista?
Tecnologia e controllo - Una ricerca sul lavoro da remoto
Da quando il lavoro da remoto si è affacciato con prepotenza nelle vite di molti lavoratori sono sorte molte domande sul ruolo della tecnologia, non solo nello svolgimento delle diverse mansioni, ma soprattutto nell’evoluzione dei meccanismi di controllo a disposizione dei datori di lavoro.
L’esperienza del lavoro da remoto emergenziale è avvenuta infatti in un momento storico già fortemente caratterizzato dalla pervasività delle tecnologie informatiche in molti ambiti della nostra vita quotidiana (servizi, media, sanità, istruzione…). E se è vero che il tema del controllo non è nuovo (ha da sempre avuto un ruolo rilevante nella sociologia del lavoro e delle organizzazioni), è anche vero che siamo in un periodo in cui il controllo esercitato sui lavoratori e in generale sui cittadini è in aumento e sempre più visibile.
Pertanto, ci siamo domandate se l’accelerazione tecnologica che ha accompagnato la transizione al lavoro da remoto durante il periodo pandemico possa aver rappresentato un’ulteriore occasione per estendere forme pervasive ed estrattive[1] di controllo sui lavoratori, nel suo lavoro sul capitalismo della sorveglianza.
Tuttavia, la direzione della relazione fra tecnologia e controllo non è predeterminata[2]: l’impatto che l’introduzione della tecnologia ha sull’organizzazione del lavoro non è univoco ma situato all’interno dei contesti culturali, organizzativi e istituzionali in cui le tecnologie vengono impiegate e, vi è una profonda ambiguità insita nelle tecnologie informatiche[3]: «l’informatica propone di continuo nuove possibilità per l’asservimento della persona, non meno che opzioni per affrancarla» e gli esiti che l’introduzione di una certa tecnologia può generare in termini di qualità e organizzazione del lavoro «e ancora una questione di scelta».
Se da un lato la tecnologia può «liberare» il lavoratore da alcuni vincoli spazio-temporali, aumentare l’autonomia e ridurre il coinvolgimento in operazioni rischiose, dall’altro lato molte delle tecnologie utilizzate si fanno più pervasive e pongono le basi per un aumento del controllo da parte del management.
Non è, infatti, la tecnologia in sé a determinare un incremento del controllo, ma è, semmai, il modello economico sottostante che definisce obiettivi volti a estrarre valore dall’esperienza personale quotidiana, anche attraverso un monitoraggio serrato dei comportamenti dei lavoratori[4].
Di fronte a questi interrogativi abbiamo quindi cercato di indagare questo tema nell’ambito di una ricerca[5] avviata proprio durante il lockdown imposto dalla pandemia da Covid-19.
Per tentare di valutare come il lavoro da remoto nella sua forma emergenziale possa aver influito sulle modalità di controllo siamo partite dalla letteratura organizzativista classica[6] che individua tre forme di controllo: a) la supervisione diretta e il controllo gerarchico; b) il controllo degli output secondo un approccio al lavoro per obiettivi; c) il controllo sugli input, attraverso l’interiorizzazione delle norme e dei valori dell’organizzazione da parte dei lavoratori.
Queste tre forme di controllo, applicate alla situazione dello smart working emergenziale - in tempi rapidi, spesso senza pianificazione né concertazione - hanno mostrato diverse possibilità di remotizzazione, ed un diverso rapporto con la diffusione delle tecnologie digitali.
Il nostro lavoro, quindi, ha avuto l’obiettivo di ricostruire, a partire dall’esperienza di lavoratori e lavoratrici, i sistemi messi in atto dalle organizzazioni per coordinare le attività svolte a distanza, come è cambiato il controllo esercitato sul lavoro da remoto e che ruolo hanno giocato le tecnologie digitali.
I risultati[7] sono stati almeno in parte diversi da quanto ci saremmo aspettate.
Innanzitutto, la maggior parte dei lavoratori dichiarava di non aver percepito differenze nel controllo lavorando da remoto piuttosto che in presenza: quasi l’80% degli intervistati riteneva infatti che il controllo fosse “rimasto uguale”. Emergevano tuttavia alcune differenze fra i rispondenti. Erano soprattutto le persone che svolgevano mansioni esecutive nel lavoro di ufficio che dichiaravano un aumento nella percezione del controllo, mentre coloro che svolgevano professioni intellettuali o professioni nel commercio e nei servizi alla persona dichiaravano con più frequenza una diminuzione del livello di controllo percepito.
Questi dati ci hanno suggerito di guardare con più attenzione agli effetti che il lavoro da remoto può avere sulle diverse attività che possono essere svolte a distanza, e agli strumenti che le organizzazioni hanno a disposizione e di fatto applicano.
Iniziamo a vedere quali sistemi di controllo sono emersi dalla nostra rilevazione.
Il timore per il controllo tramite strumenti digitali rimanda spesso all’utilizzo di software esplicitamente dedicati al monitoraggio dei lavoratori, che consentono al responsabile di osservare le attività svolte con il personal computer, di registrare la cronologia, a volte persino i movimenti del mouse. La nostra rilevazione mostra tuttavia che questi strumenti vengono utilizzati in modo molto limitato: appena il 7% del campione dichiara di avere in uso programmi di questo tipo.
I sistemi di controllo più diffusi sono invece i programmi che servono a registrare le presenze, utilizzati in sostituzione della timbratura del cartellino. Un’alternativa all’utilizzo della timbratura online è la consegna di report quotidiani o settimanali che rendano conto del lavoro svolto, e che coinvolge quasi un terzo dei rispondenti.
I meccanismi formali per il controllo dei tempi, dei modi o dei risultati del lavoro non esauriscono però la questione dei processi organizzativi dedicati alla supervisione dell’operato del personale.
Nel corso della ricerca è emerso, ad esempio, l’utilizzo frequente di programmi che consentono di visualizzare lo “stato” di una persona, che può essere ad esempio “presente”, “assente”, “occupata” o “non attiva”. Si tratta di software finalizzati prevalentemente all’interazione in tempo reale, come Skype, Meet o Teams, che offrono contestualmente quello che si rivela come un ulteriore meccanismo di controllo. Il controllo in questo caso non avviene necessariamente da parte del responsabile, capo o supervisore, ma può anche assumere una direzione “orizzontale”, ed avvenire quindi tra pari, tra colleghi. Lo stesso avviene quando si utilizzano programmi per la condivisione online di documenti, come Google Drive, Dropbox o, per le scuole, Classroom, usati da oltre la metà del campione. Anche in questo caso si tratta di tecnologie indispensabili per replicare da remoto le diverse forme di collaborazione che avvenivano in presenza. Allo stesso tempo si tratta di una sorta di vetrina che consente a tutti coloro che accedono al documento di tenere traccia di quanto viene fatto dai vari membri con cui interagiscono. In questo senso, anche questi strumenti digitali di collaborazione diventano meccanismi impliciti di controllo, di tipo verticale oppure orizzontale.
Questi ultimi esempi sono indicatori del fatto che il senso e il ruolo delle tecnologie non sono intrinseci agli strumenti, ma si costituiscono con il loro utilizzo. Un programma progettato per le comunicazioni dirette può trasformarsi in uno strumento per il controllo da parte di un responsabile o, più spesso, per il controllo reciproco tra i lavoratori, spesso senza essere percepito come tale da chi ne fa uso.
I sistemi di controllo che abbiamo descritto sono utilizzati in modo diverso da diverse categorie di lavoratori. Possiamo quindi aspettarci che l’intensificarsi del controllo tramite tecnologie abbia conseguenze diverse per diverse categorie di lavoratori.
Per le professioni esecutive, le tecnologie tendono a replicare le forme di controllo attive nel lavoro in presenza (registrazione delle presenze, relazioni sulle attività svolte, controllo della quantità di lavoro completato a fine giornata/settimana/mese). In alcuni casi, l’utilizzo di software per il monitoraggio puntuale del lavoratore può aumentare il senso di supervisione diretta e con esso lo stress (ma abbiamo visto che si tratta di pratiche relativamente poco diffuse).
Nella nostra ricerca è emersa con frequenza l’idea che il controllo (diretto) non sia necessario perché il supervisore “si fida” del lavoratore.
In questo riferimento alla fiducia è compresa, a nostro avviso, oltre ad un riferimento alle relazioni personali, la tranquillità che proviene dalla certezza che il lavoratore operi secondo le norme standardizzate che ha appreso sul luogo di lavoro. La questione che si pone per immaginare il futuro del lavoro da remoto è allora relativa ai sistemi di riproduzione di questi meccanismi di formazione e trasmissione di norme (e valori) aziendali. I processi di reclutamento nelle aziende che ormai utilizzano in modo ordinario il lavoro da remoto hanno messo in luce la necessità di prevedere periodi più intensi di lavoro in presenza nelle fasi di inserimento, proprio perché alcune modalità di acquisizione di informazioni non sempre formalizzabili sono difficilmente replicabili da remoto.
Per le professioni intellettuali, invece, che prevedono interazione e lavoro di gruppo, le tecnologie digitali possono far emergere il controllo orizzontale tra colleghi, rendendo qualsiasi attività visibile per tutto il team. A questo si aggiunge il fatto che, come sottolineano ormai molte ricerche, la crescente autonomia nella gestione dei tempi produce nei fatti un aumento delle ore di lavoro, oltre ad una maggiore “porosità” tra i tempi di vita, con il lavoro che tende ad invadere momenti tradizionalmente dedicati ad altre attività. La combinazione di queste dinamiche può portare a nuove forme di “autosfruttamento” da parte dei lavoratori, per via di quello che è stato definito il “paradosso della flessibilità”: anziché fornire maggiore libertà e autonomia, la flessibilità produce nei fatti una tendenza ad autoimporsi ritmi e tempi di lavoro crescenti.
Per un approfondimento, si veda Goglio V., Pacetti, V., Tecnologia e controllo nel lavoro da remoto, in “Meridiana: rivista di storia e scienze sociali”, n.104, 2, 2022, 47-73.
NOTE
[1] Per utilizzare i termini identificati da Zuboff, Zuboff, S. (2019). The age of surveillance capitalism: The fight for a human future at the new frontier of power (First edition). PublicAffairs.
[2] Si veda il contributo di Gasparini https://www.controversie.blog/le-tecnologie-non-sono-neutrali-la-lezione-dimenticata-del-determinismo-tecnologico/
[3] Gallino, L. (2007). Tecnologia e democrazia: Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici. Einaudi.
[4] Cfr Zuboff, cit. nota 1
[5] La ricerca è stata avviata ad aprile 2020 con un ampio piano di interviste in profondità (189 rispondenti, metà dei quali intervistati una seconda volta a circa 8-10 mesi di distanza), seguita poi da una rilevazione tramite questionario (circa 900 risposte) nel 2021.
[6] Mintzberg, H. (1989). Mintzberg on Management: Inside Our Strange World of Organizations. Free Pr.
[7] Goglio, V., & Pacetti, V. (2022). Tecnologia e controllo nel lavoro da remoto. Meridiana, 104, 47–74.
[8] Cfr. ancora Zuboff, cit. nota 1
Ancora un orso ucciso dalla politica - E la scienza che si crede neutrale
Tocca parlare di nuovo di un orso - ucciso “col favore delle tenebre”, come si direbbe in gergo giornalistico e senza, tuttavia, sbagliarsi - dal Presidente della Provincia Autonoma di Trento con l'aiuto della scienza che pretende di essere politicamente e moralmente neutrale.
I FATTI
Il 16 luglio scorso un’orsa, con un piccolo vicino, aggredisce e ferisce un turista francese che percorre il Sentiero degli scaloni, nei pressi di Dro, in Trentino. L’orsa sembra essere l’esemplare femmina, madre di 3 cuccioli, chiamato in codice KJ1.
Il giorno dopo, il Presidente della Provincia Autonoma di Trento delibera “la rimozione tramite uccisione (abbattimento)” dell’orsa KJ1 perché pericolosa per l’incolumità pubblica e perché non c’è il tempo per altre misure.
La misura di rimozione – attenzione, non di uccisione - è giustificata dal parere dell’ISPRA[1], secondo la valutazione del PACOBACE - Piano d’Azione interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro-Orientali, che classifica l’orsa come esemplare ad alta pericolosità.
A sostengo di questa ordinanza c’è il fattore tempo: la Provincia ritiene che non ne ce ne sia abbastanza per catturare l’orsa, metterle un radiocollare ed eventualmente trasferirla in altre zone o in cattività, senza pregiudicare la sicurezza dei cittadini e dei turisti.
Il 19 di luglio, il TAR di Trento accoglie il ricorso di gruppi di ambientalisti[2] e blocca il decreto di uccisione perché «senza alcuna possibile alternativa e senza un accertamento definitivo dell’effettiva riconducibilità dell’aggressione all’orsa KJ1», riporta Il Fatto Quotidiano. in sostanza, il Tribunale Amministrativo contesta l’assenza di sufficienti ragioni di merito per l'uccisione.
Nei giorni successivi si ripete il copione: la Provincia di Trento (PAT) emette una seconda ordinanza di uccisione e il TAR di Trento si ripete nel bloccarla poiché – seppur accogliendo la necessità di garantire la sicurezza ai cittadini – non riscontra la necessità della misura estrema dell’uccisione.
Il TAR sottolinea anche l’esigenza di preservare la sicurezza con maggiori misure di prevenzione quali una maggiore informazione e l’eventuale chiusura delle aree in cui si muove l’orsa giudicata pericolosa.
In media res: il 23 luglio l’orsa viene catturata in una trappola a tubo nell’Alto Garda, le prelevano campioni di DNA e le viene apposto il radiocollare. L’esame del DNA è compatibile con quello rinvenuto nel luogo dell’aggressione, a prova del fatto che KJ1 possa essere stata effettivamente l’autrice dell’aggressione.
Ultimo, triste e inevitabile atto: il 29 luglio – si dice in tarda serata - il Presidente della PAT, con un uno-due degno di Mohammed Alì, questa volta non lascia tempo alla reazione ambientalista, delibera per la terza volta la rimozione per uccisione dell’orsa e nella mattinata del 30 luglio una squadra del Corpo forestale la uccide.
LA POSIZIONE DELL’ISPRA
L’ISPRA, autore, depositario, interprete e attuatore del Piano Regionale per la Conservazione dell’Orso Bruno, segue i criteri di valutazione della pericolosità degli orsi contenuti nel piano e – a differenza di altri casi di cui abbiamo già parlato – li contestualizza, integrandoli con la “storia personale” dell’orso, fino a definirne il grado di pericolosità. KJ1, in ragione dell’evento del 16 luglio, di 68 casi di danni a cose e 7 altri incontri in cui non sembra aver dimostrato quella paura che garantisce la tranquillità degli umani[3], è classificata “ad alto rischio” e se ne consiglia l’immediata rimozione.
La rimozione, dice il Piano d’Azione – dice l’Ispra, in sostanza – può essere effettuata tramite tre opzioni di intervento:
- cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radio marcaggio;
- cattura per captivazione permanente;
- abbattimento.
L’Ispra non va oltre e lascia all’Autorità, al Soggetto Decisore «di potersi muovere con adeguata autonomia per la realizzazione d'interventi il più possibile preconfigurati e codificati» evitando che «a causa di ritardi decisionali connessi ad aspetti burocratici e/o organizzativi, gli stati di crisi degenerino in situazioni che possono rivelarsi pericolose per la sicurezza e l’incolumità pubblica».
Il decisore – in questo caso - è la Provincia Autonoma di Trento, nella persona del suo Presidente.
LA POSIZIONE DEL PRESIDENTE DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
Cercando di evitare l’ovvia (e, dal mio punto di vista, giusta) retorica e polemica nei confronti di quella che appare una guerra personale del rappresentante della Provincia contro gli orsi, un'analisi lucida delle ragioni del Presidente della PAT[4] fa emergere tre criteri morali che hanno ispirato la sua azione:
- il primo criterio, espresso esplicitamente, è la sicurezza, la salvaguardia e l’incolumità di “chi vive nelle nostre valli” e “dei nostri ospiti”
- il secondo criterio che emerge è la tutela dell’economia della Provincia di Trento, in cui il turismo gioca una parte molto significativa e il “rischio orsi” può farne diminuire l’appeal
Da qualunque punto di vista, l’istanza morale del Presidente della PAT è comprensibile e condivisibile: incolumità delle persone e salvaguardia del turismo – una delle principali risorse economiche della zona[5] – sono obiettivi chiave per la politica locale a cui riesce difficile obiettare.
È interessante[6] - però - che nell’ordinanza di uccisione di KJ1 si ritrovi anche il riferimento alla «sfera soggettiva dell’animale», come valore da perseguire.
Tuttavia, la scala di valori morali del Presidente vede dichiaratamente la «vita e l’incolumità dell’uomo» come «assiologicamente superiori rispetto alla vita di un animale».
Il Presidente della PAT giustifica, quindi, in questo modo la sua scelta morale di rimuovere l’orsa dal territorio attraverso l’uccisione e non con una delle altre possibili misure: il pericolo per la vita dei cittadini e dei turisti, che è – a suo avviso - di maggior valore di quella dell’animale non umano.[7]
EPPURE C’È QUALCOSA CHE NON QUADRA
Primo: in questa storia emerge che la Scienza – impersonificata nell’Ispra, nel Piano PACOBACE e nei suoi specialisti di ambiente e di etologia – si nasconde dietro alla cortina della neutralità, fermandosi alla valutazione della pericolosità, lodevolmente contestualizzata, e al suggerimento della rimozione.
Non prende, tuttavia, posizione sul “come”: trasferimento, cattività e morte sembrano essere soluzioni alla pari, senza differenze sostanziali e morali; le conseguenze della classificazione vengono lasciate alla politica.
Viene naturale pensare che, se si trattasse di un criminale umano, neuroscienziati, psichiatri ed esperti di diverse discipline scientifiche avrebbero molto da eccepire su questa normalizzazione compiuta dall’Ispra: come dire che l’allontanamento, il carcere e la pena di morte sono la stessa cosa, decida pure il Governo cosa fare di costui!
Un’occasione persa: la scienza, l’Ispra, potrebbe bene fare un passo di più, dare indicazioni su quale delle scelte sia più opportuna, tenendo conto sia della sicurezza degli umani che della sfera soggettiva dell’animale non umano (tutelata, tra l’altro, dalla costituzione e dal Codice penale), invece che arroccarsi in questa presunta neutralità e indipendenza morale, protetta dalla disciplina e dai suoi meccanismi esatti.
Secondo: La decisione del Presidente della PAT, che presenta un lato assolutamente condivisibile (chi vorrebbe mettere a rischio i propri concittadini e la loro economia?) è apparentemente giustificata dal principio del primato della vita umana rispetto a quella animale ma, in realtà, fa una torsione di questo principio mettendo a confronto due “oggetti” non commensurabili: il rischio (ipotetico) per l’umano e la morte (certa, per decreto) dell’animale. E di questa torsione dà pure ampia giustificazione nel decreto: «La vita di un animale pericoloso, nelle circostanze date, non può che ricoprire una valenza recessiva rispetto, non tanto e non solo alla vita e all’incolumità dell’uomo, quanto piuttosto al solo pericolo latente e concreto che detto animale possa reiterare attacchi nei confronti dell’uomo stesso».
Il pericolo “latente e concreto” – ma non così concreto da essere prevedibile e inevitabile con misure diverse dalla morte - diventa – in modo perverso e ingiustificato - un termine fondamentale dell’equazione che porta all’uccisione dell’orsa e all’abbandono dei suoi piccoli.
Terzo: il 23 luglio l’orsa KJ1 era stata catturata e le era stato messo il radiocollare. Cadeva così la necessità di fare in fretta, poteva essere trattenuta, trasferita o messa in cattività.
Poteva non essere uccisa: un’altra occasione persa.
Quarto ed ultimo punto: il Presidente della PATi, con il suo uno-due – ordinanza e uccisione - tra la sera del 29 e la mattina del 30 luglio, impone il primato dell’azione di potere sopra ad ogni posizione avversa e si fa beffe della giustizia amministrativa[8], delle istanze morali di chi sostiene la causa della soggettività dell’animale, delle valutazioni scientifiche alternative e della propria stessa dialettica di stampo scientifico[9] che dovrebbe accettare il dibattito e il confronto aperto, articolato e alla luce del sole.
Ancora un’occasione persa, quella di affrontare in modo democratico la discussione tra scienza, politica e morale.
NOTE
[1] Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, un ente pubblico di ricerca, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, e di autonomia tecnica e scientifica
[2] L’istanza è stata presentata da Leal e Lav, cui si sono immediatamente uniti Aidaa, Enpa e Oipa
[3] È bizzarro: mi hanno insegnato fin da piccolo, quando iniziavo ad andare per montagne, e ho sempre pensato che dobbiamo essere noi, animali umani, ad aver paura degli orsi e dei lupi e che questa paura dovrebbe tenerci lontani da loro e dai guai, come si fa – ad esempio – in Abruzzo (vedi…)
[4] Si vedano, ad esempio: il DECRETO DEL PRESIDENTE della PAT N. 81 DI DATA 29 Luglio 2024,
[5] Il turismo trentino vale circa 1,5 miliardi di euro e rappresenta il 10% del PIL della provincia; si veda: http://www.statistica.provincia.tn.it/news/
[6] La categoria dell’”interessante” – nata nell’800 e oggi espressione meno frequente - è stata un criterio valoriale importante per tutti gli anni ’70 e ’80, soprattutto nel giudizio di lavori artistici e letterari; può essere di interesse studiarne l’origine, l’applicazione e la critica in Kierkegaard, nei “Diari del Seduttore”, di cui è indiscussa protagonista. L’“interessante”, categoria della riflessione, si delinea in quanto sorprendente, contemporaneamente armonico e disarmonico, possibilità del dis-uniforme.
[7] Dietro a questa posizione che è condivisa da molti ed ha una grande rilevanza storica e culturale c’è una storia filosofica e scientifica di secoli, che parte dall’Antica Scrittura - “Tenete sottoposti i pesci del mare e le creature volatili dei cieli e ogni creatura vivente che si muove sopra la terra” (Genesi 1:28) – evolve nella Scolastica e viene codificata dalla fisiologia cartesiana in poi. È indubbio che - quando ritenuta scientifica – abbia tratti di origine sociale, politica, religiosa.
[8] Giustizia amministrativa, il TAR, di cui la stessa Provincia dice «un baluardo di giustizia per i cittadini e spesso di giustezza dell’operato provinciale, nella convinzione che l’efficienza, la correttezza e la concretezza dell’azione amministrativo siano fattori di progresso per tutta la nostra comunità» https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/I-40-anni-del-Tar-di-Trento-un-baluardo-di-giustizia-per-i-cittadini
[9] Si veda ancora l’ordinanza di abbattimento DECRETO DEL PRESIDENTE della PAT N. 81 DI DATA 29 Luglio 2024
Ossessione per il nuovo e cura delle cose - Riparare e manutenere
“Innovare”, in senso letterale, significa semplicemente introdurre qualcosa di nuovo. Tuttavia, sappiamo bene quanto questa sia in realtà un’espressione assiologicamente carica; rimanda, cioè, a una precisa idea di valore per cui tendiamo a pensare un’innovazione come a qualcosa di per sé positivo.
Infatti, espressioni che si richiamano al “nuovo” e all’innovazione, in particolare tecnologica, infestano la retorica dei programmi politici di ogni sorta e negli ultimi anni sono sistematicamente associati al digitale. Con il declino delle grandi narrazioni del Novecento, l’ideologia del digitale, l’ultima almeno in ordine di tempo (Balbi 2023), ha contribuito a rafforzare il mito dell’innovazione tecnologica come obiettivo prioritario e in sé desiderabile. Come problematizzare quella che secondo alcuni assume la forma di una vera e propria ossessione collettiva? Le possibilità sono molteplici. Tra queste, una consiste nel mettere al centro dell’interesse pubblico alcune attività che sembrano avere finalità sostanzialmente opposte rispetto all’innovazione: mentre innovare è un atto straordinario che, nell’introdurre una novità, rende allo stesso tempo qualcosa come obsoleto, riparare e manutenere invece sono pratiche che mirano a far durare le cose un po’ di più.
Un’inversione infrastrutturale
Per molto tempo, la storia delle tecnologie ha pensato l’innovazione come il motore del progresso e ha così alimentato una narrazione lineare dello sviluppo storico. Questo viene dunque rappresentato come un succedersi di grandi invenzioni che si affermano in forza della loro superiorità funzionale e che, di conseguenza, rendono superati gli apparati precedenti, relegandoli nell’ambito delle cose invecchiate.
Un apparato concettuale che rinforza l’idea della storia come fatta da grandi uomini dalle caratteristiche eccezionali. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta gli studi sulla scienza e la tecnologia (Science and Technology Studies, STS) hanno puntato l’attenzione verso ciò che, in questi racconti, era di fatto rimosso, o perché spiacevole o perché pensato come ordinario e dunque banale. Sia le ricerche sulle infrastrutture sia quelle dedicati alla attività di riparazione e manutenzione (infrastructural studies e maintenance and repair studies) avevano sin dall’inizio l’ambizione di provocare una sorta di inversione figura-sfondo. In altri termini, l’obiettivo è spostare sullo sfondo ciò che normalmente attira l’attenzione (l’ultimo ritrovato tecnologico) e mettere in primo piano gli aspetti meno appariscenti del discorso comune – il fallimento, il rimosso oppure ciò che si ripete ma che permette al singolo apparato di esistere. Mentre “l'infrastruttura” può essere così ordinaria da sembrare noiosa, la ‘tecnologia’, al contrario, è un concetto orientato verso la novità [...].
Abbiamo la deleteria abitudine di isolare le parti più luminose, brillanti, nuove o spaventose del nostro ambiente e chiamarle ‘tecnologia’, trascurando le parti più vecchie e apparentemente più noiose”, nonostante sia “lì che si svolge gran parte del duro lavoro” (Peters 2015, p. 36).
Per “infrastruttura” di norma si intende un complesso di elementi materiali e immateriali costruiti dagli esseri umani che soddisfano bisogni e forniscono un servizio percepito come basilare. Basti pensare all’infrastruttura energetica che alimenta buona parte delle cose che usiamo quotidianamente o all’infrastruttura viaria o idrica. Da questo angolo visuale, la storia della tecnologia si delinea meno come una sequela di cambiamenti rivoluzionari e più come un processo di lunga durata, di ampia scala e di continuità ma anche di fallimenti, rotture, falle. La storia dell’infrastruttura ferroviaria, ad esempio, implica anche il disastro ferroviario.
Le rotture e i fallimenti hanno quindi un valore epistemico.
Sono operatori di problematizzazione e di visibilizzazione: richiedono di affrontare – ovvero di intervenire, prendere scelte sul futuro, individuare responsabilità, comprendere e ricostruire i processi – quello che nel processo normale di funzionamento può essere dato per scontato.
Durante una rottura viene messo in questione sia il singolo oggetto che si è inceppato sia il complesso sistema di interdipendenze in cui è inserito. Se ad esempio ci si rompe l’auto, siamo costretti a interrogarci sul suo funzionamento interno: una cosa che prima non era problematica, che funzionava come un tutto organico, emerge come un assemblaggio di parti che hanno anche una loro dinamica e temporalità propria (cos’è quel rumore? Si sarà logorata la cinghia di distribuzione? Ho cambiato l’olio di recente?). Ma siamo costretti anche a interrogarci su altre questioni che non erano in apparenza legate all’auto: non possiamo andare a prendere i nostri figli da scuola o i nostri cari dall’ospedale e non ci sono mezzi pubblici in quelle zone; così magari ci rendiamo conto della riduzione dei servizi pubblici che in precedenza non ci interessavano.
Prendersi cura delle cose
Un guasto alla macchina ci costringe a interrompere la nostra quotidianità ed andare dal meccanico per farla riparare. Certo: di fronte a questo imprevisto potremmo prendercela con noi stessi, magari rimproverandoci per non essercene occupati abbastanza.
Eppure, nonostante riparazione e manutenzione siano termini spesso associati, essi rimandano ad attività molto diverse. A giudizio dei sociologi francesi Jérôme Denis e David Pontille (2022), ad esempio, è proprio la manutenzione a lanciare la sfida più radicale alla ideologia dell’innovazione. Entrambe hanno in comune un obiettivo di fondo: allungare la vita delle cose. Ma ci sono alcuni elementi che avvicinano chi ripara a chi innova: i primi, infatti, devono restituire la cosa al suo funzionamento originario e, spesso, vi riescono in forza di una conoscenza tecnica specifica. Riparare, dunque, può anche avere un aspetto eroico-salvifico e, agli occhi dei profani, anche un po’ magico. Molto diverso è invece il caso della manutenzione: pensiamo ai servizi di pulizia degli spazi pubblici e privati, che sembrano essere portati avanti da donne e uomini senza qualità. Insomma, innovare e riparare rientrano comunque in una temporalità stra-ordinaria, mentre la manutenzione è necessariamente una pratica routinaria, ripetitiva, ordinaria e, come spesso accade in questi casi, tende a far sparire dalla vista le persone che se ne occupano.
Hirayama (Kōji Yakusho), il personaggio principale di Perfect Days di Wim Wenders, lavora alla manutenzione dei bagni di Tokio e non viene degnato di uno sguardo se qualcuno entra nel bagno mentre lui lo sta pulendo. E non si tratta solo della tipica discrezione giapponese: il sociologo cognitivo Eviatar Zerubavel (2024, 52) menziona una scena del tutto simile che si trova in Maid in Manhattan per sostenere che le persone che si occupano di lavori di pulizia sono spesso considerate come “di sfondo […]. Essi subiscono un’emarginazione attentiva […] solitamente associata all’essere di status inferiore”. A questa invisibilità e misconoscimento sociale della manutenzione e delle persone a essa associate corrisponde però sia una grande diffusione sociale sia, soprattutto, un’enorme rilevanza collettiva.
In primo luogo, tutte le cose sono di per sé fragili – hanno bisogno di una manutenzione di qualche tipo – e dunque siamo tutti coinvolti a vario titolo in questa attività. Inoltre, è possibile addirittura sostenere, come fanno Denis e Pontille, che la manutenzione sia addirittura più importante per la nostra vita rispetto all’innovazione, poiché attiene più al registro della riproduzione che a quello della produzione.
Proviamo a immaginare, ad esempio, un futuro del tutto privo di innovazioni nell’ambito dello spazio urbano in senso lato (nessun cambiamento nell’edilizia, nei trasporti, nei sistemi fognari o idrici, ecc.). Anche in questo scenario fittizio, potremmo comunque continuare a costruire, al netto del consumo di risorse, per millenni.
Al contrario, basta una sospensione delle attività di manutenzione di poche settimane per mandare qualunque città in crisi. Anche la realizzazione del miglior progetto possibile, partorito dalla mente della più creativa archistar, senza lavori di manutenzione, finirebbe in rovina in pochissimo tempo (mentre anche con un progetto mediocre, ad esempio di un complesso urbanistico, è possibile ottenere buoni risultati se è ben curato nel tempo).
Per una politica della manutenzione
Eppure, tutta l’attenzione e il riconoscimento sociale ed economico vanno in direzione del gesto creativo e innovativo[1]. Possiamo fare qualcosa per mettere in discussione questa tendenza apparentemente ineludibile? Qual è la rilevanza politica del nostro modo di misurarci con il tema della manutenzione?
Il sottotitolo del già citato libro di Denis e Pontille è, appunto, Politique de la maintenance e secondo i due autori guardare alla manutenzione permette di sottoporre a critica la visione molto ristretta di economia circolare che si concentra sul circuito produzione-consumo-riciclo lasciando intatta la struttura del sistema e le sue disuguaglianze. Inoltre, chiarire mettere in primo piano i lavori di manutenzione permette di dare ulteriore forza a due lotte politiche molto significative. La prima è contro l’obsolescenza programmata e tutti i processi di chiusura informativa e tecnologica (“blackboxing”). La seconda richiama la necessità di un maggiore riconoscimento, simbolico ed economico, per i lavori di manutenzione, essenziali per la tenuta del sistema sociale. Infine, a un livello più astratto ma non per questo meno importante, guardare alla manutenzione permette di cambiare il nostro sguardo sulle cose, il nostro rapporto con loro e quindi, in definitiva, noi stessi. Le ricerche sociologiche che hanno studiato i lavoratori della manutenzione (sia che si tratti della metropolitana di Parigi, di un sistema idrico o di un museo) hanno molto da insegnarci: si tratta di sviluppare una diversa sensibilità alle cose, più attenta alle dinamiche della materia, alla sua fragilità, all’invecchiamento e alla degradazione. Un rapporto che è l’esatto contrario del consumo delle merci: non si tratta solo di usare le cose, ma di occuparcene e dunque di riconoscere che il nostro benessere dipende anche dalla loro tenuta.
Avere cura delle cose ha molto a che fare con l’avere cura delle persone e dei sistemi viventi (Jackson 2017), anzi a volte ci prendiamo cura degli altri attraverso la manutenzione delle cose da cui dipendiamo. La politica della manutenzione esprime anche un invito a riconoscere e prendersi carico delle nostre reti di dipendenza reciproca. Perché noi dipendiamo gli uni dagli altri, ma anche – perché no? – dalle cose.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Balbi, G. (2022), L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale, Laterza, Bari.
Denis, J., Pontille D. (2022), Le soin des choses. Politiques de la maintenance, La Découverte, Parigi.
Jackson, S.J. (2017), Speed, Time, Infrastructure Temporalities of Breakdown, Maintenance, and Repair, in J. Wajcman e N. Dodd (a cura di), The Sociology of Speed: Digital, Organizational, and Social Temporalities, Oxford University Press, New York, pp. 169–85.
Peters, J.D. (2015), The Marvelous Clouds: Toward a Philosophy of Elemental Media, University of Chicago Press, Chicago.
Zerubavel, E. (2024), Nascosto alla luce del sole. La struttura sociale dell’irrilevanza, PM edizioni, Varazze.
NOTE
[1] In ambito specificamente artistico si vedano i lavori di Mierle Laderman Ukeles e il suo “Manifesto For Maintenance Art, 1969!” (a tal proposito si veda inoltre Denis e Pontille 2022, 28-33).
Il doppio click - Terza parte: L’università e la guerra, conoscere è valutare
PREMESSA
Lo scorso 13 giugno, presso l’Università di Pisa e come in molte altre università italiane, si è svolta una seduta straordinaria del Senato Accademico, indetta dal Rettore, sulla spinta dei movimenti studenteschi dell’ateneo che reclamano il boicottaggio delle forme di collaborazione con le università israeliane e con gli enti operanti nel settore bellico del nostro paese. [1].
L’oggetto della riunione consisteva nel prendere diverse decisioni in merito ad alcune scelte: da una parte, la sospensione temporanea di tutti questi progetti di ricerca, per sensibilizzare e dissuadere il mondo universitario e la società civile nel paese ebraico dal sostegno alle operazioni militari [2], e – dall’altra parte – l’abbandono definitivo da parte dell’ateneo pisano dei progetti suscettibili di dual use (ovvero concepiti per l’ambito civile, ma applicabili anche a quello militare).
Durante la seduta, ciascun senatore e senatrice ha presentato le proprie riflessioni riguardo alle decisioni da prendere, così si sono ben presto delineate due argomentazioni opposte.
Da un lato, molti docenti hanno espresso la propria contrarietà alle mozioni di boicottaggio, in ragione del fatto che, secondo il loro giudizio, le università di tutto il mondo, devono affermarsi come entità diverse e separate dai governi dei rispettivi paesi, poiché hanno una vocazione naturale alla diffusione delle idee e della conoscenza, e quindi alla costruzione di ponti e collaborazioni transfrontaliere per l’affermazione di rapporti di pace fra le popolazioni – un ruolo che quindi non può prevedere il boicottaggio, poiché contrario e sicuramente controproducente rispetto a questa vocazione.
Dall’altro lato, altri hanno sostenuto le mozioni, rivendicando anch’essi l’autonomia politica e amministrativa delle università, peraltro sancita dalla costituzione, ma ribadendo l’opportunità di ricorrere al boicottaggio come strumento per affermare nei confronti del contesto internazionale una forma pacifica di discredito verso l’accademia e, contestualmente, verso la società e lo stato israeliani, in opposizione alla negligenza di tanti parlamenti e governi occidentali, tra cui quello italiano.
In altre parole, si potrebbe dire che tutto il dibattito si è basato sul fatto che una parte considera l’università come un’entità indipendente rispetto allo stato in cui si trova (non solo in senso normativo, ma come constatazione di fatto), e l’altra non può fare a meno di far notare l’impossibilità di scindere gli atenei dall’apparato politico su cui sono basati e tutte le varie diramazioni sociali che li sostanziano.
UN PARALLELO CON I MODELLI A DIFFUSIONE E A TRADUZIONE
Così, in questi due partiti, ritroviamo, di riflesso, i due approcci conoscitivi presentanti nel precedente articolo, il modello a diffusione e quello a traduzione.
Seguendo il primo, infatti, in sede di riunione l’università è stata paragonata a quella comunità ideale di intellettuali cosmopoliti che hanno preceduto l’epoca dei lumi, denominata Res Publica Literarum. Come se, in fondo, la pratica accademica potesse avvenire meglio, e fosse tanto più veritiera, quanto più essa è indipendente e disinteressata rispetto ai condizionamenti esterni, ovvero quelli del potere e del denaro su tutti. Accettarli, infatti, è ammesso solo perché essi consentirebbero la sua missione liberatrice, anche se al costo di uno sporco ricatto. Perché invece, sarebbe meglio rifiutare incentivi e contributi conservando la propria autonomia, dato che questi non farebbero altro che corrompere o ostacolare la vera natura delle scoperte. Che c’entra, ad esempio, una collaborazione su un progetto di ricerca di biologia marina con la guerra? Perché interromperlo? (#lasciatelilavorare) [3].
Invece, abbiamo visto che per il modello a traduzione la scienza è sempre tecnoscienza, e che quindi la distinzione aristotelica fra téchne ed episteme è un non-senso.
Non esiste infatti il sapere “in generale” in forma distillata, ma è sempre dipendente dalla tecnica che lo produce, sia essa quella del laboratorio, dell’archivio o della pinacoteca. Quindi, il finanziamento pubblico, statale o privato, conta nel determinare il tipo di conoscenza che viene prodotta.
Infatti, non si può trascurare che uno dei settori che assorbono maggiormente la ricerca e lo sviluppo è proprio la difesa:
«la tecnoscienza è una questione essenzialmente militare … L'analogia tra corsa alla dimostrazione e corsa alle armi non è solo metaforica, ma sottende letteralmente un comune problema: vincere. Oggi non vi è esercito capace di vincere senza scienziati e solo pochi scienziati e ingegneri riuscirebbero a far vincere le proprie tesi senza l'esercito. Solo ora il lettore può rendersi conto del perché io abbia impiegato molte espressioni proprie del lessico militaresco (prove di forza, controversia, lotta, vincere e perdere, strategia e tattica, equilibrio di forze, potenziale, numero alleati), espressioni che, sebbene di continuo sulla bocca degli scienziati, vengono impiegate di rado dai filosofi per descrivere il mondo pacifico della scienza pura. Mi sono avvalso di questo lessico perché, grosso modo, la tecnoscienza è parte di una macchina da guerra e dovrebbe essere studiata come tale» (Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, pp. 230-2, grassetto mio).
PER UN SAPERE RESPONSABILE E INTERESSATO
Il modello diffusionista (quello del doppio click), sembra perpetuare l’idea che il sapere sia gratuito, e così risulta essere in primo luogo un’offesa a tutti i precari della ricerca che campano con un salario appena al di sopra della soglia minima di sussistenza, come in Italia.
La realtà è che chi crede in una forma di sapere emancipato dai mezzi necessari per produrlo, vive in una condizione simile a quella – drammatica – dei soldati protagonisti del film Lebanon (Maoz, 2009), interamente ambientato all’interno di un carrarmato. Dalla propria monade, infatti, l’unico tramite per conoscere il mondo esplorato e leggere le vite degli altri è il periscopio e il grilletto, l’unica aria che permette di respirare è quella della sua pancia, stracolma di vomito, lacrime, olio e sigarette, le uniche scelte che consente sono quelle del suo stesso movimento che tiene in vita i carristi, che la guerra non vogliono farla. Questo è il senso del principio «il migliore dei mondi possibili», che sta dietro al cambio di paradigma proposto dalla prospettiva di Gaia: non esiste la possibilità che dispositivi dual use non facciano la guerra (come è stato affermato in senato accademico), solo perché esisterebbe la possibilità di tener fede a certi principi “superiori” per controllare l’utilizzo dei prodotti della ricerca. Ad ogni nuova tecnica segue sempre una nuova soggettività, un nuovo mondo di possibilità incluse e vincolanti.
Infatti, per prendersi gioco degli intellettuali e dei politici blasé che, durante la seconda guerra del golfo, sostenevano che la democrazia fosse un’idea che bastasse esportare per poter invertire le sorti dei paesi “canaglia” o “sponsor del terrorismo”, il filosofo Peter Sloterdijk ha brevettato il “parlamento gonfiabile”: come un pacco di aiuti umanitari, questo dispositivo può essere sganciato da un aereo, e nel giro di poco tempo si installa automaticamente come una cupola capiente, dotata di sedute a emiciclo, e con tutti i comfort per il pieno supporto della democrazia, che si consolida istantaneamente (Sloterdijk P. (2005), Instant Democracy: The Pneumatic Parliament®, in B. Latour, P. Wiebel (eds.), Making Things Public: Atmospheres of Democracy, MIT Press, pp. 952-55).
Allo stesso modo si può dire che un dispositivo del genere potrebbe essere attivato quando viene proposta, con squallido e ipocrito ritardo, la soluzione, “due popoli, due stati” [4]: in realtà, non sembra esserci niente che ci possa far sperare nella creazione di uno stato palestinese, per almeno i prossimi decenni, forse per generazioni intere. Su quali infrastrutture potrebbe mai sorreggersi? Quale rete di strade e ferrovie, approvvigionamento energetico e agroalimentare, cablaggi internet e per le comunicazioni, sistemi e edifici amministrativi, istituti di statistica, scuole, università, ospedali, mercati e caserme di polizia sono a disposizione, al momento, dato che almeno per quanto riguarda Gaza, il territorio è stato quasi raso al suolo? Quali comitati, associazioni, gruppi di interesse, sindacati, filiere di imprese, enti di ricerca, accordi commerciali internazionali e partiti politici potrebbero mai popolare un parlamento, e autogovernarsi, dato che un’economia ed una società politica indipendenti non possono sussistere in condizioni di occupazione permanente?
Tristemente, l’unica prospettiva immediata, all’imposizione del cessate il fuoco, è la predisposizione di sistemi di accoglienza per sfollati sotto la protezione delle Nazioni Unite, in una condizione di privazione assoluta di qualsiasi mezzo. Per questo non possiamo trascurare quelli che invece noi abbiamo a disposizione. Faticosamente conquistati affermando valori e posizioni di parte, e che ci permettono di conoscere il mondo in cui, fondamentalmente, abbiamo deciso di voler vivere.
È il caso di citare la famosa frase di Desmond Tutu, «se davanti a un'ingiustizia sei neutrale, hai scelto di stare dalla parte dell'oppressore», e allora, «se i vostri avversari vi dicono che vi state dando alla politica, prendendovi seriamente per rappresentanti di innumerevoli voci neglette, in nome del Cielo rispondete: ‘Sì certo!’. Se la politica consiste nel rappresentare la voce degli oppressi e di chi non ha volto, allora saremmo tutti in una situazione assai più rosea se – invece di pretendere che siano gli altri a impegnarsi in politica e che voi, oh, voi non vi occupate ‘che di scienza’ – riconosceste che anche voi state cercando effettivamente di assemblare un altro corpo politico e di vivere in un cosmo coerente, composto in modo differente. Se è del tutto corretto che non state parlando in nome di un’istituzione delimitata dalle frontiere degli Stati-nazione e che il fondamento della vostra autorità poggia su un sistema di elezione e di prove assai strano, è proprio questo che rende così prezioso il vostro potere politico di rappresentanza di così tanti nuovi agenti. Potere la cui importanza sarà capitale negli imminenti conflitti sulla forma del mondo e la nuova geopolitica. Non svendete questo potere di rappresentanza per un piatto di lenticchie» [5].
NOTE
[2] In analogia con quanto fatto nelle università di tanti altri paesi nel mondo, come riportato ad esempio dal sito della campagna internazionale BDS https://www.bdsitalia.org/index.php/acc-notizie/2843-mobilitazioni-studentesche
[3] Ritorniamo così all’importanza della comprensione del turismo, come espresso nel primo articolo della serie, per cogliere in parallelo anche la trasposizione in campo economico del modello a diffusione, che tende a legittimare la rendita e il guadagno facile da proventi («sogno una vita in vacanza»), specialmente di tipo finanziario, liberati da vincoli di ogni genere, che non farebbero altro che ostacolare la libera impresa e il genio inventivo dell’imprenditore (la famosa «troppa burocrazia che frena la crescita», tipo i controlli amministrativi sui mercati e lo sviluppo tecnologico, il pagamento delle imposte, dei salari ai dipendenti o il rispetto degli adempimenti nei confronti degli stakeholders).
[4] E perché non una federazione di sei stati sul modello dell’UE postbellica (Egitto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Palestina), come proposto dal compianto Johan Galtung? (Galtung J. (2014), Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, Pisa University Press, pp. 135-141).
[5] Latour B. (2020), La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Milano, pp. 60-1.
Razionale e reale - Osservazioni a margine del problema della determinazione dell’individuale-concreto
La tradizione classica vuole che dell’individuale non si dia scienza.
Ciascuna concrezione individuale appare contrassegnata da una quantità di connotazioni accidentali, contingenti, che sfuggono alla possibilità di una normatività esaustiva. Di conseguenza, si è consuetamente ritenuto sensato che la scienza si occupi del generico (o specifico), ossia del categoriale, di ciò che ha una sua forma (e quindi uno statuto legale) in linea di principio esaustivamente definibile.
La costituzione teorica razionale-astrattiva, per quanto saturabile di contenuti reali mediante determinazione delle variabili empiriche delle strutture formali, soggiace comunque alla limitazione della irraggiungibilità del concreto.
In questa prospettiva, H. Weyl parla di una genericità intrinseca alla scienza, che non può giungere mai all’individualità fenomenica: i suoi oggetti concreti restano indeterminati, o meglio, sono determinati “a meno di un isomorfismo” (1). E gli isomorfismi non sono altro che identità strutturali (di natura formale) tra eventi o processi potenzialmente del tutto differenti, per quanto concerne i corrispettivi contenuti materiali.
Individuale materiale e individuale formale
Il problema della determinazione del concreto-reale, ossia di ciò che è per principio individuale, non è connesso solo alla complessità della contingenza, ossia non affonda le sue radici solo nel momento materiale, bensì si presenta già nel momento formale.
In geometria, l’inafferrabilità del particolare-reale, dell’individuale, si è affacciata all’origine della cultura occidentale con la scoperta dell’incommensurabilità, una scoperta che fece peraltro vacillare la fiducia nell’idea stessa di razionalità.
L’irrazionalità dell’individuale-formale, in ambito matematico o geometrico, si esprime nella non-finitezza della sua determinazione numerica.
Del tutto correlativamente - in ambito materiale - la costituzione fenomenologica dell’individuale percettivo si realizza attraverso un infinito e inesauribile processo di avvicinamento all’oggettualità trascendente, un processo-limite chiamato adombramento (Abschattung) (2).
Da questo ordine di riflessioni emerge, in una prospettiva più generale, l’inafferrabilità di principio della determinazione individuale mediante un numero finito di determinazioni razionali (irrazionalità del reale)
Secondo A. N. Whitehead (3), ciascuna “occasione reale” (ossia ciascun oggetto o evento concreto) include una “gerarchia astrattiva infinita di oggetti eterni” (ove con “oggetti eterni” sono da intendersi le unità concettuali). Quando invece la gerarchia astrattiva è finita, si tratta di “inclusione parziale”, e pertanto di eventi mentali, e non reali (ricordi, immaginazioni, idee, ecc.).
Un altro modo di significare che solo gli enti irreali, costruibili e immanenti, sono esaustivamente definibili mediante una serie finita di determinazioni. Una proprietà, questa, che può essere vista anche come criterio per una distinzione fenomenologica tra configurazioni reali (trascendenti la coscienza) e configurazioni ideali (immanenti).
I numeri irrazionali trascendenti: numeri che sfuggono agli algoritmi
Restringiamo ora le nostre osservazioni alla determinazione formale dell’individuale.
Il genio della lingua matematica rispecchia lo stato delle cose sopra accennato fino nella semantica della teoria dei numeri reali.
I cosiddetti numeri razionali sono i numeri interi o quelli esprimibili come rapporti tra numeri interi.
Vi sono poi i numeri irrazionali (algebrici), che presentano una irrazionalità - diciamo così - di primo livello, in quanto si tratta di numeri che, seppure non esprimibili mediante rapporti di numeri interi, sono però esprimibili come radici di equazioni algebriche.
I razionali e gli irrazionali algebrici sono entrambi costruibili secondo algoritmo generativo, e pertanto è possibile stabilire un criterio affinché siano posti in correlazione biunivoca. Georg Cantor dimostrò (4) che l’insieme dei numeri razionali e quello dei numeri irrazionali algebrici (che parrebbero molto “di più”) hanno la medesima potenza: la prima potenza infinita, ossia quella del numerabile, una potenza, cioè, gerarchicamente inferiore alla potenza del continuo.
In altre parole, né l’infinita discrezione degli interi, né l’infinita densità dei razionali e degli irrazionali algebrici sono in grado di riempire tutti i “buchi” della retta reale, ossia non sono in grado di costituire la continuità, che è infinitamente più coesa.
La classe numerica che dà coesione e compattezza alla continuità della retta numerica reale è quella dei numeri irrazionali trascendenti (ossia i numeri che trascendono l’algebra). Si tratta di numeri che non possono essere espressi come radici di equazioni algebriche a coefficienti reali. Immaginativamente, possiamo vedere gli infiniti numeri interi, razionali e irrazionali algebrici, come isole sporadiche e trascurabili nell’oceano della continuità dei trascendenti.
E il curioso è che questi numeri trascendenti, che costituiscono l’infinita maggioranza dei numeri reali, non sono sistematicamente costruibili secondo alcun algoritmo generativo meccanico. Anzi, se ne conoscono relativamente pochi individui (e, π, e i loro composti) e alcune sporadiche specie costruibili.
Del resto, trascendere l’algebra significa trascendere l’algoritmo.
Il numero reale è pertanto, nella sua assoluta generalità, un numero irrazionale trascendente. La probabilità di estrarre casualmente dalla retta reale un numero che non sia un irrazionale trascendente, è formalmente nulla. Possiamo dire quindi che il reale si identifica con l’irrazionale trascendente.
Se non esiste un algoritmo generativo dei numeri reali, esiste però un principio determinativo generale, per quanto non-costruttivo, un principio ideale dato in forma definitoria e non algoritmica. Nell’analisi matematica della retta reale, il numero reale, ossia l’individuo generico, si identifica con il limite di successioni convergenti di numeri razionali (definizione di Cantor). Tra l’altro, nella visione cantoriana, la successione stessa, intesa come individualità attualmente infinita, è da vedersi come il numero reale, mentre l’identificazione del suo valore con il limite della successione, è una conseguenza, ossia un teorema (5).
Irrazionalità, non-costruibilità e non-riproducibilità del reale: ambiguità del concetto di virtuale
Dalle circostanze qui brevemente esposte, derivano alcune considerazioni di carattere significativo generale, almeno in ambito formale.
La prima e fondamentale è che l’individuale-reale è per essenza irrazionale, ossia non è esaustivamente determinabile mediante un numero finito di determinazioni finite (razionali).
In secondo luogo, la trascendenza esprime la circostanza che esso non è, nella generalità, costruibile. Abbiamo detto che trascendere l’algebra significa trascendere l’algoritmo. Ciò significa che la determinazione individuale non è - in linea di principio - raggiungibile da algoritmo.
In sintesi, l’individuale, nella sua costituzione formale, si mostra come una attualità infinita, irrazionale e trascendente la costruibilità algoritmica.
Un altro genere di considerazioni riguarda la circostanza che la determinazione formale dell’individuale-reale non riguarda unicamente la data individualità in questione, ma coinvolge per principio un insieme infinito di altre entità individuali particolari (razionali). Queste entità razionali, per quanto “oasi sporadiche nell’oceano della continuità trascendente”, sono pur esse infinite e densamente (inestricabilmente) connesse con la compattezza del reale. Ciò significa che la determinazione formale dell’individuo reale non è - in linea di principio - estrapolabile dal contesto d’ordine in cui esso è inserito, ma è inestricabilmente connessa con la totalità attualmente infinita dell’ordinamento reale. In altre parole, la determinazione dell’individuale-reale non può considerarsi avulsa dalla comprensione dell’infinita compattezza e connessione della contingenza reale e della gerarchia astrattiva razionale in esso inclusa.
Tutte queste considerazioni convergono all’evidenza che i procedimenti di simulazione e modellazione algoritmica - cosi come i procedimenti costruttivi in generale - non possono giungere, per principio, alla concretezza trascendente della determinazione reale-individuale.
La constatazione della trascendenza del reale rispetto la computabilità logica è contenuta già nel principio di ragion sufficiente di Leibniz. Così come il suo principio degli indiscernibili esclude la possibilità formale di eguaglianza numerica tra configurazioni reali.
L’individuale-reale non è, per principio, né computabile né riproducibile.
Nel dibattito odierno la dualità reale-virtuale, sostanzialmente fattuale, pare predominante rispetto alle distinzioni categoriali classiche.
L’odierna accezione di virtuale mutua il termine dalla tradizione meccanica dell’età illuministica.
Nel principio dei lavori virtuali di D’Alembert (6), con virtuali si intendono gli spostamenti o le deformazioni (di un sistema materiale rigido o elastico) infinitesime e compatibili con i vincoli al contorno. Da questo principio si evince infine che la configurazione reale è, di caso in caso, una sola e unica composizione - tra quelle potenzialmente infinite - di equilibrio e di congruenza. Il calcolo variazionale si mostrava allora come lo strumento analitico privilegiato per la determinazione della configurazione effettuale entro l’infinito ventaglio della potenzialità.
Con virtualità si intende dunque, originariamente, una categoria modale, e precisamente il potenzialmente reale. Evidentemente oggi il termine mostra una traslazione di senso, circostanza che porta con sé le inevitabili zone di ambiguità.
Oltre l’obiettivismo
Forse oggi soffriamo l’assenza di una consuetudine all’analisi categoriale, che nell’ontologia critica della prima metà del ‘900 aveva raggiunto elevati livelli di raffinatezza.
Probabilmente, per certi argomenti altamente problematici, quali la riproducibilità, la modellabilità, la simulabilità e la computabilità del concreto, così come - a monte - per i problemi concernenti la conoscenza formale in-genere (ossia quella non semplicemente empirico-percettiva), potrebbe essere adeguato e fruttuoso non limitarsi a procedimenti di tipo dimostrativo-computazionale.
Godel, in uno dei suoi ultimi scritti (7), invitava i giovani e i futuri ricercatori a trovare la via d’uscita dai paradossi, dalle indecidibilità e dalle oscurità delle teorie formali, non tanto in progressivi ampliamenti metateorici o complessificazioni computazionali, quanto piuttosto in un rigoroso lavoro immanente di chiarificazione e di elaborazione dei significati fondanti.
Il problema dell’obiettivismo, denunciato programmaticamente nella Crisi di Husserl (8), non si presenta solo nelle scienze empiriche, ma, del tutto coerentemente, anche nelle scienze logiche e matematiche, ossia nelle discipline formali.
Più precisamente, l’obiettivismo si mostra in queste ultime sotto forma del primato della computazione e della dimostrazione formale, ossia di procedimenti che possiamo anche chiamare - oggi - artificiali, in quanto per principio avulsi da ogni riferimento all’intenzionalità.
E in questa prospettiva la distinzione procedurale-intenzionale è ben più fondativa di quella (fattuale) artificiale-naturale.
Ma qui si apre evidentemente un altro orizzonte di tematiche.
Riferimenti bibliografici
(1) Weyl, Filosofia della matematica e delle scienze naturali, 1949
(2) Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Vol. 1, 1913.
(3) N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, 1925
(4) Cantor, Su una proprietà dell’insieme di tutti i numeri reali algebrici, 1874
(5) Cantor, Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità, § 9, 1883
(6) B. Le Ronde d’Alembert, Traité de dynamique, 1743
(7) Gödel, Il moderno sviluppo dei fondamenti della matematica alla luce della filosofia, 1961
(8) Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1938
Il doppio click – Seconda parte: il complottismo come scientismo pop, un confronto fra il modello a diffusione e quello a traduzione
Nella prima parte di questa riflessione sul tema del doppio click come atteggiamento blasé nei confronti del mondo, abbiamo associato lo scientismo, ovvero la forma mentis che assegna alla scienza il monopolio della verità, a quanto di più frivolo possa esserci, la pratica del turismo, con il suo portato inevitabilmente classista ed essenzialista[1].
In questa seconda parte, tenteremo di completare questa prima argomentazionecon la pars construens: ovvero, ora che sappiamo distinguere lo scienziato dal sacerdote e dalla guida turistica, come possiamo prendere le distanze da un modo di fare scienza in maniera indifferente e ingenua, e invece affermarne uno responsabile?
Per rispondere possiamo seguire ancora Latour, nel suo confronto fra il modello a diffusione, tipico dello scientismo, a cui oppone quello a traduzione[2].
Il modello a diffusione
Questo modello ci è molto familiare e definisce il sapere e la cultura basandosi sul concetto di scoperta. In breve, si ritiene che le discipline scientifiche accrescano di un certo quantitativo le cose conosciute sui fatti del mondo, e quanto più si sarà in possesso di nuove scoperte a proposito della natura di questi fatti, quanto più sarà possibile divulgarli, ovvero diffonderli, presso il pubblico più allargato.
Attraverso la diffusione, questo pubblico può prendere atto e venire a patti col nuovo stato di cose. Stato che, in fondo, potrebbe parlare da sé, mentre basta che sia semplicemente rivelato dagli esperti, di modo che «quando un fatto non viene creduto, quando un’innovazione non viene recepita, quando una teoria viene impiegata in modo del tutto diverso, il modello a diffusione si limita a dire ‘alcuni gruppi fanno resistenza’ … [Quindi] i diffusionisti non fanno altro che aggiungere al ritratto nuovi gruppi sociali passivi che possono rallentare con la loro inerzia la diffusione dell'idea o smorzare gli effetti della tecnica. In altre parole, il modello a diffusione inventa una società per spiegare l'ineguale diffusione di idee e di macchine» (Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, p. 183).
Questa, a dire il vero, e l’idea più comune che abbiamo dell’attività del sapere istituzionalizzato, a cui affidiamo un ruolo emancipatorio. Ovvero, pensiamo che al multiculturalismo tipico dei gruppi sociali vada sempre comunque opposto il mononaturalismo offerto dalla ricerca scientifica. L’unica dimensione capace di far convergere le disposizioni delle intelligenze umane su una base di accordo universale, a scapito dei turbamenti politici, sociali, e degli interessi di parte.
Il modello a diffusione è quindi inevitabilmente asimmetrico (sì, classista), perché ogni nuova “scoperta” prevede qualcuno che ancora non la conosce, ma a cui presto deve perentoriamente adeguarsi, pena la sua arretratezza e ignoranza: pensiamo, ad esempio, alla frase-comando «ormai viviamo nell’epoca dell’IA…».
Il progressismo, o l’attitudine al pensiero critico[3] , in realtà, non appartiene solamente agli scienziati col camice bianco, ma è un atteggiamento diffuso trasversalmente, per esempio anche dai complottisti, gli “acerrimi avversari” degli scienziati. «Vi ricordate i bei vecchi tempi, quando i professori universitari potevano guardare dall’alto in basso le persone comuni perché quei buzzurri credevano ingenuamente alla chiesa, la famiglia e la torta di mele? Le cose sono cambiate un sacco, almeno nel mio paese. Adesso sono io quello che crede ingenuamente in alcuni fatti perché sono istruito, mentre gli altri tizi sono troppo poco sofisticati per essere dei creduloni: che cosa è accaduto alla critica quando il mio vicino mi giudica come uno irrimediabilmente ingenuo perché credo che gli Stati Uniti siano stati attaccati dai terroristi? ‘Ma dove vivi? Non lo sai che sono stati il Mossad e la CIA?’» (Latour B. (2004), Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in «Critical Inquiry», 30, University of Chicago, p. 228)
Il modello a traduzione
Così, per cercare di appianare le divergenze fra esperti e profani che nascono da un fraintendimento comune, Latour propone il modello a traduzione, per il quale invece, come dice il nome, l’attività della ricerca non ha niente a che vedere con la scoperta. Secondo questo approccio infatti, che si tratti di una nuova interpretazione di un’opera letteraria a partire da un manoscritto, del conteggio della popolazione di microorganismi in una coltura, della somministrazione di un questionario o della rivelazione di particelle subatomiche in un acceleratore, quello che noi facciamo, e che finisce nei nostri articoli scientifici, sono sempre trasformazioni di un determinato contenuto di realtà, sotto forma di testo, grafici, immagini, simboli o diagrammi. Per Latour, la ricerca consiste in un’attività di manipolazione continua delle informazioni, in quanto esse stesse sono il frutto di mediazioni precedenti.
Questo – chiedo scusa per il gioco di parole – cambia tutto. In altre parole, «dire è dire altrimenti. Altrimenti detto è tradurre» (Latour B. (2021), Politiche del design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità, Mimesis, Milano, cfr. il capitolo Irriduzioni, p. 254): ogni calcolo, etichettamento, definizione, campionamento, riassunto, misurazione, è un modo per représenter[4]una certa entità in maniera diversa, e secondo il linguaggio proprio dello strumento con cui è rappresentata, in modo da renderla così comparabile, gestibile, associabile, predittiva o vincolante rispetto alle altre entità con cui è messa a confronto.
Perciò, poiché permette di mobilitare risorse, raggruppare alleati e avversari, e definire i campi di lotta, ogni forma di sapere, è prima di tutto una tecnica di governo. Anziché un modo per “osservare” in modo “neutrale” la “natura”.
Prendiamo un esempio, quale i rapporti del IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sui cambiamenti climatici: essi non riportano banalmente le prove che il cambiamento climatico è causato dall’attività umana, ma con le loro conclusioni, a cui hanno fatto seguito azioni politiche, questi agiscono come portavoce – come il deputato del nostro collegio o il rappresentante sindacale nel CDA dell’azienda per cui lavoriamo – parlando a nome di tutti i dispositivi che sono serviti come strumenti mediatori del vasto repertorio di capta (presi, anziché dati) per produrre grafici, tabelle e indicazioni testuali, come satelliti, boe oceanografiche, stazioni di rilevamento dell’anidride carbonica, e così, via; tutti finanziati e implementati dagli Stati. Se si tolgono questi ultimi, se si toglie l’organizzazione sociale che foraggia il lavoro di ricerca, esterno all’accademia e agli altri istituti, le prove svaniscono. O meglio, non hanno più di che distinguersi dalle presunte contro-deduzioni degli scettici del clima, che solitamente non dispongono di un paragonabile apparato strumentale. Ma ciononostante, seguendo il positivismo, hanno capito benissimo come servirsi dell’argomento dell’impossibilità di ottenere evidenze verificate per sollevare dubbi e polemiche, con una certa efficacia.
Perciò, quello che cambia di sostanziale nel modello a traduzione è che il mondo scientifico e quello politico non possono più essere visti come due dimensioni in conflitto, da mantenere distinte.
Anzi, più l’istituzione scientifica dispone di mezzi, più essi vengono discussi pubblicamente e definiti nei loro obbiettivi, più l’attività di ricerca sarà presentata come una pratica come le altre, che lavora e costruisce i propri “fatti” (anziché fornici l’accesso diretto a questi fatti), e più sarà in grado di tradurre le nostre volontà con enunciati solidi e legittimati.
Per cui, infine, «se vogliamo che le persone comprendano la scienza, bisogna mostrare come è prodotta» (Intervista rilasciata al Guardian il 06/06/20)
NOTE
[1] Con essenzialismo, nelle scienze sociali, si indica quel presupposto erroneo per il quale una certa entità possiede una natura – immodificabile, inevitabile e inopinabile – che ne determina il comportamento. Fra gli esempi più celebri in questo senso possiamo citare la teoria della razza di De Gobinau, quella del delinquente nato di Lombroso, e la frenologia di Gall (che pure, in un certo senso è tornata di moda con il pericolosissimo film Pixar Inside Out). Il turismo sarebbe essenzialista perché si basa precisamente sul fatto che «da qualche parte» esistano popolazioni e territori che conservano un’identità “autentica”, cioè naturale e immutabile, venendo così trasformata in un loro destino. Cfr. Barthes R., Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2016. In particolare, il capitolo La Guida Blu.
[2] Cfr Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea
[3] Con “pensiero critico”, che ereditiamo da Kant, in senso lato intendiamo la concezione per cui esista una verità oggettiva e naturale che ci può essere più o meno evidente in base alla nostra rappresentazione soggettiva e culturale di essa. Si pensi ad esempio, all’enorme successo del grande classico 1984 di George Orwell e della sua importanza per il pensiero politico progressista, in cui il protagonista Winston Smith alla fine si arrende al bipensiero imposto dal Grande Fratello, il quale può imporre a suo piacimento che 2+2 faccia 5. Per un superamento di questa sorta di riduzionismo matematico prêt-à-porter, confronta l’articolo di Benoit Mandelbrot How Long Is the Coast of Britain? Statistical Self-Similarity and Fractional Dimension: https://it.wikipedia.org/wiki/How_Long_Is_the_Coast_of_Britain%3F_Statistical_Self-Similarity_and_Fractional_Dimension
[4] In italiano, a differenza dell’inglese o il francese, abbiamo due sostantivi diversi per indicare la rappresentanza e la rappresentazione, finendo per pensare che si tratti di due attività differenti e separate, dove una ha a che vedere con la mobilitazione politica, e l’altra con la produzione di immagini mentali. Si può dire che l’intera opera di Latour è incentrata precisamente sul rifiuto di questo dualismo.