Seveso, 1976 - Il Comitato tecnico scientifico popolare attraverso le fonti orali e d’archivio

Nell’articolo Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere di qualche settimana fa avevo brevemente introdotto che cosa accadde il 10 luglio 1976 a Seveso-Meda, che cos’era l’Icmesa e alcuni problemi nati con il “disastro”, che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante la mia ricerca etnografica a Seveso. Nelle prossime righe mi concentrerò sulle vicende del “Comitato tecnico scientifico popolare” che nacque all’indomani del “disastro”.

Con l’evento del 10 luglio 1976, a Seveso sorsero nuovi gruppi organizzati di abitanti e nuove soggettività sociali e politiche. Il rovesciamento della dimensione quotidiana e l’affacciarsi di una «crisi della presenza»1 avevano portato all’emergenza di coaguli di persone che «non si limitavano al ruolo di vittime, come dicevamo noi, ma appunto hanno cercato di costruire dei legami e dei rapporti e di darsi degli strumenti di comprensione critica»2 e la cui sede principale a Seveso era il Circolo del Vicolo. Stefano, un ragazzo di vent’anni nel 1976 che lavorava in una falegnameria e aveva l’intenzione di iscriversi all’università, ricorda nel documentario «Seveso, Memoria di parte» il momento di fondazione del circolo.

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Ci si è trovati in un momento in cui la gente era estremamente preoccupata per la propria salute, ma avevano a che fare con un tossico impalpabile, inodore, incolore, invisibile. Il momento della fuoriuscita, che era il momento evidente, era passato. Il tossico ormai era depositato sui tetti, sui muri, sui pavimenti lastricati, sui terreni, ma non si vedeva. Per cui la gente iniziava ad avere la preoccupazione per la propria salute, ma andava esorcizzata perciò ci si appellava al matto di turno che diceva “non è successo niente, io vado a mangiare l’insalata lì dentro”, perché questo abbassava la tensione. Questo è servito per molti in buona fede, per molti altri ne hanno avuta un meno di buona fede dicendo le medesime cose, serviva per tenere moderata la tensione che vivevano quotidianamente. Abbiamo costruito questo che si chiamava Circolo del Vicolo perché la sede si trovò in una via che di chiamava Via del Vicolo, da lì Circolo del Vicolo.3

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Stefano racconta che l’ingente lavoro politico e culturale prodotto dal circolo nasceva dalla necessità di rispondere a bisogni e desideri che riguardavano l’esistenza intera. Per lui è stato un periodo nel quale la gente discuteva dappertutto e vi era un’adesione sociale molto elevata a qualsiasi tipo di situazione per un «trascinarsi probabilmente di quello che era la partecipazione alle lotte operaie»[4].

Il Circolo del Vicolo, nella sua dimensione locale, era un’espressione di questa stagione dei “movimenti” e, come sottolinea Stefano, il movimento operaio e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici per il salario e la salute in fabbrica trascinarono e crearono momenti di mobilitazione estesi e partecipati. Tra i gruppi che attraversarono il laboratorio politico del Circolo del Vicolo vi era il “Comitato tecnico scientifico popolare”.

Per Davide, fu il gruppo più importante nel ciclo di lotte locali a seguito del “disastro” dell’Icmesa.

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Il [gruppo, N.d.R.] più importante sicuramente è stato il Comitato tecnico scientifico popolare che era stato creato quasi subito da alcuni lavoratori dell’Icmesa, anche membri del consiglio di fabbrica, da giovani del territorio di allora e si è avvalso subito del supporto appunto di Medicina democratica che era a sua volta collegata alle lotte per la tutela della salute nelle fabbriche. In particolare, erano arrivati quelli del gruppo di Castellanza dove c’era un grosso stabilimento Montedison, dove si erano sviluppate delle esperienze molto interessanti di lotta ma anche di autotutela da parte dei lavoratori. E quindi diciamo sono arrivati qui e si sono messi in contatto con le realtà locali e appunto poi non solo, sono nati anche gruppi per esempio legati al movimento femminista il “Gruppo donne Seveso-Cesano”. E successivamente nacquero altri gruppi più piccoli come il “Comitato di controllo zone inquinate”. Insomma, erano nate diverse realtà spontanee che erano collegate un po’ da una serie di volontà di comprensione critica e di avere un ruolo nella tutela della propria salute e anche di verità rispetto a quanto accaduto e alle responsabilità rispetto a quello che era accaduto.5

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Il comitato era un organismo di base di contro-informazione e di lotta e aveva relazioni con altri soggetti politici della sinistra extra-parlamentare o delle componenti meno allineate alla politica di solidarietà nazionale del Pci degli anni Settanta. In particolare, vi erano dei collegamenti con “Medicina democratica movimento di lotta per la salute” e con la consigliera regionale del Pci, Laura Conti.

Fin dai primissimi giorni successivi alla fuoriuscita della nube tossica, il CTSP assunse fondamentali funzioni di informazione, controllo e organizzazione nei confronti degli operai dell’Icmesa e della popolazione sevesina. Il suo primo impegno a circa otto-dieci giorni dallo scoppio del reattore fu quello di fornire una prima sommaria ricostruzione dell’accaduto sulla base del materiale documentario raccolto e fornito dal confronto con i lavoratori dell’Icmesa. Fu così esaminato il ciclo produttivo del triclorofenolo all’interno della fabbrica per comprendere le cause che avevano portato al fatto-tragedia-disastro di Seveso. Questo lavoro fu realizzato dal confronto tra gli operai della fabbrica medese e il Gruppo P.I.A della Montedison di Castellanza, congiuntamente a Bruno Mazza dell’Istituto di chimica, fisica, elettrochimica, metallurgia del Politecnico di Milano e Vladimiro Scatturin dell’Istituto di chimica generale e inorganica dell’Università degli studi di Milano. Il documento prodotto dal titolo “Contributo del CTSP costituitosi in seguito all’inquinamento prodotto dall’ICMESA, in appoggio ai lavoratori e alla popolazione colpita” fu presentato nell’assemblea organizzata dalla Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil nelle scuole medie di Cesano Maderno il 28 luglio 1976. La ricostruzione del ciclo produttivo è stata in seguito pubblicata come primo articolo[6] nel numero monografico di «Sapere» dedicato a Seveso. Comprendere l’eziologia del “disastro” era un passaggio fondamentale per riflettere e agire sulle conseguenze dello stesso e per farlo era imprescindibile il coinvolgimento di chi nella fabbrica passava le sue giornate. Nella ricerca si evidenziò che l’Icmesa aveva introdotto delle varianti nel ciclo produttivo con lo scopo – secondo il Gruppo P.I.A., Mazza e Scatturin – di ridurre radicalmente i costi di produzione, scegliendo di operare in condizioni sempre più pericolose. La logica adottata dalla multinazionale svizzera era volta alla massimizzazione del profitto e faceva tendere all’infinito il «coefficiente di rischio» della produzione di sostanze ad alto rischio di tossicità, trasformando – quindi - in una certezza la possibilità di un “incidente”.

Lo scopo dell’approfondito lavoro di ricostruzione del ciclo produttivo realizzato da un’apposita commissione del CTSP metteva in questione l’astrattezza dei concetti di «univocità» e «oggettività» del ciclo produttivo e di scienza.

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Va detto, in conclusione, che il gruppo operaio non accetta in modo astratto la «univocità» e la «oggettività» del ciclo produttivo e della scienza e tecnologia che lo hanno imposto.7

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Il documento racchiudeva e metteva al centro la soggettività operaia riferita al ciclo stesso di produzione per fornire uno strumento utile alla comprensione del rischio vissuto quotidianamente e per partire dal punto di vista degli operai stessi.

Nelle conclusioni dell’articolo, vengono evidenziate due tipi di culture e di progresso: quella «del capitale» e quella dello «sviluppo sociale». Se la prima, spinta dalla molla del profitto economico privato, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dai poteri privati, la seconda è portatrice di istanze critiche nei confronti del “progresso” inteso come fine ineluttabile delle società umane.  Al contrario, la “cultura sociale” si proponeva di azzerare  il «coefficiente di rischio» attraverso lo sviluppo di una diversa forma di sapere avente come linea portante un inedito rapporto tra tecnici-operai-popolazione. Il CTSP si proponeva come esempio di tale relazione tra l’interno e l’esterno della fabbrica. Davide ricorda proprio questo passaggio come centrale nello sviluppo della lotta sevesina.

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Mentre nello stesso periodo le autorità sanitarie balbettavano, non sapevano cosa dire, non potevano forse dire tutto. Quindi per una fase iniziale nei primi mesi sì, [il CTSP, N.d.R.] era molto ascoltato, poi magari non tutti erano d’accordo, ma sicuramente molto ascoltato. E devo dire che inizialmente questo rispecchiava anche un legame che si stava un po’ instaurando tra territorio e fabbrica, tra territorio e lavoratori della fabbrica. Ora non la faccio troppo lunga, ma per come si era sviluppata l’industria nel territorio, nel nostro territorio c’era molto uno distacco tra la fabbrica e il territorio agricolo-artigianale di quegli anni. Tra chi lavorava in fabbrica e gli altri erano mondi un po’ strani, convivevano, ma senza proprio incontrarsi. Per un attimo quella vicenda nella sua drammaticità aveva costruito un legame perché per la prima volta quelle nocività uscivano sul territorio. Quelle nocività che non solo nella fabbrica, erano percepite come un problema della fabbrica si riversano in modo traumatico sul territorio. Quindi è la prima cosa che fa la popolazione non operaia andare a dire bah, chissà, forse chi ci lavora dentro qualcosa sa. C’è un’intervista a un lavoratore del Consiglio di Fabbrica dell’ICMESA, che racconta che alcuni genitori di bambini con la cloracne hanno contattato loro perché le autorità risposte sembravano non darne o comunque non ne parlavano volentieri e quindi si rivolgono ai lavoratori. Tra l’altro è da lì che anche i lavoratori prendono coscienza definitiva della gravità di quello che è accaduto e sospendono la produzione. Proclamano lo sciopero ad oltranza. È praticamente la fine dell’Icmesa.8

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Gli obiettivi del comitato furono esplicitati nel bollettino pubblicato nel settembre del 1976 e si posero in contrapposizione con l’operato delle istituzioni locali, regionali e nazionali che – secondo il CTSP – avevano coperto e soffocato ogni tipo di protesta e di organizzazione degli abitanti della zona, non fornendo sufficienti informazioni sulla situazione per fare maturare una consapevolezza collettiva del rischio.

Nel prossimo articolo sul CTSP, partirò proprio da qui per scendere nel sottobosco dei documenti conservati dall’Archivio Seveso. Memoria di parte e della storia del comitato.

 

 


NOTE

1 Per «crisi della presenza» si intende una situazione in cui un individuo o un gruppo umano si trovano ad affrontare un particolare evento, come per esempio la malattia o la morte, durante il quale si sperimenta un’incertezza, una crisi radicale della possibilità di esserci nel mondo e nella storia, tanto da scoprirsi incapaci di agire e di determinare la propria azione. Si veda, E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977.

2 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.

3 Archivio Seveso Memoria di parte (Asmp), b. CTSP, Interviste-documentario “Seveso, Memoria di parte”. Si tratta di un documentario autoprodotto dall’ “Archivio Seveso Memoria di parte”.

4 Ibidem.

5 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.

6 Si veda, Gruppo P.I.A., B. Mazza, V. Scatturin, “ICMESA: come e perché”, in «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, pp. 10-36.

7 Ivi, p. 34.

8 Intervista a Davide, 27 gennaio 2024.


Strabismi morali – Ogni vivente ha diritto all'integrità

Lo strabismo (o eterotropia) è un difetto di convergenza degli assi visivi dei due occhi che causa una fastidiosa visione binoculare e che può influenzare in maniera negativa la percezione del mondo circostante.

Si parla di strabismo morale quando – ad esempio - si giudica un atto con standard diversi, in modo diverso, a seconda di chi lo compie.

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28 gennaio 2024, Trentino.  Un orso, noto col numero di radiocollare M90, segue – sottolineo: segue, non “insegue” come riportano alcuni media – due persone per circa 10 minuti lungo una strada forestale di 700 metri, adattando la propria andatura alla velocità dei due malcapitati, a una decina di metri di distanza.

L’orso si è poi allontanato quando dei motociclisti, accorsi nel frattempo, l’hanno spaventato col rumore dei motori.

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Un cittadino molisano perseguita da più di un anno una donna sua concittadina. Lo scorso ottobre ha fatto irruzione in casa, a orario di cena, sfondando la porta. L’uomo segue regolarmente la donna, la insulta e di recente l’ha aggredita ferendola ad una guancia.

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L’orso M90 è stato ucciso il 9 febbraio dal personale del Corpo forestale della Provincia autonoma di Trento, su incarico del Presidente della Provincia.

Il molestatore molisano - da tempo sottoposto a divieto di avvicinarsi alla vittima - non ha subito alcuna altra conseguenza.

Strabismo morale: l’atto è analogo (quasi analogo: diversamente dal molestatore, l’orso non ha insultato o  aggredito le persone) ma il giudizio è radicalmente diverso; non credo che il Presidente della Provincia autonoma di Trento avrebbe deciso di far abbattere il molestatore.

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Numeri, Italia:

  • In 9 anni, le aggressioni da parte di orsi sono state 8, con un morto e 8 feriti;
  • In meno di 2 mesi, i femminicidi sono stati 10 e i casi di maltrattamenti e stalking da parte di ex-compagni o ex-compagne si stimano in più di 1.500.

Strabismo morale: la maggior parte dei casi di stalking non arriva all’attenzione dei media; ogni caso di “confidenza” di un orso – dopo la morte di Andrea Papi nel 2023 – occupa le “prime pagine”. Sono più pericolosi gli orsi o gli ex-compagni/e?

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Proviamo ora ad esaminare nel dettaglio la vicenda dell’uccisione dell’orso M90:

  • L’orso è (era) M90, un esemplare già noto al Servizio Faunistico provinciale come “orso problematico” perché aveva più volte dimostrato confidenza con gli umani e con i loro insediamenti: si legge infatti nel Piano d’azione interregionale per la conservazione dell’orso bruno nelle Alpi centro-orientali come M90 fosse stato «ripetutamente segnalato in centro residenziale o nelle immediate vicinanze di abitazioni stabilmente in uso» e «segue intenzionalmente delle persone», con «della sequenzialità e ripetizione dei comportamenti« (criteri soddisfatti quotidianamente da molti umani…);
  • Dopo l’evento del 28 gennaio e secondo questi criteri, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha valutato l’orso M90 «ad alto rischio»: questo avrebbe comportato – secondo il PACOBACE - tre opzioni di intervento: la cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radiomarcaggio; la cattura per captivazione permanente; l’abbattimento;
  • La decisione ultima, per legge nelle mani del Presidente della Provincia autonoma di Trento, è stata l’uccisione dell’orso M90.

Ora, vorrei fare qualche considerazione su come sono andate le cose:

  1. L’ISPRA, che ha deciso di classificare M90 come soggetto “ad alto rischio” e di consigliarne “la rimozione” dall’ambiente in cui vive (senza indicare quale opzione adottare tra le tre possibili) ha preso la decisione secondo una morale procedurale, come ha chiarito in un comunicato dell’8 febbraio, in modo “meccanico”: dati gli indicatori di sicurezza violati, si consiglia la rimozione – senza entrare nel merito della condizione dell’orso M90.
  2. Il Presidente della Provincia ha decretato l’uccisione senza alcuna valutazione del “sentimento” dell’animale, senza cioè, dimostrare che questa uccisione non sia stata “per crudeltà o senza necessità”, cioè non violi la tutela “del sentimento per gli animali” garantita dal codice penale dello Stato.
  3. L’uccisione è stata giustificata -come si legge nel Decreto del Presidente della Provincia autonoma di Trento 6 Febbraio 2024, n.1/Leg- perché «rappresenta la procedura di rimozione dell’esemplare M90 che garantisce la maggior tempestività possibile e conseguentemente persegue massimamente l’interesse connesso alla sicurezza pubblica» e in considerazione del fatto che «lo stato di conservazione dell’orso bruno in Trentino […] la condizione della popolazione [di orsi] trentina risulta in continuo miglioramento» e che «la sottrazione di un esemplare maschio e giovane non incide di per sé sulla demografia della popolazione».
  4. L’uccisione è stata perpetrata prima che chiunque potesse fare ricorso al TAR o qualunque genere di opposizione o manifestazione contraria, ledendo palesemente il diritto al dissenso, il diritto di espressione e il diritto di opposizione agli atti amministrativi.

E vorrei porre, a tutti voi che leggete, qualche domanda, di carattere morale:

  • è giusto pensare che i confini valgano solo per le specie animali non umane e non per gli umani? Che un orso non possa e non debba attraversare il confine che solo noi immaginiamo tra le “sue” zone e le “nostre” zone? Un tentativo di risposta avevo già provato a farlo in un mio post precedente.
  • è moralmente accettabile che un essere vivente sia ucciso perché è un animale e non un umano, a fronte di atti che, se compiuti da un umano, avrebbero comportato al massimo una diffida?
  • è moralmente accettabile che la decisione di uccidere un vivente – con sentimenti, lo ammette anche il Codice Penale – sia presa da un organismo il cui Direttore Generale è una geologa e il cui Consiglio Scientifico non conta nemmeno una persona con expertise etico-morale?
  • è corretto che la decisione ultima sulla vita o la morte di un individuo vivente sia demandata per legge ad un politico, un singolo decisore senza possibilità di confronto, “solo” perché questo vivente porta una giacca di pelo proprio e non fatta dal sarto, non è un umano?
  • una uccisione è meno grave se – statisticamente – non incide tanto sulla numerosità della popolazione?
  • non c’è sproporzione tra atto commesso e punizione?

Strabismi, questo è poco ma sicuro.


Conversazioni sull’I.A. – Corpo e diritto all'integrità

Redazione di Controversie: Riprendiamo il dialogo con Riccardo Boffetti e Paolo Bottazzini sulla soggettività delle intelligenze artificiali, là dove l’abbiamo lasciato il 16 gennaio (Conversazioni sull’Intelligenza Artificiale – Si prova qualcosa ad essere una macchina?), con la domanda che era rimasta in sospeso.

Per riconoscere ad una IA generativa come, ad esempio, Chat GPT, il diritto all’integrità è obbligatorio che sia incorporata in un robot?

Le altre istanze, quelle esclusivamente dialoganti che troviamo sul web, non hanno diritto a questo riconoscimento?

Riccardo: La risposta a questa domanda credo sia sì, per una serie di motivazioni. Credo, innanzitutto, che buona parte della questione si risolva nel fatto che il modo con cui agiamo nel mondo non può che essere antropocentrico e situato, appunto, nel mondo: non siamo (ancora?) degli esseri digitali, piuttosto siamo (ancora) esseri nel mondo. La scala temporale con cui esperiamo ogni situazione è difatti ben definita dalle nostre esperienze terrene e, accantonando per un attimo la velocità dell’immaginazione, questa si esprime in tempi ben più lunghi di quelli dell’elaborazione digitale odierna.

Ciò di cui abbiamo bisogno per poter anche solo concettualmente prendere in considerazione un’inclusione all’interno della sfera della legge di nuovi soggetti è appunto che essi agiscano su una scala temporale a noi comune o che, quantomeno, e in quanto collettivo, si sia in grado di concepire il dispiegarsi delle loro azioni.

Motivo per il quale abbiamo difficoltà sia nel concepire la questione del riscaldamento climatico sia nel prendere atto dell’agentività delle miriadi di specie vegetali e fungine.

Ecco, allora, che l’instanziazione, l’incorporazione, all’interno di un robot, possibilmente non umanoide, può creare quell’orizzonte comune necessario per la costruzione di un collettivo. È proprio il suo agire nel mondo che rende passibile l’hardware e il software di una rappresentazione giuridica: attenzione, non l’hardware e il software di per loro ma ciò che il resto dei partecipanti al collettivo (e cioè gli umani) vedono e possono interpretare come azioni simili alle loro.

Certo, ci rimane sempre l’immaginazione per concepire le esistenze di algoritmi non incorporati in robot. Alexander Laumonier lo fa bene in una sua ricostruzione del mercato dell’HFT (High-Frequency Trading), dove i famosi pit fisici del Chicago Board of Trade sono diventati deserti a favore di un gran movimento nella sfera digitale:

Gli squali allora potranno divertirsi come pazzi. «Che cos’è questa cosa?», domanderà il nipote di un ricco pensionato americano quando uno yacht incrocerà un’isola artificiale zeppa di tecnologia ultramoderna. «È la Borsa», risponderà il nonno, magari un attimo prima che un algoritmo selvaggio riduca a zero la sua pensione.

Probabilmente non potrò mai lavorare su una di queste isole galleggianti. Da qui ad allora gli algoritmi saranno diventati talmente complessi che io sarò ormai solo un vecchio dinosauro.

Per il momento mi accontento di fare il mio lavoro. Sono già le 9.30, e il New York Stock Exchange sta aprendo.

La quiete del mio ufficio climatizzato contrasta con la guerriglia alla quale dovrò prendere parte tutto il giorno, in compagnia di Iceberg, Shark, Blast, Razor e tutti gli altri.

Devo essere vigile, perché probabilmente dovrò sparare un colpo già alle 09:30:00:000:001, GMT-5.

Conto con attenzione i secondi che mi separano dall’apertura dei mercati, poi i millisecondi, i microsecondi, i nanosecondi, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, bingo» (6 | 5, 2018).

 

Come inquadrare, però, nella sfera del diritto simili entità? È chiaro il luogo in cui, e su cui, il diritto può agire è tutto l’ecosistema macchina-macchina che viene a crearsi ad essere , piuttosto che l’integrità dei singoli algoritmi. Quando si parla, però, di agenti autonomi nella sfera terrena mi pare che l’argomento diventi meno controverso da affrontare, proprio in luce del fatto che la loro individuazioni ci appare chiaramente davanti a tutti i nostri sensi.

Paolo: Quando la domanda è stata formulata, mi sarei aspettato da Riccardo una replica coerente con il suo antisciovinismo antropologico: i diritti vanno estesi alle intelligenze non umane, anzi non biologiche, quindi a tutte le intelligenze in generale.

Invece, la sua risposta distingue tra intelligenze veicolate da hardware zoomorfi e intelligenze che agiscono senza essere semoventi. Le sue argomentazioni sono in ogni caso sensate e condivisibili, quindi mi limiterei a osservazioni laterali.

La posizione di Riccardo è condivisibile se si accoglie la prospettiva fenomenologica di Merleau Ponty (1945, Fenomenologia della percezione): l’intelligenza non è solo una questione di calcolo logico, ma è, anzitutto, la regola dell’azione di chi frequenta il mondo come un’esplorazione precategoriale di orizzonti di senso. Mondo e corpo proprio cospirano a formare questo cosmo di significati, prima di qualunque operazione costitutiva dello spirito, e prima che l’universo si presenti già cristallizzato in oggetti. In questi termini, il possesso di un corpo è un attributo necessario non solo per l’intelligenza umana, ma per l’intelligenza in generale. Purtroppo, però, al momento, le intelligenze attive nei robot non contano sul loro hardware nel modo in cui gli uomini ineriscono al mondo con il loro corpo. Il software infatti compie calcoli in tutte le dimensioni che la fenomenologia assegna all’intenzionalità fungente: la conversione dell’AI alla lebenswelt è al limite una prospettiva, o un ottativo, rivolto all’evoluzione futura.

È possibile, poi, che un aspetto zoomorfo renda più incline il pubblico umano a riconoscere un diritto di inviolabilità alle macchine: da un punto di vista psicologico, la percezione di qualche affinità potrebbe aggiungere commozione all’istanza normativa. A questo proposito però un sociologo ispirato ai principi dell’ANT, come Bruno Latour (2005, Riassemblare il sociale), osserverebbe che robot e intelligenze artificiali sono già iscritte in reti di pratiche, di domini di significato, di associazioni, in cui il riconoscimento di un nuovo diritto irromperebbe come una detonazione, o l’invasione di un corpo alieno. L’esame del modo in cui le diverse forme di intelligenza artificiale e di meccatronica collaborano a formare i gruppi sociali dell’industria, della ricerca accademica, dell’hacking, ecc., dovrebbe precedere l’elaborazione di una normativa che regoli la convivenza dei robot con gli altri attori sociali. Ma si tratta di un tema ampio che dovrà essere ripreso.

Redazione: Grazie a entrambi una volta di più. Il tema, suggerito da Riccardo, dell’incorporazione dell’intelligenza artificiale nella dimensione temporale apre un terreno di confronto assolutamente nuovo per questa questione; la riflessione di Paolo - che richiama Merleau-Ponty sulla necessità dell’intelligenza di “contare sul proprio corpo” sembra rinforzare e mettere a terra l’ipotesi di Riccardo.

Ma cosa ne pensa chi l’Intelligenza Artificiale la vede anche nella sua dimensione operativa, pratica? Nella prossima conversazione partiremo da alcune riflessioni di Alessio Panella che sottolinea il necessario dubbio sull’autocoscienza di macchine senza corpo.


L'anima - Origini antiche di un concetto impopolare

I confini dell’anima non riuscirai a trovarli per quanto tu percorra le sue vie.

Eraclito, frammento 45

Premessa

Accennavamo poco tempo fa agli eventi interiori che possono aver luogo nel teatro dell’anima. L’idea di anima non è molto popolare oggi, parlarne crea uno strano imbarazzo. Affascinati dalle immagini della Risonanza Magnetica funzionale, molti neuroscienziati tendono a considerare la coscienza umana come un prodotto del cervello. Un processo nervoso, talmente automatico, che si può tranquillamente escludere il libero arbitrio: qualcuno ha proposto addirittura di abolire il Diritto Penale; se uccido o rubo, non dipende da me, ma da tempeste ormonali e intrecci di neuroni.

Un noto divulgatore scientifico annovera tra i possibili sostituti dell’anima persino il DNA. Dico subito che il DNA non è più attivo e vitale della tastiera di un pianoforte: funziona a seconda di chi lo suona, ma se non viene stimolato rimane inerte. È solo un replicatore di mattoni dell’organismo.

In quanto al rapporto del cervello con la coscienza, è piuttosto difficile spiegare come un ammasso spugnoso di neuroni possa creare la Divina Commedia o la Nona di Beethoven. Un geniale filosofo australiano, David Chalmers, ha giustamente distinto ciò che esce dallo scoppiettio e dalle immagini delle macchine che indagano il cervello, dall’universo insondabile e soggettivo della coscienza umana: il primo è il “problema facile”, il secondo, quello “difficile”.

In effetti, la difficoltà di penetrare nei meandri della coscienza dipende primariamente dal fatto che pretendiamo di conoscere un’entità soggettiva con strumenti oggettivi. Possiamo allora indagare la coscienza tramite la coscienza? Beh, la psicoanalisi si è formata attorno a questa idea e, se la psiche non esiste, allora la psicoanalisi è la scienza del nulla.

Ma come è nata l’idea della psiche ? Le radici del nostro pensiero sono greche. Chiediamolo ai greci.

L’anima

Proiettiamoci in un lontano passato, in un carcere di Atene. Socrate ha lealmente accettato la sentenza di morte, ingiustamente stabilita dal tribunale della città. Gli amici che lo assistono sono disperati: la tua grande anima svanirà nel vento! Ma Socrate risponde con parole inaudite: l’anima non muore con il corpo e io resterò là dove sono sempre stato (Platone, Fedone).

Siamo nell’anno 399 del tempo precristiano e stiamo assistendo alla nascita dell’idea dell’anima. La cultura greca fino a quel tempo poggia sui grandi Misteri di Eleusi: dopo la morte l’anima si disperde nel vento, del resto ànemos (“άνεμος”) vuol dire proprio vento. Quel che resta di questo alito si rifugia in un’ombra pallida, prigioniera dell’Ade, il buio regno di Persefone. Non c’è vita oltre la morte: nella cupa discesa di Ulisse nell’Ade, l’ombra di Achille si dispera: «Vorrei essere un servo da vivo, piuttosto che regnare sui morti» (Omero, Odissea: XI, 489).

Noi ci serviamo delle parole per comunicare, ma guardate come il senso di un vocabolo può radicalmente mutare significato ed esperienza interiore. Fino a questo istante dell’anno 399 la parola pneuma (πνεύμα) indica un alito di vento, gli allievi di Socrate temono che il maestro morendo si dissolva come un soffio nel vento.

Ma da qui in poi πνεύμα diventa lo spirito immortale: qualche secolo più tardi, Giovanni il discepolo di Gesù, dirà al nobile fariseo Nicodemo: «Lo Spirito [Το πνεύμα] soffia dove vuole e tu odi la sua voce, ma non sai da dove viene, né dove va» (III, 8).

Socrate non si basa sulle dottrine di Eleusi, è un iniziato dei Misteri orfici del nord, portatori dell’idea rivoluzionaria dell’immortalità dell’anima. «Resterò dove sono anche dopo la morte» è la parafrasi di un pensiero ricorrente per Socrate, che può attardarsi a meditare anche prima di varcare la soglia di un amico che lo ha invitato a un festeggiamento (Platone, Il Simposio).

Il filosofo si interroga costantemente sul continuo mutare del mondo: «Perché ogni cosa si genera, perché si corrompe e perché esiste» ( Platone, Fedone 96 A, 9). Svela così il suo percorso di meditazione, che lo conduce a indagare a fondo le pieghe nascoste della coscienza, la sua logica, la sua mutevolezza, la sua incoerenza. L’anima assomiglia a una biga alata, trainata da due cavalli che vorrebbero seguire direzioni opposte (Platone, Fedro, 246).

Socrate non si limita a rivelare che l’anima è immortale, ma ne tratteggia le qualità: la capacità di apprendere, di ricordare, di formare concetti; descrive le sue lotte interiori, insegna come curarla. «Prendersi cura dell’anima» è un invito che il filosofo ripete spesso: proprio come ci prendiamo cura degli occhi fisici, perché possano vedere correttamente, così dobbiamo prenderci cura dell’occhio dell’anima, perché sensazioni ed emozioni siano chiare.

Per forza non crediamo più all’esistenza dell’anima: stiamo guardando dalla parte opposta! Gli occhi fisici non vedono la natura delle cose, ma solo il loro aspetto esteriore. Sono le emozioni che possono percepire oltre, ma devono essere pure, non mescolate con quelle del corpo. La rivelazione del Simposio è tutta qui, nel saper ascoltare intensamente, “eroticamente”, ma rinunciando al fisico.

La vera essenza delle cose non si manifesta in pensieri, ma in immagini; queste, però, sono sfumate, indefinite. Ecco che nell’attività del pensiero sorge la dimensione del dubbio. Socrate dice di «non sapere», ma è ricco di immagini. Questo è il motore della ricerca scientifica.

La prossima volta parleremo dei dubbi di Newton.


Ripensare le Scienze - Considerazioni a partire da "Il Golem"

La scienza sembra essere o tutta buona o tutta cattiva»[1]; così inizia Il Golem, saggio pubblicato nel 1993 dai sociologi Harry Collins e Trevor Pinch.

Il testo prende le distanze da una visione strettamente dicotomica dell’impresa scientifica che ne considera solo gli estremi (o tutta buona o tutta cattiva) e ne dà un giudizio etico.

Ma allora, addentrandoci nella trama e dei casi raccolti da Trevor e Pinch, viene da chiedersi: che cos’è la scienza?

Secondo gli autori, essa è un golem: «un umanoide creato dall’uomo con acqua e argilla, con incantesimi e magie»[2]; esso ha una forza formidabile, ma è goffo e addirittura pericoloso: «se non è sottoposto a controllo, un golem può distruggere i suoi padri con la sua smisurata energia»[3]. Scopo di questo libro, allora, è di mostrare come la scienza sia a tutti gli effetti un golem, quindi non un’entità necessariamente malvagia ma una creatura che, nonostante la sua forza, si rivela impacciata e maldestra.

E se la scienza è incerta, quando la vediamo zoppicare? Quando mostra le sue fragilità?

Per esempio, quando in una ricerca ci sono talmente tante variabili da confondere gli scienziati stessi, oppure quando si discute sull’eventuale ripetibilità di un esperimento. Queste considerazioni (e molte altre) fanno riflettere sulle difficoltà della Scienza Golem, la quale non sempre si muove con passo sicuro, traballa, oscilla tra “tentativi ed errori”, crea controversie, anche se «alla fine, […], è la comunità scientifica […] che porta ordine in questo caos, trasformando le goffe capriole della Scienza Golem collettiva in un pulito e ordinato mito scientifico. Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo: l’unico peccato è non riconoscere che è sempre così»[4].

In aggiunta, cosa dovremmo dire di chi lavora in ambiti scientifici? L’idea espressa da Collins e Pinch afferma che «gli scienziati non sono né dèi né ciarlatani; sono semplicemente specialisti […]. La loro conoscenza non è più perfetta di quella di economisti, ministri per la sanità, […], avvocati, […], agenti di viaggi, meccanici di automobili, o idraulici»[5].

Quindi, se la scienza – e le scienze – sono imprese umane perché umani sono coloro che ci lavorano, è indubbio che risentono anch’esse di influssi storici, culturali o sociali, oltre a variabili personali come le preferenze, le idiosincrasie o le idee dei singoli scienziati e scienziate. Pertanto, la Scienza Golem incespica, inciampa e cade perché noi la costruiamo e la mettiamo all’opera: «l’“errore” umano va diritto verso il cuore della scienza, perché il cuore è fatto dell’attività umana»[6]. I suoi errori sono dunque i nostri errori.

Come viene affermato ne Il Golem, «è impossibile separare la scienza dalla società, eppure rimanendo legati all’idea che esistono due distinte sfere di attività si contribuisce a creare quell’immagine autoritaria della scienza così familiare alla maggior parte di noi. Perché tali sfere appaiono distinte?»[7].

Forse perché abbiamo affidato alle scienze un compito troppo difficile: essere le divinità di tempi secolarizzati, essere le entità sacre di una postmoderna forma di politeismo; quando il mondo occidentale ha perso i propri capisaldi, le scienze hanno dovuto rappresentare la certezza.

Quanto peso è stato messo sulle loro spalle!

Abbiamo compiuto un enorme salto ontologico e, così facendo, abbiamo occultato il lato umano che c’è, c’è sempre stato e sempre ci sarà nell’impresa scientifica. Rendendola una divinità laica, l’abbiamo infatti sottratta a quel dominio che è il nostro dominio, ci siamo alienati, con le distorsioni e le illogicità che questa azione comporta. Quindi, non consideriamo le scienze come giganti ultraterreni ma come tessere di un insieme più ampio, che ci riguarda in modo diretto.

Dopo tutte queste considerazioni, dovremmo quindi sfiduciare la scienza? Assolutamente no!

Non dobbiamo scoraggiarla, ma contestualizzarla e capirla, comprendendo che le scienze sono costruzioni umane e, come tali, abitano in quello spazio fluido, di transizione, che è lo stesso delle nostre vite. Uno spazio effimero, contingente, sempre in movimento; può capitare infatti che le certezze di oggi non siano quelle di ieri e non saranno quelle di domani, tanto nelle nostre esistenze quanto nelle scienze. Ed è proprio questo che rende l’avventura scientifica così affascinante.

Scopo del blog Controversie è proprio quello di ripensare le scienze. Più nello specifico, ribaltare quell’idea scientista, di matrice neo-positivista, che le considera ingenuamente come depositarie di un sapere assoluto e come base di tutta la conoscenza.

Invece, è molto meglio (e più plausibile) considerare le scienze all’interno di un ambiente reale e concreto, facendole scendere dal piedistallo sul quale sono state poste affinché dialoghino con altre imprese umane come, per esempio, società, storia, arte o filosofia. È così che creeremo vera cultura: non isolando i saperi, ma mostrando che sono tutti immersi in una rete in cui comunicano, si confrontano e si influenzano, arricchendosi reciprocamente. Per imparare, si deve dialogare e, per dialogare, ci si deve incontrare. E non si incontrerà proprio nessuno, se si resta sul piedistallo.

Impareremo così ad amare la scienza, «ad amare il gigante maldestro per quello che è»[8].


NOTE

[1] Harry Collins, Trevor Pinch, Il Golem. Tutto quello che dovremmo sapere sulla scienza, trad. it, Bari, Edizioni Dedalo, 1995, p. 11.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 12.

[4] Ivi, p. 196.

[5] Ivi, p. 188.

[6] Ivi, p. 184.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 13.


Le tecnologie non sono neutrali. La lezione dimenticata del determinismo tecnologico

Il determinismo tecnologico (DT), nella sua forma più pura, è un approccio che vede le tecnologie e le innovazioni come indipendenti dalla più ampie dinamiche sociali.

L’idea è che la tecnologia sia il fattore determinate delle vicende umane e gli sviluppi tecnologici non siano guidati dall’attività umana, ma da una logica interna all’innovazione scientifica.

Un esempio è il concetto di blockchain e cryptovalute che, secondo chi li promuove, sono liberi dalla manipolazione del potere istituzionale e generano effetti sociali in modo autonomo; un secondo esempio è la IA che, secondo alcuni sostenitori  in grado aumentare le capacità umane e di rivoluzionare settori quali la finanza, sicurezza nazionale l’assistenza sanitaria ecc.

I principi del DT sono tre:

  • la tecnologia rappresenta una dimensione esterna rispetto alla società, in grado di agire al di fuori di essa;
  • ogni cambiamento tecnologico produce un cambiamento nelle forme di organizzazione e di interazione sociale;
  • la società si adatta alla tecnologia.

Il DT è stato molto criticato dagli Science and Technology Studies (STS), tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ’80, , ritenuto un approccio obsoleto, se non addirittura sbagliato, e “ridotto allo status di uno spaventapasseri” (Lynch 2008, 10).

Infatti, sociologicamente parlando, risulta difficile sostenere che le innovazioni tecnologiche riescano a plasmare in maniera univoca la nostra vita quotidiana.

Per cui è più interessante impostare delle analisi in cui, si tiene conto di una serie di dinamiche che le tecnologie innescano, senza però farsi affascinare troppo e senza pensare che queste siano le uniche possibili.

Dunque, è più corretto parlare di tre forme di DT:

  • forte: la tecnologia impatta sulla società e rappresenta il principale motore del cambiamento sociale;
  • media: la tecnologia determina lo sviluppo sociale e le possibilità d’azione dei soggetti;
  • leggera: la tecnologia influenza la società e orienta l’innovazione sociale.

Quindi, cosa possiamo salvare del determinismo tecnologico?

Ciò che di buono ha messo in luce il DT è che le tecnologie non sono neutre, ma producono degli effetti. Ovviamente poi possiamo discutere l’intensità di questi effetti. Ma un approccio sociale alle tecnologie deve partire dall’idea che la tecnologia non sia qualcosa di neutrale. Se così non fosse, le tecnologie sarebbero materia solamente per gli ingegneri o tecnologi. Invece, anche gli scienziati sociali possono dire la loro, partendo proprio dall’idea che la diffusione di una tecnologia è legata al proliferare delle dinamiche d’uso.

Quest’ultima idea è stata evidenziata da un altro approccio alle tecnologie: Social Construction of Technology (SCOT). Una delle lezioni fondamentali dello SCOT è che le tecnologie e i loro effetti, vanno misurate sempre in relazione ad altre cose, come l’infrastruttura esistente in un contesto o i gruppi sociali che entreranno in contatto con la tecnologia. Secondo lo SCOT non c’è niente di predeterminato nelle tecnologie; quindi, una nuova tecnologia all’inizio è caratterizzata da un certo tipo di “flessibilità interpretativa” ovvero un periodo in cui alcuni gruppi sociali si approcciano a una tecnologia e ci vedono alcune cose: per alcuni potrebbe essere utile per i propri fini, mentre per altri potrebbe essere pericolosa. Durante questo periodo entrano in gioco diversi “gruppi sociali pertinenti” che cercano di orientare l’artefatto nella loro direzione in base ai loro interessi.

In questo modo si raggiunge una stabilizzazione della tecnologia, incorniciandola, con uno specifico significato d’uso e una forma in grado di tenere insieme le diverse istanze poste dai vari gruppi.

Dunque, guardare alla tecnologia, come fa il DT, come una variabile indipendente che si origina dall’innovazione scientifica e si “impone” agli attori, determinandone le pratiche, le relazioni e le interazioni, risulta troppo radicale. Non è detto che se la tecnologia funziona in un determinato modo, allora le persone dovranno adattarsi e sforzarsi di far funzionare la tecnologia in quello stesso modo.

Risulta difficile pensare che la tecnologia offra determinati input alla società e che questa non possa far altro che adattarsi passivamente. Certo, le tecnologie non sono neutrali, ma diventano quello che sono nel momento in cui gruppi di utenti se ne appropriano, ad esempio un computer può essere utilizzato per lavoro, per lo studio, per giocare, guardare film ecc.

Il punto è che le tecnologie più diffuse sono quelle che vengono utilizzate nei modi più vari, ognuno le usa in base ai propri interessi, problemi, fini e attività quotidiane, permettono dunque una varietà di usi. Di conseguenza l’innovazione vincente non è tale soltanto perché contiene un elemento tecnico migliore o superiore ad altri, ma perché attraverso quell’elemento tecnico riesce a soddisfare una serie di istanze sociali.

Proviamo ora a fare un passo in avanti, attraverso un altro approccio alla tecnologia, l’Actor Network Theory (ANT), ovvero “un semplice metodo per imparare dagli attori senza imporre loro una definizione a priori circa la loro capacità di costruire il mondo” (Latour 1999, 20). Si tratta di un metodo che guarda alla realtà e agli attori senza partire dal presupposto che questi ultimi abbiano un qualche tipo di agency a priori. Attori umani e non-umani sono ugualmente capaci di dare forma ai processi che conducono all’emergere di un’idea, di una conoscenza o di una tecnologia.

Ma quindi in che modo possiamo descrivere il ruolo che hanno le tecnologie?

Una prima risposta è di guardare come gli oggetti intervengono all’interno delle azioni e delle pratiche e come le trasformano. Una nozione classica dell’ANT, è quella di script, ovvero ciò che è inscritto in un artefatto. L’idea è che nel processo di progettazione vengano inscritte, dai progettisti e designer, delle sceneggiature negli oggetti, dei copioni o delle istruzioni su come questi si devono utilizzare; e sono in grado di delineare ruoli, competenze e possibilità d'azione per chi interagisce con tale oggetto. In altre parole, inscrivono una certa idea di utilizzatore e per farlo introducono nell’oggetto alcune caratteristiche che riguardano le competenze dell’utilizzatore e delineano programmi d’azione e ruoli.

A questo punto potrebbe sembrare che lo script rappresenti solamente una serie prescrizioni e proscrizioni inscritte dal progettista e quindi una sorta di determinismo tecnologico, ma non è così. Il concetto di script è un concetto aperto, non ricade all’interno del determinismo tecnologico, è un partire dal presupposto che gli oggetti hanno una loro agency e contribuiscono in vari modi allo sviluppo di una azione, ma non la determinano mai.

Possiamo identificarne due aspetti. Il primo è l’inscrizione: progettisti e designer che tentano di inscrivere un qualche tipo di comportamento o azione nell’oggetto. In questa concezione l’oggetto un po' scompare. Il secondo è ciò che si ritrova inscritto nell’artefatto, ovvero il modo in cui le competenze, le possibili azioni, i ruoli degli utilizzatori sono effettivamente inscritti nell’artefatto. In questo senso l’oggetto assume una sua autonomia di cui dobbiamo tenere conto, il progetto dei designer non esaurisce le possibilità di un oggetto, ma ha una sua autonomia anche perché poi interagirà con altri oggetti e sarà sempre in trasformazione. In altre parole, si tratta di guardare le affordance (Gibson 1979), ovvero tutte quelle possibilità che gli utenti intravedono negli oggetti a partire dalle loro caratteristiche materiali e che non erano state previste dai progettisti. In questo modo gli utenti hanno l’occasione per fare qualcosa di diverso con l’oggetto che hanno di fronte.

In conclusione, la lezione del determinismo tecnologico è valida ancora oggi con alcune sfumature, ma il punto è che le tecnologie non sono neutrali. Gli STS sostengono la necessità di coltivare un approccio più “simmetrico” ai fenomenti sociali guardando alle tecnologie come pratiche sociali, ovvero si comprende l’utilità, la rilevanza, quando se ne osserva l’uso in contesti concreti. L’idea che sta dietro al concetto di affordance è che tutti quanti gli oggetti abbiamo un loro uso e ci pongono dei vincoli, però possiedono delle caratteristiche materiali che possono essere lette da chi li utilizza come inviti ad un uso diverso. La direzione non è quella di fermarsi a guardare la tecnologia-in-sé, ovvero come qualcosa che funziona ed è efficace indipendentemente dai suoi utilizzatori e contesti d’uso pratici. Piuttosto quello di focalizzarsi sulla tecnologia-in-uso (Orlikowski 1992; 2000; Gherardi 2008), ovvero come gli oggetti vengono ri-significati nella pratica, di conseguenza questi non nascono “efficaci” o “sicuri”, ma lo diventano nel momento in cui una comunità di utilizzatori, in specifici contesti d’uso, li costruisce come tali.

 


RIFERIMENTI

Gherardi S. (2008), La tecnologia come pratica sociale: un quadro interpretativo, in Gherardi S. (a cura di) Apprendimento tecnologico e tecnologie di apprendimento, Il Mulino, pp. 7-44.

Gibson J.G. (1979), Per un approccio ecologico alla percezione visiva, Angeli (ed. It. 1995)

Latour B. (1999), On recalling ANT, in “Actor Network Theory and After”, in J. Law, e J. Hassard  (a cura di), Oxford, Blackwell, pp. 15-25.

Lynch M. (2008), Ideas and perspectives, in E Hackett, O. Amsterdamska, M. Lynch e J. Wajcman (a cura di), The Handbook of Science and Technology Studies, Cambridge, MIT Press, pp. 9-12.

Orlikowski W.J. (1992), The duality of Technology: Rethinking the Concept of Technology in Organization, in “Organizational Science”, Vol. 3, n.3, pp. 398-427.

Orlikowski W.J. (2000), Using Technology and Constituting Structures: A Practice Lens for studying technology in organizations, in “Organization Science”, vol. 11, n.4, pp. 404-428.


Il complottismo degli anti-complottisti. Le trappole mentali dei debunkers

Da quasi un decennio i temi della post-verità, delle fake-news e delle teorie del complotto sono diventati un’ossessione non solo per i giornalisti, ma anche per gli accademici. Per alcuni sociologi, psicologi, filosofi ecc. sembra che tutti i mali del mondo vengano dai cospirazionisti, persone malate, irrazionali e anti-scientifiche, carbonari dei nostri giorni, che passano il loro tempo a fornicare sui social media, a costruire ad arte notizie false per poi diffonderle.

 

Un po’ di casi storici

Poi dopo qualche decennio si scopre, ad esempio, che il super testato dietilstilbestrolo (una specie di estrogeno prescritto tra il 1938-1971 per prevenire l'aborto spontaneo) causa centinaia di casi di adenocarcinoma (un tumore, solito insorgere mediamente intorno ai 17 anni) in donne nate (chiamate poi figlie DES) da madri che l’avevano assunto. Oppure che il super testato talidomìde, prescritto in particolar modo alle donne in gravidanza, provoca migliaia di nascituri con deformazioni (es. focomèlia); o, più recentemente (2004), che il super testato Vioxx, “un farmaco per l’artrite, largamente prescritto, fu scoperto aumentare il rischio di infarto e ictus, soltanto dopo esser stato sul mercato per cinque anni” (Conis, 2015: 233).

Per fare un altro esempio, ricordo che Albert Sabin, medico e virologo (inventore di uno dei due vaccini contro la polio), almeno sin dal 1980 (fino al 1993, anno della sua morte), manifestò più volte, mediante interviste stampa e TV, diverse perplessità su alcuni vaccini, sui vaccini antinfluenzali e sulle politiche vaccinali, anche italiane, come quella dell’obbligatorietà del vaccino antiepatite B, come ebbe a dire il 4 dicembre 1991 a RAI 3: «A mio giudizio si tratta di un errore grossolano e sono certo che il ministro della Sanità è stato molto mal consigliato. In realtà in Italia oltre l’80% di casi si verificano tra i tossicodipendenti che fanno uso di siringhe infette o che non cambiano siringhe (…) Affrontando questi aspetti del problema si otterrebbero risultati migliori di quelli garantiti dalla vaccinazione obbligatoria previsti dalla legge appena approvata...». Quel “mal consigliato” fu più chiaro vent’anni dopo, quando la magistratura accertò (con sentenza definitiva nel 2012) che l’allora ministro, il medico e liberale De Lorenzo, nel febbraio 1991 aveva ricevuto una tangente di 600 milioni di lire dalla Smith Kline Beechm (Glaxo), l’azienda produttrice proprio del vaccino Engerix B. Non risulta che De Lorenzo sia stato poi radiato dall’ordine dei medici.

Proprio quest’ultimo episodio ci insegna che i sociologi, psicologi, filosofi così ferventemente anti-complottismi dovrebbero avere un atteggiamento meno manicheo e più laico, aperto e tollerante.

Perché i complottismi di oggi potrebbero (ripeto cento volte ‘potrebbero’) essere le verità di domani.
In altre parole, un approccio cauto e “storico” non farebbe male. Come suggeriscono diversi autori (Di Piazza, Piazza e Serra 2018, Veltri e Di Caterino 2017, Cuono 2018, Lorusso 2018, Adinolfi 2019, Gerbaudo 2019, Ottonelli 2019) che hanno individuato diversi limiti epistemologici, descrittivi, normativi e strategici del concetto di post-verità.

Un caso per tutti è quello dell’amianto (ma si potrebbe parlare del tabacco, del DDT, dei coloranti per le bevande ecc.). Un minerale naturale conosciuto e usato sin dall'antichità e fino all'epoca moderna, per gli scopi più disparati: da magici e rituali fino a quelli industriali. In Italia il suo uso è proibito solo dal 1992. Ma “risale agli inizi del ’900 il primo processo in Italia (in Piemonte) nel quale venne condannato il titolare di un’azienda che lavorava amianto perché la pericolosità del minerale era stata ritenuta circostanza di conoscenza comune. La prima nazione al mondo a riconoscere la natura cancerogena dell'amianto, dimostrandone il rapporto diretto tra utilizzo e tumori e a prevedere un risarcimento per i lavoratori danneggiati, fu la Germania nazista nel 1943”[1]. Ma si sa: i nazisti facevano propaganda.

 

Patologizzare la critica sociale, comprimere il dissenso

Dal punto di vista scientifico, ‘complottismo’[2] è un termine che richiama un concetto con uno statuto epistemologico molto incerto e controverso. Tant’è che risulta essere un termine molto carico politicamente. Infatti secondo l’antropologo Didier Fassin (2021) esiste una tendenza crescente, nelle scienze umane, ad assimilare la critica sociale al pensiero cospirativo, utilizzando il secondo per delegittimare la prima. Per cui, mediante questo termine, abbiamo un inquinamento della sfera pubblica e un disincentivo alla partecipazione.

Allo stesso modo, il politologo greco Yannis Stavrakakis, parlando di ‘populismo’, argomentava che che è una categoria, più che descrittiva, normativa, e di conseguenza ‘performativa’, nel senso che è una costruzione di coloro che governano (gli anti-populisti) per imporre i loro “regimi di verità”, come li chiamava Michel Foucault (un autore che gli studiosi anti-complottisti sembrano aver dimenticato).

A tal fine, il filosofo della scienza Paul Feyerabend (1975), a cui il dibattito sul complottismo avrebbe probabilmente fatto ridere, diceva che “nella scienza occorre dar voce a tutti, anche ai punti di vista che in quel momento possono sembrare errati”. E continuava “è opportuno conservare tutte le teorie, anche quelle che nel corso del tempo sono state scartate, perché è sempre possibile che tornino attuali”, perché ogni teoria non è mai sviscerata in tutti i suoi aspetti: la deriva dei continenti, un tempo ritenuta una teoria pseudoscientifica, è oggi parte integrante del patrimonio scientifico, soprattutto dopo la scoperta delle prove paleomagnetiche che sostengono il concetto di tettonica a zolle. Anche l'evoluzione della specie o l'eliocentrismo furono inizialmente sottoposte a feroci critiche scientifiche.

E la filosofa femminista Sandra Harding sosteneva che “anche le scienze naturali (es. fisica e chimica), e non solo le scienze umane (es. sociologia e antropologia), sono influenzate anche dalle credenze e opinioni personali degli scienziati”.

 

Le trappole mentali dei debunkers e fact checkers

Sembrerebbe che solo i complottisti ragionino in modo surreale. Ed è compito dei debunkers e fact checkers, i Roland Freisler o gli Andrej Vyšinskij del XXI secolo, scoprire l’infondatezza di quelle che poi saranno definite fake news.

C’è però un particolare. Inquietante. I debunkers sono strabici: fanno il pelo sempre ai critici dello status quo, e quasi mai ai governanti o coloro che gestiscono il sistema dell’informazione. Per cui operano all’interno dei “regimi di verità” e dei “regimi di discorso”.

Altrimenti avrebbero indagato e scoperto l’infondatezza (per fare uno degli esempi più clamorosi) delle dichiarazione del Segretario di Stato americano, Colin Powell, che il 5 febbraio 2003 all’assemblea generale dell’ONU aveva mostrato le fotografie di laboratori mobili (si scoprì poi che erano dei modellini) di costruzione di armi biologiche (le famose armi di “distruzione di massa”) e avrebbero guardato cosa conteneva (talco anziché antrace) quella fialetta esibita teatralmente durante il suo discorso.

In altre parole, i debunkers e gli anti-complottisti soffrono delle stesse trappole mentali dei cosiddetti complottisti. Essi cadono nel fenomeno della “reazione all’oggetto” (Cacciola e Marradi 1988), fenomeno socio-cognitivo-emotivo, per cui nel dare un giudizio su una notizia si guarda alla fonte PRIMA che al contenuto. Per cui se la fonte è un’istituzione rispettata, allora le sue notizie non possono essere che vere (così successe per Colin Powell, mentre Saddam Hussein faceva propaganda). E’ viceversa.

Ma il contenuto della notizia non viene quasi mai esaminato senza preconcetti.

In conclusione, anti-complottisti “di terra, di mare e dell'aria”… datevi una calmata.

 


NOTE E BIBLIOGRAFIA

[1] https://www.inail.it/cs/internet/docs/dossier_storia_amianto-pdf.pdf

[2] Un tempo si chiamava “dietrologia” (vedi https://www.ilpost.it/2024/02/08/sgobba-quando-il-complottismo-si-chiamava-dietrologia/)

Adinolfi, M. (2019). Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia. Roma: Salerno Editrice.

Cacciola Salvatore e Marradi Alberto (1988), Contributo al dibattito sulle scale Likert basato sull’analisi di interviste registrate, in Marradi (a cura di), Costruire il dato, Milano: Angeli, 63-105.

Conis, Elena (2015), Vaccine Nation. America’s Changing Relationship with Immunization, Chicago: University of Chicago Press.

Cuono, M. (2018). “Post-verità o post-ideologia: un problema politico,online e offline”. In Web e società democratica: un matrimonio difficile, a cura di E. Vitale and F. Cattaneo, 66–82. Torino: Accademia University Press.

Di Piazza, S., Piazza, F., and Serra, M. (2018). “Retorica e post-verità: una tesi controcorrente”. Siculorum Gymnasium 71 (4): 183–205.

Fassin, Didier (2021) Of Plots and Men. The Heuristics of Conspiracy theories,in Current Anthropology, 62(2), pp. 128-137.

Feyerabend, Paul K. (1975) Against Method, Londra: Verso Book. Trad. It. Contro il Metodo. Milano: Feltrinelli, 1979.

Gerbaudo, P. (2019). “Una falsità scomoda: fake news e crisi di autorità”. In Fake news, post-verità e politica, edited by G. Bistagnino and C. Fumagalli, 74–91. Milano: Fondazione Giangiacomo, Feltrinelli.

Harding, Sandra (1993). “Rethinking Standpoint Epistemology: What is Strong Objectivity” Feminist Epistemologies (a cura di) Alcoff L., Potter E., New York e Londra: Routledge.

Lorusso, A. M. (2018). Postverità: fra reality tv, social media e storytelling. Bari: Laterza.

Ottonelli, V. (2019). “Disinformazione e democrazia. Che cosa c’è di fake nelle fake news?”. In Fake news, post-verità e politica, a cura di G. Bistagnino and C. Fumagalli, 92–115. Milano: Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.

Stavrakakis, Y. (2017). “How did ‘populism’ become a pejorative concept? And why is this important today? A genealogy of double hermeneutics”. POPULISMUS Working Papers 6.
http://www.populismus.gr/wp-content/uploads/2017/04/stavrakakis-populismus-wp-6-upload.pdf

Veltri, G. A., and Di Caterino, G. (2017). Fuori dalla bolla: politica e vita quotidiana nell’era della post-verità. Sesto San Giovanni: Mimesis.


Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere

In questo scritto racconterò brevemente che cosa accadde il 10 luglio 1976 e che cos’era l’Icmesa. In seguito, solleverò  alcuni problemi nati con il disastro che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante mia ricerca etnografica a Seveso.

10 luglio 1976, ore 12.37

«Eravamo a pranzo. Era anche una bella giornata di sole. Tutto ad un tratto sentiamo pof. Poi un sibilo forte, come se fosse scoppiata una gomma. Ma più forte, come se ci fosse dell’aria che usciva. Io sono corsa sul balcone e come esco dal balcone davanti ho una casa con un altro mio amico. Anche lui era fuori e faceva così [indica il cielo con il dito]. Mi giro e vedo ‘sta nuvola fantastica, bellissima. Bianca. Proprio di un bianco, proprio bello. Bella, sì1».

Chi era presente quel giorno a Seveso non si aspettava una nuvola così bella e così pericolosa proprio in quel momento. Tuttavia, il sentore che sarebbe potuto accadere qualcosa era nell’aria.

«[Hoffmann e La Roche, N.d.R.] hanno sempre considerato l’incidente del 10 luglio ‘76 come un evento casuale. E io ho sempre detto: vero, nel dire casuale il dieci luglio 1976 alle 12.37. L’impianto era talmente obsoleto, la fabbrica e i relativi controlli erano talmente privi di sistemi di sicurezza che un incidente era nelle corde»2, mi ha raccontato Massimiliano Fratter, sevesino dalla nascita e responsabile del progetto il Ponte della memoria. Non solo il cielo fu scritto dal passaggio delle nuvole velenose, ma il risveglio sensoriale interessò anche l’olfatto. Infatti, Maria racconta che poco dopo aver visto quella nuvola bellissima ha sentito anche l’odore di saponetta, «quell’odore buono di profumo». Quello solito a cui era abituata3. L’Icmesa era soprannominata dagli abitanti della zona la fabbrica dei profumi4 per gli odori che la sua produzione esalava.

Le origini della fabbrica risalivano al 1921. Prima della seconda guerra mondiale l’azienda aveva sede a Napoli. Dopo la distruzione dello stabilimento campano a causa dei bombardamenti, la fabbrica fu trasferita Meda, sotto il controllo del gruppo svizzero Givaudan, che ne deteneva il pacchetto azionario di maggioranza e che a sua volta era stata acquisita dalla multinazionale farmaceutica Hoffmann-La Roche5. La produzione dello stabilimento cominciò tra il 1946 e il 1947 e consisteva nella realizzazione di componenti chimici, alcuni dei quali ad alto tasso di pericolosità. In particolare, dal 1969 il reparto B era stato utilizzato per la fabbricazione del 2,4,5-triclorofenolo (TCF), una sostanza impiegata principalmente per la preparazione di alcuni tipi di erbicidi e per la produzione di esaclorofene, un antibatterico utilizzato in alcuni tipi di cosmetici, di saponette e di disinfettanti6.

Tuttavia, per una parte della popolazione di Seveso, per alcuni medici e giornalisti di cronaca locale, l’Icmesa non solo inquinava da anni e avvelenava gli operai e la gente, ma produceva sostanze pericolose non solo per la cosmesi. La fuoriuscita di diossina sarebbe stata una prova.

L’8 agosto 1976 Pierpaolo Bollani intervista (per il Tempo) Fritz Möri, l’ingegnere che aveva progettato il reattore per la produzione di triclorofenolo. Nelle scettiche parole del tecnico di Losanna rispetto all’eventualità di formazione di TCDD nel reattore “a meno di compiere errori madornali», viene presentata la possibilità «che all’Icmesa in quel reattore, La Roche producesse in realtà altre cose»7. Lo stesso direttore tecnico della Givaudan Jörg Sambeth ha ammesso che l’Icmesa era una dreck fabric, una fabbrica sporca, dove l'impianto veniva fatto funzionare al di sotto di qualsiasi standard ragionevole di sicurezza e dove si portavano avanti due linee di produzione: una feriale, più pulita e probabilmente destinata a usi civili, e una festiva, realizzata a temperature critiche, vicine al punto di combustione e di sintesi della diossina.

Anche se non sapremo mai con certezza che cosa producesse l’Icmesa, quanto è accaduto a Seveso pone delle domande attuali in merito al rapporto tra la produzione industriale – e la correlata ricerca scientifica – e l’ambiente, la salute, la popolazione e la guerra. In un intervento contenuto nell’autoproduzione Topo Seveso. Produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita8 viene considerata la sottile separazione tra le «produzioni chimiche per la guerra o per la pace»9 perché «è durante la pace che si prepara e si arma la guerra: sono le stesse aziende che producono materiale da imballaggio, detergenti, disinfettanti, che poi preparano anche la base per le bombe e le altre armi chimiche, così come sono le aziende che producono le pentole e le travi per la costruzione che confezionano anche le armi. E le aziende che producono altro, non direttamente implicabile con la guerra, possono sempre investire nel mercato delle armi, più o meno legalmente»10.

Si tratta di una questione centrale per il momento storico in cui viviamo e che toglie il velo di Maya dalla ricerca scientifica intesa come attività neutrale e ab-solutas. Ci fa interrogare sui programmi di ricerca e applicazione delle istituzioni in cui studiamo e dei luoghi in cui lavoriamo. L’evento straordinario di Seveso amministrato secondo le regole dell’ordinaria amministrazione – come Laura Conti ha evidenziato nel reportage Visto da Seveso11 – ci parla ancora oggi delle relazioni che intercorrono tra industria, tecnologia e ambiente. I termini con cui l’evento del 10 luglio 1976 è stato definito sono numerosi e carichi di significati e orizzonti culturali e politici diversi tra loro: incidente, tragedia, fatto, disastro, catastrofe, crimine.

A mio avviso, il concetto di catastrofe, liberato dal particolare uso linguistico sevesino, è utile per focalizzare alcuni nodi della questione. La catastrofe genera paradossi e campi di forze contradditorie. I conflitti nati dall’evento catastrofico hanno interessato la concezione di progresso, di scienza, di salute e di ambiente di un intero Paese. L’agone tra le differenti e opposte prospettive di trattare l’evento straordinario dell’Icmesa ha avuto luogo nelle strade di Seveso, negli ufficiali comunali e nelle aule del Parlamento, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, negli articoli di giornale e nelle fabbriche e ha svelato le forze, gli interessi e le asimmetrie di potere strutturali italiane e globali.

Le catastrofi sono totalizzanti e per questo come scrive Mara Benadusi sono «oggetti antropologici e filosofici “buoni da pensare”»12 . Ponendosi come cesure che differenziano un prima e un dopo temporale e spaziale, investono ogni sfera della vita umana e sociale. Le traiettorie biografiche individuali e collettive sono state catapultate dalla dimensione locale a quella globale. Sandro, un abitante di Seveso incontrato durante il mio lavoro di ricerca etnografico nelle zone del disastro dell’Icmesa, riesce a trasmettere la repentinità dell’evento eccezionale ed emergenziale nella sua uscita dalla dimensione locale della Brianza.

«Questa cosa è sicuramente stata molto importante dal punto di vista comportamentale della popolazione perché eri passato da una emerito sconosciuto a uno stronzo che sta inquinando il mondo. Non so come dire […] È una cosa che magari c'è chissà da quante altre parti. Ma finché non succede il fattaccio, nessuno lo viene a sapere»13.

Bruno Biffi, Cielo VIII, 2013. Ossidazione e acido diretto su lastra di ferro, 280x600mm

Il crimine di pace – come lo ha definito Giulio A. Maccacaro, ha sconvolto le comunità di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno14. In quei territori approdo delle migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, l’economia di tipo artigianale, l’identità di campanile e i valori del lavoro e della religiosità cristiana cattolica furono sconquassate dalla nube del 10 luglio 1976 e dalle lotte sociali e politiche che seguirono. Bruno Ziglioli scrive:

«La popolazione si riaggregò e si divise su basi completamente diverse: tra gli evacuati della zona A che desideravano rientrare nelle proprie abitazioni e gli abitanti rimasti che temevano di essere esposti al veleno; tra coloro che erano sistemati al residence di Bruzzano (cioè vicino a casa) e quelli che invece erano alloggiati al motel Agip di Assago (molto più distante); tra chi tendeva a minimizzare e chi a enfatizzare il pericolo; tra chi era favorevole all’incenerimento in loco del terreno contaminato e chi invece chiedeva di sperimentare tecniche di decontaminazione meno invasive. Vi furono manifestazioni, proteste, blocchi stradali; gli sfollati rioccuparono a più riprese le case nella zona ad alto inquinamento. Come spesso accade in queste situazioni, si innescò anche la caccia al capro espiatorio: i lavoratori dell’Icmesa, e con loro i sindacati, furono additati da una parte degli abitanti come corresponsabili dell’incidente, perché avrebbero conosciuto e taciuto i rischi del processo produttivo e le scarse condizioni di sicurezza dello stabilimento»15 .

Tuttavia, furono proprio gli operai a interrompere la produzione della fabbrica perché dalla direzione non era arrivata nessuna indicazione chiara. Amedeo Argiuolo, operaio dell’Icmesa, ha raccontato in una recente intervista per il Giorno che «all’inizio, l’azienda tentò di minimizzare. Il reparto B era chiuso, e noi ci chiedevamo perché…i responsabili dell’Icmesa dicevano che era solo un piccolo incidente, che era tutto sotto controllo, anzi aveva mandato qualcuno di noi, solo guanti e mascherine, a fare carotaggi: dicevano che avevano mandato tutti ai laboratori di Basilea e ci avrebbero fatto sapere.  Secondo loro, bisognava continuare a lavorare»16.

Il Consiglio di fabbrica dell’Icmesa ha avuto un ruolo fondamentale per fare emergere la pericolosità dell’accaduto non solo all’interno della fabbrica, ma per la popolazione e il territorio circostante. Alberto, abitante delle zone interessate dal disastro, ricorda che: «Qui [a Seveso] era nato anche un comitato. Si chiamava Comitato tecnico scientifico popolare17 e metteva insieme sia il Consiglio di fabbrica dell’Icmesa che ha avuto un ruolo importante in questa vicenda sia gli scienziati»18 .

Il CTSP con il medico G. A. Maccacaro e la rivista Sapere hanno messo in discussione la “scienza ufficiale” che procedeva a tentoni e in un primo momento aveva tentato di insabbiare e poi di minimizzare l’accaduto. Il CTSP fece un lavoro di informazione e controinformazione teso a prendere sul serio l’evento sevesino, rompendo «i giorni del silenzio» di Icmesa-Givaudan-Hoffman-La Roche e delle istituzioni italiane. Infatti, durante l’Assemblea Popolare del 28 luglio 1976, organizzata dalla Federazione Unitaria di CGIL-CISL-UIL nelle scuole medie di Cesano Maderno, i membri del CTSP  hanno segnalato prima di qualsiasi altro organo ufficiale l’avvelenamento della popolazione e del territorio da parte dell’Icmesa. Gli operai del Consiglio di fabbrica che decisero di chiudere la stabilimento per avere maggiore chiarezza erano una parte fondamentale e attiva nel Comitato. Tra le pagine del numero di Sapere interamente dedicato a Seveso, il Gruppo P.I.A.19  dopo aver ricostruito il ciclo produttivo dell’Icmesa nei minimi dettagli conclude interrogando la differenza tra due tipi antagonisti di “cultura e di progresso” e di scienza. Il Gruppo P.I.A. scrive:

«Chi è spinto dalla molla del profitto e adotta la regola che i guadagni sono privati, mentre le perdite sono pubbliche, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della Scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dal profitto e dal potere individuali od oligarchici»20 .

Quanto accaduto a Seveso ha aperto la scatola nera in cui sono inestricabilmente imbricate una concezione della scienza neutrale tesa al progresso scientifico-tecnologico, una visione lineare del progresso e delle scelte economiche e politico-istituzionali. Lo scoppio della scatola-reattore ha portato tutte queste questioni e i loro intrecci fuori dalla fabbrica e ha dato vita a un ciclo di lotte per la salute e per l’ambiente di ampia portata, ancora oggi attuali.

 


NOTE

1          Intervista condotta dall’autrice a Maria, abitante della frazione Baruccana di Seveso, in data 14 settembre 2023.

2          Intervista condotta dall’autrice a Massimiliano Fratter in data 28 luglio 2023. M. Fratter è nato a Seveso, è il responsabile del progetto Il ponte della memoria, ha lavorato all’Ufficio Ecologia del Comune di Seveso e ora è impiegato nella biblioteca dell’omonima città.

3          I riferimenti agli odori insistenti, all’inquinamento del torrente Certesa e alla moria di animali che pascolavano nei prati vicini all’Icmesa possono essere rintracciati nei documenti degli archivi comunali di Meda e di Seveso. Per una loro interpretazione storica, vedi M. Fratter, Seveso. Memorie da sotto il bosco, Milano, Auditorium Edizioni, 2006, pp. 53-75.

4          Il giornalista Daniele Bianchessi nel 1995 ha pubblicato il suo primo libro d’inchiesta intitolato La fabbrica dei profumi. La prima edizione è stata pubblicata da Baldini & Castoldi. Il volume è stato rieditato nel 2016 da Jaca Book.

5          Per un maggiore approfondimento sulla storia e la composizione societaria vedi Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione conclusiva, Commissione parlamentare di inchiesta sulla fuga di sostanze tossiche avvenuta il 10 luglio 1976 nello stabilimento ICMESA e sui rischi potenziali per la salute e per l’ambiente derivanti da attività industriali, VII legislatura, doc, XXIII, n. 6, 25 luglio 1978, p. 58; B. Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 16.

6          Per avere una conoscenza più approfondita dei prodotti dell’Icmesa vedi Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione conclusiva, op. cit., pp. 62-64.

7          P. Bollani, Io fabbrico morte. Ecco cosa è successo, «Tempo», 8 agosto 1976, in Giunta regionale della Lombardia, Stampa italiana. 10 luglio 1976, Seveso il dramma della nube tossica, n. 1, p. 24. Per ulteriori informazioni sulla possibili produzioni per la guerra chimica, vedi C. Risé, C. Cederna, V. Bettini, Dietro l’Icmesa in Icmesa. Una rapina di salute, di lavoro e di territorio, Milano, Mazzotta, 1976, pp. 58-69; M. Aloisi [et al.] (a cura di), Seveso. La guerra chimica in Italia, «Quaderni di Triveneto», n. 1, Verona, Bertani, 1976.

8          Aa. Vv., Topo Seveso. Produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita, Milano, Autoproduzione, 2007. Vedi, http://tuttaunaltrastoria.info/wp-content/uploads/2022/05/POIDIMANI-Atti_Topo_Seveso.pdf.

9           Ivi, p. 12.

10         Ivi, pp. 11-12.

11         L. Conti, Visto da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Milano, Feltrinelli, 1976.

12         M. Benadusi, Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo, Applicazione. Un’introduzione in Antropologia Pubblica, Vol. 1 n. 1-2, 2015, p. 41.

13         Intervista condotta dall’autrice  a Sandro, abitante della frazione Baruccana di Seveso, condotta nel mese di settembre 2023.

14         Si tratta dei quattro comuni della Brianza maggiormente contaminati.

15         B. Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 46.

16         https://www.ilgiorno.it/monza-brianza/cronaca/operaio-icmesa-fuoriuscita-diossina-0de68f02

17         Da questo punto, userò l’acronimo CTSP per riferirmi al Comitato tecnico scientifico popolare.

18         Intervista condotta dall’autrice ad Alberto presso la sede del Circolo Legambiente – Laura Conti in data 22 agosto 2023. Quando si è verificato il disastro, Alberto aveva 15 anni e andava a scuola a Cesano Maderno.

19         È il Gruppo di prevenzione e di igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza.

20         Gruppo P.I.A, B. Mazza, V. Scatturin, ICMESA: come e perché in Seveso. Un crimine di pace, «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, p. 34.


Immagine analogica ed Intelligenza Artificiale - Due mondi apparentemente distanti

Questo post nasce dal seminario tenuto da Diego Randazzo, artista visivo, sul tema “Immagine analogica ed Intelligenza Artificiale. Due mondi apparentemente distanti”.

Randazzo ha illustrato alcune funzionalità dei sistemi dialogativi di Intelligenza Artificiale text-to-image come, ad esempio Dall-E o Midjourney, nella generazione di immagini partendo da altre immagini o da una serie di specifiche dettate su una linea di comando. 

Queste peculiari funzionalità della IA generativa permettono ad un artista di far generare ai sistemi delle immagini su cui poi intervenire per creare lavori del tutto personali. Oppure, dà la possibilità di generare anche immagini ibride, come, a titolo di esempio, quella di una tavolata che meticci l’Ultima cena di Leonardo da Vinci e le tavole da pranzo di Vanessa Beecroft.

Questi di seguito sono esempi generati in tempo reale durante il seminario:

 

 

 

 

Comando:

Ultima cena di Leonardo, tavola da pranzo Vanessa Beecroft 

 

 

 

 

 

 

 

Comando:

Ultima cena di Leonardo e Les Demoiselles D'Avignon di Picasso 

 

 

 

 

 

Comando:

Un Pollock ed un Mondrian

 

 

 

La narrazione e gli esempi hanno suscitato una serie di interrogativi sulle nozioni caratteristiche del discorso artistico, in termini epistemologici e filosofici, interrogativi a cui Randazzo risponde in questo articolo.

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Paolo Bottazzini: La possibilità di derivare da regole statistiche un'istanza visiva o sonora, la rende un'opera d'arte o un modello possibile per un'opera d’arte?

Diego: Io parlo spesso di reference, di approccio critico e di didattica. Questi fanno parte dell’opera d’arte, ma sono solo alcuni degli elementi che dovrebbero scaturire da un’opera d’arte.
Parallelamente si può tranquillamente dichiarare, che la generazione di un’immagine con l’AI è l’inizio di un processo che può portare alla creazione di un’opera, ma non è esaustivo.
E penso - scusate la provocazione - che questo discorso valga per tutti quegli strumenti che nel corso della storia sono stati designati come strumenti a disposizione dell’artista: matita, pennello, sgorbia, scalpello, macchina fotografica, cinepresa, videocamera, computer.
Infine, le regole statistiche a cui accennate, non possono essere controllate dall’utente che, forzatamente, si deve accontentare dei risultati ricevuti. Questo mi ricorda un po’ il gioco di matrice surrealista denominato Cadaveri squisiti (cadavre exquis), a mio parere contributo fondamentale alla definizione di collage. Non stiamo in fondo parlando di questo? Associazioni e combinazioni testuali e visive, spesso incontrollate e provenienti da fonti diverse.
Quindi la descrizione che suggerite mi sembra appropriata, aggiungendo un trattino: l’AI come modello-strumento possibile per creare un'opera d’arte. Ci sono diverse modalità di utilizzo dell’AI per creare immagini; tra tutte credo sia molto affascinante la funzione che permette di espandere un ‘immagine preesistente, caricata nel software di AI.
Il ‘riempimento generativo’, lo considero una sorta di strumento conoscitivo, che a partire da qualcosa di personale (es. un’immagine dell’autore) permette di amplificare ed espandere l’universo visivo dell’autore stesso.
Riporto qui di seguito uno dei primi esperimenti realizzati con Dall-E a partire da alcune fotografie realizzate in pellicola medio formato (estratte del mio progetto Illusorie visioni d’argento del 2018). La prima immagine è lo scatto originale, le successive sono le espansioni generate con l’AI. E’ evidente come il rapporto che si instaura tra originale e rielaborazione AI è molto significativo, c’è una forte connessione tra due mondi che tendenzialmente teniamo separati. Qui, la concretezza del manufatto analogico e l’intangibilità dell’immagine sintetica si toccano e diventano un tutt’uno.

 


Lenti d’ingrandimento in ottone, becher, pellicole di piccolo e medio formato, macchine fotografiche analogiche… a questi oggetti/soggetti provenienti dal mondo proto-fotografico sono accostati altri della natura più varia (frutta e verdura imprecisata, gelatina alla menta, piante, droni, congegni elettrici, elettronici, digitali ed immagini olografiche) disposti su improbabili limbi e tavoli da lavoro componendo un eterogeneo repertorio di composizioni panoramiche. Ad una prima occhiata ci paiono dei set fotografici che strizzano l’occhio all’ambito still-life, ma avvicinando lo sguardo qualcosa non funziona. Il progetto "Elegie dell'impossibile verosimile" è un’inedita opera meta-fotografica, non ancora pubblicata, che esplora la relazione tra mondo analogico e digitale. Ogni composizione è creata a partire da uno scatto in medio-formato e successivamente combinata con altre immagini generate con il software di intelligenza artificiale Dall-E 2, che analizza un testo descrittivo e genera immagini corrispondenti. Il lavoro sperimentale affronta il tema dell'autenticità delle immagini nella contemporaneità, considerando la macchina come una possibilità di estensione poetica dell'immaginario dell’artista.

Di seguito, alcune immagini tratte da Illusorie visioni d’argento (2018), dove la prima immagine è lo scatto originale, eseguito con pellicola fotografica di medio formato, e la seconda è l'espansione dell’immagine realizzata con Dall-E. 

 

 

 

 


 

Non a caso, nel corso del seminario di Controversie, puntavo proprio a delineare un percorso di analisi che intravede nell’immagine analogica l’antecedente concettuale della funzione generativa nell’AI.
Il mio punto di vista, sicuramente non allineato alle maggiori correnti di pensiero sul fenomeno, vuole dimostrare che alcune tendenze visuali attuali dell’AI (la dimensione distopica, disturbante, deformante da una parte e la tendenza del vintage dall’altra) non solo sono vicine, ma sono in perfetta continuità con il mondo analogico e protofotografico.
Ecco alcune linee guida, per punti, che sono state oggetto di discussione durante il seminario:
L’immagine analogica ed un certo uso dell’Intelligenza Artificiale hanno in comune la sorpresa, il mistero e la casualità. Sorpresa e mistero erano già presenti nei congegni del Precinema (le vedute ottiche dei Mondi Nuovi, vetrini e lanterne magiche, fenachistoscopi, zootropi, mutoscopi e diorami).
La sorpresa negli occhi dello spettatore ottocentesco di fronte ai congegni del Precinema (molti di questi basati sulla persistenza retinica) in qualche modo è simile a quella del pubblico di oggi davanti ad un’immagine elaborata con l’AI; stiamo parlando di quello spaesamento prodotto da qualcosa di nuovo che non riusciamo a cogliere completamente, ma che ci affascina e ci rapisce.
La casualità e l’attesa: non è possibile conoscere a priori il risultato di un’elaborazione di immagine fatta con l’AI, come non è possibile conoscere istantaneamente il risultato di uno scatto analogico. Bisogna scontrarsi con l’attesa, la perizia e la pazienza. Di fronte ad un’interrogazione posta ad un software di AI non abbiamo ancora un controllo totale sul risultato, dobbiamo affidarci al mix di combinazioni proposte dall’algoritmo.
SORPRESA: Da un’interrogazione non sappiamo cosa aspettarci, e molto spesso il risultato che ci viene restituito è sorprendente (sia in termini negativi che positivi).
ATTESA: La risposta dell’AI non è istantanea. L’attesa contribuisce a creare mistero e aspettativa.
CASUALITÀ E UNICITÀ’: un mix di combinazioni algoritmiche formula un risultato che è sempre unico. A parità di richieste, se ripetiamo più volte la stessa interrogazione, il risultato sarà sempre diverso.
Nell’AI si possono notare alcuni filoni narrativi e formali:

    • contenuti surreali, distopici ed iperrealisti (il loro successo si basa sull’effetto wow)
    • riproposizione formale del ‘vintage’: la grana della pellicola, certo utilizzo del bianco e nero oppure l’uso di filtri che richiamano specifiche pellicole fotografiche; ma in realtà questo recupero dei codici visivi del mondo analogico era già presente sin dagli albori di Instagram (il formato quadrato 6x6, l’uso delle cornici con perforazioni tipiche della pellicola e dei filtri ecc.)

Questo secondo filone è senza dubbio il più interessante e meno omologato del primo, perché si origina da un sentimento comune che possiamo chiamare nostalgia. Con due discriminanti:
i giovanissimi utilizzano questi codici in maniera inconsapevole, per inseguire la tendenza del momento. Nel nostro caso la tendenza del vintage. (filtri, cornici fotografiche, oggetti d’epoca o moderni, tecnologie obsolescenti)
I meno giovani, gli studiosi, gli appassionati, vivono questa nostalgia per una tecnologia artigianale, che basa il suo funzionamento sui meccanismi interni presenti nelle macchine: ’‘Il come è fatto’’. Si tratta di tecnologie (es. macchine fotografiche analogiche) che nella loro intrinseca ideazione e costruzione permettevano un utilizzo consapevole. Banalmente, per inserire la pellicola nella macchina analogica bisogna aprirla. Questo aspetto tecnico si inseriva in un processo di consapevolezza tecnologica e didattica, che i successivi sviluppi del digitale hanno progressivamente oscurato. Pensiamo a tutte le apparecchiature digitali che non ci permettono di essere esplorate al loro interno.

 


FLAT/ Perché un algoritmo elimina l’uomo da una stanza piena di solitudine? 36 istantanee Fuji instax square, 2021 Courtesy Galleria ADD-art e l’artista

 

 

 

 

Opera vincitrice dell’Yicca art Prize, segnalazione al Combat Prize e menzione speciale della giuria al Talent Prize

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per approfondimenti leggi qui: http://www.diegorandazzo.com/portfolio/immagini-simili-primo-studio/


 

Redazione di Controversie: Diego, secondo te, dove va a finire l'autorialità, quando l'opera è generata da un sistema informatico intelligente? chi è l'autore? chi ha "chiesto" un'immagine generata secondo alcuni criteri o caratteri, oppure la macchina stessa?

Diego: È una compartecipazione di attività tecniche e di pensiero, ma la firma deve essere necessariamente quella dell’artista. Autore è chi interroga e, soprattutto, rielabora e reinterpreta secondo la propria attitudine il risultato dell’Intelligenza artificiale. La macchina fa le veci del ricercatore: mette insieme e fonde tantissimi dati e, in ultima istanza, restituisce un ‘abstract grezzo’. Quell’abstract non può rimanere tale. Deve essere decostruito e manipolato dall’artista per assurgere ad opera d’arte. L’AI, come processo generativo, è quella cosa che sta in mezzo, tra il pensiero, l’idea iniziale e l’opera finale. Tutto qui. Non è semplificazione, è come dovrebbe essere inteso il ruolo dell’intelligenza artificiale nella creazione.
Il termine manipolazione, che ho appena usato, non è casuale. Innanzitutto, mi sta a cuore, perché ogni mio lavoro, che si origini da una fonte personale o da un’immagine pescata sul web, è soggetto, da sempre, ad una stratificazione di gesti ed elaborazioni, con conseguenti risemantizzazioni della sorgente iniziale, tanto da diventare una parte della mia cifra stilistica. Inoltre, manipolare si rifà proprio a quella manualità, che per me è anche ‘manualità nel pensare’, fondamentale per una trascrizione unica ed originale del processo creativo.
Il lavoro di elaborazione dell’AI implica una fusione di elementi eterogenei. Perciò nei risultati ottenuti prende forma una commistione di stili e soggetti diversi, tutti fusi assieme, tanto da creare delle aberrazioni inusuali nelle immagini. Questo processo di fusione, che spesso dà luogo ad una spaccatura di senso con l’interrogazione dell’utente, l’intelligenza artificiale lo gestisce molto bene. E l’aspetto forse più interessante è che l’algoritmo non rivela mai le sue fonti (il grande database da cui attinge), rimane misterioso a differenza degli artisti che, con un pizzico di orgoglio, snocciolano le proprie reference, le motivazioni ed i maestri ispiratori.
Siamo meno bravi nel farlo (fondere fonti diverse per creare qualcosa di nuovo) perché puntualmente inciampiamo nel facile citazionismo. E questo spesso ci riduce a degli abili saccheggiatori di pensieri ed immagini.
Forse demandare la ricerca delle proprie reference all’AI e affidarsi, in qualche modo, alla vertigine del caso, senza che il nostro ego si manifesti prepotentemente, può essere la nuova sfida della ricerca contemporanea. Mantenendo però fede alle premesse iniziali: quell’abstract fornito dall’AI non costituirà mai l’opera definitiva, bensì l’inizio di un processo dialettico.

Redazione di Controversie: Esistono ancora il concetto di unicità e di originalità di un'opera, quando il lavoro viene fatto "a macchina”?

Diego: Riprendendo in parte la prima risposta, non vedo ancora un pericolo per l’unicità dell’opera d’arte. Se, l’avvento del digitale (dalla fotografia digitale alle immagini virtuali) non ha messo in crisi questo principio non credo che sarà l’AI a metterlo in discussione. L’autorialità, se c’è e sappiamo riconoscerla, emergerà sempre sui cloni, sulle copie, sull’omologato. Ci vengono dati quotidianamente gli indizi per farlo e come nel caos dell’infodemia, bisogna aguzzare un po’ la vista per riconoscere il vero dalla finzione. Il nocciolo della questione secondo me è proprio questo: vogliamo veramente conoscere la verità? O forse preferiamo farci confondere da qualcosa che sembra apparentemente più attraente e coinvolgente? Bisogna sforzarsi, per carpire la verità, c’è poco da fare.
Non vorrei sembrare ripetitivo, ma ci tengo a sottolineare un concetto a mio parere fondamentale: la creazione di un’opera attraverso l’AI non può fermarsi al primo risultato ottenuto con un’interrogazione ad un’app. In concreto, stampare un’immagine realizzata con l’Ai ed esporla così com’è non la considero un’operazione artistica, a meno che non ci sia una dichiarata provocazione concettuale nel farlo (e nel caso andrebbe comunque motivata). L’AI è uno strumento, e come il pennello o la macchina fotografica, deve essere sottoposto ad uno sforzo di pensiero critico e di tecniche che lo rendano non solo utile, ma significativo per l’essere umano.
Una cosa interessante, che è anche il motivo fondante ed il filo conduttore del mio seminario: i risultati dell’AI non sono mai ripetibili… perciò i miei studi sul fenomeno mi hanno portato ad equipararlo al mondo dell’immagine analogica. Si tratta, infatti, di un mix di combinazioni algoritmiche che formula sempre un risultato unico. A parità di richieste - se ripetiamo più volte la stessa interrogazione - il risultato sarà sempre diverso. Quindi, se vogliamo, l’unicità dei risultati è un aspetto che ancora di più avvicina il mondo dell’AI a quello analogico e al concetto classico di Manufatto.


 

DISPOSITIVI / 3
15X16X3 cm,
bassorilievo in Gres, pellicola Instax wide,
elaborazione con Ai, 2023
Courtesy Galleria ADD-art e l’artista
Opera in mostra da Indigo Art Gallery a Perugia fino al 17 febbraio 2024 

 

 

DISPOSITIVI / 3, dettaglio

 

 

 

 


Ovviamente il tema dell’unicità è molto ampio, profondo e stratificato, ma se ci soffermiamo sul mero aspetto tecnico, non si può non affermare che l’AI, ad oggi,
produca sempre dei risultati diversi a parità di domande.
E questo è un fatto abbastanza dirimente, soprattutto se lo inseriamo nel solco della produzione artistica.

 

 

 

 

 


Gestione sostenibile delle foreste - Una risposta concreta ai problemi climatici e ambientali

Il cambiamento climatico è un dato oggettivo. 

La comunità scientifica discute sulle cause e sulle conseguenze, ma non sul fatto che le temperature sul nostro pianeta siano più calde di 30, 50 o 100 anni fa. E anche sulle cause, sono pochissimi gli scienziati che negano l’effetto delle attività umane. La discussione rimane invece aperta rispetto al peso percentuale di queste attività sul fenomeno del riscaldamento globale.

Quindi, possiamo dire che il modello di sviluppo industriale novecentesco è stato largamente responsabile di questa situazione. Parliamo essenzialmente dell’emissione di gas a “effetto serra” che impediscono al calore di disperdersi oltre l’atmosfera. Si tratta dei gas emessi dal bruciare di combustibili fossili per uso industriale, soprattutto per la mobilità e delle emissioni principalmente di CO2, ma anche di metano e protossido di azoto.

Un ulteriore aspetto da non dimenticare è il popolamento degli esseri umani sulla Terra. Non va dimenticato che gli abitanti della Terra sono passati da circa 1,5 miliardi a inizio Novecento a circa 8 miliardi oggi. Otto miliardi di persone che devono nutrirsi e che generano attività economiche, quindi consumano energia. Se il problema sono i combustibili fossili, da tempo sono noti dei possibili rimedi. In primis, la sostituzione del petrolio e dei suoi derivati con energie pulite rinnovabili (sole, vento, maree), l’efficientamento dei processi produttivi e poi il formidabile potere delle foreste.

Ma se la sostituzione del fossile non è affatto semplice perché il bisogno di energia è in continua crescita, sulle foreste il discorso diventa molto interessante. Le foreste sono un formidabile strumento di stoccaggio della CO2, di regolazione del ciclo delle piogge e di conservazione della biodiversità.

Il ricercatore inglese Thomas Crowther dell’ETH di Zurigo stima che attualmente sulla Terra ci siano circa 3.000 miliardi di alberi (!!) ma che 12.000 anni fa fossero più del doppio. Egli stima anche che sul nostro pianeta ci sia spazio per piantare circa 1.000 miliardi di nuovi alberi, che darebbero un contributo enorme a risolvere il problema dei gas serra. Basti pensare che recenti studi hanno constatato che mediamente un albero ad alto fusto assorbe ogni anno 25 kg di CO2 (dato prudenziale, fonte: Ecotree). Naturalmente una piantumazione così massiccia è impossibile all’atto pratico, ma questi dati dovrebbero far capire che la strada della salvaguardia delle foreste esistenti e dell’implementazione di nuove è imprescindibile per risolvere il problema del riscaldamento globale.

Invece è triste constatare come, tutt’ora, il saldo tra deforestazione e nuove foreste sia largamente negativo con circa 10 milioni di ettari persi ogni anno e con la sola eccezione virtuosa dell’Europa che ha 158 milioni di ettari di terreni boschivi, in aumento (Fonte: Rapporto Foreste Legambiente 2023).

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Dopo aver brevemente contestualizzato il problema e l’argomento di discussione, ora veniamo al tema dei crediti di carbonioSi tratta di titoli negoziabili che sono stati concepiti a seguito degli accordi del Protocollo di Kyoto. I crediti di carbonio sono strumenti finanziari introdotti con la finalità di rendere conveniente economicamente la salvaguardia delle foreste. Ogni credito equivale allo stoccaggio di una tonnellata di CO2. Di fatto le imprese possono acquistare questi titoli (su base obbligata per le grandi aziende molto energivore, su base volontaria per le altre) che corrispondono a una gestione forestale virtuosa delle grandi aree forestali africane, sudamericane e asiatiche. 

I titoli di credito di carbonio possono essere emessi da consorzi che si sono dotati di un Piano di Gestione Forestale Sostenibile certificatoIn queste aree vi è quindi la certezza (non sempre reale, temiamo) che la foresta sarà protetta e ci saranno piani di tagli programmati per aumentare comunque la massa legnosa e l’assorbimento netto di CO2. Tra regolamenti complessi, processi non sempre trasparenti e mille polemiche, in poco come di vent’anni di vita, il meccanismo dei crediti di carbonio non è stato un pieno successo, dal momento che non ha bloccato la deforestazione. Tuttavia, ha generato delle ricadute positive soprattutto con il concetto di Gestione Forestale Sostenibile.

Ma veniamo all’Italia. Nel nostro Paese le foreste godono di buona salute (forse contrariamente al sentire comune). In Italia ci sono circa 11 milioni di ettari di boschi e foreste, e questo dato è in continuo aumento dal dopoguerra (Fonte: Ministero dell’Agricoltura, Rapporto sullo stato delle foreste in Italia). 

Grafico di Forest Sisef

 

Nel nostro Paese si sta diffondendo anche la pratica delle Gestione Forestale Sostenibile: i proprietari di grandi boschi (siano enti pubblici o privati) possono costruire questi piani grazie al lavoro di dottori forestali specializzati che pianificano il monitoraggio accurato dello stato della zona interessata e definiscono  le pratiche per salvaguardare il bosco e per incrementare la sua capacità di protezione della biodiversità e dello stoccaggio di CO2. I piani di GFS devono essere costruiti secondo standard di enti riconosciuti. In Italia operano le filiali nazionali dei due maggiori enti internazionali: FSC (Forest Stewardship Council) e PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification).

Qual è il vantaggio di certificare i boschi? Chi vuol vendere legno a scopi industriali ha un plus se ha la certificazione, perché, sempre più, l’industria e i regolamenti richiedono legname certificato. D'altro canto, anche chi vuole promuovere l’uso di boschi per escursioni avrà un vantaggio nel dire che il suo è un bosco gestito in modo virtuoso.

Infine si stanno muovendo dei meccanismi economici. La GFS può generare dei crediti di sostenibilità, ovvero titoli che riconoscono una corretta gestione dei servizi della foresta (ecosistemici). Si tratta di un mercato ancora largamente agli inizi, che il legislatore, sia nazionale che europeo, sta facendo molta fatica a definire e regolamentare. Tuttavia oggi nel nostro Paese esistono consorzi che hanno ottenuto il via libera dagli enti certificatori per emettere crediti di sostenibilità, sulla base di una verifica di un beneficio dei servizi ecosistemici, segnatamente un calcolo dell’addizionalità nello stoccaggio di CO2 del bosco interessato.

Il prezzo di questi titoli oggi non si basa su criteri oggettivi ed è dato da accordi privati tra ente venditore e acquirenti. 

Ci si chiederà: che vantaggio acquisisce chi acquista questi titoli? Si tratta di un vantaggio esclusivamente reputazionale. Un’azienda che acquista questi titoli racconta di aver investito nella salute dei boschi e delle comunità che li abitano. 

È auspicabile che tutto questo sia solo l’inizio di una crescita di consapevolezza dell’importanza del ruolo di boschi e foreste. Se così sarà, questa consapevolezza potrà innestare un circolo virtuoso tra aziende finanziatrici e sistema naturale a beneficio di ambiente, territorio e comunità.