Sull’incommensurabilità e incomunicabilità dei paradigmi - Il caso dell’omeopatia

Si discute da decenni di omeopatia (dal greco omeios, simile e pathos, malattia). Un approccio alla cura, basato sulla legge dei simili, che prevede l'utilizzo di un rimedio (omeopatico) che produce nella persona sana gli stessi effetti (sintomi) della malattia che si vuole curare. Pertanto, il rimedio è simile alla malattia nella manifestazione dei sintomi che produce, ma di specie od origine diversa, cioè non è derivato o composto dello stesso agente che causa la malattia.
È certamente un’idea contro-intuitiva; e quindi non facile da accettare.
Ma anche il principio su cui sono nate le vaccinazioni era fortemente contro-intuitivo: inoculare un agente patogeno in un corpo, al fine di prevenire la malattia causata dallo stesso agente patogeno, all’inizio era considerata un’assurdità. Di solito se voglio non ammalarmi, cerco di stare a distanza dall’agente patogeno; non certamente lo introduco intenzionalmente nel mio corpo. Eppure sappiamo che con le vaccinazioni si fa proprio questo.

Le origini

Il medico tedesco Samuel C.F. Hahnemann (1755 – 1843) arrivò alla definizione di questo metodo di cura attraverso l’intuizione, la sperimentazione (dapprima della corteccia di China, da cui si estrae il chinino con cui si curava la malaria, e poi di altri rimedi su sé stesso, i suoi familiari e i suoi allievi, e raccogliendo una grande quantità di esempi clinici) e l'osservazione dei meccanismi della biologia, analizzando ciò che accade quando nello stesso soggetto si incontrano due malattie che hanno sintomi completamente diversi (malattie dissimili), oppure malattie con sintomi comuni (malattie simili).

Per evitare gli effetti collaterali delle medicine o rimedi omeopatici, Hahnemann ridusse sempre di più il loro dosaggio, arrivando così a dosi estremamente basse. Di fronte all'obiezione che dosi così piccole non potevano più essere efficaci, egli ribatté che l'efficacia curativa delle sostanze poteva essere enormemente aumentata tramite un processo chiamato "dinamizzazione", consistente nello scuotere (succussione) ripetutamente il prodotto.

Esistono oggi numerosi studi fisico-chimici che spiegano il meccanismo d'azione di tali diluizioni. Il problema rimane la riproducibilità di tali esperimenti, data l'instabilità di queste diluizioni (si veda Associazione Lycopodium 2019, Introduzione all’omeopatia).

Ai giorni nostri

Nel 1988 venne per la prima volta avanzata l'ipotesi della memoria elettromagnetica dell'acqua da parte dell’immunologo francese Jacques Benveniste (1935-2004). Quella che allora sembrava un'eresia, oggi è documentata da diversi gruppi di ricerca:

«In pratica, l'acqua ha un comportamento dinamico e le molecole sono in grado di formare dei reticoli assimilabili a un filo conduttore. Quando l'acqua viene posta in un campo magnetico le molecole si mettono ad oscillare all'unisono in modo coerente, o come si dice, in fase. La frequenza di oscillazione può essere trasmessa ai liquidi biologici» (Associazione Lycopodium 2019, Introduzione all’omeopatia).

In altre parole, l'acqua si comporta non come un materiale inerte e passivo, bensì dinamico nella trasmissione di una informazione energetica. Ogni stimolo fisico-chimico, e quindi anche la sostanza del rimedio, ha una certa frequenza di oscillazione che viene trasmessa all'acqua della soluzione, la quale continua a vibrare con la stessa frequenza anche quando la sostanza non è più presente.

«Il processo di agitazione del liquido (succussione) avrebbe proprio il compito di ‘riattivare la memoria dell'acqua’ ad ogni passaggio di diluizione, cioè 'rienergizzarla' con la stessa frequenza corrispondente alla sostanza iniziale. L'acqua fungerebbe così da messaggero, trasferendo poi la frequenza di oscillazione, ovvero l'informazione, ai tessuti e ai liquidi biologici dell'organismo che l'assume.

Sono state fatte altre ipotesi sul meccanismo di trasferimento dell'informazione da parte dell'acqua (tramite degli aggregati di molecole particolari, cavi al centro, che incorporerebbero così la molecola di soluto, i cosiddetti cluster) e la possibilità di una verifica sperimentale non sembra più così lontana.

La ricerca di base in Omeopatia ha ormai permesso di ritenere che il rimedio omeopatico sia dotato di una specificità nei confronti di sistemi 'recettoriali' dell'organismo. Il segnale veicolato dalla soluzione viene riconosciuto specificamente dall'organismo bersaglio ed elaborato in modo da indurre un'azione positiva su tutto il sistema. Si tratterebbe comunque di un'attività biologica in presenza di tracce di molecole, tanto che è stato coniato il termine di biologia metamolecolare, e l'informazione veicolata differisce da quella conosciuta dalla biologia e dalla farmacologia classiche» (Associazione Lycopodium 2019,Introduzione all’omeopatia).

Sappiamo che queste affermazioni sono ritenute prive di fondamento e di solide basi sperimentali da parte di molta medicina, biologia e farmacologia (più aperti sembrano invece i fisici teorici). Le diluizioni vengono considerate “acqua fresca” e gli effetti benefici dell’omeopatia come un “effetto placebo” dell’empatia, ascolto, attenzione, cura che il/la medico omeopata mette nella relazione con il/la paziente.

Una difficile mediazione

Come se ne esce? È possibile trovare una mediazione? Sì e no.

Sì,

nel senso che una mediazione è da tempo già praticata, anche in diverse strutture pubbliche del Sistema Sanitario Nazionale (ad esempio la Regione Toscana, sin dal 1996), dove la “medicina integrativa” o TCIM (Traditional, Complementary and Integrative Medicine) mostra tutta la sua utilità ed efficacia.

La TCIM, per come l’ha definita l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità),

“è la dimora di numerose concezioni e sistemi medici, come la medicina tradizionale cinese, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la medicina antroposofica e le medicine tradizionali locali. La caratteristica della TCIM è quella di integrare le cure convenzionali, farmacologiche e non, con altri approcci basati sull’esperienza artistica, sul movimento, sulle cure infermieristiche, sul colloquio biografico. Metodi diversi che si appellano all’attivazione del paziente e che risvegliano risorse latenti di guarigione molto differenti fra loro. Inoltre, la TCIM si propone strategie di ricerca che tengano conto della salute globale, per esempio sviluppando approcci di cura rivolti alle malattie croniche o a contribuire ad affrontare problemi collettivi come quello della resistenza antimicrobica (Kienle et al. 2019; Baars et al. 2019). Questi sistemi medici sono orientati primariamente alla qualità della vita, ma non si limitano ad essa; inoltre, si rivolgono non solo al paziente, ma anche ai curanti, per la prevenzione del burnout (Ben Arye et al. 2021).

No,

perché quello a cui assistiamo è uno scontro tra paradigmi, nel senso di Kuhn (1962, La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche).

Ogni paradigma ha i suoi assunti (taciti e/o espliciti), le sue premesse epistemologiche, le sue convenzioni metodologiche relative a quali siano i metodi adatti e cosa rappresenti un prova o un’evidenza.

Approssimando non poco, perché sia all’interno della medicina allopatica che in quella omeopatica esistono molte differenze, sfumature e sensibilità, attualmente nella medicina allopatica è dominante l’approccio basato sull’evidenza (EBM), che al di là dell’altisonante uso del termine ‘evidenza’, con esso intende «l'uso di stime matematiche del rischio di benefici e danni, derivate da ricerche di alta qualità su campioni di popolazione, per informare il processo decisionale clinico nelle fasi di indagine diagnostica o la gestione di singoli pazienti» (Greenhalgh 2010, How To Read a Paper: The Basics of Evidence-Based Medicine, p. 1). In altre parole, le evidenze sono risultanze statistiche derivate da studi a doppio cieco su campioni di popolazione. Conosciamo però (oltre ai pregi, anche) tutti i limiti di questo metodo. Pensiamo soltanto che non pochi farmaci sono stati ritirati dal mercato (ad es. dietilstilbestrolo, talidomìde, vioxx) dopo aver passato rigorosissimi (almeno si spera) studi statistici a doppio cieco.

Come mai? Le ragioni sono tante (e servirebbe un post apposito per elencarle). Una per tutte è che ognuno di noi è fatto in modo diverso; siamo portatori di una biologia individuale o personalizzata (Lock, 1995; Lock & Nguyen, 2010; Merz, 2021). Per cui l’interazione tra una biologia individuale e un farmaco standardizzato produce un numero enorme di possibili esiti; ancor di più, quando l’interazione è tra due individualità, come ad esempio un individuo e un cibo, oppure una malattia.

Al contrario l’omeopatia è una practice-based medicine, cioè si basa sullo studio e l’osservazione di un paziente considerato nella sua individualità anziché rappresentatività. Su quello che accade concretamente a lui o lei, e solo a lui o lei. Sulla sua interazione con l’agente patogeno e la malattia, che è un’interazione del tutto particolare, specifica, personale. Su studi clinici (pochi casi) anziché statistici (molti casi).

Due diversi (e incomunicabili) concetti di empiria

Ci troviamo di fronte a due empirie diverse e (forse) incomunicabili. La prima (quella statistica), per cui i casi singoli non contano nulla. L’altra (quella clinica) per cui contano solo i casi individuali.

Ed è su questi differenti concetti di cosa sia ‘empirico’ che si è (anche) giocato lo scontro sulle terapie anti-Covid: da una parte molti medici di base (peraltro pienamente appartenenti alla medicina convenzionale, che nulla o poco avevano a che fare con l’omeopatia) che proponevano terapie precoci anti-covid basate su farmaci convenzionali (come ketoprofene, ibuprofene a basse dosi, morniflumato, aspirina, nimesulide, corticosteroidi, eparine, idrossiclorochina, Azitromicina, Paxlovid, Remdesivir, ecc.); dall’altra gli ospedalieri e la gran parte dei ricercatori/scienziati che sostenevano che bisognava aspettare gli esiti degli studi standardizzati prima proporre una terapia, perché non credevano alle esperienze empiriche (limitate nel numero di casi) dei medici di base. E così, in attesa di un bel studio a doppio cieco, le persone morivano senza assistenza… La cecità del doppio cieco, potremmo dire.

Spesso chi critica l’omeopatia sostiene che i suoi asserti non hanno superato i requisiti di riproducibilità di un esperimento, che insieme alla verificabilità di una ipotesi di lavoro, rappresentano i due pilastri fondamentali della ricerca scientifica. Chi ragiona in questo modo, però, dimentica che l’esperimento è solo una fra i (tanti) metodi scientifici che le scienze dispongono per validare le scoperte e le conoscenze. Anche perché l’esperimento (oltre agli innumerevoli pregi) è un metodo con molti limiti, capace di controllare soltanto un numero molto esiguo di variabili, che per funzionare deve necessariamente ridurre la complessità dell’interazione tra un individuo e il mondo circostante. In questo sta la straordinaria potenza dell’esperimento, ma al contempo la sua povertà intellettuale e culturale. L’esperimento non è capace di padroneggiare la complessità. Ha bisogno di ridurre…

Un’altra accusa, complementare alla precedente, che si muove all’omeopatia è che non è in grado di mostrare e replicare i meccanismi chimici su cui si basano le sue ipotesi. Oppure che affida le spiegazioni sul funzionamento molecolare dei rimedi omeopatici a future “magnifiche sorti e progressive” della fisica quantistica; mentre le spiegazioni noi le vorremmo ora, e non domani. In altri termini, si vedono gli effetti di un trattamento omeopatico, ma non si evidenziano chiaramente le cause, i meccanismi. Accusa speculare a quella che, invece, gli omeopati rivolgono ai farmaci convenzionali: intervengono sugli effetti e non sulle cause (innescando, a volte, anche reazioni avverse).

Anche in questo caso, l’impossibilità di comunicare e comprendersi è alta. Eppure pretendere di capire tutto e subito (di un farmaco, di un trattamento, di una teoria) è segno di scarsa apertura al possibile, all’inconoscibile, all’ignoto, al mistero…

L’aspirina

L’ASPIRIN è acido acetilsalicilico, della famiglia dei salicilati. Erodoto (V sec a.C.) nelle Storie narra di un popolo stranamente più resistente di altri alle comuni malattie, che era solito mangiare le foglie di salice. Ippocrate (V sec a.C.) descrisse una polvere amara estratta dalla corteccia del salice che era utile per alleviare mal di testa, febbre, dolori muscolari, reumatismi e brividi. Un rimedio simile è citato anche dai Sumeri, dagli antichi Egizi e dagli Assiri. Anche i nativi americani lo conoscevano e lo usavano.

Nell'era moderna è stato il reverendo Edward Stone, nel 1757, a scoprire gli effetti benefici della corteccia di salice. Sei anni dopo scrisse una famosa lettera alla Royal Society in cui giustificava in modo razionale l'utilizzo della sostanza contro le febbri.

La sostanza attiva dell'estratto di corteccia del salice bianco (Salix alba), chiamato salicina, fu isolata in cristalli nel 1828 da Johann A. Buchner e in seguito da Henri Leroux, un farmacista francese, e da Raffaele Piria, un chimico calabrese emigrato a Parigi, che diede al composto il nome attuale (acide salicylique).
Nel 1860 Hermann Kolbe e i suoi studenti dell'Università di Marburgo riuscirono a sintetizzare l'acido salicilico, immettendolo poi sul mercato nel 1874 a un prezzo dieci volte inferiore all'acido estratto dalla salicina, e già nel 1876 un gruppo di scienziati tedeschi, tra cui Franz Stricker e Ludwig Riess, pubblicarono su The Lancet gli esiti delle loro terapie basate sulla somministrazione di sei grammi di salicilati al giorno.

Il meccanismo di azione dell'aspirina fu conosciuto in dettaglio solamente nel 1970, dopo millenni di suo uso e 150 anni dal suo isolamento chimico.

Perché escludere che potrebbe accadere lo stesso anche per i preparati omeopatici?

In conclusione: l’omeopatia è una scienza?

Qualche tempo fa, Ioannidis (2005), medico ed epidemiologo greco e statunitense, uno dei più importanti scienziati nel suo campo, pubblicò un articolo dal titolo destabilizzante: Why most published research findings are false. Dieci anni più tardi, l’11 aprile 2015, Richard Horton (dal 1995 capo-redattore de The Lancet, forse la rivista medica più importante del settore) pubblicò una sorta di editoriale dal titolo “What is medicine’s 5 sigma?“, in cui afferma senza mezzi termini:

gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, potrebbe semplicemente essere falsa (untrue). Afflitta da studi con campioni di piccole dimensioni, effetti risibili, analisi esplorative non valide e evidenti conflitti di interesse, insieme a un'ossessione nel perseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza ha preso una svolta verso il buio. Come ha detto uno degli addetti ai lavori "metodi scadenti ottengono risultati".

Se adottiamo una visione realistica (lontana da una versione idealista o normativo/prescrittiva della scienza, purtroppo propria di molta filosofia della scienza) dobbiamo accettare che le situazioni descritte da Ioannidis e Horton sono… scienza. Che ci piaccia o no.

E se queste pratiche (incerte, dubbie, difettose) sono a tutti gli effetti attività scientifiche, perché non accogliere e considerare anche l’omeopatia una scienza?

Chi lo vieta? Soltanto un’ottusità di sapore neopositivista…

 


Bibliografia

Baars EW, Zoen EB, Breitkreuz T, Martin D, Matthes H, von Schoen-Angerer T, Soldner G, Vagedes J, van Wietmarschen H, Patijn O, Willcox M, von Flotow P, Teut M, von Ammon K, Thangavelu M, Wolf U, Hummelsberger J, Nicolai T, Hartemann P, Szőke H, McIntyre M, van der Werf ET, Huber R. (2019) The Contribution of Complementary and Alternative Medicine to Reduce Antibiotic Use: A Narrative Review of Health Concepts, Prevention, and Treatment Strategies. Evid Based Complement Alternat Med. Feb 3: 5365608.

Ben-Arye E, Zohar S, Keshet Y, Gressel O, Samuels N, Eden A, Vagedes J, Kassem S. (2021), Sensing the lightness: a narrative analysis of an integrative medicine program for healthcare providers in the COVID-19 department. Support Care Cancer, Sept. 15:1–8.

Gobo, G, Campo E. e Portalupi E. (2023), A Systemic Approach to Health and Disease: The Interaction of Individuals, Medicines, Cultures and Environment”, in Medicine: A Science in the Middle, Alessandro Pingitore and Alfonso Maurizio Iacono (eds.), Berlin: Springer, pp. 39-53.

Kienle GS, Ben-Arye E, Berger B, Cuadrado Nahum C, Falkenberg T, Kapócs G, Kiene H, Martin D, Wolf U, Szöke H. (2019), Contributing to Global Health: Development of a Consensus-Based Whole Systems Research Strategy for Anthroposophic Medicine. Evid Based Complement Alternat Med. Nov 12: 3706143.

Lock M. (1995). Encounters with aging: Mythologies of menopause in Japan and North America, Berkeley (California): University of California Press.

Lock M., & Nguyen V-K. (2010). An anthropology of biomedicine, Hoboken (New Jersey): Wiley-Blackwell.

Merz S. (2021). Global trials, local bodies: Negotiating difference and sameness in Indian for-profit clinical trials. Science, Technology, & Human Values, 46(4), 882-905.


L'anima - Origini antiche di un concetto impopolare

I confini dell’anima non riuscirai a trovarli per quanto tu percorra le sue vie.

Eraclito, frammento 45

Premessa

Accennavamo poco tempo fa agli eventi interiori che possono aver luogo nel teatro dell’anima. L’idea di anima non è molto popolare oggi, parlarne crea uno strano imbarazzo. Affascinati dalle immagini della Risonanza Magnetica funzionale, molti neuroscienziati tendono a considerare la coscienza umana come un prodotto del cervello. Un processo nervoso, talmente automatico, che si può tranquillamente escludere il libero arbitrio: qualcuno ha proposto addirittura di abolire il Diritto Penale; se uccido o rubo, non dipende da me, ma da tempeste ormonali e intrecci di neuroni.

Un noto divulgatore scientifico annovera tra i possibili sostituti dell’anima persino il DNA. Dico subito che il DNA non è più attivo e vitale della tastiera di un pianoforte: funziona a seconda di chi lo suona, ma se non viene stimolato rimane inerte. È solo un replicatore di mattoni dell’organismo.

In quanto al rapporto del cervello con la coscienza, è piuttosto difficile spiegare come un ammasso spugnoso di neuroni possa creare la Divina Commedia o la Nona di Beethoven. Un geniale filosofo australiano, David Chalmers, ha giustamente distinto ciò che esce dallo scoppiettio e dalle immagini delle macchine che indagano il cervello, dall’universo insondabile e soggettivo della coscienza umana: il primo è il “problema facile”, il secondo, quello “difficile”.

In effetti, la difficoltà di penetrare nei meandri della coscienza dipende primariamente dal fatto che pretendiamo di conoscere un’entità soggettiva con strumenti oggettivi. Possiamo allora indagare la coscienza tramite la coscienza? Beh, la psicoanalisi si è formata attorno a questa idea e, se la psiche non esiste, allora la psicoanalisi è la scienza del nulla.

Ma come è nata l’idea della psiche ? Le radici del nostro pensiero sono greche. Chiediamolo ai greci.

L’anima

Proiettiamoci in un lontano passato, in un carcere di Atene. Socrate ha lealmente accettato la sentenza di morte, ingiustamente stabilita dal tribunale della città. Gli amici che lo assistono sono disperati: la tua grande anima svanirà nel vento! Ma Socrate risponde con parole inaudite: l’anima non muore con il corpo e io resterò là dove sono sempre stato (Platone, Fedone).

Siamo nell’anno 399 del tempo precristiano e stiamo assistendo alla nascita dell’idea dell’anima. La cultura greca fino a quel tempo poggia sui grandi Misteri di Eleusi: dopo la morte l’anima si disperde nel vento, del resto ànemos (“άνεμος”) vuol dire proprio vento. Quel che resta di questo alito si rifugia in un’ombra pallida, prigioniera dell’Ade, il buio regno di Persefone. Non c’è vita oltre la morte: nella cupa discesa di Ulisse nell’Ade, l’ombra di Achille si dispera: «Vorrei essere un servo da vivo, piuttosto che regnare sui morti» (Omero, Odissea: XI, 489).

Noi ci serviamo delle parole per comunicare, ma guardate come il senso di un vocabolo può radicalmente mutare significato ed esperienza interiore. Fino a questo istante dell’anno 399 la parola pneuma (πνεύμα) indica un alito di vento, gli allievi di Socrate temono che il maestro morendo si dissolva come un soffio nel vento.

Ma da qui in poi πνεύμα diventa lo spirito immortale: qualche secolo più tardi, Giovanni il discepolo di Gesù, dirà al nobile fariseo Nicodemo: «Lo Spirito [Το πνεύμα] soffia dove vuole e tu odi la sua voce, ma non sai da dove viene, né dove va» (III, 8).

Socrate non si basa sulle dottrine di Eleusi, è un iniziato dei Misteri orfici del nord, portatori dell’idea rivoluzionaria dell’immortalità dell’anima. «Resterò dove sono anche dopo la morte» è la parafrasi di un pensiero ricorrente per Socrate, che può attardarsi a meditare anche prima di varcare la soglia di un amico che lo ha invitato a un festeggiamento (Platone, Il Simposio).

Il filosofo si interroga costantemente sul continuo mutare del mondo: «Perché ogni cosa si genera, perché si corrompe e perché esiste» ( Platone, Fedone 96 A, 9). Svela così il suo percorso di meditazione, che lo conduce a indagare a fondo le pieghe nascoste della coscienza, la sua logica, la sua mutevolezza, la sua incoerenza. L’anima assomiglia a una biga alata, trainata da due cavalli che vorrebbero seguire direzioni opposte (Platone, Fedro, 246).

Socrate non si limita a rivelare che l’anima è immortale, ma ne tratteggia le qualità: la capacità di apprendere, di ricordare, di formare concetti; descrive le sue lotte interiori, insegna come curarla. «Prendersi cura dell’anima» è un invito che il filosofo ripete spesso: proprio come ci prendiamo cura degli occhi fisici, perché possano vedere correttamente, così dobbiamo prenderci cura dell’occhio dell’anima, perché sensazioni ed emozioni siano chiare.

Per forza non crediamo più all’esistenza dell’anima: stiamo guardando dalla parte opposta! Gli occhi fisici non vedono la natura delle cose, ma solo il loro aspetto esteriore. Sono le emozioni che possono percepire oltre, ma devono essere pure, non mescolate con quelle del corpo. La rivelazione del Simposio è tutta qui, nel saper ascoltare intensamente, “eroticamente”, ma rinunciando al fisico.

La vera essenza delle cose non si manifesta in pensieri, ma in immagini; queste, però, sono sfumate, indefinite. Ecco che nell’attività del pensiero sorge la dimensione del dubbio. Socrate dice di «non sapere», ma è ricco di immagini. Questo è il motore della ricerca scientifica.

La prossima volta parleremo dei dubbi di Newton.


Ripensare le Scienze - Considerazioni a partire da "Il Golem"

La scienza sembra essere o tutta buona o tutta cattiva»[1]; così inizia Il Golem, saggio pubblicato nel 1993 dai sociologi Harry Collins e Trevor Pinch.

Il testo prende le distanze da una visione strettamente dicotomica dell’impresa scientifica che ne considera solo gli estremi (o tutta buona o tutta cattiva) e ne dà un giudizio etico.

Ma allora, addentrandoci nella trama e dei casi raccolti da Trevor e Pinch, viene da chiedersi: che cos’è la scienza?

Secondo gli autori, essa è un golem: «un umanoide creato dall’uomo con acqua e argilla, con incantesimi e magie»[2]; esso ha una forza formidabile, ma è goffo e addirittura pericoloso: «se non è sottoposto a controllo, un golem può distruggere i suoi padri con la sua smisurata energia»[3]. Scopo di questo libro, allora, è di mostrare come la scienza sia a tutti gli effetti un golem, quindi non un’entità necessariamente malvagia ma una creatura che, nonostante la sua forza, si rivela impacciata e maldestra.

E se la scienza è incerta, quando la vediamo zoppicare? Quando mostra le sue fragilità?

Per esempio, quando in una ricerca ci sono talmente tante variabili da confondere gli scienziati stessi, oppure quando si discute sull’eventuale ripetibilità di un esperimento. Queste considerazioni (e molte altre) fanno riflettere sulle difficoltà della Scienza Golem, la quale non sempre si muove con passo sicuro, traballa, oscilla tra “tentativi ed errori”, crea controversie, anche se «alla fine, […], è la comunità scientifica […] che porta ordine in questo caos, trasformando le goffe capriole della Scienza Golem collettiva in un pulito e ordinato mito scientifico. Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo: l’unico peccato è non riconoscere che è sempre così»[4].

In aggiunta, cosa dovremmo dire di chi lavora in ambiti scientifici? L’idea espressa da Collins e Pinch afferma che «gli scienziati non sono né dèi né ciarlatani; sono semplicemente specialisti […]. La loro conoscenza non è più perfetta di quella di economisti, ministri per la sanità, […], avvocati, […], agenti di viaggi, meccanici di automobili, o idraulici»[5].

Quindi, se la scienza – e le scienze – sono imprese umane perché umani sono coloro che ci lavorano, è indubbio che risentono anch’esse di influssi storici, culturali o sociali, oltre a variabili personali come le preferenze, le idiosincrasie o le idee dei singoli scienziati e scienziate. Pertanto, la Scienza Golem incespica, inciampa e cade perché noi la costruiamo e la mettiamo all’opera: «l’“errore” umano va diritto verso il cuore della scienza, perché il cuore è fatto dell’attività umana»[6]. I suoi errori sono dunque i nostri errori.

Come viene affermato ne Il Golem, «è impossibile separare la scienza dalla società, eppure rimanendo legati all’idea che esistono due distinte sfere di attività si contribuisce a creare quell’immagine autoritaria della scienza così familiare alla maggior parte di noi. Perché tali sfere appaiono distinte?»[7].

Forse perché abbiamo affidato alle scienze un compito troppo difficile: essere le divinità di tempi secolarizzati, essere le entità sacre di una postmoderna forma di politeismo; quando il mondo occidentale ha perso i propri capisaldi, le scienze hanno dovuto rappresentare la certezza.

Quanto peso è stato messo sulle loro spalle!

Abbiamo compiuto un enorme salto ontologico e, così facendo, abbiamo occultato il lato umano che c’è, c’è sempre stato e sempre ci sarà nell’impresa scientifica. Rendendola una divinità laica, l’abbiamo infatti sottratta a quel dominio che è il nostro dominio, ci siamo alienati, con le distorsioni e le illogicità che questa azione comporta. Quindi, non consideriamo le scienze come giganti ultraterreni ma come tessere di un insieme più ampio, che ci riguarda in modo diretto.

Dopo tutte queste considerazioni, dovremmo quindi sfiduciare la scienza? Assolutamente no!

Non dobbiamo scoraggiarla, ma contestualizzarla e capirla, comprendendo che le scienze sono costruzioni umane e, come tali, abitano in quello spazio fluido, di transizione, che è lo stesso delle nostre vite. Uno spazio effimero, contingente, sempre in movimento; può capitare infatti che le certezze di oggi non siano quelle di ieri e non saranno quelle di domani, tanto nelle nostre esistenze quanto nelle scienze. Ed è proprio questo che rende l’avventura scientifica così affascinante.

Scopo del blog Controversie è proprio quello di ripensare le scienze. Più nello specifico, ribaltare quell’idea scientista, di matrice neo-positivista, che le considera ingenuamente come depositarie di un sapere assoluto e come base di tutta la conoscenza.

Invece, è molto meglio (e più plausibile) considerare le scienze all’interno di un ambiente reale e concreto, facendole scendere dal piedistallo sul quale sono state poste affinché dialoghino con altre imprese umane come, per esempio, società, storia, arte o filosofia. È così che creeremo vera cultura: non isolando i saperi, ma mostrando che sono tutti immersi in una rete in cui comunicano, si confrontano e si influenzano, arricchendosi reciprocamente. Per imparare, si deve dialogare e, per dialogare, ci si deve incontrare. E non si incontrerà proprio nessuno, se si resta sul piedistallo.

Impareremo così ad amare la scienza, «ad amare il gigante maldestro per quello che è»[8].


NOTE

[1] Harry Collins, Trevor Pinch, Il Golem. Tutto quello che dovremmo sapere sulla scienza, trad. it, Bari, Edizioni Dedalo, 1995, p. 11.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 12.

[4] Ivi, p. 196.

[5] Ivi, p. 188.

[6] Ivi, p. 184.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 13.


Newton, Leibniz e il calcolo infinitesimale - uno scontro tra visioni del mondo

Per Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) non furono erette statue o monumenti. Pochi, anzi pochissimi, parteciparono al suo funerale, benché fosse stato per tutta la vita vicino agli alti vertici dei nascenti stati nazione, e sebbene per decenni avesse svolto l’incarico di storico dell’allora casata di Hannover. Dieci anni più tardi, la morte di Isaac Newton (1642-1726) sortì tutt’altra reazione: al funerale presenziò persino Voltaire, poco più che trentenne, e che di lì a pochi anni avrebbe scritto gli Elements de la philosophie di Newton (1738), diventando, al ritorno dal suo esilio in Inghilterra,1 il principale divulgatore del pensiero newtoniano sul continente. Cinquant’anni più tardi l’architetto francese Étienne-Louis Boullée (1728-1799) realizzò in onore di Newton i sei disegni del fantaprogetto del cenotafio. Con lobbiettivo di «donare a Newton limmortale luogo di riposo, il paradiso»,2 Boullée progettò una colossale cupola alta circa centocinquanta metri adagiata su di una zona dappoggio adornata dalberi perfettamente allineati, impossibile da realizzare tecnicamente.

L'accesa rivalità tra due dei più eminenti filosofi e scienziati del proprio tempo è stata spesso semplificata e ridimensionata a una mera contesa. Il che ha comportato la riduzione del problema al solo tentativo di stabilire chi dei due sia giunto per primo alla formalizzazione del calcolo infinitesimale. La morte e i funerali a volte bastano per dichiarare un vinto e un vincitore. Lo scontro tra nazioni – e la correlata tendenza a prendere posizione da una parte o dell’altra dello stretto di Dover, e dunque a stare con Parigi o con Londra – ha ulteriormente alimentato tali opposizioni riduttive.

Dopo più di un millennio in cui il calcolo della superficie e del perimetro di figure curve si era accontentato dell’antico metodo d’esaustione, e dopo i primi vagiti di una nuova matematica che aveva preso forza a cavallo tra il sedicesimo e diciassettesimo secolo, Leibniz e Newton rappresentarono per l’Europa d’allora gli inventori dell’ analisi infinitesimale che permetteva, a partire dalla curva, il calcolo dell’ «equazione tangente e il valore della sua curvatura in un punto generico, […] la tangente, massimi e minimi»3 tramite ciò che Leibniz chiamò «rapporto differenziale» e Newton «calcolo delle flussioni».

In effetti, tra i due ci fu una contesa circa la paternità del calcolo. Il filosofo di Lipsia sosteneva di aver sviluppato il fulcro delle proprie scoperte ben prima dell’inglese, mentre quest’ultimo affermava di aver consegnato al tedesco una lettera, passata tra le mani dell’amico in comune Oldenburg, dove per la prima volta dimostrava le proprie scoperte.4 Mentre Newton aveva sviluppato il grosso della propria teoria già nel 1669, Leibniz iniziò ad ottenere dei risultati non prima del 1672, pubblicando le prime scoperte nel 1676. Nel 1711, per dirimere la disputa, fu chiamata in causa come parte giudicante la Royal Society, di cui lo stesso Newton era Barone dal 1715. Ne risultarono il Commercium epistolicum (1715) e la Recensio Libri, quest’ultima pubblicata anonimamente ma scritta con ogni probabilità dal fisico inglese, e in cui si condannava definitivamente Leibniz sotto gli occhi di tutto il mondo accademico del tempo.5 Newton, si diceva, aveva inventato il nuovo calcolo infinitesimale.

Riannodiamo i fili, la disputa tra Leibniz e Newton fu, semplicemente, una contesa? La sociologia delle scienze e delle tecnologie ci ha recentemente fornito un’interpretazione originale del concetto di controversia.6 Rivolgiamolo dunque al nostro caso. Ciò che accadde tra Leibniz e Newton fu una contesa o una controversia? Cambia qualcosa?

L’indicazione di Enrico Giusti è rivelatrice: «chi legge i documenti relativi alla disputa fra Leibniz e Newton circa l’invenzione del calcolo infinitesimale, […] ha l’impressione che si stia svolgendo un dialogo tra sordi».7 Non tanto perché i due non si siano voluti ascoltare, il che trasformerebbe nuovamente l’evento in una contesa. Per quanto comunichino e si attacchino, essi non paiono disquisire del medesimo oggetto. Il problema non è certo che «non si è mai capaci di parlare della stessa cosa». Piuttosto, ricostruendo il nugolo di considerazioni intorno al «calcolo infinitesimale» nell’uno e nell’altro autore, e al di là della disputa ufficiale, non ci troviamo più davanti a due oggetti simili che, in fondo, sono conciliabili. Simili - scrive sempre Giusti - «ma irrimediabilmente diversi».8

Se a parità di calcolo le due formulazioni restituiscono risultati pratici sostanzialmente sovrapponibili - dunque a parità di esattezza matematica - concettualmente sono in aspro contrasto, se non addirittura incompatibili. Finché ci si focalizza soltanto nello stabilire la paternità del calcolo, tutta la questione appare come una semplice contesa. Questa peculiarità del concetto di controversia è stata forse sottostimata: perché non ci sia controversia, basta non porsi la questione. Altro lato della medaglia: perché non ci sia controversia, basta ridurla a una contesa, alla morte dell’uno e al trionfo dell’altro, come d’altronde si premurò di fare l’esegesi illuminista che aveva infervorato Voltaire e Boullée, e che avrebbe spinto Immanuel Kant (1724-1804) a essere molto più newtoniano che leibniziano.

Ciò detto, rimane da risolvere il problema inverso. Supposto che una controversia possa differire da una contesa, bisognerà stabilire il senso di questa differenza. Se tra Leibniz e Newton avvenne una contesa, ci riduciamo a determinare storicamente chi è giunto per primo a ciò che chiamiamo «analisi infinitesimale». Il modo della relazione è già definito, ciò che resta da stabilire è unicamente la priorità cronologica di un attore sull’altro. Se, diversamente, tra i due ci fu una controversia - e qui ci viene in soccorso l’etimo della parola - ciò che v’è da stabilire è proprio il modo della relazione dell’uno e dell’altro: in una contesa ci si muove verso l’oggetto comune, in una controversia il moto è appunto «contrario» l’uno rispetto all’altro, per «versi» differenti. Ecco una seconda peculiarità: se il concetto di contesa è fin troppo generalizzabile - tutto può diventare contesa -, il concetto di controversia sembra perdere qualcosa di vitale laddove dovesse venire generalizzato. Una relazione già definita, come quella di contesa, è ipso facto generalizzabile. Al contrario, laddove si debba ancora definire il modo della relazione, non c’è alcunché di generalizzabile, se non tramite una semplice accezione negativa. Infatti, propriamente parlando, che si dica che due elementi sono in rapporto di controversia, è affermare che non è definito il modo di quel rapporto di direzione contraria dell’uno rispetto all’altro.

Torniamo dunque ai contendenti. Dei due, Leibniz è meno ambiguo sul posizionamento generale del calcolo all’interno del suo più ampio sistema di pensiero. Come hanno mostrato Gilles Deleuze ne La piega (1988) e Michel Serres nei due tomi de Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques (1968), il rapporto differenziale dx/dy in combinazione con alcune considerazioni circa le serie convergenti, ossia tendenti verso un limite comune, rappresentano due principi ineliminabili dell’intero sistema matematico-metafisico del filosofo tedesco. A tal proposito, Ludovico Geymonat ha sostenuto, nel suo corso sulla Storia e filosofia del calcolo infinitesimale (1946-1947), che «mentre in Newton l’invenzione del calcolo infinitesimale fu dettata da preoccupazione essenzialmente tecniche, in Leibniz invece essa scaturì da considerazioni essenzialmente filosofiche».9 Il tedesco immaginava un fuscum subnigrum animato e in constante variazione. L’ha ripetuto Michel Serres nel Parassita, «il rumore di fondo è il fondo dell’essere».10 La monade è imperscrutabile qualora non considerassimo ciò che ha rimarcato Deleuze, se «le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire»,11 come recita la famosa VII proposizione de La monadologia, è perché tra monade e mondo c’è un rapporto di rispecchiamento reso possibile proprio dalle considerazioni di Leibniz circa il rapporto differenziale. Il calcolo di Leibniz - scrive sempre Deleuze - è inseparabile da un’anima: se il mondo è una serie infinitamente infinita di cui la monade è l’inversa, la coscienza funziona per integrazione di rapporti differenziali. Se un’infinita schiera di piccole percezioni inconsce si integrano tra di loro - ossia entrano in un rapporto differenziale convergente - divengono coscienti.12 Di conseguenza la soglia della coscienza non è l’effetto di un rapporto differenziale, bensì è il rapporto stesso, un «ripiegamento del mondo», una piega, o come annotava Leibniz nei Principi razionali della natura e della grazia «se fosse possibile dispiegare tutte le pieghe dell’anima, le quali tuttavia si esplicano in maniera evidente solo nel tempo, si potrebbe conoscere la bellezza dell’universo in ciascuna anima. Infatti ogni percezione distinta dell’anima contiene uninfinità di percezioni confuse che implicano tutto luniverso».13

Che dire di Newton? L’analisi infinitesimale ha una posizione ambigua. Se da un lato Newton sostenne sempre la finalità pratica del calcolo, e dunque la parziale estraneità dello strumento rispetto al reale, una ricognizione di ciò che scrisse in fatto di teologia e fisica[14] - caso paradigmatico è lo scolio generale che chiude i Principia[15] - rivela, in fondo, il tentativo di armonizzare la realtà stessa a quello che doveva essere un semplice «calcolo pratico». Insomma, diversamente da come si è ripetuto fino allo sfinimento, e a partire dalle accuse di oscurantismo e filosofeggiamenti che Newton mosse a Leibniz,16 chi dei due sia stato il vero empirico è tutto da vedere. Per riassumere nel modo più contratto la differenza sostanziale, si potrebbe affermare che mentre il sistema di Leibniz, inteso come immagine del reale, postula l’infinito in actu, implicato, come ragion sufficiente del sistema stesso, la teoria di Newton, rappresentazione della realtà-pratica, ostracizza l’infinito a favore dell’atomo e delle quantità «infinitamente piccole» che, tuttavia, rimangono «estese».17 Quello dell’inglese è un calcolo di flussioni, ossia dei movimenti di un punto per grandezze infinitamente piccole. E tuttavia, quest’ultimo sarà obbligato a reintrodurre ciò che aveva precedentemente escluso, così che il materialismo atomistico affermato con tanta dissimulata leggiadria venga calmierato reintroducendo un finalismo che ne giustifichi lunità di base. Lo chiamerà Dio poiché, come confidava in una lettera a Bentley, «il materialismo granulare non potrebbe in alcun modo ‘trasformare il caos in un cosmo’». Per Leibniz, contrariamente, l’atomismo scevro d’infinito è una semplice «debolezza dell’immaginazione»:18 dev’esserci, in fondo, un punto animato. Come ha scritto il sociologo Gabriel Tarde in Monadologia e sociologia (1895), «perfino nella parte solida, se la conoscessimo meglio, dovremmo eliminare quasi tutto. E così di eliminazione in eliminazione, dove arriveremo mai, se non al punto geometrico, cioè al punto nullo, a meno che questo punto non sia un centro?»[19]


NOTE

1 Com’è noto la figura di Pangloss, maestro filosofico di Candido, è una parodia del pensiero di Leibniz. Come si legge in “Candido o l’ottimismo” in Voltaire, Vol. II, tr. it. P. Angioletti, e M. Grasso, RBA, Milano 2017, p. 216, Pangloss, insegnante di «metafisico-teologo-comolonigologia provava in modo ammirevole come non potesse esistere effetto senza causa, e come nel migliore dei mondi possibili il castello del monsignor barone fosse il più bello dei castelli, e la signora la migliore di tutte le baronesse».

2 Da Etienne-Louis Boullée, Architecture: Essai sur l’Art , trans. Sheila de Vallée, in Helen Rosenau, Boullée and Visionary Architecture (London: 1976) in P. L. Ricci, Lux et tenebris: Etienne-Louis Boulé’s Cenotaph for Sir Isaac Newton.

3 L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico. scientifico, Vol. II, Garzanti editore, Milano 1970, p. 378.

4 Si veda il recentemente ripubblicato Disputa Leibniz-Newton sull’analisi, a cura di G. Cantelli, Bollati Boringhieri editore, Torino 2023.

5 Per approfondire la successione cronologica degli eventi si veda A. R. Hall, Philosophers at war, Cambridge University Press, 2009.

6 H. M. Collins, T. Pinch, Il Golem (1993), Dedalo, Bari 1995.

7 E. Giusti, “Introduzione”, in Disputa Leibniz-Newton sull’analisi, cit., XIII

8 Ibidem.

9 L. Geymonat, Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, Bollati Boringhieri editore, Torino 2008, p. 141.

10 M. Serres, Il Parassita (1980), Mimesis edizioni, Milano 2022, p. 77.

[11] G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani editore, Milano 2017, §7, p. 61.

12 Per il rapporto tra coscienza e inconscio differenziale si veda il capitolo VII, “La percezione nelle pieghe” in G. Deleuze, La piega (1988), Giulio Einaudi editore, Torino 2004, pp. 139-162.

13 Ivi, “Principi razionali della natura e della grazia”, §13, p. 51.

14 Si veda I. Newton, Trattato sull’apocalisse, a cura di M. Mamiani, Bollati Boringhieri editore, Torino 2022.

15 Geymonat ne parla in Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. II, Garzanti editore, Milano 1970, p. 524.

16 Scriveva Newton ne lo Scolio, «infatti qualsiasi cosa non si riesca a dedurre dai fenomeni, deve chiamarsi ipotesi; e tutte le ipotesi, siano esse della metafisica, della fisica, della meccanica o delle qualità occulte, non hanno posto nella filosofia sperimentale». Nelle battute conclusive della recensio libri si legge “Si deve senza dubbio ammettere che fra Newton e Leibniz sussiste un enorme differenza nel modo di trattare la filosofia. Il primo procedere solo fin dove lo conduce levidenza dei fenomeni e delle esperienze, [...] il secondo è tutto imbevuto di ipotesi, che avanza non già come proposizioni da doversi esaminare con lesperienza, ma che verità cui si deve credere a occhi chiusi”, Cantelli, p. 80.

17 Scrive Newton nello Scolio generale dei Principia, riportato da L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. II, cit., p. 522, «l’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, a mobilità e la forza d’inerzia delle part del tutto nasce dall’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, dalla mobilità e dalla forza d’inerzia delle parti: di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e Dre, impenetrabili, mobili, e dotate di forza d’inerzia. E questo è il fondamento dell’intera filosofia»

18 G. W. Leibniz, Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanza e dellunione tra lanima e il corpo” (1695), in Scritti Filosofici, vol. I, cit., p. 190, §3.

19 G. Tarde, Tarde, Monadologia e sociologia (1895), tr. it. F. Domenicali, Ombre corte, Verona, 2013, p. 45.


Storie segrete delle scienze - Un viaggio tra scienze, umano e società

Storie segrete della scienza è il titolo intrigante di una raccolta di saggi pubblicata da Mimesis il mese scorso. Al suo interno si trovano tradotti saggi di Jonathan Miller, Stephen Jay Gould, Daniel J. Kevles, Oliver Sacks, e Richard C. Lewontin, originariamente pubblicati a metà anni ‘90. Il lettore viene accompagnato dai racconti lungo la storia più o meno accidentata di alcune importanti scoperte della scienza contemporanea.

Gli autori, capaci narratori, coinvolgono nei percorsi personali delle figure che si sono scontrate nel dibattito delle idee. Ancora più interessante è però la capacità di questi scritti di inoltrarsi sempre più nella complessità dei rapporti tra umano, società e mondo.

 

Così, Miller racconta la storia del magnetismo e di Franz Anton Mesmer che lo scoprì nel XVIII secolo. Le mani imposte sul corpo dei pazienti di Mesmer inducevano in loro trances e convulsioni a cui seguiva la guarigione da vari disturbi mentali e non solo. Da Mesmer si aprono diverse strade. Esoterismo, ricerca, spettacolo e scoperta. Dallo spettacolo delle convulsioni magnetiche nasce come per gemmazione il “sonno nervoso”, l’ipnosi. Si aprono così possibilità di ricerca nella direzione dell’inconscio umano, sotterraneo e pieno di implicazioni politiche. Non solo la scienza è in gioco, ma piuttosto tutto il mondo: i nazionalismi dell’epoca e quelli odierni, le teorie politiche liberali o meno, la libertà dell’umano e Miller nel raccontare mantiene sempre dritta la rotta della scoperta (anche se quella rotta forse l’ha tracciata la storia per lui).

 

La rotta: stupenda metafora per l’esploratore che è in noi. Attenzione però alle metafore, al potere delle immagini, perché se in un primo momento possono aiutare a delineare la strada, a volte chiudono il mondo in quella rappresentazione. È ciò che racconta Gould riguardo alla figura della scala evolutiva. L’idea del progresso, idea potente e schiacciasassi, si è annidata nella storia della rappresentazione dell’evoluzione. Ecco, là in cima, l’uomo. Eretto, bianco, maschio (a volte la donna lo accompagna). Domina su tutte le specie prima di lui e le sovrasta: compimento dell’evoluzione. Gould si oppone. Senza accusare di mala fede chi illustra queste splendide metafore, rimane il fatto che esse non rappresentino adeguatamente quello che sappiamo sull’evoluzione. E il discorso non vale solo per la vita di tutti i giorni e le verità comuni. La comunità accademica e scientifica ha appena appena migliorato l’immagine dell’evoluzione raffigurandola nei manuali come un cono. Ma la diversità conseguente a una delle più importanti esplosioni della vita – quella Cambriana – ancora oggi non viene compresa nell’iconografia tradizionale. I mammiferi classificati in 4000 specie hanno ancora i rami più alti dell’albero e lo spazio più grande del cono, la cima, mentre alle più di 10.000 specie di insetti resta solo l’angusto sottobosco.

 

Che fare della rotta? Andiamo a vedere come si costruisce. Kevles, storico della scienza, racconta con molti e accurati particolari – sempre mantenendo uno stile piacevole – il difficile espandersi della ricerca sugli oncovirusDall’inizio del XX secolo con le osservazioni di un virus che scatena i tumori nei polli, la storia si articola in modo tortuoso, anche se non privo di progresso, scrive Kevles. I fattori in gioco sono tanti e spesso la ricerca si rannicchia nei laboratori di biologia di base, lontano da pressioni indiscrete. Esistono infatti preoccupazioni sociali, questioni “interne” alla struttura della disciplina o importanti influenze politiche. Tutte queste e altre – la sociologia delle scienze ce lo insegna – partecipano all’emergere o meno di una scoperta. 

Così questi studi sui virus vennero osteggiati quando implicavano la possibilità di rendere pericoloso il latte materno. Si pensava infatti potesse essere un vettore di trasmissione e si indagava per riconoscere il “fattore latte”, ma le conseguenze di questa ipotesi erano pericolose per la società. O ancora quando i ricercatori si devono confrontare con il dogma della biologia dell’epoca: non si torna indietro dall’RNA al DNA. Verrà scoperta la transcriptasi inversa e i retrovirus. Kevles osserva come proprio in quei piccoli laboratori la ricerca prosegue. La libertà che è concessa loro permette di sbagliare, di vagare per alcuni anni alla cieca e infine (magari grazie a scoperte concomitanti) riuscire davvero nell’osservazione di qualcosa di importante. 

Nel 1970 quindi viene dimostrata l’esistenza dei retrovirus. 5 anni dopo, per la scoperta, Renato Dulbecco, Howard Temin e David Baltimore riceveranno il Nobel (figura importante sarà anche Marguerite Vogt, che lavorava con Dulbecco). Ma nel frattempo la comunità medica stenta a riconoscere l’importanza di questa linea di ricerca. L’aiuto arriva per altra strada. Alcuni medici, Solomon Garb tra questi, spingono perché si dedichino finanziamenti alla ricerca sul cancro. Scoprire una cura per il cancro potrebbe avere importanti conseguenze nel confronto con l’Unione Sovietica. Nasce l’idea di un grande programma federale per la cura al cancro. Una Guerra al Cancro, che Nixon ha paragonato al Progetto Manhattan e al Programma Apollo. Tutta la società statunitense è movimentata e la ricerca esce dai piccoli laboratori. Lascio al lettore proseguire il racconto, nella speranza di averlo incuriosito. 

 

Come lettori veniamo accompagnati, io credo, non troppo bruscamente a comprendere quanto il sociale (e il personale) si intrecci con lo “scientifico”. La rotta non è mai stata persa però. Come sulle montagne russe ci spaventa pensare alla contingenza della scienza, ma sappiamo di essere assicurati alla linea del progresso e ci divertiamo.

Il saggio di Lewontin è un’affascinante storia della biologia contemporanea e della ridefinizione del ruolo tra vivente e ambiente. Ridimensionato il ruolo dell’adattamento, si riapre la porta alle potenzialità dell’organismo di plasmare il mondo. Le conseguenze pratiche per l’umano sono quelle di una visione ecologica che accetti il suo ruolo, vicina a quella di Timothy Morton che ho raccontato in un altro articolo. Ribaltato il ruolo dell’umano non resta che dare un ultimo colpo alla percezione della scienza come progresso necessario e cercare di capire che cosa rimane in piedi.

 

Nel saggio di Oliver Sacks sono raccolti diversi casi di teorie, scoperte e osservazioni cadute nel dimenticatoio. “Scotoma”, scrive Sacks, è il termine neurologico per queste rimozioni sociali. Qualcosa viene osservato e per motivi che non riusciamo a comprendere ritorna un giorno, in altre condizioni, modificato. Credere che esista una necessità all'emergere di queste idee è semplicistico. Le scienze e le persone che le compongono si incontrano e scontrano in modo “pulito”, nel dibattito delle idee e nella libertà. Ma altrettanto in modo “sporco”, come nel caso di Chandrasekhar che fu osteggiato dagli interessi personali del suo mentore. Non solo. Le due letture sono semplicistiche e permettono di mantenere una divisione ideale tra un campo da gioco con le sue regole e un mondo sporco di interessi personali che non dovrebbe entrarvi. Distinzione che nel quotidiano tende a confondersi, complicarsi, influendo negativamente sulla ricostruzione di una storia della scoperta.

La rotta non è mai scritta. Gli esploratori hanno delle indicazioni dalla realtà, da qualche collega, dai loro sogni. Il grande ruolo della contingenza sta proprio qui. Se si arriva alla scoperta e si torna indietro, alla società, si potrà disegnare una mappa. Al mondo resta la mappa e le nuove rotte di quelli che sono tornati. Di quelli che si sono persi e dei luoghi che avranno scoperto, sapremo forse qualcosa un giorno. In questo senso Sacks ha una visione positiva. Le scienze nell’ultimo secolo si sono spente nella capacità di descrivere il mondo. La medicina, a esempio, è passata dalle dettagliate ed estese descrizioni dei pazienti al tracciare spunte su cartelle cliniche già scritte. Tornare a quelle osservazioni permette di riprendere un’eredità della ricerca con uno sguardo nuovo, in un mondo nuovo e con tecnologie che permettono pratiche nuove. E la medicina non è l’unica a cercare nuove strade.

«Un nuovo tipo di teorizzazione, o di visione del mondo, è apparso un po’ dovunque negli ultimi quarant’anni, dalla nozione di auto-organizzazione in semplici sistemi fisici e biologici all’idea di complessi sistemi adattivi nella natura e nella società, dal concetto di proprietà emergenti nelle reti neurali a quello di selezione dei gruppi neuronali nel cervello. Sta emergendo una nuova “macro”-visione, non solo del carattere integrale della natura ma della natura come innovativa, emergente, creativa».

 


Joseph Weber e le onde gravitazionali - Vittime illustri di modi ideologici di fare scienza

Dopo la storia del medico ungherese Ignác Semmelweis (raccontata qui), trattiamo oggi un altro esempio1 di vittima illustre di un modo ideologico di fare scienza2: il caso del fisico statunitense Joseph Weber (1919 – 2000). Egli fu uno scienziato brillante e stimato, ma emarginato.

L’inizio

Negli anni ’60 Weber costruì il primo prototipo di rilevatore di onde gravitazionali, un fenomeno fisico la cui esistenza era stata predetta più di mezzo secolo prima dalla teoria della relatività di Albert Einstein. Secondo l’equazione di campo – l’equazione fondamentale della relatività generale – il repentino cambiamento di massa di un corpo produrrebbe delle increspature nello spazio-tempo. Secondo Einstein, queste perturbazioni ondulatorie dovevano essere estremamente diffuse nell’universo, ma allo stesso tempo molto difficili da rilevare perché straordinariamente flebili.

Lo strumento costruito da Weber, in un seminterrato del suo dipartimento dell’Università del Maryland, era costituito da cilindri di alluminio della lunghezza di 2 metri e del diametro di un metro; al passaggio di un’onda gravitazionale, questi cilindri ne avrebbero registrato il transito grazie a una variazione di 10-12 millimetri (in proporzione, e per intenderci, è come se la distanza dal sole alla stella più vicina variasse del diametro di un capello umano!). Weber aveva investito anni della sua carriera nella costruzione di questi rilevatori, trascorrendo mesi in laboratorio e imparando a conoscerli in ogni dettaglio. All’inizio degli anni Settanta, lo scienziato statunitense pubblicò i primi risultati e disse di aver registrato un primo alto flusso di onde gravitazionali. 

La pubblicazione di Weber fu fin da subito accolta con molto scetticismo. I risultati infatti contenevano una fondamentale contraddizione: sebbene la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali fosse una prova a sostegno della teoria di Einstein, l’intensità delle onde che Weber aveva registrato era invece molto più alta del previsto e suggeriva, sempre secondo la teoria della relatività, che l’universo avrebbe dovuto avere una vita estremamente corta e ciò era considerato, dalla comunità dei fisici, molto improbabile. 

Dilemmi scientifici e metodologici

Qui sorge il primo dilemma: la teoria della relatività era stata confutata o confermata dalle osservazioni di Weber? Secondo Weber la teoria della relatività era stata confermata, ma richiedeva qualche aggiustamento per non fornire previsioni sulla vita dell’universo molto poco verosimili. Secondo i critici dell’esperimento, al contrario, l’intensità delle onde gravitazionali registrata era semplicemente incompatibile con la relatività e quindi le osservazioni di Weber dovevano, necessariamente, essere errate.

Per smentirle, nell’arco di qualche anno, una mezza dozzina di gruppi di ricerca costruì dei rivelatori simili a quelli dell’Università del Maryland, con l’intento di ripetere l’esperimento e invalidarlo. E così fu. Nessun altro rivelatore aveva riprodotto gli stessi risultati ottenuti da Weber. 

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Ed ecco il secondo rompicapo: i critici di Weber, che avevano smentito le sue osservazioni per riabilitare la relatività, non avevano forse contraddetto la relatività stessa con il mancato rilevamento delle onde gravitazionali? E come decidere chi tra Weber e i suoi rivali avesse preparato l’esperimento nel modo più appropriato per lo studio di un fenomeno così sfuggente? Certo, risultati negativi si erano ripetuti più volte, ma questo non significava necessariamente che le onde gravitazionali non esistessero. Anzi, la mancanza di risultati poteva essere dovuta all’imperizia dei rivali di Weber, che non potevano certo vantare la sua esperienza nella progettazione di strumenti così sofisticati. Se è vero infatti che molti scienziati si trovavano d’accordo nel ritenere poco credibili le affermazioni di Weber, le ragioni del loro scetticismo erano tuttavia molto differenti – e talvolta in contraddizione – fra loro. In particolare, il fisico della IBM Richard Garwin aveva opposto una decisa resistenza alle conclusioni di Weber per principio; e solo per rendere il suo attacco ancor più convincente aveva effettuato delle misurazioni che avevano inferto colpi decisivi all’ipotesi di Weber. 

Un abbandono prematuro

La contesa durò per tutto un decennio, periodo durante il quale Weber si impegnò a dimostrare come ciascun esperimento “rivale” fosse in qualche modo vittima di fallacie metodologiche. Così egli tentava, a sua volta, di screditare coloro che lo avevano attaccato. 

A partire dall’inizio degli anni Ottanta, la maggioranza della comunità scientifica perse interesse per la ricerca delle onde gravitazionali. Questo fenomeno, infatti, non solo si era dimostrato difficile da individuare, ma aveva anche reso ardua la carriera di molti brillanti fisici che vi si erano dedicati, a causa della penuria di fondi e dello scetticismo generale dovuto alle continue controversie interne alla comunità.

L’inaspettata conferma

Fu soltanto alla fine degli anni Novanta che una nuova generazione di antenne interferometriche, il cui design manteneva alcuni elementi cardine degli strumenti progettati da Weber, rilanciò la caccia alle onde gravitazionali. L’annuncio della scoperta salì agli onori delle cronache il 1 febbraio 2016, quando in una conferenza stampa congiunta di LIGO (Laser Interferometer Gravitational-waves Observatory) e Virgo (il nome di un ammasso di galassie nella costellazione della Vergine), due gruppi di ricerca che avevano collaborato al progetto, annunciarono che nel settembre del 2015 avevano misurato le onde gravitazionali scaturite dalla collisione di due buchi neri distanti a circa 1 miliardo e 300 milioni di anni luce dal sistema solare. Ironia della sorte, le tracce di uno degli eventi più rari dell’universo avevano colpito i nuovissimi rilevatori dopo soltanto due settimane dalle loro attivazione, concludendo così in un tempo brevissimo una caccia che durava da un secolo e si pensava potesse protrarsi per molti altri decenni ancora.

Addirittura, il Nobel

Al giorno d’oggi, dopo la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali che è valsa il premio Nobel nel 2017 a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss (nel frattempo Weber era morto nel 2000, avvolto da un’amarezza inconsolabile)3, all’interno della comunità scientifica esiste un consenso pressoché generale; anche se il consenso potrebbe non essere assoluto, tuttavia esso ha ormai raggiunto un livello tale per cui sarebbe molto difficile per un fisico scettico (sulle interpretazioni dei dati raccolti da Ligo e Virgo) essere ritenuto sufficientemente credibile da permettergli di pubblicare un articolo scientifico su una rivista prestigiosa.

La lezione (ancora non appresa) per una scienza ideologica

L’esperimento di Weber aveva fornito dei risultati che si trovavano solo parzialmente in accordo con la teoria della relatività di Einstein, a partire dalla quale l’esperimento era stato progettato. Infatti, da un lato, l’esistenza delle onde gravitazionali sembrava fornire una conferma empirica della relatività; dall’altro, l’esubero di onde gravitazionali rispetto a quelle predette poneva non pochi interrogativi. Neanche la costruzione da parte di altri sei gruppi di ricerca di altrettanti strumenti per controllare l’attendibilità delle misurazioni di Weber risolse il rompicapo. E questo è inconcepibile per una scienza ideologica, che non accetta di convivere con le contraddizioni.

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Peraltro, secondo Weber le rilevazioni effettuate dai suoi colleghi non rappresentavano una sconfessione della sua ipotesi perché, a suo parere, erano i nuovi rilevatori a non essere attendibili (reliable). I rilevatori di onde gravitazionali sono infatti strumenti delicatissimi e nessuno degli altri fisici possedeva le competenze (che aveva acquisito lui) per costruirli in così breve tempo. Il fatto che questi nuovi strumenti non confermassero l’esistenza delle onde gravitazionali era, secondo Weber, semplicemente frutto della imperizia dei suoi colleghi. 

 

Nondimeno, gli scienziati dovevano confrontarsi su un nuovo problema: che cos’era a non funzionare? Quale degli esperimenti andava rigettato? Se gli scienziati avessero seguito il falsificazionismo popperiano (un altro pilastro, forse inconsapevole, di una scienza ideologica), avrebbero dovuto rigettare la teoria della relatività, fino a quel momento ritenuta corretta, poiché in disaccordo con la misurazione dell’intensità delle onde gravitazionali. Ma così non fu. E questo è molto interessante, soprattutto per i seguaci di Popper…

 

 


NOTE

1 Tratto dal volume di Giampietro Gobo e Valentina Marcheselli, Sociologia della scienza e della tecnologia. Un’introduzione (2021).

2 Per ”ideologico“ intendo quell’atteggiamento pre-costituito (e la relativa pratica) per cui una qualsiasi idea, proposta o procedura che non rientri in determinati schemi pre-definiti non viene accolta nemmeno come possibilità, e di conseguenza non le viene attribuito lo status di ipotesi possibile su cui sospendere cautelativamente il giudizio.

3 https://www.science.org/content/article/remembering-joseph-weber-controversial-pioneer-gravitational-waves


Claude Bernard e Georges Canguilhem - Una controversia ancora viva (?)

CLAUDE BERNARD – LA VITA DIMENTICATA NEL LABORATORIO

Nel 1813 a Saint-Julien, paesino non troppo distante da Lione nasceva Claude Bernard. Come Semmelweis, di cui già si è parlato in questo blog, fu una delle figure più importanti per la medicina del XIX secolo.

Anch’egli dovette scontrarsi con una fetta della società del suo tempo, ma diversamente dal medico ungherese Bernard ricercò tutta la vita di fondare una medicina che fosse scientifica e si basasse sugli andamenti regolari e costanti della fisiologia.

Giunto a Parigi nel 1839 per proporre una sua pièce teatrale, Bernard comprese che quella strada non faceva per lui. Si risolse quindi a studiare medicina nella capitale francese, avendo già trascorso diversi anni come aiutante in una farmacia.

Agli inizi della sua carriera conobbe lo studioso di fisiologia Francois Magendie (detentore della cattedra di Medicina al Collège de France dal 1830 al 1855). La fisiologia al tempo era una massa informe di conoscenze derivate da esperimenti e osservazioni senza una sistematizzazione. Magendie poteva permettersi di operare in un piccolo laboratorio al College de France. Lui, vitalista eterodosso, manteneva a guida l’idea di un corpo umano soggetto alla forza vitale, ma non si lasciava intimorire nel dichiarare la necessità di aprire (il corpo) alla sperimentazione.

Bernard seguiva questo suo maestro, ma rivendicava la necessità di un passaggio ulteriore che Magendie, definito da Bernard un empirista radicale, non faceva. Per Magendie infatti l’esigenza scientifica era quella di alterare e osservare i fenomeni. Bernard voleva di più, voleva spiegare.

«Magendie si comportava da empirico ed era solito dire: perturba i fenomeni, ossia sperimenta e limitati a controllare i fenomeni senza spiegare nulla. Non era ancora il metodo sperimentale completo, perché tale metodo sperimentale esige delle spiegazioni.»

Bernard era tutt’altro che vitalista. La rivoluzione avvenuta il secolo precedente con Isaac Newton stava dando i suoi frutti anche in chimica proprio in quel periodo. La scienza medica si svolgeva in laboratorio. Lo studio della fisiologia, delle costanti e delle funzioni avrebbe permesso la comprensione della patologia come variazione dallo stato fisiologico.

Hal Hellman, simpatico divulgatore scientifico che ha raccolto parte di questo racconto su Bernard, dice che Bernard fu colui che rese la medicina una scienza basata su esperimenti e fatti.

Bernard fu senz’altro fine sperimentatore e produsse molteplici osservazioni, esperimenti, vivisezioni e il suo lavoro permise alla fisiologia di costruirsi una base feconda su cui svilupparsi.

Egli riconosceva il dolore animale, tuttavia ne giustificava l’uso ai fini del progredire della scienza medica. La funzionalità del sacrificio di un vivente per una causa più grande è un elemento evidente della visione scientifica di Bernard che, di fatto, disconosce il vivente, anche umano.

Bernard butta il vivente fuori dal laboratorio e tiene, per studiarlo, solo il corpo.

Che poi il vivente, una volta uscito dalla porta del laboratorio, rientri dalla finestra nella pratica clinica, non è problema della scienza fisiologica. Questa, infatti, fondava il suo tentativo di essere bella e potente – come si stavano dimostrando al tempo la fisica e la chimica – proprio sul disconoscimento del vivente e sulla pratica sperimentale che questo disconoscimento permette.

 

GEORGES CANGUILHEM – LA VITA RISCOPERTA NELLA SCIENZA

Circa cent’anni dopo Georges Canguilhem, filosofo abilitato anche alla professione medica, criticherà la visione di Bernard e della fisiologia medica, la quale nel frattempo si era del tutto affermata, insieme allo sguardo “normalizzante” sul vivente.

Canguilhem, erede della lezione di Bergson per cui il vivente è irriducibile, ritiene invece sia necessario recuperare il vitalismo.

Egli risale dalla medicina alla biologia, poiché è nella biologia a lui contemporanea che la medicina trova la sua morale, riducendo – come ha iniziato a fare Bernard - la malattia a un discorso di variazioni di funzioni fisiologiche.

Canguilhem chiama questa riduzione “il dogma dell’identità dei fenomeni fisiologici e dei fenomeni patologici”, che la medicina di Xavier Bichat e Claude Bernard prende dalla fisica newtoniana e condivide con altri campi come la sociologia di Auguste Comte.

Sottolineando, Canguilhem, come concezione di scienza medica – nonostante la consolidata tradizione di successi - dimentichi un dato fondamentale: è perché vi sono malati che c’è una medicina.

Dobbiamo accettare che il vivente sia l’oggetto della biologia. Che sia, sì, soggetto a tutte le leggi fisico-chimiche. Ma, ci ricorda Canguilhem, il mondo della fisica e della chimica non sono mondi esterni al vivente.

Egli è in esse ma non vive in esse. Il vivente vive un ambiente valorizzato, polarizzato e in ultimo significato.

Vive in mezzo a esseri e avvenimenti che diversificano le leggi. Le scienze della vita non possono purificarsi dall’individualità vivente, non devono farlo, altrimenti non avrebbero da dire nulla più della fisica e della chimica.

Così la medicina non può negare il soggetto.

È il malato che chiama il medico. Certo, il medico può – perché la medicina ha una storia – conoscere meglio cosa fa la malattia del malato. Ma, per quante importanti conoscenze possono portare la fisiologia e lo studio delle normali e delle frequenze, salute e malattia appartengono al malato.

Un grande scrittore milanese, gravemente malato e a poco dalla sua morte, dirà “sono insufficientemente umile per accettare ciò che la malattia ha comportato e comporterà”.

Possiamo fare una colpa al malato se si ostina a opporsi alla sua malattia? Vogliamo fare della malattia una colpa e della salute un merito? Definendo normalità e malattia prima di avere incontrato il malato?

La norma, dice Canguilhem, il medico la deriva dal suo malato.

Il malato può preoccuparsi se la sua assicurazione coprirà le spese – tristezza dei nostri tempi – ma “ciò che mi occupa”, dice, “è la mia malattia e il bisogno di guarirne”.

Sarà il soggetto, il malato, l’individuo, a dire della sua ritrovata salute. Sia che vi sia stato dolcemente accompagnato o portato a forza di bisturi e trapano.

 

CONCLUSIONE

Ciò che rese Semmelweiss un grande medico sono le donne partorienti salvate: la salvezza e il miglioramento di vite personali e di una intera società. Non le medie abbassate, alle quali nemmeno i fautori di quel metodo credevano nel momento in cui li smentivano.

Non è possibile vivere come un ostacolo epistemologico la soggettività del malato.

I medici che accettano questo principio, accettano di reinscrivere la loro scienza in una storia umana. Esercitano la medicina come servizio all’umano nella sua lotta contro ciò che è negativo, contro ciò che è vissuto come malattia.

 

 

P.s. il grande scrittore milanese (di Novate Milanese in realtà) citato è Giovanni Testori in una sua intervista al quotidiano La Stampa il 2 gennaio del 1993.

 

 

RIFERIMENTI E LETTURE:

Grmek Mirko (a cura), Storia del pensiero medico occidentale, Laterza

Bernard Claude, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli

Hellman Hal, Le dispute della medicina. Dieci casi esemplari, Raffaello Cortina

Canguilhem Georges, Il normale e il patologico, Einaudi

Canguilhem Georges, La conoscenza della vita, Il Mulino


Mai fidarsi della bellezza - Inganni e illusioni di un criterio scientifico

La bellezza può essere una splendida guida per lo sviluppo di formalismi matematici, ci suggerisce in questo blog Matteo Donolato (Che bella equazione! – Il ruolo della bellezza nelle scienze) seguendo il pensiero di P. Dirac.

Ai fisici teorici, in particolare, piace maneggiare teorie e oggetti matematici “belli”, addirittura considerano l’eleganza come un criterio di successo delle formulazioni teoriche, delle spiegazioni della realtà, delle descrizioni dei sistemi fisici.

Tuttavia sembra necessario essere cauti, perché a volte la bellezza matematica può nascondere dei tranelli.

Un bel formalismo matematico, infatti, ha il pregio di rendere la descrizione della realtà più semplice, più maneggevole, apparentemente più efficace e più elegante, ma, spesso, non rappresenta la realtà nel suo modo di essere effettivo, nei suoi comportamenti fenomenici.

Proviamo a fare qualche esempio:

  • Il primo può essere l’identità di Eulero: è bellissima, compatta e semplice; comprende una serie di elementi che ricorrono in tutte le matematiche e geometrie – euclidee e non – ma, poiché è un’identità, non significa altro che un oggetto è identico a sé stesso, seppur descritto in modi diversi.

Esattamente come Hesperus e Vesperus, la stella del mattino e la stella della sera; nomi diversi per la stessa cosa, vista da angolazioni diverse, ma pur sempre una e una sola cosa è: il pianeta Venere.

L’identità di Eulero racconta di come la bellezza matematica possa diventare un formalismo di nessuna utilità nella pratica scientifica e applicativa.

È opportuno ricordare Husserl[1], quando accusava Galileo e, con lui, molta scienza della modernità, di realismo metafisico, di aver dimenticato – inseguendo i formalismi idealizzati – il contatto con il mondo delle cose reali.

Un secondo esempio – dobbiamo però per un attimo dimenticare che è stato falsificato nel ‘600 – è il modello geocentrico aristotelico-tolemaico dell’universo con la terra, con noi/io al centro di tutto. Cosa c’è di più bello, simmetrico, elegante, appagante, soprattutto per chi lo ha disegnato, di questo modello? Secondo il punto di vista antico  era anche efficace nella rappresentazione della realtà. In parte anche per il nostro punto di vista: nella nostra esperienza quotidiana, non pare anche a noi di essere fermi, con il cielo che ci gira intorno?

Come sappiamo, però, questo schema non ha retto il confronto con i paradigmi successivi; per cui, è “caduto” ed è stato sostituito da un altrettanto elegante modello (quello di Newton) basato su un formalismo matematico, anch’esso, come ci dice Matteo Donolato, di grande bellezza: la legge della gravitazione universale.

Ecco, quindi, il terzo esempio: la legge di gravitazione universale si basa su un “oggetto scientifico”[2] misterioso e mai dimostrato: la forza di attrazione gravitazionale, cioè un’azione a distanza tra due corpi macroscopici.

“Oggetto” che è stato a sua volta sostituito, nella teoria della relatività, dalla nozione di campo gravitazionale. Che fa a meno della forza.

Il quarto ed ultimo esempio di bellezza teorica e matematica, nel campo della fisica delle particelle, è la Teoria supersimmetrica delle stringhe (o supersimmetria); questa teoria è in grado – grazie a dei formalismi matematici giudicati molto eleganti da quasi tutti i fisici – di descrivere il mondo dei bosoni e dei fermioni, e converge nella Teoria del Tutto: un tentativo di unificazione delle teorie quantistica e relativistica.

La “supersimmetria” – teoricamente – permetterebbe anche di aver a che fare con quantità e numeri vicine all’unità, che molti fisici definiscono “naturali”; e di evitare di far uso del cosiddetto “fine tuning”, cioè di aggiustamenti della teoria – assimilabili alle cinture di protezione di Lakatos – a fronte di casi particolari e risultati non allineati con le previsioni.

La teoria della supersimmetria, però, non sembra dare frutti sperimentali. Nessuno dei suoi risultati riesce a essere testato, con ovvio fastidio dei fisici che hanno puntato sulla sua produttività potenziale.

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Al contrario, possiamo fare degli esempi di formalismi “non così belli” che – almeno per ora – sono di successo e (abbastanza) testati sperimentalmente.

Il modello che descrive una cosa apparentemente banale come i pennacchi di fumo (avete presente quelli che escono dalle ciminiere?) è costituito da un sistema di equazioni che - già in una approssimazione semplificata - riempiono almeno due pagine di un normale libro di testo – solo come formalismo matematico.

Purtroppo, un pennacchio di fumo non può essere descritto con formule prese dalla geometria solida; è, invece, un oggetto di grandissima complessità in cui compaiono più di un centinaio di fattori e termini e ancora non ne è descritta completamente la struttura. È più brutta di un orco delle favole. Ma funziona piuttosto bene.

In fisica delle particelle, il "Modello standard", teoria che resiste da alcuni anni e che ha numerosi riscontri sperimentali – non ultima la rilevazione del bosone di Higgs, previsto anni prima e ora “trovato” e misurato sul campo – è abbastanza orribile, se misurata con il criterio della bellezza e dell’eleganza: più di 25 particelle “elementari”, tra cui: 6 fermioni detti quark; 8 gluoni privi di massa; 6 leptoni, che non partecipano alle interazioni forti; il fotone; 3 bosoni massivi; in ultimo il bosone di Higgs, massivo, neutro elettricamente e funzionale a dare massa a fermioni e bosoni. Tutti questi suddivisi in tre generazioni, in funzione della massa; inoltre, le generazioni non sono definite da criteri matematici a priori ma solo dalla necessità di “far funzionare” il modello (se mi si passa la semplificazione). “Vi delude che il modello standard sia così brutto?” dice Sabine Hossenfelder[3]

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Sembra, quindi, estremamente pericoloso per i fisici, per i naturalisti - e direi persino per gli economisti - che desiderano descrivere in maniera realistica l’universo, affidarsi a dei formalismi molto belli.

Pericoloso perché il mondo e l’universo, nel loro presentarsi sono per lo più disuniformi, presentano continuamente singolarità, sfuggono al principio di omogeneità.

I casi eleganti come, ad esempio, le strutture polimorfe oggi chiamate frattali, sono eccezioni notevoli; tanto che uno strutturalista nato nella matematica come Roger Caillois, li presenta e li esalta proprio come eccezionalità, come fenomeni notevoli.

I salti, le catastrofi, le singolarità, sono la norma della realtà.

In fisica e nelle scienze naturali è meglio non fidarsi - e non affidarsi - alla bellezza matematica.
Si rischia di perdere la strada…

 

 

NOTE

[1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2015

[2] L. Daston, Biographies of scientific objects, The University of Chicago Press, Chicago and London, 2000

[3] S. Hossenfelder, Sedotti dalla matematica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, pag. 182


A debate about Apes - La Teoria della Mente nei grandi primati?

Avete presente gli intrecci delle soap opera televisive, quelli basati su dei malintesi che si gonfiano in maniera spropositata per colpa di false credenze? Di quelli che provocano drammi complicatissimi perché tizio crede che lei creda che l’altro la ami (ma non è così), e così via?

Ecco: questi intrecci non potrebbero esistere se l’essere umano non fosse dotato di una teoria della mente (anche denominata ToM: Theory of Mind), ovvero la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri nonché la capacità di comprendere che gli altri possano avere degli stati mentali diversi dai propri. È un concetto intuitivo, di cui diamo per scontata l’esistenza in ogni nostra interazione quotidiana.

Senza addentrarci negli studi di questa teoria applicata all’essere umano, il concetto risulta poco scontato quando lo applichiamo al mondo degli animali non-umani, interrogandoci sulle loro effettive capacità di astrazione e comprensione degli stati mentali propri e altrui. Il tema è curioso e merita un’analisi propria, specialmente se si considera che il concetto stesso di “teoria della mente” è stato sviluppato all’interno di studi sugli scimpanzé, quindi non di psicologia classica, culminando successivamente in un accesissimo dibattito ancora oggi irrisolto.

LE PREMESSE AL DIBATTITO

  • Partiamo da Darwin (ovviamente). Egli ha fortemente influenzato le premesse teoriche su cui si poggiano gran parte degli studi relativi alle capacità cognitive dei primati, in quanto nella sua opera “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” (1871) sosteneva che non vi fossero differenze fondamentali tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori e che, pertanto, qualsiasi differenza tra queste fosse relativa esclusivamente alla gradazione e non al tipo. Queste riflessioni, come vedremo, hanno condotto vari studiosi a legittimare approcci di ricerca basati sul principio dell’analogia, per cui comportamenti animali simili ai nostri si considerano causati dallo stesso tipo di cause psicologiche che riconosciamo nell’essere umano.
  • Nel 1978 i due studiosi David Premack e Guy Woodruff pubblicarono il celebre articolo “Does the chimpanzee have a theory of mind?”, in cui venivano illustrati una serie di esperimenti condotti su un gruppo di scimpanzé che, a parere degli autori, dimostravano che questi fossero in grado di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri, in particolare per quanto concerne il desiderio, il porsi un obiettivo o anche per le loro attitudini affettive. Fu il primo articolo nella Storia a formulare e spiegare il concetto di “Teoria della mente”, poi ripreso con successo in svariati studi.

IL DIBATTITO

Il lavoro di Premack e Woodruff è stato ripreso e approfondito nel corso degli anni da vari studiosi. In particolare, due gruppi di ricerca si sono dedicati ampiamente allo studio della ToM negli scimpanzé, producendo buona parte della letteratura al riguardo: il gruppo di Michael Tomasello a Leipzig e quello di Daniel Povinelli in Louisiana.

Il primo, in continuità con gli studi precedenti, sostiene che una qualche forma di teoria della mente è effettivamente presente negli scimpanzé, mentre il secondo nega completamente che questa possa mai esistere negli scimpanzé o in altri primati.

Ma come mai vi è un tale disaccordo?

  • Secondo Tomasello molteplici evidenze sperimentali hanno confermato che negli scimpanzé sono presenti dei meccanismi cognitivi e psicologici analoghi a quelli degli esseri umani, specialmente per determinati tipi di cognizione, e che pertanto in questo senso è possibile sostenere che tale specie sia dotata di una teoria della mente. Al tempo stesso, l’autore ha anche specificato che con tale definizione si definisce in realtà uno svariato range di processi mentali, che non sono necessariamente condivisi dalle specie più simili a noi, scimpanzé compresi.
  • Povinelli, al contrario, nega categoricamente che possa esistere alcuna forma di ToM negli scimpanzé poiché ogni forma di esperimento fondata sul principio dell’analogia menzionato in precedenza è incapace di dimostrare efficacemente che un determinato comportamento non solo sia causato da uno specifico processo mentale, ma anche che tal processo mentale sia simile a quello dell’essere umano prima di produrre lo stesso tipo di comportamento. Pertanto, quando nel corso degli esperimenti si rilevano analogie tra scimpanzé ed esseri umani, di fatto si sta solo proiettando sul mondo animale la propria percezione del mondo. L’autore, invece, ritiene che una spiegazione molto più adeguata del comportamento sociale degli scimpanzé sia la semplice capacità di questi animali di rappresentarsi e riflettere sui propri comportamenti, senza alcun’altra considerazione di livello superiore relativa a se stessi o agli altri.

QUALCHE CONSIDERAZIONE

In un paper del 1998 Cecilia Heyes scriveva: “In ogni caso in cui il comportamento dei primati non umani è stato interpretato come un segno di teoria della mente, questo si sarebbe anche potuto manifestare per caso o come il prodotto di processi non mentalistici, come un apprendimento per associazione o qualche inferenza basata su categorie non mentali” (trad. mia). Da quando l’autrice scriveva queste parole le cose non sono granché cambiate. Fa quasi sorridere che degli studiosi affermati arrivino ad accendersi a tal punto da pubblicare vignette di scherno l’uno dell’altro (vedi sotto), eppure questo è solo uno dei tanti casi di disaccordo in ambito scientifico e, come in tanti altri casi, ad uno sguardo più accurato ci si rende conto che una tale divergenza si poggia tanto su considerazioni teoriche di base differenti quanto su un diverso approccio empirico.

In primo luogo, gli autori non sono d’accordo su che cosa sia la teoria della mente (quindi l’oggetto stesso dei loro esperimenti!!): per Tomasello costituisce un variegato gruppo di processi cognitivi e psicologici, mentre per Povinelli è una qualità specifica che una specie o possiede o non possiede.

In secondo luogo, risulta particolarmente difficile comprendere se gli esperimenti dimostrino effettivamente quello che vogliono dimostrare oppure possano essere spiegati e interpretati anche attraverso categorie diverse.

In ultimo, l’assetto sperimentale stesso risulta precario e pieno di fragilità.

È evidente che per poter condurre degli esperimenti in laboratorio con un gruppo di scimpanzé è necessario educare gli esemplari di quel gruppo, così da renderli capaci di poter svolgere un esperimento.

Il raggiungimento di un tale traguardo può richiedere anni, rendendo quindi l’assetto sperimentale di difficile replicabilità e per certi versi troppo “artificiale”.

 

 

 

Bibliografia

Andrews, K. (2005, November). Chimpanzee Theory of Mind: Looking in All the Wrong Places. Mind & Lamnguage, 20(5), 521-536.Call, J., & Michael Tomasello. (2008). Does the chimpanzee have a theory of mind? 30 years later. Trends in Cognitive Sciences, 12(5), 187-192.

Call, J., Hare, B., & Tomasello, M. (2003, June). Chimpanzees versus humans:it's not that simple. TRENDS in Cognitive Sciences, 7(6), 239-240.

Heyes, C. (1998). Theory of mind in nonhuman primates. Behavioral and brain sciences, 21, 101-148.

Penn, D., Holyoak, K., & Povinelli, D. (2008). Darwin's mistake: Explaining the discontinuity between human and nonhuman minds. Behavioral and brain sciences, 31, 109-178.

Povinelli, D., & Vonk, J. (2003, April). Chimpanzee minds: suspiciously human? TRENDS in Cognitive Sciences, 7(4), 157-160.

Povinelli, D., & Vonk, J. (2004, February). We Don't Need a Microscope to Explore the Chimpanzee's Mind. Mind & Lamguage, 19(1), 1-28.

Povinelli, D., Bering, J., & Giambrone, S. (2000). Toward a Science of Other Minds: Escaping the Argument by Analogy. Cognitive Science, 24(3), 509-541.

Premack, D. (2007, August). Human and animal cognition: Continuity and discontinuity. PNAS, 104(35), 13861-13867.

Premack, D., & Woodruff, G. (1978). Does the chimpanzee have a theory of mind? The behavioral and brain sciences, 4, 515-526.

van der Vaart, E., & Hemelrijk, C. (2014). 'Theory of mind' in animals: ways to make progress. Synthese, 191, 335-354.


Quando lavarsi le mani era considerato anti-scientifico

Spesso nei dibattiti sulla scienza e fra scienziati, manca una prospettiva storica. Essa insegnerebbe a essere meno assertivi e più aperti al possibile, anche se improbabile.

Questa è la storia, davvero triste e per lo più dimenticata, del medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis (1818 – 1865). [1]

Siamo a metà dell’Ottocento. Il giovane Semmelweis, fresco di laurea in medicina e affascinato dalla ricerca in anatomia patologica, fece domanda per un posto di assistente alla famosa Scuola Medica Viennese dove, peraltro, si era appena laureato; ma la sua domanda venne respinta. Chiese allora di diventare assistente di Joseph Škoda, clinico leader della scuola; ma questi aveva già promesso il lavoro a un altro medico. Fu così che Semmelweis si rivolse all'ostetricia, che a quel tempo non occupava un posto di prestigio nella medicina europea. Iniziò così a frequentare la clinica di ostetricia, ma ottenne anche il permesso di dissezionare i cadaveri delle donne morte per malattie e operazioni ginecologiche, imparando così i nuovi metodi di osservazione e di analisi.

 

L'assistentato e le sue ricerche

Conseguito successivamente il dottorato in Chirurgia ed Ostetricia, nel 1846 ottenne un incarico biennale come assistente presso la clinica ostetrica dell'Ospedale Generale di Vienna, a quel tempo il più moderno ospedale europeo. Sin dall’inizio della sua fondazione, la clinica ostetrica era stata diretta dal dottor Johann Boër. Dotato di un grande senso di umanità per le puerpere, il dottor Boër proibiva l'insegnamento sui cadaveri delle donne e ne dissezionava i corpi solo per studiarne le patologie che avevano provocato il decesso. Durante i trent'anni della sua direzione, la mortalità delle partorienti si aggirava intorno all'1%.

Tutto cambiò quando, nel 1823, la clinica fu affidata al dottor Johann Klein, di cui Semmelweis era uno degli assistenti. Inspiegabilmente, il numero di decessi delle partorienti per febbre puerperale cominciò a salire. Semmelweis era letteralmente ossessionato da ciò, anche perché nella clinica di Klein la percentuale di decessi era di molto superiore (circa quattro volte) rispetto alla seconda divisione diretta dal dottor Bartch, dove erano le ostetriche (e non i medici) a far partorire le donne. Il turbamento di Semmelweis aumentava la diligenza che metteva nelle sue ricerche.

La sua prima ipotesi fu l'aria mefitica delle città che, in piena rivoluzione industriale, non era molto salubre. Raccolse così dati sulla mortalità delle puerpere per febbre in città, in campagna e in ospedale; ma l'ipotesi non trovò conferma. La seconda ipotesi fu che le puerpere morissero di autosuggestione a causa del prete della cappella dell'ospedale che, per dare l'estrema unzione, passava scampanellando per i corridoi. Costrinse quindi il parroco a non usare più la campanella, ma le morti rimasero costanti.

Infine, ebbe l'intuizione che risolse il problema.

 

L'intuizione

Come a volte accade, fu un fatto apparentemente non collegato ai decessi delle partorienti ad aiutarlo a venir a capo della sua ossessione. Durante l'assenza di Semmelweis, tra il primo e il secondo periodo contrattuale, il suo collega e amico Jakob Kolletschka era morto a seguito di una malattia fulminante. Semmelweis ebbe la possibilità di studiarne la cartella clinica e fu colpito da due elementi:

  • l'autopsia praticata sul cadavere evidenziava lesioni simili a quelle che si riscontravano sulle donne morte per febbre puerperale;
  • Kolletschka solo qualche giorno prima si era ferito nel corso di una autopsia praticata sul cadavere di una di queste mamme.

Gli fu chiaro che la febbre puerperale e la morte del professor Kolletschka erano la stessa cosa dal punto di vista patologico, perché entrambe presentavano gli stessi cambiamenti anatomici. Se nel caso di Kolletschka i cambiamenti nella sepsi derivavano dall'inoculazione di particelle cadaveriche, allora la febbre puerperale doveva avere origine dalla stessa fonte. A questo punto Semmelweis si ricordò di un cambiamento nell’organizzazione del lavoro introdotto dal direttore Klein: gli assistenti avevano l'obbligo di eseguire fino a 15-16 autopsie al giorno per poi andare a visitare le partorienti della clinica. Ciò fu sufficiente a Semmelweis per giungere a un'ipotesi contro-intuitiva (e un po’ blasfema) per l'epoca: la febbre puerperale è una malattia che viene trasferita da un corpo all'altro a seguito del contatto che i medici e gli studenti presenti in reparto hanno prima con le donne decedute (su cui praticano autopsia) e poco dopo con le partorienti che vanno a visitare in corsia.

Era una teoria sconvolgente per i tempi. Per accertarla Semmelweis mise in atto, in accordo con la Direzione Sanitaria, una banale disposizione: tutti coloro che entravano nella clinica sarebbero stati obbligati a lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce (ipoclorito di calcio). A questo aggiunse la disposizione che, per tutte le partorienti, si cambiassero le lenzuola sporche con altre pulite.

Era il maggio 1847, lui aveva 29 anni e, soprattutto, agiva con troppa proattività e al di fuori delle sue competenze…

 

La conferma della teoria

Dopo l'adozione del lavaggio delle mani con ipoclorito di calcio, l'anno successivo la percentuale di decessi per febbre puerperale si attestò tra l'1 e il 2%, all'incirca la stessa percentuale da sempre presente nell’altra divisione.

Quando Semmelweis espose ai colleghi i risultati della sperimentazione ottenne una reazione inaspettata: venne insultato, nonostante l’evidenza statistica, per aver costretto i medici a una pratica indecorosa, priva di alcun fondamento reale dato che “è ridicolo lavarsi le mani per qualcosa che non si vede” e anche perché le puerpere “venivano chiamate a lasciare questo mondo dal Buon Dio e non per colpa dei medici”.

Si attirò così gelosia, invidia e risentimenti. Il suo direttore, Johann Klein, che sosteneva con forza la necessità per gli studenti di praticare molte autopsie, trovava irritanti le iniziative di questo straniero ungherese, per giunta nazionalista (partecipò con entusiasmo ai moti del 1848), che si arrogava il diritto di emanare disposizioni che non gli competevano, offensive per il personale (l'obbligo di lavarsi le mani) ed onerose per l'ospedale (cambio frequente delle lenzuola). Così nel 1849, non gli rinnovò il contratto.

Semmelweis, affranto ed esasperato, successivamente scrisse molte lettere (alcune anche insolenti e aggressive) a colleghi dentro e fuori l’impero senza essere, però, mai compreso. Molti e illustri medici europei gli risposero, con qualche apprezzamento, ma senza che alcuno di loro riuscisse realmente a comprendere la portata dell’intuizione.

L'appoggio di alcuni amici - Josef Škoda, Ferdinand von Hebra, del suo vecchio maestro e grande patologo Rokitansky - servì solo in parte ad aiutarlo e a diffondere la nuova teoria, osteggiata dal mondo medico che per principio rifiutava di ammettere che i medici stessi potessero essere degli "untori" e quindi la causa diretta dei decessi. Peraltro, uno dei suoi più accaniti oppositori fu Rudolf Virchow, considerato il padre della patologia cellulare.

 

Ricovero in manicomio e morte

A causa dell'ostilità mostrata nei suoi confronti dai medici della Scuola Viennese, Semmelweis cadde in depressione, schiacciato anche da complessi d'inferiorità. Purtroppo, ci vollero molti anni prima che la scoperta di Semmelweis venisse accettata e applicata in modo esteso. Infatti, la prova della contaminazione batterica fu data da Pasteur solo nel 1864, quasi venti anni dopo la prima disposizione di Semmelweis di lavarsi le mani. Prima di allora la scoperta di Semmelweis venne screditata e, nonostante gli effetti positivi, fu licenziato dall'ospedale di Vienna per aver dato disposizioni senza esserne autorizzato. Vale la pena notare come ovviamente, a seguito dell’allontanamento di Semmelweis, le morti per infezione ripresero ad aumentare e questo non fu sufficiente a far cambiare opinione a Klein e agli altri oppositori di Semmelweis. Insomma, per loro il dato empirico non era poi tanto… empirico.

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Tornato in Ungheria Semmelweis applicò lo stesso metodo all'ospedale di San Rocco a Pest, ottenendo anche qui un abbassamento significativo dei casi di febbre puerperale. Fu proprio in Ungheria che nel 1861 scrisse il libro Eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale. Purtroppo la comunità scientifica dell'epoca gli si scagliò nuovamente contro e Semmelweis finì per essere ricoverato in manicomio. Morì nel 1865 (a 47 anni) per setticemia, sviluppatasi a causa delle ferite inferte dalle guardie del manicomio e delle cure non sottoposte ad adeguata profilassi; proprio ciò che la sua scoperta avrebbe potuto evitare.

Solo qualche decennio dopo, i lavori di Louis Pasteur (del 1879e di Joseph Lister (nel 1883) avrebbero definitivamente mostrato la grandezza delle intuizioni di Semmelweis.

A compensazione dei pregiudizi e torti subiti, la città di Budapest nel 1894 gli eresse un monumento tombale; poi nel 1906 una statua (successivamente collocata davanti all'ospedale San Rocco); e infine gli intitolò la Clinica Ostetrica dell'Università, che ancora porta il suo nome.

 

Infine

Nel Novecento il neopositivista Carl Gustav Hempel, in Filosofia delle scienze naturali (1966), utilizzò l'indagine di Semmelweis sulle cause della febbre puerperale come modello di ricerca scientifica basata sull'evidenza empirica. In particolare, venne apprezzato il suo uso della modalità logica modus tollens, cioè la prova tramite confutazione di ipotesi alternative; anticipando così alcuni aspetti del falsificazionismo.

Anche lo scrittore e medico francese Louis-Ferdinand Céline nel 1924 dedicò la sua tesi di laurea in medicina al medico ungherese e poi nel 1952 pubblicò il libro Il dottor Semmelweis, in cui racconta la sua vicenda.

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La lezione non (ancora) appresa

Oggi è chiamata "riflesso di Semmelweis" la riluttanza o resistenza ad accettare una scoperta in campo scientifico o medico che contraddica norme, credenze o paradigmi stabiliti. Un fenomeno a cui, dagli anni Cinquanta in poi, molti filosofi, storici e sociologi della scienza hanno dedicato molta attenzione.

Eppure, nonostante ciò, il mondo scientifico non si è fatto (nel corso degli ultimi decenni) più aperto e tollerante verso ipotesi o teorie alternative rispetto a quelle dominanti. Al contrario, stiamo assistendo a un ritorno dello scientismo, dove vengono usate con troppa facilità (e talvolta violenza) espressioni quali “anti-scientifico”, “pseudoscienza”, “teorie complottiste”, “fake news”, “post-verità”.

Oggi, visto il clima di caccia alle streghe a cui abbiamo assistito negli ultimi anni,
Semmelweis forse non sarebbe finito in manicomio, ma radiato probabilmente sì…

 

Riferimenti

  • Sherwin B. Nuland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignác Semmelweis, Torino: Edizioni Codice, 2004.
  • Louis-Ferdinand Céline (1952), Il dottor Semmelweis, Milano, Adelphi 1975.

 

Film

  • Semmelweis(cortometraggio), USA/Austria 2001: Belvedere Film (regia Jim Berry)
  • Docteur Semmelweis, Francia/Polonia 1995 (regia Roger Andrieux)
  • Semmelweis, Olanda 1994: Humanistische Omroep Stichting (regia Floor Maas)
  • Ignaz Semmelweis - Arzt der Frauen(Ignaz Semmelweis, il Medico delle Donne), Germania/Austria 1987: ZDF/ORF (regie Michael Verhoeven)
  • Semmelweis, Italia/Svizzera 1980: RTSI(regia Gianfranco Bettetini)
  • Semmelweis - Retter der Mütter(Semmelweis, il Salvatore delle Madri), Germania dell'Est, 1950: DEFA (Regia Georg C. Klaren)
  • Semmelweis, Ungheria 1940: Mester Film (regia André De Toth)
  • That mothers might live(Che le madri possano vivere), USA 1938: MGM (Regia Fred Zinnemann) Oscar per il Miglior Cortometraggio

 

[1] Per una ricostruzione più approfondita: https://it.wikipedia.org/wiki/Ign%C3%A1c_Semmelweis e https://ambulatoridemetra.it/demetra/ignac-fulop-semmelweis-fra-genio-e-follia-la-storia-del-medico-che-intui-il-valore-del-lavaggio-delle-mani/