Joseph Weber e le onde gravitazionali - Vittime illustri di modi ideologici di fare scienza
Dopo la storia del medico ungherese Ignác Semmelweis (raccontata qui), trattiamo oggi un altro esempio1 di vittima illustre di un modo ideologico di fare scienza2: il caso del fisico statunitense Joseph Weber (1919 – 2000). Egli fu uno scienziato brillante e stimato, ma emarginato.
L’inizio
Negli anni ’60 Weber costruì il primo prototipo di rilevatore di onde gravitazionali, un fenomeno fisico la cui esistenza era stata predetta più di mezzo secolo prima dalla teoria della relatività di Albert Einstein. Secondo l’equazione di campo – l’equazione fondamentale della relatività generale – il repentino cambiamento di massa di un corpo produrrebbe delle increspature nello spazio-tempo. Secondo Einstein, queste perturbazioni ondulatorie dovevano essere estremamente diffuse nell’universo, ma allo stesso tempo molto difficili da rilevare perché straordinariamente flebili.
Lo strumento costruito da Weber, in un seminterrato del suo dipartimento dell’Università del Maryland, era costituito da cilindri di alluminio della lunghezza di 2 metri e del diametro di un metro; al passaggio di un’onda gravitazionale, questi cilindri ne avrebbero registrato il transito grazie a una variazione di 10-12 millimetri (in proporzione, e per intenderci, è come se la distanza dal sole alla stella più vicina variasse del diametro di un capello umano!). Weber aveva investito anni della sua carriera nella costruzione di questi rilevatori, trascorrendo mesi in laboratorio e imparando a conoscerli in ogni dettaglio. All’inizio degli anni Settanta, lo scienziato statunitense pubblicò i primi risultati e disse di aver registrato un primo alto flusso di onde gravitazionali.
La pubblicazione di Weber fu fin da subito accolta con molto scetticismo. I risultati infatti contenevano una fondamentale contraddizione: sebbene la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali fosse una prova a sostegno della teoria di Einstein, l’intensità delle onde che Weber aveva registrato era invece molto più alta del previsto e suggeriva, sempre secondo la teoria della relatività, che l’universo avrebbe dovuto avere una vita estremamente corta e ciò era considerato, dalla comunità dei fisici, molto improbabile.
Dilemmi scientifici e metodologici
Qui sorge il primo dilemma: la teoria della relatività era stata confutata o confermata dalle osservazioni di Weber? Secondo Weber la teoria della relatività era stata confermata, ma richiedeva qualche aggiustamento per non fornire previsioni sulla vita dell’universo molto poco verosimili. Secondo i critici dell’esperimento, al contrario, l’intensità delle onde gravitazionali registrata era semplicemente incompatibile con la relatività e quindi le osservazioni di Weber dovevano, necessariamente, essere errate.
Per smentirle, nell’arco di qualche anno, una mezza dozzina di gruppi di ricerca costruì dei rivelatori simili a quelli dell’Università del Maryland, con l’intento di ripetere l’esperimento e invalidarlo. E così fu. Nessun altro rivelatore aveva riprodotto gli stessi risultati ottenuti da Weber.
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Ed ecco il secondo rompicapo: i critici di Weber, che avevano smentito le sue osservazioni per riabilitare la relatività, non avevano forse contraddetto la relatività stessa con il mancato rilevamento delle onde gravitazionali? E come decidere chi tra Weber e i suoi rivali avesse preparato l’esperimento nel modo più appropriato per lo studio di un fenomeno così sfuggente? Certo, risultati negativi si erano ripetuti più volte, ma questo non significava necessariamente che le onde gravitazionali non esistessero. Anzi, la mancanza di risultati poteva essere dovuta all’imperizia dei rivali di Weber, che non potevano certo vantare la sua esperienza nella progettazione di strumenti così sofisticati. Se è vero infatti che molti scienziati si trovavano d’accordo nel ritenere poco credibili le affermazioni di Weber, le ragioni del loro scetticismo erano tuttavia molto differenti – e talvolta in contraddizione – fra loro. In particolare, il fisico della IBM Richard Garwin aveva opposto una decisa resistenza alle conclusioni di Weber per principio; e solo per rendere il suo attacco ancor più convincente aveva effettuato delle misurazioni che avevano inferto colpi decisivi all’ipotesi di Weber.
Un abbandono prematuro
La contesa durò per tutto un decennio, periodo durante il quale Weber si impegnò a dimostrare come ciascun esperimento “rivale” fosse in qualche modo vittima di fallacie metodologiche. Così egli tentava, a sua volta, di screditare coloro che lo avevano attaccato.
A partire dall’inizio degli anni Ottanta, la maggioranza della comunità scientifica perse interesse per la ricerca delle onde gravitazionali. Questo fenomeno, infatti, non solo si era dimostrato difficile da individuare, ma aveva anche reso ardua la carriera di molti brillanti fisici che vi si erano dedicati, a causa della penuria di fondi e dello scetticismo generale dovuto alle continue controversie interne alla comunità.
L’inaspettata conferma
Fu soltanto alla fine degli anni Novanta che una nuova generazione di antenne interferometriche, il cui design manteneva alcuni elementi cardine degli strumenti progettati da Weber, rilanciò la caccia alle onde gravitazionali. L’annuncio della scoperta salì agli onori delle cronache il 1 febbraio 2016, quando in una conferenza stampa congiunta di LIGO (Laser Interferometer Gravitational-waves Observatory) e Virgo (il nome di un ammasso di galassie nella costellazione della Vergine), due gruppi di ricerca che avevano collaborato al progetto, annunciarono che nel settembre del 2015 avevano misurato le onde gravitazionali scaturite dalla collisione di due buchi neri distanti a circa 1 miliardo e 300 milioni di anni luce dal sistema solare. Ironia della sorte, le tracce di uno degli eventi più rari dell’universo avevano colpito i nuovissimi rilevatori dopo soltanto due settimane dalle loro attivazione, concludendo così in un tempo brevissimo una caccia che durava da un secolo e si pensava potesse protrarsi per molti altri decenni ancora.
Addirittura, il Nobel
Al giorno d’oggi, dopo la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali che è valsa il premio Nobel nel 2017 a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss (nel frattempo Weber era morto nel 2000, avvolto da un’amarezza inconsolabile)3, all’interno della comunità scientifica esiste un consenso pressoché generale; anche se il consenso potrebbe non essere assoluto, tuttavia esso ha ormai raggiunto un livello tale per cui sarebbe molto difficile per un fisico scettico (sulle interpretazioni dei dati raccolti da Ligo e Virgo) essere ritenuto sufficientemente credibile da permettergli di pubblicare un articolo scientifico su una rivista prestigiosa.
La lezione (ancora non appresa) per una scienza ideologica
L’esperimento di Weber aveva fornito dei risultati che si trovavano solo parzialmente in accordo con la teoria della relatività di Einstein, a partire dalla quale l’esperimento era stato progettato. Infatti, da un lato, l’esistenza delle onde gravitazionali sembrava fornire una conferma empirica della relatività; dall’altro, l’esubero di onde gravitazionali rispetto a quelle predette poneva non pochi interrogativi. Neanche la costruzione da parte di altri sei gruppi di ricerca di altrettanti strumenti per controllare l’attendibilità delle misurazioni di Weber risolse il rompicapo. E questo è inconcepibile per una scienza ideologica, che non accetta di convivere con le contraddizioni.
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Peraltro, secondo Weber le rilevazioni effettuate dai suoi colleghi non rappresentavano una sconfessione della sua ipotesi perché, a suo parere, erano i nuovi rilevatori a non essere attendibili (reliable). I rilevatori di onde gravitazionali sono infatti strumenti delicatissimi e nessuno degli altri fisici possedeva le competenze (che aveva acquisito lui) per costruirli in così breve tempo. Il fatto che questi nuovi strumenti non confermassero l’esistenza delle onde gravitazionali era, secondo Weber, semplicemente frutto della imperizia dei suoi colleghi.
Nondimeno, gli scienziati dovevano confrontarsi su un nuovo problema: che cos’era a non funzionare? Quale degli esperimenti andava rigettato? Se gli scienziati avessero seguito il falsificazionismo popperiano (un altro pilastro, forse inconsapevole, di una scienza ideologica), avrebbero dovuto rigettare la teoria della relatività, fino a quel momento ritenuta corretta, poiché in disaccordo con la misurazione dell’intensità delle onde gravitazionali. Ma così non fu. E questo è molto interessante, soprattutto per i seguaci di Popper…
NOTE
1 Tratto dal volume di Giampietro Gobo e Valentina Marcheselli, Sociologia della scienza e della tecnologia. Un’introduzione (2021).
2 Per ”ideologico“ intendo quell’atteggiamento pre-costituito (e la relativa pratica) per cui una qualsiasi idea, proposta o procedura che non rientri in determinati schemi pre-definiti non viene accolta nemmeno come possibilità, e di conseguenza non le viene attribuito lo status di ipotesi possibile su cui sospendere cautelativamente il giudizio.
3 https://www.science.org/content/article/remembering-joseph-weber-controversial-pioneer-gravitational-waves
Claude Bernard e Georges Canguilhem - Una controversia ancora viva (?)
CLAUDE BERNARD – LA VITA DIMENTICATA NEL LABORATORIO
Nel 1813 a Saint-Julien, paesino non troppo distante da Lione nasceva Claude Bernard. Come Semmelweis, di cui già si è parlato in questo blog, fu una delle figure più importanti per la medicina del XIX secolo.
Anch’egli dovette scontrarsi con una fetta della società del suo tempo, ma diversamente dal medico ungherese Bernard ricercò tutta la vita di fondare una medicina che fosse scientifica e si basasse sugli andamenti regolari e costanti della fisiologia.
Giunto a Parigi nel 1839 per proporre una sua pièce teatrale, Bernard comprese che quella strada non faceva per lui. Si risolse quindi a studiare medicina nella capitale francese, avendo già trascorso diversi anni come aiutante in una farmacia.
Agli inizi della sua carriera conobbe lo studioso di fisiologia Francois Magendie (detentore della cattedra di Medicina al Collège de France dal 1830 al 1855). La fisiologia al tempo era una massa informe di conoscenze derivate da esperimenti e osservazioni senza una sistematizzazione. Magendie poteva permettersi di operare in un piccolo laboratorio al College de France. Lui, vitalista eterodosso, manteneva a guida l’idea di un corpo umano soggetto alla forza vitale, ma non si lasciava intimorire nel dichiarare la necessità di aprire (il corpo) alla sperimentazione.
Bernard seguiva questo suo maestro, ma rivendicava la necessità di un passaggio ulteriore che Magendie, definito da Bernard un empirista radicale, non faceva. Per Magendie infatti l’esigenza scientifica era quella di alterare e osservare i fenomeni. Bernard voleva di più, voleva spiegare.
«Magendie si comportava da empirico ed era solito dire: perturba i fenomeni, ossia sperimenta e limitati a controllare i fenomeni senza spiegare nulla. Non era ancora il metodo sperimentale completo, perché tale metodo sperimentale esige delle spiegazioni.»
Bernard era tutt’altro che vitalista. La rivoluzione avvenuta il secolo precedente con Isaac Newton stava dando i suoi frutti anche in chimica proprio in quel periodo. La scienza medica si svolgeva in laboratorio. Lo studio della fisiologia, delle costanti e delle funzioni avrebbe permesso la comprensione della patologia come variazione dallo stato fisiologico.
Hal Hellman, simpatico divulgatore scientifico che ha raccolto parte di questo racconto su Bernard, dice che Bernard fu colui che rese la medicina una scienza basata su esperimenti e fatti.
Bernard fu senz’altro fine sperimentatore e produsse molteplici osservazioni, esperimenti, vivisezioni e il suo lavoro permise alla fisiologia di costruirsi una base feconda su cui svilupparsi.
Egli riconosceva il dolore animale, tuttavia ne giustificava l’uso ai fini del progredire della scienza medica. La funzionalità del sacrificio di un vivente per una causa più grande è un elemento evidente della visione scientifica di Bernard che, di fatto, disconosce il vivente, anche umano.
Bernard butta il vivente fuori dal laboratorio e tiene, per studiarlo, solo il corpo.
Che poi il vivente, una volta uscito dalla porta del laboratorio, rientri dalla finestra nella pratica clinica, non è problema della scienza fisiologica. Questa, infatti, fondava il suo tentativo di essere bella e potente – come si stavano dimostrando al tempo la fisica e la chimica – proprio sul disconoscimento del vivente e sulla pratica sperimentale che questo disconoscimento permette.
GEORGES CANGUILHEM – LA VITA RISCOPERTA NELLA SCIENZA
Circa cent’anni dopo Georges Canguilhem, filosofo abilitato anche alla professione medica, criticherà la visione di Bernard e della fisiologia medica, la quale nel frattempo si era del tutto affermata, insieme allo sguardo “normalizzante” sul vivente.
Canguilhem, erede della lezione di Bergson per cui il vivente è irriducibile, ritiene invece sia necessario recuperare il vitalismo.
Egli risale dalla medicina alla biologia, poiché è nella biologia a lui contemporanea che la medicina trova la sua morale, riducendo – come ha iniziato a fare Bernard - la malattia a un discorso di variazioni di funzioni fisiologiche.
Canguilhem chiama questa riduzione “il dogma dell’identità dei fenomeni fisiologici e dei fenomeni patologici”, che la medicina di Xavier Bichat e Claude Bernard prende dalla fisica newtoniana e condivide con altri campi come la sociologia di Auguste Comte.
Sottolineando, Canguilhem, come concezione di scienza medica – nonostante la consolidata tradizione di successi - dimentichi un dato fondamentale: è perché vi sono malati che c’è una medicina.
Dobbiamo accettare che il vivente sia l’oggetto della biologia. Che sia, sì, soggetto a tutte le leggi fisico-chimiche. Ma, ci ricorda Canguilhem, il mondo della fisica e della chimica non sono mondi esterni al vivente.
Egli è in esse ma non vive in esse. Il vivente vive un ambiente valorizzato, polarizzato e in ultimo significato.
Vive in mezzo a esseri e avvenimenti che diversificano le leggi. Le scienze della vita non possono purificarsi dall’individualità vivente, non devono farlo, altrimenti non avrebbero da dire nulla più della fisica e della chimica.
Così la medicina non può negare il soggetto.
È il malato che chiama il medico. Certo, il medico può – perché la medicina ha una storia – conoscere meglio cosa fa la malattia del malato. Ma, per quante importanti conoscenze possono portare la fisiologia e lo studio delle normali e delle frequenze, salute e malattia appartengono al malato.
Un grande scrittore milanese, gravemente malato e a poco dalla sua morte, dirà “sono insufficientemente umile per accettare ciò che la malattia ha comportato e comporterà”.
Possiamo fare una colpa al malato se si ostina a opporsi alla sua malattia? Vogliamo fare della malattia una colpa e della salute un merito? Definendo normalità e malattia prima di avere incontrato il malato?
La norma, dice Canguilhem, il medico la deriva dal suo malato.
Il malato può preoccuparsi se la sua assicurazione coprirà le spese – tristezza dei nostri tempi – ma “ciò che mi occupa”, dice, “è la mia malattia e il bisogno di guarirne”.
Sarà il soggetto, il malato, l’individuo, a dire della sua ritrovata salute. Sia che vi sia stato dolcemente accompagnato o portato a forza di bisturi e trapano.
CONCLUSIONE
Ciò che rese Semmelweiss un grande medico sono le donne partorienti salvate: la salvezza e il miglioramento di vite personali e di una intera società. Non le medie abbassate, alle quali nemmeno i fautori di quel metodo credevano nel momento in cui li smentivano.
Non è possibile vivere come un ostacolo epistemologico la soggettività del malato.
I medici che accettano questo principio, accettano di reinscrivere la loro scienza in una storia umana. Esercitano la medicina come servizio all’umano nella sua lotta contro ciò che è negativo, contro ciò che è vissuto come malattia.
P.s. il grande scrittore milanese (di Novate Milanese in realtà) citato è Giovanni Testori in una sua intervista al quotidiano La Stampa il 2 gennaio del 1993.
RIFERIMENTI E LETTURE:
Grmek Mirko (a cura), Storia del pensiero medico occidentale, Laterza
Bernard Claude, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli
Hellman Hal, Le dispute della medicina. Dieci casi esemplari, Raffaello Cortina
Canguilhem Georges, Il normale e il patologico, Einaudi
Canguilhem Georges, La conoscenza della vita, Il Mulino
Mai fidarsi della bellezza - Inganni e illusioni di un criterio scientifico
La bellezza può essere una splendida guida per lo sviluppo di formalismi matematici, ci suggerisce in questo blog Matteo Donolato (Che bella equazione! – Il ruolo della bellezza nelle scienze) seguendo il pensiero di P. Dirac.
Ai fisici teorici, in particolare, piace maneggiare teorie e oggetti matematici “belli”, addirittura considerano l’eleganza come un criterio di successo delle formulazioni teoriche, delle spiegazioni della realtà, delle descrizioni dei sistemi fisici.
Tuttavia sembra necessario essere cauti, perché a volte la bellezza matematica può nascondere dei tranelli.
Un bel formalismo matematico, infatti, ha il pregio di rendere la descrizione della realtà più semplice, più maneggevole, apparentemente più efficace e più elegante, ma, spesso, non rappresenta la realtà nel suo modo di essere effettivo, nei suoi comportamenti fenomenici.
Proviamo a fare qualche esempio:
- Il primo può essere l’identità di Eulero: è bellissima, compatta e semplice; comprende una serie di elementi che ricorrono in tutte le matematiche e geometrie – euclidee e non – ma, poiché è un’identità, non significa altro che un oggetto è identico a sé stesso, seppur descritto in modi diversi.
Esattamente come Hesperus e Vesperus, la stella del mattino e la stella della sera; nomi diversi per la stessa cosa, vista da angolazioni diverse, ma pur sempre una e una sola cosa è: il pianeta Venere.
L’identità di Eulero racconta di come la bellezza matematica possa diventare un formalismo di nessuna utilità nella pratica scientifica e applicativa.
È opportuno ricordare Husserl[1], quando accusava Galileo e, con lui, molta scienza della modernità, di realismo metafisico, di aver dimenticato – inseguendo i formalismi idealizzati – il contatto con il mondo delle cose reali.
Un secondo esempio – dobbiamo però per un attimo dimenticare che è stato falsificato nel ‘600 – è il modello geocentrico aristotelico-tolemaico dell’universo con la terra, con noi/io al centro di tutto. Cosa c’è di più bello, simmetrico, elegante, appagante, soprattutto per chi lo ha disegnato, di questo modello? Secondo il punto di vista antico era anche efficace nella rappresentazione della realtà. In parte anche per il nostro punto di vista: nella nostra esperienza quotidiana, non pare anche a noi di essere fermi, con il cielo che ci gira intorno?
Come sappiamo, però, questo schema non ha retto il confronto con i paradigmi successivi; per cui, è “caduto” ed è stato sostituito da un altrettanto elegante modello (quello di Newton) basato su un formalismo matematico, anch’esso, come ci dice Matteo Donolato, di grande bellezza: la legge della gravitazione universale.
Ecco, quindi, il terzo esempio: la legge di gravitazione universale si basa su un “oggetto scientifico”[2] misterioso e mai dimostrato: la forza di attrazione gravitazionale, cioè un’azione a distanza tra due corpi macroscopici.
“Oggetto” che è stato a sua volta sostituito, nella teoria della relatività, dalla nozione di campo gravitazionale. Che fa a meno della forza.
Il quarto ed ultimo esempio di bellezza teorica e matematica, nel campo della fisica delle particelle, è la Teoria supersimmetrica delle stringhe (o supersimmetria); questa teoria è in grado – grazie a dei formalismi matematici giudicati molto eleganti da quasi tutti i fisici – di descrivere il mondo dei bosoni e dei fermioni, e converge nella Teoria del Tutto: un tentativo di unificazione delle teorie quantistica e relativistica.
La “supersimmetria” – teoricamente – permetterebbe anche di aver a che fare con quantità e numeri vicine all’unità, che molti fisici definiscono “naturali”; e di evitare di far uso del cosiddetto “fine tuning”, cioè di aggiustamenti della teoria – assimilabili alle cinture di protezione di Lakatos – a fronte di casi particolari e risultati non allineati con le previsioni.
La teoria della supersimmetria, però, non sembra dare frutti sperimentali. Nessuno dei suoi risultati riesce a essere testato, con ovvio fastidio dei fisici che hanno puntato sulla sua produttività potenziale.
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Al contrario, possiamo fare degli esempi di formalismi “non così belli” che – almeno per ora – sono di successo e (abbastanza) testati sperimentalmente.
Il modello che descrive una cosa apparentemente banale come i pennacchi di fumo (avete presente quelli che escono dalle ciminiere?) è costituito da un sistema di equazioni che - già in una approssimazione semplificata - riempiono almeno due pagine di un normale libro di testo – solo come formalismo matematico.
Purtroppo, un pennacchio di fumo non può essere descritto con formule prese dalla geometria solida; è, invece, un oggetto di grandissima complessità in cui compaiono più di un centinaio di fattori e termini e ancora non ne è descritta completamente la struttura. È più brutta di un orco delle favole. Ma funziona piuttosto bene.
In fisica delle particelle, il "Modello standard", teoria che resiste da alcuni anni e che ha numerosi riscontri sperimentali – non ultima la rilevazione del bosone di Higgs, previsto anni prima e ora “trovato” e misurato sul campo – è abbastanza orribile, se misurata con il criterio della bellezza e dell’eleganza: più di 25 particelle “elementari”, tra cui: 6 fermioni detti quark; 8 gluoni privi di massa; 6 leptoni, che non partecipano alle interazioni forti; il fotone; 3 bosoni massivi; in ultimo il bosone di Higgs, massivo, neutro elettricamente e funzionale a dare massa a fermioni e bosoni. Tutti questi suddivisi in tre generazioni, in funzione della massa; inoltre, le generazioni non sono definite da criteri matematici a priori ma solo dalla necessità di “far funzionare” il modello (se mi si passa la semplificazione). “Vi delude che il modello standard sia così brutto?” dice Sabine Hossenfelder[3]
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Sembra, quindi, estremamente pericoloso per i fisici, per i naturalisti - e direi persino per gli economisti - che desiderano descrivere in maniera realistica l’universo, affidarsi a dei formalismi molto belli.
Pericoloso perché il mondo e l’universo, nel loro presentarsi sono per lo più disuniformi, presentano continuamente singolarità, sfuggono al principio di omogeneità.
I casi eleganti come, ad esempio, le strutture polimorfe oggi chiamate frattali, sono eccezioni notevoli; tanto che uno strutturalista nato nella matematica come Roger Caillois, li presenta e li esalta proprio come eccezionalità, come fenomeni notevoli.
I salti, le catastrofi, le singolarità, sono la norma della realtà.
In fisica e nelle scienze naturali è meglio non fidarsi - e non affidarsi - alla bellezza matematica.
Si rischia di perdere la strada…
NOTE
[1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2015
[2] L. Daston, Biographies of scientific objects, The University of Chicago Press, Chicago and London, 2000
[3] S. Hossenfelder, Sedotti dalla matematica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, pag. 182
A debate about Apes - La Teoria della Mente nei grandi primati?
Avete presente gli intrecci delle soap opera televisive, quelli basati su dei malintesi che si gonfiano in maniera spropositata per colpa di false credenze? Di quelli che provocano drammi complicatissimi perché tizio crede che lei creda che l’altro la ami (ma non è così), e così via?
Ecco: questi intrecci non potrebbero esistere se l’essere umano non fosse dotato di una teoria della mente (anche denominata ToM: Theory of Mind), ovvero la capacità di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri nonché la capacità di comprendere che gli altri possano avere degli stati mentali diversi dai propri. È un concetto intuitivo, di cui diamo per scontata l’esistenza in ogni nostra interazione quotidiana.
Senza addentrarci negli studi di questa teoria applicata all’essere umano, il concetto risulta poco scontato quando lo applichiamo al mondo degli animali non-umani, interrogandoci sulle loro effettive capacità di astrazione e comprensione degli stati mentali propri e altrui. Il tema è curioso e merita un’analisi propria, specialmente se si considera che il concetto stesso di “teoria della mente” è stato sviluppato all’interno di studi sugli scimpanzé, quindi non di psicologia classica, culminando successivamente in un accesissimo dibattito ancora oggi irrisolto.
LE PREMESSE AL DIBATTITO
- Partiamo da Darwin (ovviamente). Egli ha fortemente influenzato le premesse teoriche su cui si poggiano gran parte degli studi relativi alle capacità cognitive dei primati, in quanto nella sua opera “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale” (1871) sosteneva che non vi fossero differenze fondamentali tra le facoltà mentali dell’uomo e quelle dei mammiferi superiori e che, pertanto, qualsiasi differenza tra queste fosse relativa esclusivamente alla gradazione e non al tipo. Queste riflessioni, come vedremo, hanno condotto vari studiosi a legittimare approcci di ricerca basati sul principio dell’analogia, per cui comportamenti animali simili ai nostri si considerano causati dallo stesso tipo di cause psicologiche che riconosciamo nell’essere umano.
- Nel 1978 i due studiosi David Premack e Guy Woodruff pubblicarono il celebre articolo “Does the chimpanzee have a theory of mind?”, in cui venivano illustrati una serie di esperimenti condotti su un gruppo di scimpanzé che, a parere degli autori, dimostravano che questi fossero in grado di attribuire stati mentali a sé stessi e agli altri, in particolare per quanto concerne il desiderio, il porsi un obiettivo o anche per le loro attitudini affettive. Fu il primo articolo nella Storia a formulare e spiegare il concetto di “Teoria della mente”, poi ripreso con successo in svariati studi.
IL DIBATTITO
Il lavoro di Premack e Woodruff è stato ripreso e approfondito nel corso degli anni da vari studiosi. In particolare, due gruppi di ricerca si sono dedicati ampiamente allo studio della ToM negli scimpanzé, producendo buona parte della letteratura al riguardo: il gruppo di Michael Tomasello a Leipzig e quello di Daniel Povinelli in Louisiana.
Il primo, in continuità con gli studi precedenti, sostiene che una qualche forma di teoria della mente è effettivamente presente negli scimpanzé, mentre il secondo nega completamente che questa possa mai esistere negli scimpanzé o in altri primati.
Ma come mai vi è un tale disaccordo?
- Secondo Tomasello molteplici evidenze sperimentali hanno confermato che negli scimpanzé sono presenti dei meccanismi cognitivi e psicologici analoghi a quelli degli esseri umani, specialmente per determinati tipi di cognizione, e che pertanto in questo senso è possibile sostenere che tale specie sia dotata di una teoria della mente. Al tempo stesso, l’autore ha anche specificato che con tale definizione si definisce in realtà uno svariato range di processi mentali, che non sono necessariamente condivisi dalle specie più simili a noi, scimpanzé compresi.
- Povinelli, al contrario, nega categoricamente che possa esistere alcuna forma di ToM negli scimpanzé poiché ogni forma di esperimento fondata sul principio dell’analogia menzionato in precedenza è incapace di dimostrare efficacemente che un determinato comportamento non solo sia causato da uno specifico processo mentale, ma anche che tal processo mentale sia simile a quello dell’essere umano prima di produrre lo stesso tipo di comportamento. Pertanto, quando nel corso degli esperimenti si rilevano analogie tra scimpanzé ed esseri umani, di fatto si sta solo proiettando sul mondo animale la propria percezione del mondo. L’autore, invece, ritiene che una spiegazione molto più adeguata del comportamento sociale degli scimpanzé sia la semplice capacità di questi animali di rappresentarsi e riflettere sui propri comportamenti, senza alcun’altra considerazione di livello superiore relativa a se stessi o agli altri.
QUALCHE CONSIDERAZIONE
In un paper del 1998 Cecilia Heyes scriveva: “In ogni caso in cui il comportamento dei primati non umani è stato interpretato come un segno di teoria della mente, questo si sarebbe anche potuto manifestare per caso o come il prodotto di processi non mentalistici, come un apprendimento per associazione o qualche inferenza basata su categorie non mentali” (trad. mia). Da quando l’autrice scriveva queste parole le cose non sono granché cambiate. Fa quasi sorridere che degli studiosi affermati arrivino ad accendersi a tal punto da pubblicare vignette di scherno l’uno dell’altro (vedi sotto), eppure questo è solo uno dei tanti casi di disaccordo in ambito scientifico e, come in tanti altri casi, ad uno sguardo più accurato ci si rende conto che una tale divergenza si poggia tanto su considerazioni teoriche di base differenti quanto su un diverso approccio empirico.
In primo luogo, gli autori non sono d’accordo su che cosa sia la teoria della mente (quindi l’oggetto stesso dei loro esperimenti!!): per Tomasello costituisce un variegato gruppo di processi cognitivi e psicologici, mentre per Povinelli è una qualità specifica che una specie o possiede o non possiede.
In secondo luogo, risulta particolarmente difficile comprendere se gli esperimenti dimostrino effettivamente quello che vogliono dimostrare oppure possano essere spiegati e interpretati anche attraverso categorie diverse.
In ultimo, l’assetto sperimentale stesso risulta precario e pieno di fragilità.
È evidente che per poter condurre degli esperimenti in laboratorio con un gruppo di scimpanzé è necessario educare gli esemplari di quel gruppo, così da renderli capaci di poter svolgere un esperimento.
Il raggiungimento di un tale traguardo può richiedere anni, rendendo quindi l’assetto sperimentale di difficile replicabilità e per certi versi troppo “artificiale”.
Bibliografia
Andrews, K. (2005, November). Chimpanzee Theory of Mind: Looking in All the Wrong Places. Mind & Lamnguage, 20(5), 521-536.Call, J., & Michael Tomasello. (2008). Does the chimpanzee have a theory of mind? 30 years later. Trends in Cognitive Sciences, 12(5), 187-192.
Call, J., Hare, B., & Tomasello, M. (2003, June). Chimpanzees versus humans:it's not that simple. TRENDS in Cognitive Sciences, 7(6), 239-240.
Heyes, C. (1998). Theory of mind in nonhuman primates. Behavioral and brain sciences, 21, 101-148.
Penn, D., Holyoak, K., & Povinelli, D. (2008). Darwin's mistake: Explaining the discontinuity between human and nonhuman minds. Behavioral and brain sciences, 31, 109-178.
Povinelli, D., & Vonk, J. (2003, April). Chimpanzee minds: suspiciously human? TRENDS in Cognitive Sciences, 7(4), 157-160.
Povinelli, D., & Vonk, J. (2004, February). We Don't Need a Microscope to Explore the Chimpanzee's Mind. Mind & Lamguage, 19(1), 1-28.
Povinelli, D., Bering, J., & Giambrone, S. (2000). Toward a Science of Other Minds: Escaping the Argument by Analogy. Cognitive Science, 24(3), 509-541.
Premack, D. (2007, August). Human and animal cognition: Continuity and discontinuity. PNAS, 104(35), 13861-13867.
Premack, D., & Woodruff, G. (1978). Does the chimpanzee have a theory of mind? The behavioral and brain sciences, 4, 515-526.
van der Vaart, E., & Hemelrijk, C. (2014). 'Theory of mind' in animals: ways to make progress. Synthese, 191, 335-354.
Quando lavarsi le mani era considerato anti-scientifico
Spesso nei dibattiti sulla scienza e fra scienziati, manca una prospettiva storica. Essa insegnerebbe a essere meno assertivi e più aperti al possibile, anche se improbabile.
Questa è la storia, davvero triste e per lo più dimenticata, del medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis (1818 – 1865). [1]
Siamo a metà dell’Ottocento. Il giovane Semmelweis, fresco di laurea in medicina e affascinato dalla ricerca in anatomia patologica, fece domanda per un posto di assistente alla famosa Scuola Medica Viennese dove, peraltro, si era appena laureato; ma la sua domanda venne respinta. Chiese allora di diventare assistente di Joseph Škoda, clinico leader della scuola; ma questi aveva già promesso il lavoro a un altro medico. Fu così che Semmelweis si rivolse all'ostetricia, che a quel tempo non occupava un posto di prestigio nella medicina europea. Iniziò così a frequentare la clinica di ostetricia, ma ottenne anche il permesso di dissezionare i cadaveri delle donne morte per malattie e operazioni ginecologiche, imparando così i nuovi metodi di osservazione e di analisi.
L'assistentato e le sue ricerche
Conseguito successivamente il dottorato in Chirurgia ed Ostetricia, nel 1846 ottenne un incarico biennale come assistente presso la clinica ostetrica dell'Ospedale Generale di Vienna, a quel tempo il più moderno ospedale europeo. Sin dall’inizio della sua fondazione, la clinica ostetrica era stata diretta dal dottor Johann Boër. Dotato di un grande senso di umanità per le puerpere, il dottor Boër proibiva l'insegnamento sui cadaveri delle donne e ne dissezionava i corpi solo per studiarne le patologie che avevano provocato il decesso. Durante i trent'anni della sua direzione, la mortalità delle partorienti si aggirava intorno all'1%.
Tutto cambiò quando, nel 1823, la clinica fu affidata al dottor Johann Klein, di cui Semmelweis era uno degli assistenti. Inspiegabilmente, il numero di decessi delle partorienti per febbre puerperale cominciò a salire. Semmelweis era letteralmente ossessionato da ciò, anche perché nella clinica di Klein la percentuale di decessi era di molto superiore (circa quattro volte) rispetto alla seconda divisione diretta dal dottor Bartch, dove erano le ostetriche (e non i medici) a far partorire le donne. Il turbamento di Semmelweis aumentava la diligenza che metteva nelle sue ricerche.
La sua prima ipotesi fu l'aria mefitica delle città che, in piena rivoluzione industriale, non era molto salubre. Raccolse così dati sulla mortalità delle puerpere per febbre in città, in campagna e in ospedale; ma l'ipotesi non trovò conferma. La seconda ipotesi fu che le puerpere morissero di autosuggestione a causa del prete della cappella dell'ospedale che, per dare l'estrema unzione, passava scampanellando per i corridoi. Costrinse quindi il parroco a non usare più la campanella, ma le morti rimasero costanti.
Infine, ebbe l'intuizione che risolse il problema.
L'intuizione
Come a volte accade, fu un fatto apparentemente non collegato ai decessi delle partorienti ad aiutarlo a venir a capo della sua ossessione. Durante l'assenza di Semmelweis, tra il primo e il secondo periodo contrattuale, il suo collega e amico Jakob Kolletschka era morto a seguito di una malattia fulminante. Semmelweis ebbe la possibilità di studiarne la cartella clinica e fu colpito da due elementi:
- l'autopsia praticata sul cadavere evidenziava lesioni simili a quelle che si riscontravano sulle donne morte per febbre puerperale;
- Kolletschka solo qualche giorno prima si era ferito nel corso di una autopsia praticata sul cadavere di una di queste mamme.
Gli fu chiaro che la febbre puerperale e la morte del professor Kolletschka erano la stessa cosa dal punto di vista patologico, perché entrambe presentavano gli stessi cambiamenti anatomici. Se nel caso di Kolletschka i cambiamenti nella sepsi derivavano dall'inoculazione di particelle cadaveriche, allora la febbre puerperale doveva avere origine dalla stessa fonte. A questo punto Semmelweis si ricordò di un cambiamento nell’organizzazione del lavoro introdotto dal direttore Klein: gli assistenti avevano l'obbligo di eseguire fino a 15-16 autopsie al giorno per poi andare a visitare le partorienti della clinica. Ciò fu sufficiente a Semmelweis per giungere a un'ipotesi contro-intuitiva (e un po’ blasfema) per l'epoca: la febbre puerperale è una malattia che viene trasferita da un corpo all'altro a seguito del contatto che i medici e gli studenti presenti in reparto hanno prima con le donne decedute (su cui praticano autopsia) e poco dopo con le partorienti che vanno a visitare in corsia.
Era una teoria sconvolgente per i tempi. Per accertarla Semmelweis mise in atto, in accordo con la Direzione Sanitaria, una banale disposizione: tutti coloro che entravano nella clinica sarebbero stati obbligati a lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce (ipoclorito di calcio). A questo aggiunse la disposizione che, per tutte le partorienti, si cambiassero le lenzuola sporche con altre pulite.
Era il maggio 1847, lui aveva 29 anni e, soprattutto, agiva con troppa proattività e al di fuori delle sue competenze…
La conferma della teoria
Dopo l'adozione del lavaggio delle mani con ipoclorito di calcio, l'anno successivo la percentuale di decessi per febbre puerperale si attestò tra l'1 e il 2%, all'incirca la stessa percentuale da sempre presente nell’altra divisione.
Quando Semmelweis espose ai colleghi i risultati della sperimentazione ottenne una reazione inaspettata: venne insultato, nonostante l’evidenza statistica, per aver costretto i medici a una pratica indecorosa, priva di alcun fondamento reale dato che “è ridicolo lavarsi le mani per qualcosa che non si vede” e anche perché le puerpere “venivano chiamate a lasciare questo mondo dal Buon Dio e non per colpa dei medici”.
Si attirò così gelosia, invidia e risentimenti. Il suo direttore, Johann Klein, che sosteneva con forza la necessità per gli studenti di praticare molte autopsie, trovava irritanti le iniziative di questo straniero ungherese, per giunta nazionalista (partecipò con entusiasmo ai moti del 1848), che si arrogava il diritto di emanare disposizioni che non gli competevano, offensive per il personale (l'obbligo di lavarsi le mani) ed onerose per l'ospedale (cambio frequente delle lenzuola). Così nel 1849, non gli rinnovò il contratto.
Semmelweis, affranto ed esasperato, successivamente scrisse molte lettere (alcune anche insolenti e aggressive) a colleghi dentro e fuori l’impero senza essere, però, mai compreso. Molti e illustri medici europei gli risposero, con qualche apprezzamento, ma senza che alcuno di loro riuscisse realmente a comprendere la portata dell’intuizione.
L'appoggio di alcuni amici - Josef Škoda, Ferdinand von Hebra, del suo vecchio maestro e grande patologo Rokitansky - servì solo in parte ad aiutarlo e a diffondere la nuova teoria, osteggiata dal mondo medico che per principio rifiutava di ammettere che i medici stessi potessero essere degli "untori" e quindi la causa diretta dei decessi. Peraltro, uno dei suoi più accaniti oppositori fu Rudolf Virchow, considerato il padre della patologia cellulare.
Ricovero in manicomio e morte
A causa dell'ostilità mostrata nei suoi confronti dai medici della Scuola Viennese, Semmelweis cadde in depressione, schiacciato anche da complessi d'inferiorità. Purtroppo, ci vollero molti anni prima che la scoperta di Semmelweis venisse accettata e applicata in modo esteso. Infatti, la prova della contaminazione batterica fu data da Pasteur solo nel 1864, quasi venti anni dopo la prima disposizione di Semmelweis di lavarsi le mani. Prima di allora la scoperta di Semmelweis venne screditata e, nonostante gli effetti positivi, fu licenziato dall'ospedale di Vienna per aver dato disposizioni senza esserne autorizzato. Vale la pena notare come ovviamente, a seguito dell’allontanamento di Semmelweis, le morti per infezione ripresero ad aumentare e questo non fu sufficiente a far cambiare opinione a Klein e agli altri oppositori di Semmelweis. Insomma, per loro il dato empirico non era poi tanto… empirico.
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Tornato in Ungheria Semmelweis applicò lo stesso metodo all'ospedale di San Rocco a Pest, ottenendo anche qui un abbassamento significativo dei casi di febbre puerperale. Fu proprio in Ungheria che nel 1861 scrisse il libro Eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale. Purtroppo la comunità scientifica dell'epoca gli si scagliò nuovamente contro e Semmelweis finì per essere ricoverato in manicomio. Morì nel 1865 (a 47 anni) per setticemia, sviluppatasi a causa delle ferite inferte dalle guardie del manicomio e delle cure non sottoposte ad adeguata profilassi; proprio ciò che la sua scoperta avrebbe potuto evitare.
Solo qualche decennio dopo, i lavori di Louis Pasteur (del 1879e di Joseph Lister (nel 1883) avrebbero definitivamente mostrato la grandezza delle intuizioni di Semmelweis.
A compensazione dei pregiudizi e torti subiti, la città di Budapest nel 1894 gli eresse un monumento tombale; poi nel 1906 una statua (successivamente collocata davanti all'ospedale San Rocco); e infine gli intitolò la Clinica Ostetrica dell'Università, che ancora porta il suo nome.
Infine
Nel Novecento il neopositivista Carl Gustav Hempel, in Filosofia delle scienze naturali (1966), utilizzò l'indagine di Semmelweis sulle cause della febbre puerperale come modello di ricerca scientifica basata sull'evidenza empirica. In particolare, venne apprezzato il suo uso della modalità logica modus tollens, cioè la prova tramite confutazione di ipotesi alternative; anticipando così alcuni aspetti del falsificazionismo.
Anche lo scrittore e medico francese Louis-Ferdinand Céline nel 1924 dedicò la sua tesi di laurea in medicina al medico ungherese e poi nel 1952 pubblicò il libro Il dottor Semmelweis, in cui racconta la sua vicenda.
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La lezione non (ancora) appresa
Oggi è chiamata "riflesso di Semmelweis" la riluttanza o resistenza ad accettare una scoperta in campo scientifico o medico che contraddica norme, credenze o paradigmi stabiliti. Un fenomeno a cui, dagli anni Cinquanta in poi, molti filosofi, storici e sociologi della scienza hanno dedicato molta attenzione.
Eppure, nonostante ciò, il mondo scientifico non si è fatto (nel corso degli ultimi decenni) più aperto e tollerante verso ipotesi o teorie alternative rispetto a quelle dominanti. Al contrario, stiamo assistendo a un ritorno dello scientismo, dove vengono usate con troppa facilità (e talvolta violenza) espressioni quali “anti-scientifico”, “pseudoscienza”, “teorie complottiste”, “fake news”, “post-verità”.
Oggi, visto il clima di caccia alle streghe a cui abbiamo assistito negli ultimi anni,
Semmelweis forse non sarebbe finito in manicomio, ma radiato probabilmente sì…
Riferimenti
- Sherwin B. Nuland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignác Semmelweis, Torino: Edizioni Codice, 2004.
- Louis-Ferdinand Céline (1952), Il dottor Semmelweis, Milano, Adelphi 1975.
Film
- Semmelweis(cortometraggio), USA/Austria 2001: Belvedere Film (regia Jim Berry)
- Docteur Semmelweis, Francia/Polonia 1995 (regia Roger Andrieux)
- Semmelweis, Olanda 1994: Humanistische Omroep Stichting (regia Floor Maas)
- Ignaz Semmelweis - Arzt der Frauen(Ignaz Semmelweis, il Medico delle Donne), Germania/Austria 1987: ZDF/ORF (regie Michael Verhoeven)
- Semmelweis, Italia/Svizzera 1980: RTSI(regia Gianfranco Bettetini)
- Semmelweis - Retter der Mütter(Semmelweis, il Salvatore delle Madri), Germania dell'Est, 1950: DEFA (Regia Georg C. Klaren)
- Semmelweis, Ungheria 1940: Mester Film (regia André De Toth)
- That mothers might live(Che le madri possano vivere), USA 1938: MGM (Regia Fred Zinnemann) Oscar per il Miglior Cortometraggio
[1] Per una ricostruzione più approfondita: https://it.wikipedia.org/wiki/Ign%C3%A1c_Semmelweis e https://ambulatoridemetra.it/demetra/ignac-fulop-semmelweis-fra-genio-e-follia-la-storia-del-medico-che-intui-il-valore-del-lavaggio-delle-mani/
Matematica, filosofia e poetica della frattalità
Il matematico polacco Benoît Mandelbrot (1924-2010) diede per la prima volta nel 1975 una definizione della figura frattale: dall’aggettivo latino fractus, interrotto o irregolare, “frattale” designa un insieme di figure descrivibili dall’esterno ricorrendo a un insieme di proprietà geometrico-matematiche.
La figura frattale è internamente omotetica, le parti assomigliano al tutto. La sua dimensione non è necessariamente intera: un punto in geometria euclidea è di dimensione pari a 0, una linea pari a 1, una superficie pari a 2 e così via. La dimensione frattale può essere un numero frazionario, un numero irrazionale…
È frattale il cavolo romano, è frattale la curva di Koch (Fig. 1),[1] è frattale il gomitolo di lana, a “metà strada” tra la dimensione euclidea di una linea mono dimensionale (la corda di lana) e la dimensione euclidea di un volume (la sfera del gomitolo).[2]
Fig.1
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Quando nasce il concetto di frattale?
Due acerrimi critici della sociologia della scienza come Alan Sokal e Jean Bricmont non hanno avuto dubbi: la frattalità fa parte del dominio delle matematiche. Di conseguenza, se le discipline umanistiche se ne sono appropriate ne hanno perpetrato un “reiterato abuso”.[3]
Teniamoci però a debita distanza: il padre dei frattali - al tempo - si definì “un vagabondo della scienza”.[4] Forse, il 1975 rappresenta una data troppo recente per poterci orientare. Mandelbrot rispose innanzitutto ad un’insufficienza della geometria, fino ad allora “troppo regolare e troppo fredda” per descrivere le insenature di una costa,[5] o i profili plastici e multiformi di una nuvola.[6]
Dove inizia questo vagabondaggio?
È il matematico polacco stesso a chiamare direttamente in causa un passato recondito.
In una lettera del 1695, Leibniz dichiarava a Bernoulli la possibilità di sviluppare una serie infinita mediante l’applicazione di un esponente frazionario a una base differenziale (d/dx)KF, così da “produrre una progressione geometrica, […] un’analogia meravigliosa”.[7]
Altrove, Leibniz fornisce una concezione teofanica e cosmologica della scalarità frattale: non solo è infinita la materia in perenne flusso in un mondo altrettanto infinito, ma sono infinite anche le anime e ciascuna “è uno specchio vivente perpetuo dell’universo”.[8] Ogni anima include l’intera serie del mondo che rispecchia dal proprio punto di vista, ogni punto di vista include oscuramente ogni altro. Sempre il filosofo tedesco, guardando per la prima volta nel microscopio progettato da Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723) si meravigliò della qualità frattale degli organismi: “c’è un mondo di creature - di esseri viventi e di animali, di entelechie e di anime - anche nella più piccola porzione di materia”.[9]
Paolo Portoghesi (1931-2023) fu tra i primi a cogliere la profonda analogia tra le ricerche de Gli oggetti frattali e le architetture della sua amata Roma.[10]
A sua volta, Gilles Deleuze (1925-1995) ha avuto il merito di situare il Barocco a lato di Leibniz, in prossimità di Mandelbrot: l’architettura barocca si sviluppa passando “attraverso un numero infinito di punti angolosi, […] è la curva di Koch”.[11] Si pensi alle ipnotiche geometrie del Borromini (1599-1667) in Sant’Ivo alla Sapienza, alla cappella della Sacra Sindone del duomo di Torino progettata da padre Guarino Guarini (1624-1683) (Fig.2), all’utilizzo del bugnato con la sua qualità cavernosa.
Fig. 2
Possiamo andare ancora più in là, scorgere una qualità frattale nel radicale principio di pienezza di Giordano Bruno (1548-1600) o nei rapporti di autosimilarità astrologica che innervano le analogie micro e macro cosmiche dell’epoca rinascimentale.
Ancora, potremmo procedere a ritroso sino alle geometrie dell’architettura islamica,[12] come nei motivi decorativi dei “Muqarna” (مقرنص) (fig.3), oppure nel tempio di Brihadeshwara in India (fig.4).
Fig. 3
Fig. 4
Guardando alla storia dei giardini ritroviamo un doppia correlazione omotetica: è frattale la morfologia vegetale (le nervature delle foglie), ma qualcosa di frattale struttura le complesse razionalizzazioni arboree dell’orto botanico di Padova costruito nel 1545 (fig. 5),[13] oppure i giardini cinesi e giapponesi in cui la morfologia del paesaggio “in miniatura” dovrebbe rispecchiare il buon ordine del cosmo.[14]
Fig. 5
Cosa fare di tutta questa casistica? Imitazione della natura o sforzo descrittivo? Puro fatto artistico-espressivo? Cimeli di un passato incommensurabile?
Mandelbrot fu capace di sistematizzare sotto un unico nome un “museo degli orrori”[15]: la curva di Peano (fig.6) che passa per tutti i punti di un quadrato - paradosso di una superficie finita racchiusa da un perimetro infinito; la polvere di Cantor; le intuizioni di Jean Perrin che nel 1913 parlava di “curve senza tangente”.[16]
Fig. 6
Da allora la matematica frattale si è sviluppata in ogni direzione: nello studio delle fluttuazioni finanziare e nell’analisi dei dati biochimici, nella modellazione di fenomeni complessi e, non ultimo, nello sviluppo della Chaos theory a cui Henri Poincaré (1854-1912) diede un impulso fondamentale.
Dove collocare quel “reiterato abuso” dei concetti matematici a cui ci siamo precedentemente richiamati?
Si osservi ciò che scrivono Deleuze e Guattari in Mille piani (1980): l’interdimensionalità non è soltanto l’indicatore della dimensione non intera delle figure frattali, ma è anche segno di un divenire, di qualcosa che si muove tra i piani, una “zona di indiscernibilità propria del ‘divenire’”.[17] Un “tra” in cui la variazione prende vita: tutto ciò che è frattale sembra vivere e germogliare.
Parafrasando il matematico italiano Ernesto Cesaro (1859-1906), si potrebbe dire che la curva di Koch, se fosse viva, rinascerebbe in ogni punto dalle sue profondità.[18]
Le figure frattali hanno tuttavia un limite di scala, non vanno dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo: è una legge matematico-empirica che i due filosofi francesi sembrano violare apertamente.[19] È ciò che spinse Sokal e Bricmont ad affermare che la filosofia non aveva compreso il concetto.
Eppure, per un altro verso, Deleuze e Guattari ripropongono con un’espressione nuova le leggi imposte da Leibniz quasi tre secoli prima: l’anima è specchio dell’universo, ma si percepisce soltanto interamente come ininterrotta variazione metamorfica, rispecchiamento in perpetuo divenire dell’universo sin nelle sue più intime e infinite fibre.
É come l’esempio del movimento della mano proposto da Henri Bergson (1859-1941) ne L’evoluzione creatrice (1941): esternamente appare come figura (meccanicismo) o progetto (finalismo), ma a entrambe le visioni “manca l’essenziale: il divenire”.[20] Per Deleuze e Guattari è la rivendicazione di uno spazio dove al predominio della geometria euclidea si sostituisce l’imprevedibile variabilità della Natura, qualcosa di essenzialmente generativo. Pascal, navigando angosciosamente tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, negava a sua volta le leggi imposte dalle vecchie corrispondenze simboliche micro e macro cosmiche a base di un solo infinito trascendente; Bruno contravveniva apertamente a una vecchia questio della scolastica secondo cui una creatura infinita era, per ciò stesso, contraddittoria.
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Dove arrestare questa violazione delle leggi determinate da ciascuna concettualizzazione?
C’è qualcosa di poetico, come scrive Franco Bifo Berardi: bisogna “far scivolare oltre il sistema stabilito dello scambio simbolico”.[21]
È proprio il filosofo italiano ad aver di recente risignificato la frattalità: segno sinistro - ma pur sempre segno - della frattalizzazione dei mercati e dello spazio pubblico (le bolle di cui si è tanto parlato non sono forse frattali?).
Riappare così l’ineliminabile figura di Leibniz: padre del contemporaneo panlogicismo metastabile e autovariante,[22] Berardi osserva che “gli individui sono frammenti di tempo precari, frattali uniformati dal processo di ricombinazione ininterrotta. […] il frattale automatizzato è il significato profondo dell’individualismo neoliberale”.[23]
Michel Serres (1930-2019), formatosi anch’egli su Leibniz, ha dato un nome a questo produttivo slittamento di principi, a questa non-regola dell’intromissione che sembra regnare anche nella storia della frattalità: parassitismo.[24]
Non dovrebbe sorprendere che anche il parassita sia frattale, è a un tempo parassitario e parassitato. Ed è sempre Michel Serres a chiedere: il parassita genera o corrompe il sistema?[25]
NOTE
[1] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali (1975), pp. 7-8. La curva di Kock è di dimensione=1,261859.
[2] B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, W. H. Freedman and company, San Francisco 1982, p. 404, p. 10.
[3] A. Sokal, J. Bricmont, Imposture intellettuali (1997), tr. it. F. Acerbi, M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999, p. 18.
[4] P. Portoghesi, Poesia della curva, Gangemi editore, Roma 2020, p. 61.
[5] B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., pp. 21-44.
[6] B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, cit., p. 1.
[7] Ivi., p. 404.
[8] G. W. Leibniz, Monadologia (1720), tr. it. S. Cariati, Bompiani, Firenze 2017, p. 85, §56.
[9] Ivi, p. 89, §66.
[10] Si veda P. Portoghesi, Poesia della curva, cit., pp. 61-69.
[11] G. Deleuze, La piega (1988), tr. it. D. Tarizzo, Giulio Einaudi editore, Torino 1990, pp. 26-27. Per Irénée Scalbert anche l’arte gotica è contraddistinta da un principio di autosimilarità, si veda The nature of Gothic, AA Files, n. 72 (2016), pp. 73-77, 79-91, 93-95.
[12] P. Portoghesi, Poesia della curva, p. 62.
[13] Immagine tratta da L’invenzione del giardino occidentale, p. 56.
[14] Si veda P. Grimal, L’arte dei giardini (1974), Donzelli 2000, pp. 91-100.
[15] Mandelbrot, Gli oggetti frattali, cit., p. 01.
[16] Mandelbrot, 1977, The fractal geometry of nature, cit., p. 07.
[17] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, p. 666. A p. 664,: “gli oggetti frattali” sono insiemi il cui numero di dimensioni è frazionario, non intero oppure intero, ma con variazione continua di direzione”. Mandelbrot scrive ne Gli oggetti frattali, p. 16, “là dove finora non si vedevano oche zone di transizione, […] io identifico delle zone frattali”.
[18] Si veda P. Portoghesi, Poesia della curva, cit., p. 64.
[19] Si veda B. Mandelbrot, The fractal geometry of nature, p. 783 e Gli oggetti frattali, pp. 21-44.
[20] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, 1941, p. 81. Un esempio degno di nota è proposto da Tim Ingold in Siamo linee, p. 62, dove scrive che “il suolo, nella sua infinita varietà, ha una qualità frattale”.
[21] F. Bifo Berardi, Respirare, Luca Sossella editore, Roma 2019, p. 20.
[22] Ivi, p. 63.
[23] Ivi, p. 77.
[24] M. Serres, Il parassita (1980), a cura di G. Polizzi, Mimesis edizioni, Milano 2022.
[25] Ivi, p. 40.
BIBLIOGRAFIA
- Bergson, H., L’evoluzione creatrice (1941), tr. it. F. Polidori, Raffaello Cortina editore, Milano 2002.
- Bifo Berardi, F., Respirare, Luca Sossella editore, Roma 2019.
- Deleuze, G., Guattari, F., Mille piani (1980), tr. it. G. Passerone, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
- Deleuze, G., La piega (1988), tr. it. D. Tarizzo, Giulio Einaudi editore, Torino 1990
- Grimal, P., L’arte dei giardini (1974), tr. it. M. Magi, Donzelli editore, Roma, 2000.
- Ingold, T., Siamo linee (2015), it. D. Cavallini, Giovanni Treccani, Roma 2020
- Leibniz, G., W., Monadologia (1720), tr. it. S. Cariati, Bompiani, Firenze 2017.
- Mandelbrot, Benoît, “Is nature Fractal?”, Science, 1998, vol. 279, n. 5352, pp. 783-786.
- Mandelbrot, B., Gli oggetti frattali (1975), a cur di R. Pignoni, Giulio Einaudi editore, Torino 2000.
- Portoghesi, P., Poesia della curva, Gangemi editore, Roma 2020.
- Scalbert, I., The nature of Gothic, AA Files, n. 72 (2016), pp. 73-77, 79-91, 93-95.
- Serres, M., Il parassita (1980), a cura di G. Polizzi, Mimesis edizioni, Milano 2022.
- Sokal, , Bricmont, J., Imposture intellettuali (1997), tr. it. F. Acerbi, M. Ugaglia, Garzanti, Milano 1999.
- Vercelloni, M., Vercelloni, V., L’invenzione del giardino occidentale, Jaca Book, Firenze 2019.
Perché ci chiamiamo ‘mammiferi’? Il persistere dei pregiudizi nella scienza
Contrariamente a chi pensa che scienza e società siano due sfere separate e portatrici di due tipi di conoscenza molto diversi, numerosi studi mostrano che invece esse si influenzano e contaminano reciprocamente.
Tant’è che le conoscenze scientifiche poggiano anche su conoscenze sociali (pregiudizi compresi); e viceversa.
Potrà meglio illuminare questa posizione (apparentemente blasfema) uno studio tratto dalla storia della biologia, pubblicato da Londa Schiebinger nel 1993 (nel American Historical Review, 98: 382-411), dal titolo Why Mammals are Called Mammals: Gender Politics in Eighteenth-Century Natural History. L’autrice, professoressa di storia della scienza presso il Dipartimento di Storia, della Stanford University (https://en.wikipedia.org/wiki/Londa_Schiebinger), sostiene che il termine mammalia (che potremmo rendere con l’espressione “che hanno il seno”) fu introdotto dal botanico svedese Linneo soltanto nella… decima edizione del Sistema Naturae (1758).
Quindi non nelle edizioni precedenti.
Tale termine cominciò a indicare quella specie che, da allora, conosciamo come mammiferi; mentre per secoli essi erano stati chiamati quadrupedi, secondo le indicazioni di Aristotele. Perché questo cambio di nome? Era proprio necessario? Peraltro Linneo, scegliendo quel termine, considerò solo una fra le diverse proprietà comuni ai mammiferi. Nonostante fosse adatta, a stretto rigore di termini, solo alle femmine di quella specie. Infatti Schiebinger sostiene che Linneo poteva ricorrere ad altre possibili definizioni equivalenti, quali: Pilosa (“che hanno peli”); Aurecaviga (“che hanno orecchie cave”); Lactentia (“che allattano”); Sugentia (“che succhiano”); Vivipora (“che allevano i piccoli”). Che tuttavia non scelse. Perché?
Peraltro, scegliendo Aurecaviga oppure Vivipora egli avrebbe individuato un attributo in comune fra uomini e donne (al contrario delle mammelle). Certamente il termine ‘mammifero’ suonava particolarmente bene foneticamente, per la facile assonanza di mammalia sia con il termine animalia che quello di mamma (forse la prima parola che i bambini imparano).
Nel cercare una spiegazione, l’autrice nota che la «fissazione di Linneo per le mammelle femminili”» (1993, p. 64) si inseriva in un più ampio processo culturale di erotizzazione del seno femminile che proprio in quegli anni giunse a compimento, con esiti ben visibili anche nella storia dell’abbigliamento.
Inoltre Linneo era anche politicamente schierato in una battaglia socio-culturale (nella quale egli era stato appena coinvolto) di reazione all’uso che andava diffondendosi fra le donne delle classi agiate di dare i figli da allattare alle balie. Proprio per arginare questo fenomeno, nel 1793 in Francia, e subito dopo in Prussia, fu promulgata una legge volta a promuovere l’allattamento materno. Tuttavia la pratica dell’allattamento da balia era ormai diffusa non solo tra le famiglie aristocratiche o quelle più ricche, ma anche in altre fasce sociali: infatti a Parigi e a Lione nel 1780 il 90% dei neonati andava a balia (Schiebinger 1993, p. 66).
Schiebinger osserva, inoltre, il differente trattamento che Linneo riserva al genere femminile e a quello maschile, visto che introduce l’espressione Homo sapiens per la nostra specie.
Questo passaggio è particolarmente interessante: se da una parte egli unisce la nostra specie agli altri animali mammiferi attraverso un attributo distintivo della donna (le mammelle), dall’altra per distinguere la specie umana da quella animale, usa un altro attributo pregiudizialmente (soprattutto ai tempi di Linneo) assegnato agli uomini: la ragione o razionalità. Anche se, sostiene Schiebinger, egli probabilmente non era consapevole della scelta politica che lo stava guidando nella sua classificazione.
Inoltre Linneo riteneva l’allattamento “mercenario” una catastrofe sociale, mentre l’allattamento al seno derivava da una legge naturale; quindi, una pratica benigna sia per il neonato che per la madre. Tuttavia, questa battaglia nascondeva una più generale avversione all’emancipazione femminile, al fine di ricondurre la donna al ruolo domestico tradizionale. Se pensiamo che a quel tempo una donna faceva (mediamente) 7-8 figli, questo comportava il suo allontanamento dal lavoro pubblico per almeno una decina d’anni.
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In conclusione, nel campo scientifico spesso si usano termini e classificazioni che hanno un fondamento profondamente sociale (con pregiudizi annessi) e che continuano ad essere attive anche quando questi pregiudizi sono superati.
Per cui scienza e società sono fortemente compenetrate. Nel bene e nel male. Che lo si voglia o no.