Neuralink e la nuova aristocrazia della salute - Silicio e bulimia di potenza
1. Le mani, i piedi, il logos
Non so se Elon Musk conosca la ricerca paleontologica di Leroi-Gourhan (1964-65, Le Geste et la Parole), ma di sicuro ne condivide l’intuizione di fondo: la ragione, l’essenza e il destino dell’uomo (e anche di qualunque cosa debba sopraggiungere dopo di lui) non risiede nel cervello, ma nei piedi e nelle mani. L’andatura bipede ha reso possibile la liberazione degli arti superiori per la fabbricazione di utensili e per lo sviluppo delle tecniche: sono queste la natura dell’uomo, la sua origine, che ha trasformato il suo volto e il suo cranio di primate nella sede della parola. Neuralink è il progetto, nato nel 2016, che Musk ha finanziato in prima persona con 100 milioni di dollari; ha come obiettivo l’impianto di interfacce neurali capaci di curare gli effetti di patologie del sistema nervoso, anzitutto la tetraplegia. In altre parole, l’installazione nel cervello di un piccolo hardware, governato da un’intelligenza artificiale, permetterebbe di ripristinare l’uso di gambe e braccia nei malati di paralisi, in misura almeno parziale. La simbiosi tra fisiologia e tecnologia per finalità mediche non è proprio una novità: in fondo la sperimenta ogni giorno chiunque indossi un paio di occhiali. Ma per Elon Musk, che aspira a raggiungere l’infinito (e oltre) come Buzz Lightyear, l’AI di Neuralink rappresenta il primo passo del programma transumanistico di potenziamento degli esseri umani fino al limite delle loro risorse fisiche e intellettuali – per poi oltrepassare la soglia della singolarità, verso un destino non più assimilabile a nulla che sia depositato nell’esperienza della storia, e su cui siano impossibili previsioni di qualunque genere.
2. Il famedio dei macachi nel paradiso della scienza
Fino a qui, in apparenza, tutto bene. Lo scorso 29 gennaio Musk ha annunciato su X il primo innesto di Neuralink su un paziente tetraplegico: la sperimentazione si è trasferita dagli animali agli esseri umani. Può turbare questo clima di entusiasmo la notizia che la Securities and Exchange Commission (SEC) ha aperto un’inchiesta contro l’azienda e il suo fondatore per la morte dei macachi su cui sono stati testati i dispositivi. L’accusa è di non aver allevato martiri gloriosi e necessari per il progresso della scienza, ma di aver perpetrato agonie atroci, provocate dal desiderio di Musk di installare il chip al di sotto della rete vascolare, al fine di raggiungere una larghezza di banda superiore a quella delle società concorrenti. Contro le accuse sollevate dalla stampa americana, il magnate ha dichiarato che i laboratori di Neuralink sono una specie di «paradiso per le scimmie». In attesa che gli investigatori verifichino quanto la potenza del segnale sia qui sinonimo di santità o di crudeltà, formuliamo un paio di riflessioni sul significato che il progetto Neuralink può rivestire per la nostra società, assumendolo come un esempio del tipo di progetti su cui non solo Elon Musk, ma tutti i giganti della Silicon Valley stanno investendo, con una prodigalità di fondi con cui nemmeno le finanze degli stati sovrani possono competere.
3. L’agenda politica
In prima istanza, occorre sottolineare che Elon Musk, come altre Big Tech, coltiva un progetto antropologico, cioè una vera linea politica, attribuendosi un compito cui le classi dirigenti dei principali paesi occidentali hanno abdicato da anni. Il transumanesimo sogna un futuro di superuomini con ipertrofia di prestazioni fisiche e intellettuali, dovuta ad un doping permanente di innesti tecnologici, elargito a pochi o a molti (secondo l’opportunità comunicativa del momento) – ma comunque assicurato all’élite più smart del mondo, quella degli innovatori con sede in Silicon Valley. D’altra parte sono loro a prevedere e a pianificare l’evoluzione della salute, dell’abitazione, della convivenza, attraverso la rivoluzione delle applicazioni smart della wearable technology, della smart home e della smart city. Meritano il meglio della bulimia di potenza che sopraggiungerà con le AI, inclusa l’immortalità con (versione Kurzweil) o senza (versione Musk) il trasloco della personalità in un corpo di silicio.
Si può ironizzare su questo disegno per il futuro dell’umanità, che sembra estratto dai cartoon dei supereroi, ma bisogna riconoscere anzitutto che, contrariamente alla vacuità a corto raggio delle agende politiche delle classi dirigenti internazionali, Musk dispone di un piano con una visione di ampia portata, declinato in progetti che dal punto di vista finanziario camminano con le proprie gambe, senza attendere interventi pubblici – e spesso in grado di rastrellare investimenti da fonti terze. La forza economica e l’ambizione delle sue imprese sono in grado di attirare i ricercatori di maggiore talento, e di configurare la salute e i servizi del futuro. Dal Rinascimento gli intellettuali sanno di poter scorgere un orizzonte di verità più ampio, perché la posizione del loro sguardo è sorretta dalle spalle dei giganti del passato, di cui ereditano l’esperienza. Noi oggi dobbiamo sospettare di essere scesi dalle spalle ai piedi, dal momento che la ricerca cammina con le gambe di Musk, di Kurzweil e dei loro alleati. Poiché sono tutti soggetti privati, e il loro intervento sta sostituendosi al welfare pubblico, reimpostandone la definizione e i contenuti, è legittimo domandarsi se ci dobbiamo preparare ad un futuro prossimo in cui l’umanità (anche occidentale) avrà una nuova struttura sociale: sarà divisa in una piccola élite che può aspirare ad una qualità della vita altissima e ad una longevità di larghe falde – ancorché non infinita – e in una massa di individui esclusi da questa prospettiva, e dipendenti dal tipo di formazione culturale, di offerta di intrattenimento, di selezione commerciale, che proverrà da questi stessi soggetti privilegiati.
4. Lussi che non ci possiamo permettere
All’inizio degli anni Settanta lo psicologo comportamentista Burrhus Skinner aveva dichiarato senza reticenze che la libertà è un lusso che non ci possiamo permettere. Il condizionamento operante che aveva sperimentato ad Harvard (e non solo, secondo le tesi di chi lo considerava molto integrato negli apparati della CIA e della NATO) doveva condurre ad una società ordinata, dove la libertà era consentita a tutti coloro che condividevano l’ideologia dello Stato, pronta a respingere qualunque seduzione della propaganda bolscevica. Qualora davvero riuscisse a funzionare, anche solo in parte, Neuralink potrebbe riuscire dove il metodo di Skinner ha fallito: un chip di AI innestato direttamente nel cervello, con un potenziale di innervazione a banda larga, può agire come uno strumento di controllo e di condizionamento di massima efficacia. Le gambe ci porteranno dove l’ordinamento sociale programma che le nostre attività saranno di maggiore utilità, e le mani cliccheranno sui pulsanti che saranno indicati dalla pubblicità veicolata dalle concessionarie di Musk. Uno scenario distopico molto più spaventoso, e comunque meno irrealistico, di quelli che Elon Musk si impegna a propagandare sull’intelligenza artificiale generale – in particolare quella non dominata da lui in prima persona, o dagli amici della setta degli Altruisti Efficaci.
Omeopatia e memoria dell'acqua - Una storia di scienza
Ciclicamente la scienza è attraversata da grandi discussioni attorno a problemi che appassionano i ricercatori, forse anche perché trattano di temi che riguardano abbastanza evidentemente la quotidianità di tutti noi.
Temi che oltre a far discutere a volte anche animatamente, si rivelano alla fine divisivi nelle opinioni: chi sta di qua e chi sta di là della linea di demarcazione della verità. A volte le dispute sono feroci e lunghissime, e proprio la stessa storia delle scienze ne è fedele testimone.
Gli esempi che si potrebbero fare sono tantissimi, e alcuni riguardano l’elemento apparentemente più comune sul nostro pianeta: l’acqua.
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Non c’è solo il caso dell’abbaglio preso sulla cosiddetta poliacqua, un liquido che pareva essere differente ma che alla fine si era dimostrata semplicemente impura: uno dei casi ancora oggi aperti riguarda un altro aspetto dell’acqua, e cioè la sua presunta “memoria”.
Un dibattito che parte da molto lontano, e che forse non è ancora del tutto chiuso.
Pur senza mai nominare il termine “memoria”, che fu invece coniato dagli ambienti di divulgazione scientifica della notizia, questa presunta qualità che permetterebbe all’acqua di mantenere un "ricordo" delle sostanze con cui è venuta in contatto fu proposto per la prima volta nel 1988 dal medico francese Jacques Benveniste: l’idea era che, per produrre tale effetto, l'acqua debba essere agitata ("succussa") a ogni diluizione di nuova sostanza con cui entra in contatto. Benveniste nei suoi lavori ipotizzò un meccanismo che spiegava in questo modo il presunto funzionamento dei rimedi omeopatici, la cui efficacia è, a tutt’oggi, non dimostrata. I preparati omeopatici, chimicamente composti di acqua e zucchero, vengono di fatto preparati miscelando più volte il principio attivo in acqua a diluizioni così spinte da perdere ogni presenza di molecole del principio attivo originario con cui vengono messi a contatto.
In verità non esiste alcuna prova scientifica che supporti l'esistenza del presunto fenomeno. Sebbene siano stati pubblicati studi che sembravano andare in quella direzione, in realtà tali studi non hanno mai superato la verifica in doppio cieco, necessaria per dare attendibilità ai risultati ottenuti.
Peraltro, a successive prove scientifiche effettuate nuovamente da “terzi”, i risultati ottenuti dal medico francese furono clamorosamente smentiti: le ricerche risultarono false e manipolate, e fu la rivista Nature a darne ampio risalto pubblicando una dettagliata relazione che smentiva i risultati ottenuti dal dott. Benveniste. Come apparse in modo chiaro e inequivocabile, da un punto di vista chimico-fisico l’acqua mantiene una relazione con le altre molecole con le quali viene in contatto per un tempo infinitesimale, nell’ordine di qualche decina di femtosecondi (unità di misura del tempo, sottomultiplo del secondo, pari a un milionesimo di miliardesimo di secondo, corrispondente al più breve impulso di luce mai realizzato).
Il concetto di memoria dell’acqua, insomma, così come proposto dagli studi (manipolati) di Benveniste appare pseudoscientifico e quindi privo di fondamento.
Nonostante ciò, il fascino del concetto rimane. Nel 2011, nella Conference Series del Journal of Physics (nota fra gli addetti ai lavori come serie con peer review alquanto debole, e quindi facilmente esposta a rischi di pubblicazioni non scientifiche) appare uno studio firmato dal premio Nobel per la medicina Luc A. Montagnier, biologo insignito appunto nel 2008 del prestigioso premio per la scoperta (assieme a Françoise Barré-Sinoussi) nel 1983 del virus HIV. In questo articolo, il team di ricerca di Montagnier dimostra come soluzioni acquose altamente diluite di sequenze di DNA proprio del virus HIV (e anche di altri virus e batteri), produrrebbero segnali elettromagnetici di bassa frequenza caratteristici del DNA in soluzione. Per i sostenitori dell’omeopatia, una sorta di manna dal cielo: i risultati del premio Nobel sembrano andare esattamente nella direzione della validità scientifica della proposta. Peccato che anche questa volta le cose non vadano bene: il lavoro viene additato a livello internazionale come privo di validità scientifica, carente nel protocollo sperimentale, nelle apparecchiature utilizzate e perfino incoerente nelle sue stesse basi teoriche. Un disastro, insomma. Montagnier, d’altro canto, ha spesso prestato il fianco a critiche anche feroci da parte di moltissimi suoi colleghi medici, biologi e virologi: le sue prese di posizione su virus, batteri e vaccini sono state disconosciute dall’intera comunità scientifica.
In ogni caso, quello che va ricordato è che la storia dell’acqua come veicolo di trasmissione di rimedi curativi è molto più antica del secolo scorso.
Benveniste non è stato certo il primo a parlarne, anche se ha avuto la visibilità maggiore. Lo stesso termine omeopatia ha radici molto più vecchie: lo si deve a un brillante studioso tedesco vissuto tra il 1755 e il 1843, Samuel Hahnemann. Bimbo prodigio, a dodici anni parla già diverse lingue e in soli 4 anni si laurea in Medicina a Erlangen nel 1779. Diventa grande e geniale medico, ma anche chimico, botanico, fisico e traduttore: in soli quattro anni, a partire dal 1785, furono edite ben duemila sue pagine di traduzioni e di opere originali. Fondatore dell’Omeopatia, ne coniò anche il termine, Homoepathie e denominò Allopathie la terapia classica: a differenza di quest’ultima, infatti, il principio ispiratore del nuovo approccio alla cura è espresso dall’aforisma “similia similibus curantur”, i simili si curano con i simili. Hahnemann fu certamente colpito dalle affermazioni provenienti dagli studi di Cullen: l’uso del chinino in un soggetto in buona salute provoca una sintomatologia simile a quella determinata dalla malattia che il chinino stesso è chiamato a curare. A partire da questa considerazione elaborò la teoria secondo cui ogni malattia va curata con un medicamento che provochi nell’uomo sano una analoga sintomatologia.
Così nacque l’Omeopatia. Nella storia del pensiero medico occidentale, Hahnemann è il primo e l’unico medico e pensatore che rompe completamente con tutti gli schemi scientifici, mentali e metodologici sino allora conosciuti in medicina.
Nonostante il lungo tempo trascorso, la sua opera ed il suo metodo sono tuttora oggetto di diatribe e accese discussioni. Per quanto l’Omeopatia abbia subito per oltre duecento anni gli attacchi più feroci, i boicottaggi più incredibili, le pubblicazioni più infamanti e ostracismi di ogni tipo, oggi essa è diffusa e praticata in quasi tutti i paesi del mondo, fra l’altro in costante e continua crescita. L’Omeopatia è sicuramente la metodica terapeutica che raccoglie in sé più prove scientifiche di ogni altro metodo curativo e assieme quella che fa registrare più opposizioni da parte del mondo accademico rispetto a tutte le altre terapie non convenzionali.
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Certezze poche, insomma. Se non quella che, a un’analisi eseguita con un approccio scientifico tradizionale (e fatto di quelle conoscenze finora disponibili) il tema della memoria dell’acqua (e quello a ruota dell’omeopatia) non abbiano superato lo sbarramento delle prove di scientificità.
Perché dunque continuare a parlarne? Semplicemente perché la verità forse non è (ancora) conoscibile. O forse è davvero complessa, a volte.
A testimonianza che le cose accadono al di là della nostra capacità umana di vederle, di comprenderle, di addomesticarle. Il che, spesso, non è assolutamente una brutta notizia.
Omeopatia e memoria dell’acqua - Per una ricerca oltre le contrapposizioni
Quando si parla di memoria dell’acqua, solitamente si cita il lavoro dell’immunologo francese Jacques Benveniste (1935–2004) - che coniò l’espressione “memoria dell’acqua” - e quello più recente di Luc Montagnier, che occasionalmente si trovò a descrivere le proprietà di una soluzione ultra diluita. E si afferma che questi lavori sarebbero stati confutati dalle confutazioni che avrebbero messo una pietra tombale sull’omeopatia. Tali confutazioni, tuttavia, sono state a lor volta respinte e ritenute non attendibili: si veda, ad esempio, il Report del Governo Svizzero del 2011 che rappresenta la valutazione più completa sulla Medicina Omeopatica mai scritta da un Governo (Bornhoft e Matthiessen, Homeopathy in Healthcare: Effectiveness, Appropriateness, Safety, Cost).
Fra le critiche all’omeopatia si afferma, da parte di clinici e farmacologi, che l’Omeopatia sia efficace solo per l’effetto placebo. Ma la gran parte dei nostri pazienti si rivolge a noi perché delusi dalla medicina “allopatica”, dopo essere stati in prima battuta dal loro medico di famiglia, poi anche dallo specialista di riferimento che non di rado è un clinico rinomato, cattedratico ecc… Inoltre, sappiamo che l’effetto placebo è insito in ogni terapia ed è relativo all’investimento di speranza e fiducia che il paziente ha nei confronti della medicina assunta.
Per cui sorge la domanda: come mai migliorano o guariscono solo con l’effetto placebo dell’omeopatia e non con quello dell’allopatia, tanto che essi sono costretti ad intraprendere altre strade per prendersi cura della propria salute?
La sperimentazione pura, ossia la somministrazione di un medicamento diluito a un soggetto sano, provoca una sintomatologia che, se presente in un paziente malato, quello stesso rimedio è in grado di guarire. Questa procedura che è stata avviata da Hahnemann e proseguita dai suoi allievi è insegnata in alcune scuole di omeopatia; anch’io all’inizio, quando ero ancora studentessa un po’ incredula, l’ho provata. È un modo per toccare con mano la legge dei simili, ma soprattutto per imparare a osservare se stessi e dunque anche i malati.
Il medico agisce in base ai bisogni del malato e ancora oggi non può sottrarsi a una certa dose di empirismo se vuole essere efficace e tempestivo; e spesso è guidato meglio dall’esperienza che dalle cosiddette Linee Guida.
La medicina è nata prima della scienza moderna e quest’ultima spesso si è trovata a spiegare a posteriori il meccanismo di azione di farmaci usati fino a quel momento in modo empirico.
L’esperienza di migliaia di omeopati e dei loro pazienti non può non essere considerata un’evidenza solo perché non è chiaro, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, quali sia il meccanismo di azione dei farmaci omeopatici.
E’ ragionevole pensare, proprio alla luce dello sviluppo storico della scienza, che presto il meccanismo di azione di un ultra diluizione sarà spiegato forse anche grazie alla fisica quantistica, di cui oggi si parla tanto (e non sempre a proposito, spesso consegnando al mondo new-age quanto dovrebbe appartenere a una ricerca seria).
Non dovremmo inoltre dimenticare, limitandoci alle diatribe sull’omeopatia, che abbiamo tutto un patrimonio di medicine tradizionali, con un bagaglio secolare di sapienza che rischia di andare perduto, se non si cercano con urgenza nuovi epistemi e nuove modalità di ricerca.
Quello che sarebbe importante è sedersi intorno a un tavolo, allopati ed omeopati senza rivalità od ostilità, e iniziare a studiare insieme questi fenomeni perché il tema della salute non può essere ristretto a un solo pensiero dominante e prevalente.
In fondo lo scollamento fiduciario, tra quello che i malati si aspettano dai medici e quello che i medici sono in grado di offrire oggi, è sempre più ampio ed è l’espressione di una crisi della medicina e della professione medica che è sotto gli occhi di tutti.
L’apporto delle Medicine Tradizionali e Complementari, con un’attenzione alla complessità della persona che soffre, alla relazione medico-paziente (che non è amabilità ma strumento di conoscenza per la giusta prescrizione), dovrebbe essere riconosciuto e apprezzato anche dal mondo accademico, perché quello che dovrebbe premere a tutti noi è solo la salute delle persone.
Sull’incommensurabilità e incomunicabilità dei paradigmi - Il caso dell’omeopatia
Si discute da decenni di omeopatia (dal greco omeios, simile e pathos, malattia). Un approccio alla cura, basato sulla legge dei simili, che prevede l'utilizzo di un rimedio (omeopatico) che produce nella persona sana gli stessi effetti (sintomi) della malattia che si vuole curare. Pertanto, il rimedio è simile alla malattia nella manifestazione dei sintomi che produce, ma di specie od origine diversa, cioè non è derivato o composto dello stesso agente che causa la malattia.
È certamente un’idea contro-intuitiva; e quindi non facile da accettare.
Ma anche il principio su cui sono nate le vaccinazioni era fortemente contro-intuitivo: inoculare un agente patogeno in un corpo, al fine di prevenire la malattia causata dallo stesso agente patogeno, all’inizio era considerata un’assurdità. Di solito se voglio non ammalarmi, cerco di stare a distanza dall’agente patogeno; non certamente lo introduco intenzionalmente nel mio corpo. Eppure sappiamo che con le vaccinazioni si fa proprio questo.
Le origini
Il medico tedesco Samuel C.F. Hahnemann (1755 – 1843) arrivò alla definizione di questo metodo di cura attraverso l’intuizione, la sperimentazione (dapprima della corteccia di China, da cui si estrae il chinino con cui si curava la malaria, e poi di altri rimedi su sé stesso, i suoi familiari e i suoi allievi, e raccogliendo una grande quantità di esempi clinici) e l'osservazione dei meccanismi della biologia, analizzando ciò che accade quando nello stesso soggetto si incontrano due malattie che hanno sintomi completamente diversi (malattie dissimili), oppure malattie con sintomi comuni (malattie simili).
Per evitare gli effetti collaterali delle medicine o rimedi omeopatici, Hahnemann ridusse sempre di più il loro dosaggio, arrivando così a dosi estremamente basse. Di fronte all'obiezione che dosi così piccole non potevano più essere efficaci, egli ribatté che l'efficacia curativa delle sostanze poteva essere enormemente aumentata tramite un processo chiamato "dinamizzazione", consistente nello scuotere (succussione) ripetutamente il prodotto.
Esistono oggi numerosi studi fisico-chimici che spiegano il meccanismo d'azione di tali diluizioni. Il problema rimane la riproducibilità di tali esperimenti, data l'instabilità di queste diluizioni (si veda Associazione Lycopodium 2019, Introduzione all’omeopatia).
Ai giorni nostri
Nel 1988 venne per la prima volta avanzata l'ipotesi della memoria elettromagnetica dell'acqua da parte dell’immunologo francese Jacques Benveniste (1935-2004). Quella che allora sembrava un'eresia, oggi è documentata da diversi gruppi di ricerca:
«In pratica, l'acqua ha un comportamento dinamico e le molecole sono in grado di formare dei reticoli assimilabili a un filo conduttore. Quando l'acqua viene posta in un campo magnetico le molecole si mettono ad oscillare all'unisono in modo coerente, o come si dice, in fase. La frequenza di oscillazione può essere trasmessa ai liquidi biologici» (Associazione Lycopodium 2019, Introduzione all’omeopatia).
In altre parole, l'acqua si comporta non come un materiale inerte e passivo, bensì dinamico nella trasmissione di una informazione energetica. Ogni stimolo fisico-chimico, e quindi anche la sostanza del rimedio, ha una certa frequenza di oscillazione che viene trasmessa all'acqua della soluzione, la quale continua a vibrare con la stessa frequenza anche quando la sostanza non è più presente.
«Il processo di agitazione del liquido (succussione) avrebbe proprio il compito di ‘riattivare la memoria dell'acqua’ ad ogni passaggio di diluizione, cioè 'rienergizzarla' con la stessa frequenza corrispondente alla sostanza iniziale. L'acqua fungerebbe così da messaggero, trasferendo poi la frequenza di oscillazione, ovvero l'informazione, ai tessuti e ai liquidi biologici dell'organismo che l'assume.
Sono state fatte altre ipotesi sul meccanismo di trasferimento dell'informazione da parte dell'acqua (tramite degli aggregati di molecole particolari, cavi al centro, che incorporerebbero così la molecola di soluto, i cosiddetti cluster) e la possibilità di una verifica sperimentale non sembra più così lontana.
La ricerca di base in Omeopatia ha ormai permesso di ritenere che il rimedio omeopatico sia dotato di una specificità nei confronti di sistemi 'recettoriali' dell'organismo. Il segnale veicolato dalla soluzione viene riconosciuto specificamente dall'organismo bersaglio ed elaborato in modo da indurre un'azione positiva su tutto il sistema. Si tratterebbe comunque di un'attività biologica in presenza di tracce di molecole, tanto che è stato coniato il termine di biologia metamolecolare, e l'informazione veicolata differisce da quella conosciuta dalla biologia e dalla farmacologia classiche» (Associazione Lycopodium 2019,Introduzione all’omeopatia).
Sappiamo che queste affermazioni sono ritenute prive di fondamento e di solide basi sperimentali da parte di molta medicina, biologia e farmacologia (più aperti sembrano invece i fisici teorici). Le diluizioni vengono considerate “acqua fresca” e gli effetti benefici dell’omeopatia come un “effetto placebo” dell’empatia, ascolto, attenzione, cura che il/la medico omeopata mette nella relazione con il/la paziente.
Una difficile mediazione
Come se ne esce? È possibile trovare una mediazione? Sì e no.
Sì,
nel senso che una mediazione è da tempo già praticata, anche in diverse strutture pubbliche del Sistema Sanitario Nazionale (ad esempio la Regione Toscana, sin dal 1996), dove la “medicina integrativa” o TCIM (Traditional, Complementary and Integrative Medicine) mostra tutta la sua utilità ed efficacia.
La TCIM, per come l’ha definita l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità),
“è la dimora di numerose concezioni e sistemi medici, come la medicina tradizionale cinese, la medicina ayurvedica, l’omeopatia, la medicina antroposofica e le medicine tradizionali locali. La caratteristica della TCIM è quella di integrare le cure convenzionali, farmacologiche e non, con altri approcci basati sull’esperienza artistica, sul movimento, sulle cure infermieristiche, sul colloquio biografico. Metodi diversi che si appellano all’attivazione del paziente e che risvegliano risorse latenti di guarigione molto differenti fra loro. Inoltre, la TCIM si propone strategie di ricerca che tengano conto della salute globale, per esempio sviluppando approcci di cura rivolti alle malattie croniche o a contribuire ad affrontare problemi collettivi come quello della resistenza antimicrobica (Kienle et al. 2019; Baars et al. 2019). Questi sistemi medici sono orientati primariamente alla qualità della vita, ma non si limitano ad essa; inoltre, si rivolgono non solo al paziente, ma anche ai curanti, per la prevenzione del burnout (Ben Arye et al. 2021).
No,
perché quello a cui assistiamo è uno scontro tra paradigmi, nel senso di Kuhn (1962, La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche).
Ogni paradigma ha i suoi assunti (taciti e/o espliciti), le sue premesse epistemologiche, le sue convenzioni metodologiche relative a quali siano i metodi adatti e cosa rappresenti un prova o un’evidenza.
Approssimando non poco, perché sia all’interno della medicina allopatica che in quella omeopatica esistono molte differenze, sfumature e sensibilità, attualmente nella medicina allopatica è dominante l’approccio basato sull’evidenza (EBM), che al di là dell’altisonante uso del termine ‘evidenza’, con esso intende «l'uso di stime matematiche del rischio di benefici e danni, derivate da ricerche di alta qualità su campioni di popolazione, per informare il processo decisionale clinico nelle fasi di indagine diagnostica o la gestione di singoli pazienti» (Greenhalgh 2010, How To Read a Paper: The Basics of Evidence-Based Medicine, p. 1). In altre parole, le evidenze sono risultanze statistiche derivate da studi a doppio cieco su campioni di popolazione. Conosciamo però (oltre ai pregi, anche) tutti i limiti di questo metodo. Pensiamo soltanto che non pochi farmaci sono stati ritirati dal mercato (ad es. dietilstilbestrolo, talidomìde, vioxx) dopo aver passato rigorosissimi (almeno si spera) studi statistici a doppio cieco.
Come mai? Le ragioni sono tante (e servirebbe un post apposito per elencarle). Una per tutte è che ognuno di noi è fatto in modo diverso; siamo portatori di una biologia individuale o personalizzata (Lock, 1995; Lock & Nguyen, 2010; Merz, 2021). Per cui l’interazione tra una biologia individuale e un farmaco standardizzato produce un numero enorme di possibili esiti; ancor di più, quando l’interazione è tra due individualità, come ad esempio un individuo e un cibo, oppure una malattia.
Al contrario l’omeopatia è una practice-based medicine, cioè si basa sullo studio e l’osservazione di un paziente considerato nella sua individualità anziché rappresentatività. Su quello che accade concretamente a lui o lei, e solo a lui o lei. Sulla sua interazione con l’agente patogeno e la malattia, che è un’interazione del tutto particolare, specifica, personale. Su studi clinici (pochi casi) anziché statistici (molti casi).
Due diversi (e incomunicabili) concetti di empiria
Ci troviamo di fronte a due empirie diverse e (forse) incomunicabili. La prima (quella statistica), per cui i casi singoli non contano nulla. L’altra (quella clinica) per cui contano solo i casi individuali.
Ed è su questi differenti concetti di cosa sia ‘empirico’ che si è (anche) giocato lo scontro sulle terapie anti-Covid: da una parte molti medici di base (peraltro pienamente appartenenti alla medicina convenzionale, che nulla o poco avevano a che fare con l’omeopatia) che proponevano terapie precoci anti-covid basate su farmaci convenzionali (come ketoprofene, ibuprofene a basse dosi, morniflumato, aspirina, nimesulide, corticosteroidi, eparine, idrossiclorochina, Azitromicina, Paxlovid, Remdesivir, ecc.); dall’altra gli ospedalieri e la gran parte dei ricercatori/scienziati che sostenevano che bisognava aspettare gli esiti degli studi standardizzati prima proporre una terapia, perché non credevano alle esperienze empiriche (limitate nel numero di casi) dei medici di base. E così, in attesa di un bel studio a doppio cieco, le persone morivano senza assistenza… La cecità del doppio cieco, potremmo dire.
Spesso chi critica l’omeopatia sostiene che i suoi asserti non hanno superato i requisiti di riproducibilità di un esperimento, che insieme alla verificabilità di una ipotesi di lavoro, rappresentano i due pilastri fondamentali della ricerca scientifica. Chi ragiona in questo modo, però, dimentica che l’esperimento è solo una fra i (tanti) metodi scientifici che le scienze dispongono per validare le scoperte e le conoscenze. Anche perché l’esperimento (oltre agli innumerevoli pregi) è un metodo con molti limiti, capace di controllare soltanto un numero molto esiguo di variabili, che per funzionare deve necessariamente ridurre la complessità dell’interazione tra un individuo e il mondo circostante. In questo sta la straordinaria potenza dell’esperimento, ma al contempo la sua povertà intellettuale e culturale. L’esperimento non è capace di padroneggiare la complessità. Ha bisogno di ridurre…
Un’altra accusa, complementare alla precedente, che si muove all’omeopatia è che non è in grado di mostrare e replicare i meccanismi chimici su cui si basano le sue ipotesi. Oppure che affida le spiegazioni sul funzionamento molecolare dei rimedi omeopatici a future “magnifiche sorti e progressive” della fisica quantistica; mentre le spiegazioni noi le vorremmo ora, e non domani. In altri termini, si vedono gli effetti di un trattamento omeopatico, ma non si evidenziano chiaramente le cause, i meccanismi. Accusa speculare a quella che, invece, gli omeopati rivolgono ai farmaci convenzionali: intervengono sugli effetti e non sulle cause (innescando, a volte, anche reazioni avverse).
Anche in questo caso, l’impossibilità di comunicare e comprendersi è alta. Eppure pretendere di capire tutto e subito (di un farmaco, di un trattamento, di una teoria) è segno di scarsa apertura al possibile, all’inconoscibile, all’ignoto, al mistero…
L’aspirina
L’ASPIRIN è acido acetilsalicilico, della famiglia dei salicilati. Erodoto (V sec a.C.) nelle Storie narra di un popolo stranamente più resistente di altri alle comuni malattie, che era solito mangiare le foglie di salice. Ippocrate (V sec a.C.) descrisse una polvere amara estratta dalla corteccia del salice che era utile per alleviare mal di testa, febbre, dolori muscolari, reumatismi e brividi. Un rimedio simile è citato anche dai Sumeri, dagli antichi Egizi e dagli Assiri. Anche i nativi americani lo conoscevano e lo usavano.
Nell'era moderna è stato il reverendo Edward Stone, nel 1757, a scoprire gli effetti benefici della corteccia di salice. Sei anni dopo scrisse una famosa lettera alla Royal Society in cui giustificava in modo razionale l'utilizzo della sostanza contro le febbri.
La sostanza attiva dell'estratto di corteccia del salice bianco (Salix alba), chiamato salicina, fu isolata in cristalli nel 1828 da Johann A. Buchner e in seguito da Henri Leroux, un farmacista francese, e da Raffaele Piria, un chimico calabrese emigrato a Parigi, che diede al composto il nome attuale (acide salicylique).
Nel 1860 Hermann Kolbe e i suoi studenti dell'Università di Marburgo riuscirono a sintetizzare l'acido salicilico, immettendolo poi sul mercato nel 1874 a un prezzo dieci volte inferiore all'acido estratto dalla salicina, e già nel 1876 un gruppo di scienziati tedeschi, tra cui Franz Stricker e Ludwig Riess, pubblicarono su The Lancet gli esiti delle loro terapie basate sulla somministrazione di sei grammi di salicilati al giorno.
Il meccanismo di azione dell'aspirina fu conosciuto in dettaglio solamente nel 1970, dopo millenni di suo uso e 150 anni dal suo isolamento chimico.
Perché escludere che potrebbe accadere lo stesso anche per i preparati omeopatici?
In conclusione: l’omeopatia è una scienza?
Qualche tempo fa, Ioannidis (2005), medico ed epidemiologo greco e statunitense, uno dei più importanti scienziati nel suo campo, pubblicò un articolo dal titolo destabilizzante: Why most published research findings are false. Dieci anni più tardi, l’11 aprile 2015, Richard Horton (dal 1995 capo-redattore de The Lancet, forse la rivista medica più importante del settore) pubblicò una sorta di editoriale dal titolo “What is medicine’s 5 sigma?“, in cui afferma senza mezzi termini:
“gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, potrebbe semplicemente essere falsa (untrue). Afflitta da studi con campioni di piccole dimensioni, effetti risibili, analisi esplorative non valide e evidenti conflitti di interesse, insieme a un'ossessione nel perseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza ha preso una svolta verso il buio. Come ha detto uno degli addetti ai lavori "metodi scadenti ottengono risultati".
Se adottiamo una visione realistica (lontana da una versione idealista o normativo/prescrittiva della scienza, purtroppo propria di molta filosofia della scienza) dobbiamo accettare che le situazioni descritte da Ioannidis e Horton sono… scienza. Che ci piaccia o no.
E se queste pratiche (incerte, dubbie, difettose) sono a tutti gli effetti attività scientifiche, perché non accogliere e considerare anche l’omeopatia una scienza?
Chi lo vieta? Soltanto un’ottusità di sapore neopositivista…
Bibliografia
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Seveso, 1976 - Il Comitato tecnico scientifico popolare attraverso le fonti orali e d’archivio
Nell’articolo Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere di qualche settimana fa avevo brevemente introdotto che cosa accadde il 10 luglio 1976 a Seveso-Meda, che cos’era l’Icmesa e alcuni problemi nati con il “disastro”, che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante la mia ricerca etnografica a Seveso. Nelle prossime righe mi concentrerò sulle vicende del “Comitato tecnico scientifico popolare” che nacque all’indomani del “disastro”.
Con l’evento del 10 luglio 1976, a Seveso sorsero nuovi gruppi organizzati di abitanti e nuove soggettività sociali e politiche. Il rovesciamento della dimensione quotidiana e l’affacciarsi di una «crisi della presenza»1 avevano portato all’emergenza di coaguli di persone che «non si limitavano al ruolo di vittime, come dicevamo noi, ma appunto hanno cercato di costruire dei legami e dei rapporti e di darsi degli strumenti di comprensione critica»2 e la cui sede principale a Seveso era il Circolo del Vicolo. Stefano, un ragazzo di vent’anni nel 1976 che lavorava in una falegnameria e aveva l’intenzione di iscriversi all’università, ricorda nel documentario «Seveso, Memoria di parte» il momento di fondazione del circolo.
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Ci si è trovati in un momento in cui la gente era estremamente preoccupata per la propria salute, ma avevano a che fare con un tossico impalpabile, inodore, incolore, invisibile. Il momento della fuoriuscita, che era il momento evidente, era passato. Il tossico ormai era depositato sui tetti, sui muri, sui pavimenti lastricati, sui terreni, ma non si vedeva. Per cui la gente iniziava ad avere la preoccupazione per la propria salute, ma andava esorcizzata perciò ci si appellava al matto di turno che diceva “non è successo niente, io vado a mangiare l’insalata lì dentro”, perché questo abbassava la tensione. Questo è servito per molti in buona fede, per molti altri ne hanno avuta un meno di buona fede dicendo le medesime cose, serviva per tenere moderata la tensione che vivevano quotidianamente. Abbiamo costruito questo che si chiamava Circolo del Vicolo perché la sede si trovò in una via che di chiamava Via del Vicolo, da lì Circolo del Vicolo.3
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Stefano racconta che l’ingente lavoro politico e culturale prodotto dal circolo nasceva dalla necessità di rispondere a bisogni e desideri che riguardavano l’esistenza intera. Per lui è stato un periodo nel quale la gente discuteva dappertutto e vi era un’adesione sociale molto elevata a qualsiasi tipo di situazione per un «trascinarsi probabilmente di quello che era la partecipazione alle lotte operaie»[4].
Il Circolo del Vicolo, nella sua dimensione locale, era un’espressione di questa stagione dei “movimenti” e, come sottolinea Stefano, il movimento operaio e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici per il salario e la salute in fabbrica trascinarono e crearono momenti di mobilitazione estesi e partecipati. Tra i gruppi che attraversarono il laboratorio politico del Circolo del Vicolo vi era il “Comitato tecnico scientifico popolare”.
Per Davide, fu il gruppo più importante nel ciclo di lotte locali a seguito del “disastro” dell’Icmesa.
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Il [gruppo, N.d.R.] più importante sicuramente è stato il Comitato tecnico scientifico popolare che era stato creato quasi subito da alcuni lavoratori dell’Icmesa, anche membri del consiglio di fabbrica, da giovani del territorio di allora e si è avvalso subito del supporto appunto di Medicina democratica che era a sua volta collegata alle lotte per la tutela della salute nelle fabbriche. In particolare, erano arrivati quelli del gruppo di Castellanza dove c’era un grosso stabilimento Montedison, dove si erano sviluppate delle esperienze molto interessanti di lotta ma anche di autotutela da parte dei lavoratori. E quindi diciamo sono arrivati qui e si sono messi in contatto con le realtà locali e appunto poi non solo, sono nati anche gruppi per esempio legati al movimento femminista il “Gruppo donne Seveso-Cesano”. E successivamente nacquero altri gruppi più piccoli come il “Comitato di controllo zone inquinate”. Insomma, erano nate diverse realtà spontanee che erano collegate un po’ da una serie di volontà di comprensione critica e di avere un ruolo nella tutela della propria salute e anche di verità rispetto a quanto accaduto e alle responsabilità rispetto a quello che era accaduto.5
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Il comitato era un organismo di base di contro-informazione e di lotta e aveva relazioni con altri soggetti politici della sinistra extra-parlamentare o delle componenti meno allineate alla politica di solidarietà nazionale del Pci degli anni Settanta. In particolare, vi erano dei collegamenti con “Medicina democratica movimento di lotta per la salute” e con la consigliera regionale del Pci, Laura Conti.
Fin dai primissimi giorni successivi alla fuoriuscita della nube tossica, il CTSP assunse fondamentali funzioni di informazione, controllo e organizzazione nei confronti degli operai dell’Icmesa e della popolazione sevesina. Il suo primo impegno a circa otto-dieci giorni dallo scoppio del reattore fu quello di fornire una prima sommaria ricostruzione dell’accaduto sulla base del materiale documentario raccolto e fornito dal confronto con i lavoratori dell’Icmesa. Fu così esaminato il ciclo produttivo del triclorofenolo all’interno della fabbrica per comprendere le cause che avevano portato al fatto-tragedia-disastro di Seveso. Questo lavoro fu realizzato dal confronto tra gli operai della fabbrica medese e il Gruppo P.I.A della Montedison di Castellanza, congiuntamente a Bruno Mazza dell’Istituto di chimica, fisica, elettrochimica, metallurgia del Politecnico di Milano e Vladimiro Scatturin dell’Istituto di chimica generale e inorganica dell’Università degli studi di Milano. Il documento prodotto dal titolo “Contributo del CTSP costituitosi in seguito all’inquinamento prodotto dall’ICMESA, in appoggio ai lavoratori e alla popolazione colpita” fu presentato nell’assemblea organizzata dalla Federazione unitaria Cgil-Cisl-Uil nelle scuole medie di Cesano Maderno il 28 luglio 1976. La ricostruzione del ciclo produttivo è stata in seguito pubblicata come primo articolo[6] nel numero monografico di «Sapere» dedicato a Seveso. Comprendere l’eziologia del “disastro” era un passaggio fondamentale per riflettere e agire sulle conseguenze dello stesso e per farlo era imprescindibile il coinvolgimento di chi nella fabbrica passava le sue giornate. Nella ricerca si evidenziò che l’Icmesa aveva introdotto delle varianti nel ciclo produttivo con lo scopo – secondo il Gruppo P.I.A., Mazza e Scatturin – di ridurre radicalmente i costi di produzione, scegliendo di operare in condizioni sempre più pericolose. La logica adottata dalla multinazionale svizzera era volta alla massimizzazione del profitto e faceva tendere all’infinito il «coefficiente di rischio» della produzione di sostanze ad alto rischio di tossicità, trasformando – quindi - in una certezza la possibilità di un “incidente”.
Lo scopo dell’approfondito lavoro di ricostruzione del ciclo produttivo realizzato da un’apposita commissione del CTSP metteva in questione l’astrattezza dei concetti di «univocità» e «oggettività» del ciclo produttivo e di scienza.
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Va detto, in conclusione, che il gruppo operaio non accetta in modo astratto la «univocità» e la «oggettività» del ciclo produttivo e della scienza e tecnologia che lo hanno imposto.7
»
Il documento racchiudeva e metteva al centro la soggettività operaia riferita al ciclo stesso di produzione per fornire uno strumento utile alla comprensione del rischio vissuto quotidianamente e per partire dal punto di vista degli operai stessi.
Nelle conclusioni dell’articolo, vengono evidenziate due tipi di culture e di progresso: quella «del capitale» e quella dello «sviluppo sociale». Se la prima, spinta dalla molla del profitto economico privato, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dai poteri privati, la seconda è portatrice di istanze critiche nei confronti del “progresso” inteso come fine ineluttabile delle società umane. Al contrario, la “cultura sociale” si proponeva di azzerare il «coefficiente di rischio» attraverso lo sviluppo di una diversa forma di sapere avente come linea portante un inedito rapporto tra tecnici-operai-popolazione. Il CTSP si proponeva come esempio di tale relazione tra l’interno e l’esterno della fabbrica. Davide ricorda proprio questo passaggio come centrale nello sviluppo della lotta sevesina.
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Mentre nello stesso periodo le autorità sanitarie balbettavano, non sapevano cosa dire, non potevano forse dire tutto. Quindi per una fase iniziale nei primi mesi sì, [il CTSP, N.d.R.] era molto ascoltato, poi magari non tutti erano d’accordo, ma sicuramente molto ascoltato. E devo dire che inizialmente questo rispecchiava anche un legame che si stava un po’ instaurando tra territorio e fabbrica, tra territorio e lavoratori della fabbrica. Ora non la faccio troppo lunga, ma per come si era sviluppata l’industria nel territorio, nel nostro territorio c’era molto uno distacco tra la fabbrica e il territorio agricolo-artigianale di quegli anni. Tra chi lavorava in fabbrica e gli altri erano mondi un po’ strani, convivevano, ma senza proprio incontrarsi. Per un attimo quella vicenda nella sua drammaticità aveva costruito un legame perché per la prima volta quelle nocività uscivano sul territorio. Quelle nocività che non solo nella fabbrica, erano percepite come un problema della fabbrica si riversano in modo traumatico sul territorio. Quindi è la prima cosa che fa la popolazione non operaia andare a dire bah, chissà, forse chi ci lavora dentro qualcosa sa. C’è un’intervista a un lavoratore del Consiglio di Fabbrica dell’ICMESA, che racconta che alcuni genitori di bambini con la cloracne hanno contattato loro perché le autorità risposte sembravano non darne o comunque non ne parlavano volentieri e quindi si rivolgono ai lavoratori. Tra l’altro è da lì che anche i lavoratori prendono coscienza definitiva della gravità di quello che è accaduto e sospendono la produzione. Proclamano lo sciopero ad oltranza. È praticamente la fine dell’Icmesa.8
»
Gli obiettivi del comitato furono esplicitati nel bollettino pubblicato nel settembre del 1976 e si posero in contrapposizione con l’operato delle istituzioni locali, regionali e nazionali che – secondo il CTSP – avevano coperto e soffocato ogni tipo di protesta e di organizzazione degli abitanti della zona, non fornendo sufficienti informazioni sulla situazione per fare maturare una consapevolezza collettiva del rischio.
Nel prossimo articolo sul CTSP, partirò proprio da qui per scendere nel sottobosco dei documenti conservati dall’Archivio Seveso. Memoria di parte e della storia del comitato.
NOTE
1 Per «crisi della presenza» si intende una situazione in cui un individuo o un gruppo umano si trovano ad affrontare un particolare evento, come per esempio la malattia o la morte, durante il quale si sperimenta un’incertezza, una crisi radicale della possibilità di esserci nel mondo e nella storia, tanto da scoprirsi incapaci di agire e di determinare la propria azione. Si veda, E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi, 1977.
2 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.
3 Archivio Seveso Memoria di parte (Asmp), b. CTSP, Interviste-documentario “Seveso, Memoria di parte”. Si tratta di un documentario autoprodotto dall’ “Archivio Seveso Memoria di parte”.
4 Ibidem.
5 Intervista a Davide, abitante di Desio e testimone del “disastro” dell’Icmesa, 27 gennaio 2024.
6 Si veda, Gruppo P.I.A., B. Mazza, V. Scatturin, “ICMESA: come e perché”, in «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, pp. 10-36.
7 Ivi, p. 34.
8 Intervista a Davide, 27 gennaio 2024.
L'anima - Origini antiche di un concetto impopolare
I confini dell’anima non riuscirai a trovarli per quanto tu percorra le sue vie.
Eraclito, frammento 45
Premessa
Accennavamo poco tempo fa agli eventi interiori che possono aver luogo nel teatro dell’anima. L’idea di anima non è molto popolare oggi, parlarne crea uno strano imbarazzo. Affascinati dalle immagini della Risonanza Magnetica funzionale, molti neuroscienziati tendono a considerare la coscienza umana come un prodotto del cervello. Un processo nervoso, talmente automatico, che si può tranquillamente escludere il libero arbitrio: qualcuno ha proposto addirittura di abolire il Diritto Penale; se uccido o rubo, non dipende da me, ma da tempeste ormonali e intrecci di neuroni.
Un noto divulgatore scientifico annovera tra i possibili sostituti dell’anima persino il DNA. Dico subito che il DNA non è più attivo e vitale della tastiera di un pianoforte: funziona a seconda di chi lo suona, ma se non viene stimolato rimane inerte. È solo un replicatore di mattoni dell’organismo.
In quanto al rapporto del cervello con la coscienza, è piuttosto difficile spiegare come un ammasso spugnoso di neuroni possa creare la Divina Commedia o la Nona di Beethoven. Un geniale filosofo australiano, David Chalmers, ha giustamente distinto ciò che esce dallo scoppiettio e dalle immagini delle macchine che indagano il cervello, dall’universo insondabile e soggettivo della coscienza umana: il primo è il “problema facile”, il secondo, quello “difficile”.
In effetti, la difficoltà di penetrare nei meandri della coscienza dipende primariamente dal fatto che pretendiamo di conoscere un’entità soggettiva con strumenti oggettivi. Possiamo allora indagare la coscienza tramite la coscienza? Beh, la psicoanalisi si è formata attorno a questa idea e, se la psiche non esiste, allora la psicoanalisi è la scienza del nulla.
Ma come è nata l’idea della psiche ? Le radici del nostro pensiero sono greche. Chiediamolo ai greci.
L’anima
Proiettiamoci in un lontano passato, in un carcere di Atene. Socrate ha lealmente accettato la sentenza di morte, ingiustamente stabilita dal tribunale della città. Gli amici che lo assistono sono disperati: la tua grande anima svanirà nel vento! Ma Socrate risponde con parole inaudite: l’anima non muore con il corpo e io resterò là dove sono sempre stato (Platone, Fedone).
Siamo nell’anno 399 del tempo precristiano e stiamo assistendo alla nascita dell’idea dell’anima. La cultura greca fino a quel tempo poggia sui grandi Misteri di Eleusi: dopo la morte l’anima si disperde nel vento, del resto ànemos (“άνεμος”) vuol dire proprio vento. Quel che resta di questo alito si rifugia in un’ombra pallida, prigioniera dell’Ade, il buio regno di Persefone. Non c’è vita oltre la morte: nella cupa discesa di Ulisse nell’Ade, l’ombra di Achille si dispera: «Vorrei essere un servo da vivo, piuttosto che regnare sui morti» (Omero, Odissea: XI, 489).
Noi ci serviamo delle parole per comunicare, ma guardate come il senso di un vocabolo può radicalmente mutare significato ed esperienza interiore. Fino a questo istante dell’anno 399 la parola pneuma (πνεύμα) indica un alito di vento, gli allievi di Socrate temono che il maestro morendo si dissolva come un soffio nel vento.
Ma da qui in poi πνεύμα diventa lo spirito immortale: qualche secolo più tardi, Giovanni il discepolo di Gesù, dirà al nobile fariseo Nicodemo: «Lo Spirito [Το πνεύμα] soffia dove vuole e tu odi la sua voce, ma non sai da dove viene, né dove va» (III, 8).
Socrate non si basa sulle dottrine di Eleusi, è un iniziato dei Misteri orfici del nord, portatori dell’idea rivoluzionaria dell’immortalità dell’anima. «Resterò dove sono anche dopo la morte» è la parafrasi di un pensiero ricorrente per Socrate, che può attardarsi a meditare anche prima di varcare la soglia di un amico che lo ha invitato a un festeggiamento (Platone, Il Simposio).
Il filosofo si interroga costantemente sul continuo mutare del mondo: «Perché ogni cosa si genera, perché si corrompe e perché esiste» ( Platone, Fedone 96 A, 9). Svela così il suo percorso di meditazione, che lo conduce a indagare a fondo le pieghe nascoste della coscienza, la sua logica, la sua mutevolezza, la sua incoerenza. L’anima assomiglia a una biga alata, trainata da due cavalli che vorrebbero seguire direzioni opposte (Platone, Fedro, 246).
Socrate non si limita a rivelare che l’anima è immortale, ma ne tratteggia le qualità: la capacità di apprendere, di ricordare, di formare concetti; descrive le sue lotte interiori, insegna come curarla. «Prendersi cura dell’anima» è un invito che il filosofo ripete spesso: proprio come ci prendiamo cura degli occhi fisici, perché possano vedere correttamente, così dobbiamo prenderci cura dell’occhio dell’anima, perché sensazioni ed emozioni siano chiare.
Per forza non crediamo più all’esistenza dell’anima: stiamo guardando dalla parte opposta! Gli occhi fisici non vedono la natura delle cose, ma solo il loro aspetto esteriore. Sono le emozioni che possono percepire oltre, ma devono essere pure, non mescolate con quelle del corpo. La rivelazione del Simposio è tutta qui, nel saper ascoltare intensamente, “eroticamente”, ma rinunciando al fisico.
La vera essenza delle cose non si manifesta in pensieri, ma in immagini; queste, però, sono sfumate, indefinite. Ecco che nell’attività del pensiero sorge la dimensione del dubbio. Socrate dice di «non sapere», ma è ricco di immagini. Questo è il motore della ricerca scientifica.
La prossima volta parleremo dei dubbi di Newton.
Le nuvole scrivono il cielo di Seveso - Il crimine di pace, la scienza e il potere
In questo scritto racconterò brevemente che cosa accadde il 10 luglio 1976 e che cos’era l’Icmesa. In seguito, solleverò alcuni problemi nati con il disastro che interpellano il rapporto tra produzione industriale, ricerca scientifica, ambiente, salute e popolazione, alternando l’utilizzo di fonti bibliografiche, articoli di cronaca e interviste realizzate durante mia ricerca etnografica a Seveso.
10 luglio 1976, ore 12.37
«Eravamo a pranzo. Era anche una bella giornata di sole. Tutto ad un tratto sentiamo pof. Poi un sibilo forte, come se fosse scoppiata una gomma. Ma più forte, come se ci fosse dell’aria che usciva. Io sono corsa sul balcone e come esco dal balcone davanti ho una casa con un altro mio amico. Anche lui era fuori e faceva così [indica il cielo con il dito]. Mi giro e vedo ‘sta nuvola fantastica, bellissima. Bianca. Proprio di un bianco, proprio bello. Bella, sì1».
Chi era presente quel giorno a Seveso non si aspettava una nuvola così bella e così pericolosa proprio in quel momento. Tuttavia, il sentore che sarebbe potuto accadere qualcosa era nell’aria.
«[Hoffmann e La Roche, N.d.R.] hanno sempre considerato l’incidente del 10 luglio ‘76 come un evento casuale. E io ho sempre detto: vero, nel dire casuale il dieci luglio 1976 alle 12.37. L’impianto era talmente obsoleto, la fabbrica e i relativi controlli erano talmente privi di sistemi di sicurezza che un incidente era nelle corde»2, mi ha raccontato Massimiliano Fratter, sevesino dalla nascita e responsabile del progetto il Ponte della memoria. Non solo il cielo fu scritto dal passaggio delle nuvole velenose, ma il risveglio sensoriale interessò anche l’olfatto. Infatti, Maria racconta che poco dopo aver visto quella nuvola bellissima ha sentito anche l’odore di saponetta, «quell’odore buono di profumo». Quello solito a cui era abituata3. L’Icmesa era soprannominata dagli abitanti della zona la fabbrica dei profumi4 per gli odori che la sua produzione esalava.
Le origini della fabbrica risalivano al 1921. Prima della seconda guerra mondiale l’azienda aveva sede a Napoli. Dopo la distruzione dello stabilimento campano a causa dei bombardamenti, la fabbrica fu trasferita Meda, sotto il controllo del gruppo svizzero Givaudan, che ne deteneva il pacchetto azionario di maggioranza e che a sua volta era stata acquisita dalla multinazionale farmaceutica Hoffmann-La Roche5. La produzione dello stabilimento cominciò tra il 1946 e il 1947 e consisteva nella realizzazione di componenti chimici, alcuni dei quali ad alto tasso di pericolosità. In particolare, dal 1969 il reparto B era stato utilizzato per la fabbricazione del 2,4,5-triclorofenolo (TCF), una sostanza impiegata principalmente per la preparazione di alcuni tipi di erbicidi e per la produzione di esaclorofene, un antibatterico utilizzato in alcuni tipi di cosmetici, di saponette e di disinfettanti6.
Tuttavia, per una parte della popolazione di Seveso, per alcuni medici e giornalisti di cronaca locale, l’Icmesa non solo inquinava da anni e avvelenava gli operai e la gente, ma produceva sostanze pericolose non solo per la cosmesi. La fuoriuscita di diossina sarebbe stata una prova.
L’8 agosto 1976 Pierpaolo Bollani intervista (per il Tempo) Fritz Möri, l’ingegnere che aveva progettato il reattore per la produzione di triclorofenolo. Nelle scettiche parole del tecnico di Losanna rispetto all’eventualità di formazione di TCDD nel reattore “a meno di compiere errori madornali», viene presentata la possibilità «che all’Icmesa in quel reattore, La Roche producesse in realtà altre cose»7. Lo stesso direttore tecnico della Givaudan Jörg Sambeth ha ammesso che l’Icmesa era una dreck fabric, una fabbrica sporca, dove l'impianto veniva fatto funzionare al di sotto di qualsiasi standard ragionevole di sicurezza e dove si portavano avanti due linee di produzione: una feriale, più pulita e probabilmente destinata a usi civili, e una festiva, realizzata a temperature critiche, vicine al punto di combustione e di sintesi della diossina.
Anche se non sapremo mai con certezza che cosa producesse l’Icmesa, quanto è accaduto a Seveso pone delle domande attuali in merito al rapporto tra la produzione industriale – e la correlata ricerca scientifica – e l’ambiente, la salute, la popolazione e la guerra. In un intervento contenuto nell’autoproduzione Topo Seveso. Produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita8 viene considerata la sottile separazione tra le «produzioni chimiche per la guerra o per la pace»9 perché «è durante la pace che si prepara e si arma la guerra: sono le stesse aziende che producono materiale da imballaggio, detergenti, disinfettanti, che poi preparano anche la base per le bombe e le altre armi chimiche, così come sono le aziende che producono le pentole e le travi per la costruzione che confezionano anche le armi. E le aziende che producono altro, non direttamente implicabile con la guerra, possono sempre investire nel mercato delle armi, più o meno legalmente»10.
Si tratta di una questione centrale per il momento storico in cui viviamo e che toglie il velo di Maya dalla ricerca scientifica intesa come attività neutrale e ab-solutas. Ci fa interrogare sui programmi di ricerca e applicazione delle istituzioni in cui studiamo e dei luoghi in cui lavoriamo. L’evento straordinario di Seveso amministrato secondo le regole dell’ordinaria amministrazione – come Laura Conti ha evidenziato nel reportage Visto da Seveso11 – ci parla ancora oggi delle relazioni che intercorrono tra industria, tecnologia e ambiente. I termini con cui l’evento del 10 luglio 1976 è stato definito sono numerosi e carichi di significati e orizzonti culturali e politici diversi tra loro: incidente, tragedia, fatto, disastro, catastrofe, crimine.
A mio avviso, il concetto di catastrofe, liberato dal particolare uso linguistico sevesino, è utile per focalizzare alcuni nodi della questione. La catastrofe genera paradossi e campi di forze contradditorie. I conflitti nati dall’evento catastrofico hanno interessato la concezione di progresso, di scienza, di salute e di ambiente di un intero Paese. L’agone tra le differenti e opposte prospettive di trattare l’evento straordinario dell’Icmesa ha avuto luogo nelle strade di Seveso, negli ufficiali comunali e nelle aule del Parlamento, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, negli articoli di giornale e nelle fabbriche e ha svelato le forze, gli interessi e le asimmetrie di potere strutturali italiane e globali.
Le catastrofi sono totalizzanti e per questo come scrive Mara Benadusi sono «oggetti antropologici e filosofici “buoni da pensare”»12 . Ponendosi come cesure che differenziano un prima e un dopo temporale e spaziale, investono ogni sfera della vita umana e sociale. Le traiettorie biografiche individuali e collettive sono state catapultate dalla dimensione locale a quella globale. Sandro, un abitante di Seveso incontrato durante il mio lavoro di ricerca etnografico nelle zone del disastro dell’Icmesa, riesce a trasmettere la repentinità dell’evento eccezionale ed emergenziale nella sua uscita dalla dimensione locale della Brianza.
«Questa cosa è sicuramente stata molto importante dal punto di vista comportamentale della popolazione perché eri passato da una emerito sconosciuto a uno stronzo che sta inquinando il mondo. Non so come dire […] È una cosa che magari c'è chissà da quante altre parti. Ma finché non succede il fattaccio, nessuno lo viene a sapere»13.
Il crimine di pace – come lo ha definito Giulio A. Maccacaro, ha sconvolto le comunità di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno14. In quei territori approdo delle migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, l’economia di tipo artigianale, l’identità di campanile e i valori del lavoro e della religiosità cristiana cattolica furono sconquassate dalla nube del 10 luglio 1976 e dalle lotte sociali e politiche che seguirono. Bruno Ziglioli scrive:
«La popolazione si riaggregò e si divise su basi completamente diverse: tra gli evacuati della zona A che desideravano rientrare nelle proprie abitazioni e gli abitanti rimasti che temevano di essere esposti al veleno; tra coloro che erano sistemati al residence di Bruzzano (cioè vicino a casa) e quelli che invece erano alloggiati al motel Agip di Assago (molto più distante); tra chi tendeva a minimizzare e chi a enfatizzare il pericolo; tra chi era favorevole all’incenerimento in loco del terreno contaminato e chi invece chiedeva di sperimentare tecniche di decontaminazione meno invasive. Vi furono manifestazioni, proteste, blocchi stradali; gli sfollati rioccuparono a più riprese le case nella zona ad alto inquinamento. Come spesso accade in queste situazioni, si innescò anche la caccia al capro espiatorio: i lavoratori dell’Icmesa, e con loro i sindacati, furono additati da una parte degli abitanti come corresponsabili dell’incidente, perché avrebbero conosciuto e taciuto i rischi del processo produttivo e le scarse condizioni di sicurezza dello stabilimento»15 .
Tuttavia, furono proprio gli operai a interrompere la produzione della fabbrica perché dalla direzione non era arrivata nessuna indicazione chiara. Amedeo Argiuolo, operaio dell’Icmesa, ha raccontato in una recente intervista per il Giorno che «all’inizio, l’azienda tentò di minimizzare. Il reparto B era chiuso, e noi ci chiedevamo perché…i responsabili dell’Icmesa dicevano che era solo un piccolo incidente, che era tutto sotto controllo, anzi aveva mandato qualcuno di noi, solo guanti e mascherine, a fare carotaggi: dicevano che avevano mandato tutti ai laboratori di Basilea e ci avrebbero fatto sapere. Secondo loro, bisognava continuare a lavorare»16.
Il Consiglio di fabbrica dell’Icmesa ha avuto un ruolo fondamentale per fare emergere la pericolosità dell’accaduto non solo all’interno della fabbrica, ma per la popolazione e il territorio circostante. Alberto, abitante delle zone interessate dal disastro, ricorda che: «Qui [a Seveso] era nato anche un comitato. Si chiamava Comitato tecnico scientifico popolare17 e metteva insieme sia il Consiglio di fabbrica dell’Icmesa che ha avuto un ruolo importante in questa vicenda sia gli scienziati»18 .
Il CTSP con il medico G. A. Maccacaro e la rivista Sapere hanno messo in discussione la “scienza ufficiale” che procedeva a tentoni e in un primo momento aveva tentato di insabbiare e poi di minimizzare l’accaduto. Il CTSP fece un lavoro di informazione e controinformazione teso a prendere sul serio l’evento sevesino, rompendo «i giorni del silenzio» di Icmesa-Givaudan-Hoffman-La Roche e delle istituzioni italiane. Infatti, durante l’Assemblea Popolare del 28 luglio 1976, organizzata dalla Federazione Unitaria di CGIL-CISL-UIL nelle scuole medie di Cesano Maderno, i membri del CTSP hanno segnalato prima di qualsiasi altro organo ufficiale l’avvelenamento della popolazione e del territorio da parte dell’Icmesa. Gli operai del Consiglio di fabbrica che decisero di chiudere la stabilimento per avere maggiore chiarezza erano una parte fondamentale e attiva nel Comitato. Tra le pagine del numero di Sapere interamente dedicato a Seveso, il Gruppo P.I.A.19 dopo aver ricostruito il ciclo produttivo dell’Icmesa nei minimi dettagli conclude interrogando la differenza tra due tipi antagonisti di “cultura e di progresso” e di scienza. Il Gruppo P.I.A. scrive:
«Chi è spinto dalla molla del profitto e adotta la regola che i guadagni sono privati, mentre le perdite sono pubbliche, persegue lo sviluppo di una cultura basata sulla neutralità ed asetticità della Scienza, sulla sua separazione dalla politica, sugli incentivi per la ricerca che provengono dal profitto e dal potere individuali od oligarchici»20 .
Quanto accaduto a Seveso ha aperto la scatola nera in cui sono inestricabilmente imbricate una concezione della scienza neutrale tesa al progresso scientifico-tecnologico, una visione lineare del progresso e delle scelte economiche e politico-istituzionali. Lo scoppio della scatola-reattore ha portato tutte queste questioni e i loro intrecci fuori dalla fabbrica e ha dato vita a un ciclo di lotte per la salute e per l’ambiente di ampia portata, ancora oggi attuali.
NOTE
1 Intervista condotta dall’autrice a Maria, abitante della frazione Baruccana di Seveso, in data 14 settembre 2023.
2 Intervista condotta dall’autrice a Massimiliano Fratter in data 28 luglio 2023. M. Fratter è nato a Seveso, è il responsabile del progetto Il ponte della memoria, ha lavorato all’Ufficio Ecologia del Comune di Seveso e ora è impiegato nella biblioteca dell’omonima città.
3 I riferimenti agli odori insistenti, all’inquinamento del torrente Certesa e alla moria di animali che pascolavano nei prati vicini all’Icmesa possono essere rintracciati nei documenti degli archivi comunali di Meda e di Seveso. Per una loro interpretazione storica, vedi M. Fratter, Seveso. Memorie da sotto il bosco, Milano, Auditorium Edizioni, 2006, pp. 53-75.
4 Il giornalista Daniele Bianchessi nel 1995 ha pubblicato il suo primo libro d’inchiesta intitolato La fabbrica dei profumi. La prima edizione è stata pubblicata da Baldini & Castoldi. Il volume è stato rieditato nel 2016 da Jaca Book.
5 Per un maggiore approfondimento sulla storia e la composizione societaria vedi Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione conclusiva, Commissione parlamentare di inchiesta sulla fuga di sostanze tossiche avvenuta il 10 luglio 1976 nello stabilimento ICMESA e sui rischi potenziali per la salute e per l’ambiente derivanti da attività industriali, VII legislatura, doc, XXIII, n. 6, 25 luglio 1978, p. 58; B. Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 16.
6 Per avere una conoscenza più approfondita dei prodotti dell’Icmesa vedi Camera dei deputati, Senato della Repubblica, Relazione conclusiva, op. cit., pp. 62-64.
7 P. Bollani, Io fabbrico morte. Ecco cosa è successo, «Tempo», 8 agosto 1976, in Giunta regionale della Lombardia, Stampa italiana. 10 luglio 1976, Seveso il dramma della nube tossica, n. 1, p. 24. Per ulteriori informazioni sulla possibili produzioni per la guerra chimica, vedi C. Risé, C. Cederna, V. Bettini, Dietro l’Icmesa in Icmesa. Una rapina di salute, di lavoro e di territorio, Milano, Mazzotta, 1976, pp. 58-69; M. Aloisi [et al.] (a cura di), Seveso. La guerra chimica in Italia, «Quaderni di Triveneto», n. 1, Verona, Bertani, 1976.
8 Aa. Vv., Topo Seveso. Produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita, Milano, Autoproduzione, 2007. Vedi, http://tuttaunaltrastoria.info/wp-content/uploads/2022/05/POIDIMANI-Atti_Topo_Seveso.pdf.
9 Ivi, p. 12.
10 Ivi, pp. 11-12.
11 L. Conti, Visto da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Milano, Feltrinelli, 1976.
12 M. Benadusi, Antropologia dei disastri. Ricerca, Attivismo, Applicazione. Un’introduzione in Antropologia Pubblica, Vol. 1 n. 1-2, 2015, p. 41.
13 Intervista condotta dall’autrice a Sandro, abitante della frazione Baruccana di Seveso, condotta nel mese di settembre 2023.
14 Si tratta dei quattro comuni della Brianza maggiormente contaminati.
15 B. Ziglioli, La mina vagante. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 46.
16 https://www.ilgiorno.it/monza-brianza/cronaca/operaio-icmesa-fuoriuscita-diossina-0de68f02
17 Da questo punto, userò l’acronimo CTSP per riferirmi al Comitato tecnico scientifico popolare.
18 Intervista condotta dall’autrice ad Alberto presso la sede del Circolo Legambiente – Laura Conti in data 22 agosto 2023. Quando si è verificato il disastro, Alberto aveva 15 anni e andava a scuola a Cesano Maderno.
19 È il Gruppo di prevenzione e di igiene ambientale del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza.
20 Gruppo P.I.A, B. Mazza, V. Scatturin, ICMESA: come e perché in Seveso. Un crimine di pace, «Sapere», n. 796, nov.-dic. 1976, Bari, Dedalo, p. 34.
Memoria, immaginazione e afantasia - Ma cosa stavo dicendo?
Una patologia che probabilmente ha origine recente è l’afantasia, la perdita dell’immaginazione. Il primo caso è stato descritto nel 2015 dopo un intervento al cuore (Zeman, Dewar, Della Sala, Lives without imagery - Congenital aphantasia). I pazienti che ne sono affetti non hanno immagini: se gli si chiede di pensare a un bicchiere, a un albero, al proprio gatto, non formano alcun ricordo, pur conoscendo benissimo queste cose. Studi recenti con la Risonanza Magnetica funzionale mostrano che la parola “Bicchiere”, “Albero”, “Gatto” non accende alcuna attività nel cervello, la Risonanza rimane muta.
Aristotele chiamava φαντασíα (phantasia) la capacità di vivere nelle immagini. Al tempo di Aristotele la capacità immaginativa era la qualità dominante della coscienza, a tal punto che si considera che la logica sia nata proprio con Aristotele. Questo non vuol dire che i greci antichi non fossero dotati di logica, ma l’attività della coscienza era prevalentemente immaginativa, l’attività logico-computativa del pensiero era dedicata soprattutto al commercio. Per questo i greci avevano adottato, con qualche riluttanza, l’alfabeto dai fenici, abili trafficanti. In virtù di questa facoltà immaginativa, molti greci antichi erano dotati di una memoria prodigiosa, se pensiamo che per secoli opere letterarie come l’Iliade, l’Odissea, le opere di Esiodo furono tramandate prevalentemente per via orale affidate, con gli esametri, al ritmo del respiro.
La capacità mnemonica è sicuramente legata alla facoltà immaginativa. L’arte di ricordare risale a Simonide di Ceo, poeta greco vissuto tra il VI e il V secolo a. C. Cicerone nel De oratore racconta che Simonide, scampò per uno strano prodigio al crollo di una sala in cui banchettavano duecento invitati e fu in grado di identificare i corpi di ciascuno, solo rammentando il posto che occupavano.
Nell’oceano della coscienza umana prevalgono, infatti, due facoltà (e chissà quanto ancora): l’attività logica e la capacità di creare immagini interiori. Freud le vedeva come una specie di iceberg, la piccola punta della coscienza dell’io, emergente dal fondo sconfinato dell’Es, diciamo, dell’inconscio (1922; in Opere complete, IX). Il padre della psicanalisi era un attento lettore di Platone, dal quale aveva preso ispirazione proprio per la lettura delle facoltà dell’anima.
Socrate, nel Fedro di Platone, dice che non può spiegare razionalmente cosa sia l’anima, ma può farlo attraverso l’immagine di una biga trainata da due cavalli. I due cavalli rappresentano bene le due attitudini dell’anima. La capacità di immaginare è lentamente svanita nel corso dei secoli, col prevalere della ragione nel Secolo dei Lumi, ma è gradualmente riapparsa dal secolo scorso: l’arte astratta, la musica atonale ne sono alcuni indizi, ma la creazione della psicanalisi ne è la prova più evidente.
Il problema è che, nello svolgersi delle due attività dell’anima, l’una oscura l’altra. Se penso razionalmente, non percepisco le immagini; se la mia coscienza è pervasa da immagini, posso scrivere una poesia o dipingere. In realtà la facoltà di creare immagini è diffusa, ma mascherata dal lessico della tecnologia (chi di voi non ha il cellulare in tasca?). Ogni volta che accendiamo il telefonino, spegniamo la nostra fantasia. Dalla svolta del secolo stiamo imparando a pensare come le macchine. La nostra memoria è imprigionata nei byte.
Il grande neurologo russo, Aleksandr Lurija studiò un personaggio dotato di una memoria incredibile, capace di elencare lunghe serie di numeri, dal primo all’ultimo e al contrario (1968; Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla). Questa persona “vedeva” mentalmente le cose che memorizzava.
L'immaginazione, tuttavia, non è solo lo strumento di poeti e pittori: Newton e Einstein immaginavano le loro scoperte scientifiche anni prima di realizzarle.
Ma questa è un’altra storia che vi racconterò la prossima volta.
Conversazioni sull'Intelligenza Artificiale - Medicina, un salto culturale quantico
Gianluca Fuser: Alessio, tu ti stai occupando – nel tuo lavoro - di tecnologie di Intelligenza Artificiale applicate al mondo della cura veterinaria e questo ti dà l’opportunità di spaziare anche nell’ambito delle molte sperimentazioni destinate alla medicina umana. Che impressione hai del fermento che anima questo settore?
Alessio Panella: Un fatto certo è che nel settore della medicina veterinaria la sperimentazione si spinge più in là che in quello della medicina umana, purtroppo in virtù del fatto che gli animali non umani sono ancora e per lo più considerati sostituibili e di un ordine di importanza morale inferiore a quello degli umani – come tu ben sai.
Si testano, infatti, già sul campo applicazioni che interpretano le TAC in modo apparentemente esaustivo; c’è già chi pensa che il medico veterinario potrà ricevere il referto completo e definitivo senza quasi vedere le immagini.
L’ovvio vantaggio è in termini di riduzione dei costi e dei tempi operativi; forse si può aggiungere una maggiore attenzione ai fenomeni “fuori focus”, quelli spesso ignorati a causa della distorsione cognitiva del medico che – nell’immagine - cerca la patologia che già pensa di dover cercare e rischia di non notare segnali poco evidenti di altre patologie.
Nel campo della medicina umana, invece, ci si muove con maggiore prudenza. Ma non pensare che le applicazioni in sperimentazione o già in uso siano meno dirompenti.
Gianluca: Ad esempio?
Alessio: I casi sono moltissimi ma posso indicarti un paio di esempi secondo me molto rilevanti, che convergono su un obiettivo comune: ridurre la spesa sanitaria. In un caso per il sistema sanitario nazionale britannico (NHS), nell’altro caso per le assicurazioni private su cui si basa il sistema sanitario statunitense.
Per non tediarti, oggi affronterei il primo caso, quello di Babylon, un sistema di “visita a distanza” adottato in via sperimentale dal NHS in alcune aree di Londra. Il contatto tra medico e paziente avviene conversano in video: il paziente usa una app su smartphone, il medico la sua postazione con il suo personal computer.
Durante la conversazione Babylon mostra al medico la storia sanitaria del paziente mentre trascrive la conversazione e la interpreta: isola, cioè, i sintomi rilevanti riportati dal paziente, evidenziandone anche possibili collegamenti con patologie pregresse. Valuta poi inoltre anche il quadro complessivo dello stato di salute del paziente, anche in forma grafica, con una sorta di gemello digitale proposto sullo schermo.
Infine, assiste il medico nel lavoro diagnostico: in primo luogo, proponendo una serie di potenziali diagnosi basate sulla storia clinica, sui sintomi e sulle frequenze statistiche che “ha in pancia” e, in secondo luogo, suggerendo al medico le domande da fare per seguire un percorso organizzato di approfondimento e di diagnosi differenziale.
L’ultima funzionalità è quella con la quale il software analizza le espressioni facciali e la postura del paziente a schermo e informa il medico di eventuali stress o disagi che il paziente sta provando. In sostanza guida il medico anche nella relazione con il paziente, finché questi non sia sereno del risultato della visita.
Gianluca: Che parte svolge la IA in questo processo?
Alessio: Dalla A alla Z. Se vogliamo essere puntigliosi, l’unico passaggio che non è pervaso di IA è la cartella clinica, la storia sanitaria del paziente. Tutto il resto: interpretazione del linguaggio parlato, collegamenti, analisi dello stato di salute e delle espressioni facciali, proposte e suggerimenti, sono tutti guidati da programmi di IA. Che, è bene ricordarlo, sono basati principalmente su inferenze a base statistica.
Puoi vedere chiaramente che vantaggi si ribaltano sull’economia del NHS: meno presenza fisica sul territorio, meno spostamenti, visite più veloci, minori rischi di malattie professionali da contagio per i medici, probabilmente meno costi per accertamenti diagnostici, sicuramente minori costi di apprendistato per i medici di assistenza di primo livello.
Gianluca: Detta così, mi pare che ci possano essere dei vantaggi non trascurabili anche per i pazienti. Perlomeno si potrebbe pensare che – se lo staff medico nel suo complesso è dimensionato in maniera adeguata – si possa garantire una maggiore accessibilità dei servizi di prima assistenza per le situazioni non gravi e una maggiore efficacia nell’indirizzamento diagnostico o terapeutico. Oltre che, come dicevi prima, la possibilità di cogliere problemi fuori focus.
Alessio: Non sbagli affatto. Questi vantaggi ci possono essere di sicuro se – come puntualizzavi – lo staff è ben dimensionato e la base di conoscenza dell’applicazione è adeguata. Aggiungi anche che la somma di medico e di software che lo supporta possono garantire anche un tasso di errore diagnostico, a pari informazioni.
Gianluca: Quindi, non vedi problemi?
Alessio: Purtroppo alcuni problemi ci possono essere: se la “macchina” funziona bene, il medico – che dovrebbe essere la figura principale in questa relazione a tre – può essere meno competente o passare in secondo piano e rischia di diventare solo un tramite tra macchina e paziente. La tentazione per i gestori di un sistema sanitario che deve risparmiare è grande: riduzione dei percorsi professionalizzanti, standardizzazione verso il basso, passaggi delegati interamente alla macchina. Un altro rischio – connesso con la de-professionalizzazione dei medici di prima assistenza – è l’appiattimento delle diagnosi sulle frequenze statistiche.
Gianluca: Cosa significa? Che riconosciuti alcuni sintomi la macchina proporrà sempre la stessa diagnosi, perché statisticamente più frequente?
Alessio: Esattamente questo: se il medico non si impegna nella valutazione delle diverse possibilità di malattie che presentano gli stessi sintomi, in altre parole non fa la diagnosi differenziale, tutti sono malati della stessa malattia. Ma, soprattutto, tutti sono malati!
L’assenza di un contatto personale, di conoscenza del paziente, delle sue idiosincrasie e della sua storia – non solo di quella clinica - unite alla minore competenza e alla pressione “produttiva” sui medici possono fare il disastro.
Gianluca: Quindi i benefici che abbiamo visto prima si prospettano solo sul fronte del contenimento dei costi sanitari?
Alessio: Sì, se il governo di questo sistema complesso di medicina a distanza supportata dall’intelligenza artificiale non si focalizza sul termine “medicina”, cioè sulla pratica condotta da un medico, vero, capace e coadiuvato da macchine ben funzionanti. E se non dimentica il ruolo fondamentale del contatto di prossimità con il paziente.
Gianluca: Sono del tutto d’accordo con te: solo un’accorta gestione di questi processi può coniugare il contenimento dei costi e una maggiore attenzione per i pazienti.
Un ultimo punto, per oggi: dal punto di vista etico e della responsabilità, come vedi questa innovazione?
Alessio: Il problema della responsabilità è significativo: nel processo congiunto medico-macchina, quando viene commesso un errore chi si prende la responsabilità? Il medico o la macchina? Come hai già scritto su questo blog, c’è un’intera filiera di potenziali responsabili, che deve essere ordinata dal punto di vista legale e pratico – e parlo anche della necessità di trasparenza dei meccanismi di apprendimento e di esecuzione.
Quello che non va dimenticato, però, è il punto di vista del paziente: preferisce che il suo caso clinico venga analizzato da un dottore di 25 anni che si è laureato ieri l'altro e ha visto solo venti casi, oppure da un software che non sa come funziona ma che ha elaborato e sintetizzato 2 milioni di casi simili?
Quello che voglio dire è che l’entrata in campo di questi software è un urto culturale, che non riguarda la maggiore o minore possibilità di errore di una macchina rispetto ad un umano, ma chi commette l’errore.
All’estremo: noi accettiamo l’errore umano come naturale, se la diagnosi sbagliata del medico mi uccide è un umano come me che l’ha fatto. Ma se l’errore è della macchina? Accettare di essere uccisi da una macchina: ecco il salto quantico che ci impone questo cambiamento di paradigma culturale.
Claude Bernard e Georges Canguilhem - Una controversia ancora viva (?)
CLAUDE BERNARD – LA VITA DIMENTICATA NEL LABORATORIO
Nel 1813 a Saint-Julien, paesino non troppo distante da Lione nasceva Claude Bernard. Come Semmelweis, di cui già si è parlato in questo blog, fu una delle figure più importanti per la medicina del XIX secolo.
Anch’egli dovette scontrarsi con una fetta della società del suo tempo, ma diversamente dal medico ungherese Bernard ricercò tutta la vita di fondare una medicina che fosse scientifica e si basasse sugli andamenti regolari e costanti della fisiologia.
Giunto a Parigi nel 1839 per proporre una sua pièce teatrale, Bernard comprese che quella strada non faceva per lui. Si risolse quindi a studiare medicina nella capitale francese, avendo già trascorso diversi anni come aiutante in una farmacia.
Agli inizi della sua carriera conobbe lo studioso di fisiologia Francois Magendie (detentore della cattedra di Medicina al Collège de France dal 1830 al 1855). La fisiologia al tempo era una massa informe di conoscenze derivate da esperimenti e osservazioni senza una sistematizzazione. Magendie poteva permettersi di operare in un piccolo laboratorio al College de France. Lui, vitalista eterodosso, manteneva a guida l’idea di un corpo umano soggetto alla forza vitale, ma non si lasciava intimorire nel dichiarare la necessità di aprire (il corpo) alla sperimentazione.
Bernard seguiva questo suo maestro, ma rivendicava la necessità di un passaggio ulteriore che Magendie, definito da Bernard un empirista radicale, non faceva. Per Magendie infatti l’esigenza scientifica era quella di alterare e osservare i fenomeni. Bernard voleva di più, voleva spiegare.
«Magendie si comportava da empirico ed era solito dire: perturba i fenomeni, ossia sperimenta e limitati a controllare i fenomeni senza spiegare nulla. Non era ancora il metodo sperimentale completo, perché tale metodo sperimentale esige delle spiegazioni.»
Bernard era tutt’altro che vitalista. La rivoluzione avvenuta il secolo precedente con Isaac Newton stava dando i suoi frutti anche in chimica proprio in quel periodo. La scienza medica si svolgeva in laboratorio. Lo studio della fisiologia, delle costanti e delle funzioni avrebbe permesso la comprensione della patologia come variazione dallo stato fisiologico.
Hal Hellman, simpatico divulgatore scientifico che ha raccolto parte di questo racconto su Bernard, dice che Bernard fu colui che rese la medicina una scienza basata su esperimenti e fatti.
Bernard fu senz’altro fine sperimentatore e produsse molteplici osservazioni, esperimenti, vivisezioni e il suo lavoro permise alla fisiologia di costruirsi una base feconda su cui svilupparsi.
Egli riconosceva il dolore animale, tuttavia ne giustificava l’uso ai fini del progredire della scienza medica. La funzionalità del sacrificio di un vivente per una causa più grande è un elemento evidente della visione scientifica di Bernard che, di fatto, disconosce il vivente, anche umano.
Bernard butta il vivente fuori dal laboratorio e tiene, per studiarlo, solo il corpo.
Che poi il vivente, una volta uscito dalla porta del laboratorio, rientri dalla finestra nella pratica clinica, non è problema della scienza fisiologica. Questa, infatti, fondava il suo tentativo di essere bella e potente – come si stavano dimostrando al tempo la fisica e la chimica – proprio sul disconoscimento del vivente e sulla pratica sperimentale che questo disconoscimento permette.
GEORGES CANGUILHEM – LA VITA RISCOPERTA NELLA SCIENZA
Circa cent’anni dopo Georges Canguilhem, filosofo abilitato anche alla professione medica, criticherà la visione di Bernard e della fisiologia medica, la quale nel frattempo si era del tutto affermata, insieme allo sguardo “normalizzante” sul vivente.
Canguilhem, erede della lezione di Bergson per cui il vivente è irriducibile, ritiene invece sia necessario recuperare il vitalismo.
Egli risale dalla medicina alla biologia, poiché è nella biologia a lui contemporanea che la medicina trova la sua morale, riducendo – come ha iniziato a fare Bernard - la malattia a un discorso di variazioni di funzioni fisiologiche.
Canguilhem chiama questa riduzione “il dogma dell’identità dei fenomeni fisiologici e dei fenomeni patologici”, che la medicina di Xavier Bichat e Claude Bernard prende dalla fisica newtoniana e condivide con altri campi come la sociologia di Auguste Comte.
Sottolineando, Canguilhem, come concezione di scienza medica – nonostante la consolidata tradizione di successi - dimentichi un dato fondamentale: è perché vi sono malati che c’è una medicina.
Dobbiamo accettare che il vivente sia l’oggetto della biologia. Che sia, sì, soggetto a tutte le leggi fisico-chimiche. Ma, ci ricorda Canguilhem, il mondo della fisica e della chimica non sono mondi esterni al vivente.
Egli è in esse ma non vive in esse. Il vivente vive un ambiente valorizzato, polarizzato e in ultimo significato.
Vive in mezzo a esseri e avvenimenti che diversificano le leggi. Le scienze della vita non possono purificarsi dall’individualità vivente, non devono farlo, altrimenti non avrebbero da dire nulla più della fisica e della chimica.
Così la medicina non può negare il soggetto.
È il malato che chiama il medico. Certo, il medico può – perché la medicina ha una storia – conoscere meglio cosa fa la malattia del malato. Ma, per quante importanti conoscenze possono portare la fisiologia e lo studio delle normali e delle frequenze, salute e malattia appartengono al malato.
Un grande scrittore milanese, gravemente malato e a poco dalla sua morte, dirà “sono insufficientemente umile per accettare ciò che la malattia ha comportato e comporterà”.
Possiamo fare una colpa al malato se si ostina a opporsi alla sua malattia? Vogliamo fare della malattia una colpa e della salute un merito? Definendo normalità e malattia prima di avere incontrato il malato?
La norma, dice Canguilhem, il medico la deriva dal suo malato.
Il malato può preoccuparsi se la sua assicurazione coprirà le spese – tristezza dei nostri tempi – ma “ciò che mi occupa”, dice, “è la mia malattia e il bisogno di guarirne”.
Sarà il soggetto, il malato, l’individuo, a dire della sua ritrovata salute. Sia che vi sia stato dolcemente accompagnato o portato a forza di bisturi e trapano.
CONCLUSIONE
Ciò che rese Semmelweiss un grande medico sono le donne partorienti salvate: la salvezza e il miglioramento di vite personali e di una intera società. Non le medie abbassate, alle quali nemmeno i fautori di quel metodo credevano nel momento in cui li smentivano.
Non è possibile vivere come un ostacolo epistemologico la soggettività del malato.
I medici che accettano questo principio, accettano di reinscrivere la loro scienza in una storia umana. Esercitano la medicina come servizio all’umano nella sua lotta contro ciò che è negativo, contro ciò che è vissuto come malattia.
P.s. il grande scrittore milanese (di Novate Milanese in realtà) citato è Giovanni Testori in una sua intervista al quotidiano La Stampa il 2 gennaio del 1993.
RIFERIMENTI E LETTURE:
Grmek Mirko (a cura), Storia del pensiero medico occidentale, Laterza
Bernard Claude, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Feltrinelli
Hellman Hal, Le dispute della medicina. Dieci casi esemplari, Raffaello Cortina
Canguilhem Georges, Il normale e il patologico, Einaudi
Canguilhem Georges, La conoscenza della vita, Il Mulino