Monopattini elettrici e numeri maltrattati – Strumentalizzare le statistiche

A metà agosto dell’anno scorso, in vacanza in un paesello di montagna, sono caduto con la bicicletta e mi sono rotto un paio di ossa, finendo al pronto soccorso. 

Sulla base delle frequenze di incidenti rilevate, un ipotetico giornale locale avrebbe potuto titolare così la pagina della cronaca del giorno dopo: ”Sempre più numerosi gli incidenti gravi ai ciclisti nel paese di Vattelapesca”

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Nulla di falso in questo titolo: la vittima dell’incidente è un ciclista; l’agosto precedente scorso non c’erano stati incidenti ai danni di ciclisti; grave è grave, mi è costato ricovero e intervento. 

Il cronista avrebbe potuto anche scrivere, che gli incidenti in bicicletta, in agosto, a Vattelapesca: “Si moltiplicano”, “Crescono in maniera esponenziale”, tutto senza allontanarsi di un passo dalla verità. 

Ora, è evidente che questa presentazione della questione – pur corretta dal punto di vista del rapporto con la realtà – rischia di essere drammatica e fuorviante. 

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Cambiamo scenario: il 12 ottobre 2023, un telegiornale a diffusione nazionale titola un servizio: “Sempre più pericolosi i monopattini elettrici, incremento del 78% degli incidenti mortali”.

Lo spunto per il servizio – che si focalizza sulla pericolosità dei monopattini elettrici – è la morte di una ragazza che è stata travolta, a Trento, mentre attraversava la strada con il suo monopattino; non era ancora noto se fosse a bordo del monopattino oppure se lo stesse spingendo a mano. 

È normale, nella pratica giornalistica, utilizzare un evento puntuale come pretesto per introdurre un articolo che parla di fenomeni generali, niente da dire. È il caso, tuttavia, di esaminare qualche aspetto del fenomeno generale di cui parla questo servizio:

  • L’incremento del 78% di cui si parla è un dato relativo al 2022, rispetto al 2021
  • Gli incidenti mortali con il monopattino nel 2022 sono stati, in valore assoluto, 16
  • Nel 2023, fino al 12 ottobre, il numero di incidenti mortali con il monopattino più attendibile è 15 (la ragazza di Trento è la quindicesima).

Sembrerebbe, quindi, che il numero assoluto, nel 2023,di incidenti mortali con il monopattino fosse in calo rispetto al 2022.

Andiamo avanti: se esaminiamo la fonte, che supponiamo attendibile (Aci-Istat), gli incidenti mortali simili nel 2021 sono stati 10 (9 conducenti e un pedone), quindi l’incremento nel 2022 scende al 60%.

Cos’è, quindi questo 60%? Potrebbe trattarsi dell’incremento di incidenti gravi, non solo di quelli mortali. Una sorta di metonimia? No, si tratta di una lettura riduttiva dei dati del 2021, che non conta un pedone investito ma solo i conducenti.

 

Con un minimo ancora di approfondimento, scopriamo che il servizio tace sul “denominatore nascosto” del fenomeno degli incidenti: il numero di monopattini elettrici circolanti e il suo incremento negli anni di cui si parla.

Non si trovano facilmente dati sull’incremento tra 2021 e 2022 dei mezzi di proprietà ma sicuramente i noleggi di monopattini elettrici è aumentato di circa il 50%. 

Tra 2022 e 2023, invece, ci sono fonti che parlano di un aumento del 140% dei monopattini privati e di più del 100% dei noleggi. 

In proporzione ai monopattini circolanti, è plausibile che l’incidenza di incidenti sia diminuita nel 2022 e c’è l’evidenza di una riduzione del 50% nel 2023.

Addirittura, secondo l’Osservatorio Nazionale sulla Sharing Mobility, tra il 2021 e il 2022, il rapporto tra incidenti, numero di monopattini e chilometri percorsi è calato dell’80%. 

Il quadro che si scorge approfondendo le cifre è, quindi, decisamente diverso. 

Eppure, questa percentuale drammatica del 78% di incidenti mortali in più fornisce al servizio – e ai numerosissimi altri articoli di stampa che in quei giorni ne ricalcano i contenuti – il carattere di affidabilità scientifica: sono numeri, sono percentuali, sono calcoli scientifici, legittimano le affermazioni e le conclusioni.

E distorcono irrimediabilmente la realtà. Perché?

Ecco perché: ad ottobre 2023 è iniziata la discussione parlamentare delle nuove misure di legge che riguardano i mezzi di cui parliamo: obbligo di targa e di assicurazione, obbligo del casco, dotazione di freni anteriore e posteriore indipendenti, frecce, limiti di velocità e regole di parcheggio; oggi, parte di queste misure diventa legge.

La vera notizia d’agenzia da lanciare era, quindi, la legge - che è diventata esecutiva in questi giorni - la cui legittimazione doveva passare attraverso un percorso di drammaticità: quello dell’incremento degli incidenti.

Questa vicenda mette in luce come si possono facilmente maltrattare i numeri e farli diventare “dati scientifici” con risultati distorti, secondo regole di rilevanza sociale. 

 

 

P.S.: Il quotidiano locale della zona dove sono caduto l’agosto scorso non ha parlato del mio infortunio, né delle statistiche sugli incidenti ciclistici. Il Sindaco del paesello non aveva in programma, me l’ha assicurato di persona, nessuna nuova legge comunale sulle mountain bike.

 


RIFERIMENTI PER I DATI:

  • ACI – ISTAT, report incidenti stradali 2022
  • Osservatorio sulla Sharing Mobility
  • EMG Mobility,  13 Febbraio 2023
  • Wired 22.05.2023

Il dono - Anatomia di una consuetudine, tra libertà e obbligo

Perché ci scambiamo regali? Cosa facciamo, di preciso, quando doniamo? Cosa significa “donare”?

Questi sono interrogativi che ci poniamo di rado, in quanto vediamo l’atto di donare, soprattutto durante una festività, come qualcosa di ovvio e indubitabile; tuttavia, dietro a consuetudini tanto ordinarie e (apparentemente) libere come scambiarci dei regali durante una ricorrenza, esistono meccanismi sotterranei e invisibili, i quali nascondono l’architettura interna di una società.

Per investigare le dinamiche sociali che intervengono nelle pratiche di dono, in questo articolo studieremo le riflessioni di un pensatore di grande importanza: il sociologo francese Marcel Mauss (1872-1950). Esamineremo, in particolare, alcune sezioni di una delle sue opere principali, il Saggio sul dono.

Grazie a questo autore, capiremo come l’habitus di donare non sia solo “nostro”, e che all’interno di altre culture agiscono meccanismi nei quali possiamo identificarci; nel nostro viaggio, pertanto, conosceremo qualcosa di più sia su popolazioni lontane, sia sulla nostra stessa società.

MAUSS E IL “FATTO SOCIALE TOTALE”

Per cogliere al meglio i ragionamenti che analizzeremo a breve, dobbiamo ora soffermarci su un’idea di fondamentale importanza sociologica: il “fatto sociale totale”. Con questo concetto si indica che alcuni organismi sociali sono talmente generali e pervasivi da permettere di spiegare interamente la cultura di un popolo, nonostante siano eventi particolari.

Mauss, nel Saggio sul dono, afferma: «in questi fenomeni sociali “totali”, […], trovano espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose, giuridiche e morali – queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo –, nonché economiche […]; senza contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni morfologici che queste istituzioni rivelano»[1].

IL SAGGIO SUL DONO

Il Saggio sul dono, testo fondamentale di Mauss, è stato pubblicato sul primo numero della nuova serie dell’Année Sociologique[2], datata 1923-1924.

L’introduzione è intitolata “Del dono e, in particolare, dell’obbligo di ricambiare i regali”, e inizia con un’epigrafe che riporta alcuni versi dell’Havamal, un poema facente parte dell’Edda scandinava[3]; in particolare, le strofe riportate trattano l’importanza di donare per instaurare e mantenere rapporti sociali e d’amicizia. Questo passaggio iniziale permette all’autore di introdurre il tema principale del libro, indicato come “Programma”: «nella civiltà scandinava e in un buon numero di altre, gli scambi e i contratti vengono effettuati sotto forma di donativi, in teoria volontari, in realtà fatti e ricambiati obbligatoriamente»[4]. Infatti, sotto un’apparenza di disinteresse e generosità, al fondo delle pratiche di dono possiamo trovare «finzione, formalismo e menzogna sociale e, […], obbligo e interesse economico»[5].

Inoltre, Mauss specifica il “fatto sociale totale”, mettendo subito in chiaro che il dono è una delle sue manifestazioni.

Tlingit e Haida

Successivamente, l’autore esamina il caso dei Tlingit e degli Haida, due tribù abitanti la zona nord-occidentale del continente americano; presso di loro e in tutta l’area si riscontra un caso molto particolare di prestazione totale sotto forma di doni: il potlatch.

La specificità di questa cerimonia consiste non tanto in distribuzione di ricchezza ma nella sua distruzione, in quanto le popolazioni che praticano riti potlatch gareggiano senza sosta nello sperpero di beni di prestigio, conquistando tanta superiorità sociale quanto più si dimostrano inclini a privarsi di oggetti di valore, in una continua lotta di disfacimento dalla quale si arriverà a decretare il clan superiore, quello con maggior prestigio nella gerarchia sociale.

Tali fenomeni investono la vita collettiva di tutta la tribù e, nel Saggio sul dono, viene puntualizzato che siamo di fronte a «prestazioni totali di tipo agonistico»[6].

Polinesia

Proseguendo nella sua trattazione, Mauss si concentra poi sull’analisi del dono in Polinesia, affermando che in questi territori non esiste un potlatch compiuto come nel nord-ovest americano; ci sono certamente prestazioni sociali totali organizzate secondo dinamiche di dono ma, a suo dire, non sembrano andare oltre questo primo momento, non sfociando mai, cioè, nella competizione agonistica e nella rivalità esagerata.

Tuttavia, qui Mauss sembra trovare la soluzione al perché si debba obbligatoriamente ricambiare i regali ricevuti: lo hau, o «lo spirito della cosa donata»[7]. È importante specificare che in Polinesia gli oggetti personali, i taonga, sono strettamente legati ai proprietari, veicoli della loro forza spirituale o mana. Lo hau, dunque, è un’energia magica di cui tutti i taonga, proprio in virtù della loro stretta connessione col possessore, sono come imbevuti; quando uno di questi beni viene donato, trasmette con sé una parte sostanziale di chi lo regala, in quanto «la cosa ricevuta non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui»[8]. Al ricevente viene pertanto trasferito un vincolo spirituale, un obbligo che lo costringe a ricambiare il dono, pena la distruzione dell’individuo stesso; secondo la credenza maori è proprio lo hau che desidera tornare al suo luogo d’origine, e ciò può avvenire solo attraverso un controdono.

Tali considerazioni ci fanno quindi capire che «nel diritto maori, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perché la cosa stessa ha un’anima, appartiene all’anima»[9].

Dare, ricevere, ricambiare

A questo punto dell’opera, Mauss spiega la propria catena “dare, ricevere, ricambiare”. Il fatto totale, a suo dire, non solo implica l’obbligo di ricambiare i regali, ma ne determina altri due, di pari livello: da una parte, l’individuo deve necessariamente donare, mentre, dall’altra, il ricevente è costretto ad accettare il regalo. Infatti, «rifiutarsi di donare, […], così come rifiutare di accettare equivalgono ad una dichiarazione di guerra; è come rifiutare l’alleanza e la comunione»[10].

Tlingit, Haida e Kwakiutl

Tornando ai casi del nord-ovest americano, Mauss approfondisce ora lo studio del potlatch; afferma che presso le popolazioni interessate non esiste forma di scambio diversa da questo cerimoniale di distruzione. In particolare, le tribù prese in esame sono, da una parte, i sopraccitati Tlingit e Haida, abitanti sulle coste canadesi e dell’Alaska, mentre dall’altra vengono analizzati i Kwakiutl, stanziati nella regione canadese della Columbia Britannica e sull’Isola di Vancouver.

Come sappiamo, il potlatch è un esempio di “fatto sociale totale” di tipo agonistico, e viene da Mauss indicato, nei suoi fondamenti, come un semplice sistema di scambio di doni; tuttavia, esso rappresenta un caso etnografico molto interessante, per via della violenza e degli esagerati antagonismi che stimola.

Credito e onore

Per quanto riguarda i meccanismi sociali che sottendono il potlatch, Mauss ne identifica due: il credito e l’onore.

Il primo termine in Europa ha un significato essenzialmente economico ma lo possiamo trovare, con una diversa semantica, anche presso popolazioni e culture non europee. L’autore ritiene che il dono sia collegato al credito, specificando inoltre che «la natura peculiare del dono è […] di obbligare nel tempo»[11]; infatti, i doni non possono essere ricambiati immediatamente (come in un comune scambio di beni) ma in un momento successivo, secondo una dialettica che coinvolge un creditore e un debitore.

La seconda nozione che abbiamo menzionato è quella di onore. Nei potlatch, oltre agli oggetti, vengono messi in gioco il prestigio, la “faccia” di un capo e di tutto il suo clan, in un continuo torneo nel quale «consumazione e distruzione sono veramente senza limiti. In certi potlàc bisogna dare tutto ciò che si possiede, senza conservare niente. Si gareggia nel dimostrarsi i più ricchi e i più follemente prodighi»[12].

Il potlatch in dettaglio

A questo punto, Mauss approfondisce le motivazioni del rituale ed elenca le strutture comunitarie coinvolte. Il potlatch è una cerimonia religiosa, in quanto vengono rappresentati gli dèi e gli antenati attraverso danze e rituali sciamanistici, detiene inoltre un carattere economico, poiché possiamo osservare transazioni di beni di valore anche molto elevato, e costituisce infine un’istituzione di morfologia collettiva, perché i vari gruppi hanno la possibilità di incontrarsi ed esprimere i propri organismi sociali.

L’autore legge poi i dati sul potlatch attraverso la catena “dare, ricevere, ricambiare”, collegandola a tale fenomeno punto per punto.

«L’obbligo di dare è l’essenza del “potlàc”»[13]. Il primo dovere impone a un capo di organizzare questa competizione, sia per i vivi che per i morti, per conservare il proprio rango nella comunità, il suo “blasone”. Invitando gli avversari alla sfida, un leader dimostra la propria forza, in virtù del fatto che «il potlàc, la distribuzione dei beni, è l’atto fondamentale del “riconoscimento” militare, giuridico, economico, religioso»[14]; se un capo non allestisce delle lotte cerimoniali perde il proprio prestigio, l’autorità e l’onore di fronte al suo clan e a quelli rivali. Assumersi questa responsabilità è tassativo: un leader deve invitare gli avversari e dimostrare la propria ricchezza, distribuendola o distruggendola, per elevare la tribù e umiliare i contendenti, «mettendoli all’“ombra del suo nome”»[15]. Se non organizza tali manifestazioni di superiorità, dunque, rischia di perdere tutto ciò che possiede e di non essere riconosciuto all’interno e all’esterno del proprio clan. Mauss racconta che «di uno dei grandi capi mitici, che non usava dare potlàc, si dice che aveva la “faccia marcia”»[16], e precisa che «nel Nord-ovest americano, […], perdere il prestigio è proprio come perdere l’anima: ciò che veramente viene messo in gioco, ciò che si perde al potlàc, o al gioco dei doni, così come in guerra o per una colpa rituale, è la “faccia”, la maschera di danza, il diritto di incarnare uno spirito, di portare un blasone, un totem, è la persona»[17].

«L’obbligo di ricevere non è meno forte. Non si ha il diritto di respingere un dono, di rifiutare il potlàc»[18]. Il secondo anello della catena impone al donatario di accettare l’invito, di partecipare alla gara; una rinuncia dimostrerebbe timore, sottomissione e povertà, ovvero non possedere ricchezze sufficienti per poter entrare nel gioco dei doni. Un rifiuto equivale quindi a una sconfitta totale, con la grave conseguenza di perdere il proprio nome e il proprio potere. Un caso particolare prevede la possibilità per un capo di ricusare un invito senza le pesanti ripercussioni sociali descritte: nel caso in cui abbia offerto, in passato, dei potlatch dai quali ne è uscito vincitore. Tuttavia, tale rinuncia è solo temporanea, in quanto l’individuo che attua questa scelta è comunque obbligato a organizzare feste più ricche di quella che ha respinto.

«L’obbligo di ricambiare è tutto il “potlàc” nella misura in cui non consiste in una mera distruzione»[19]. Il terzo momento chiude il cerchio. Mauss riporta che il potlatch deve essere ricambiato a usura, secondo un tasso di interesse che può raggiungere il 100%. Se un capo non può contraccambiare perde non solo la propria autorità ma anche lo status di uomo libero, poiché «la sanzione dell’obbligo di ricambiare è la schiavitù per debiti»[20].

IL WELFARE SOCIALE COME DONO: UNA CRITICA ALL’HOMO OECONOMICUS

La parte finale del Saggio sul dono si apre con questo ragionamento: «le osservazioni che precedono possono essere estese alle nostre società»[21]; la sezione conclusiva dell’opera è infatti incentrata sull’analisi delle dinamiche di dono all’interno della cultura europea moderna. Secondo Mauss, «una parte considerevole della nostra morale e della nostra stessa vita staziona tuttora nell’atmosfera del dono, dell’obbligo e, insieme, della libertà»[22]; non tutto, pertanto, è ridotto ai soli termini del mercato economico: egli crede che «le cose hanno ancora un valore sentimentale oltre al loro valore venale»[23].

L’autore era socialista e osserva con gioia la realizzazione di ciò che chiama «socialismo di Stato»[24]. Esamina come l’istituzione governativa si prenda cura dei bisogni del lavoratore, spiegando anche questo passaggio storico in un’ottica di dono; infatti, poiché il dipendente, attraverso la propria fatica, ha offerto sé stesso alla comunità e al suo datore di lavoro, è dovere dello Stato ricambiare, in quanto moralmente in debito verso il proprio occupato, attraverso la concessione di «una certa sicurezza durante la vita contro la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la morte»[25].

Dal punto di vista economico, Mauss riflette inoltre su come il dono sia molto diverso dall’utilitarismo, in quanto ciò che in una comunità è davvero importante non si lascia inquadrare nelle astrazioni e nei calcoli degli economisti. Per esempio, nelle culture indigene studiate nel Saggio esistono sicuramente concetti come quello di valore e di bene prestigioso, ma tali denominazioni non hanno alcuna affinità col sistema di mercato occidentale; oltre a ciò, presso queste popolazioni la circolazione dei beni è legata all’aspetto religioso e mitologico, peculiarità assenti nel nostro sistema di mercato. La polemica di Mauss si concentra così contro l’economicismo che vuole inglobare la totalità del reale. Le considerazioni sul dono e sulle società indigene mostrano l’impossibilità di questo progetto totalizzante: «a più riprese, si è visto quanto il sistema economico dello scambio-dono fosse lontano dal rientrare nel quadro dell’economia cosiddetta naturale, dell’utilitarismo»[26]. L’essere umano come “animale economico” sarebbe una costruzione recente ancora non totalmente realizzata, e lo stesso autore scrive che «l’homo oeconomicus non si trova dietro di noi, ma davanti a noi»[27], aggiungendo che «l’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice»[28].

In conclusione, secondo Mauss il dono rappresenta il fondamento sociale primitivo, poiché rendeva possibile lo scambio e la reciprocità prima ancora che potesse esistere il mercato propriamente detto; inoltre, il dono è quel fenomeno che, in virtù della sua capacità di instaurare legami, ha permesso di creare delle società pacifiche ed equilibrate, dove si è potuto deporre le armi e avviare processi commerciali, generando così ricchezza e benessere. Mauss ritiene infatti che «le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti, donare, ricevere e, infine, ricambiare.

Per potere commerciare, è stato necessario, innanzitutto, deporre le lance.

Solo allora è stato possibile scambiare i beni e le persone, non più soltanto da clan a clan, ma anche fra tribù e tribù, fra nazione e nazione e – soprattutto – fra individui e individui»[29].

 

 

BIBLIOGRAFIA

– Mauss, M., Essais sur le don, Paris, PUF, 1950. Trad. it. Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. di Franco Zannino, intr. di Marco Aime, Torino, Einaudi, 2002.

 

PER APPROFONDIRE

– Boas, F., The Social Organization and the Secret Societies of the Kwakiutl Indians, Washington, US National Museum, 1897. Trad. it. L’organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl, trad. di Christina Scarmato, pref. e cura di Enrico Comba, Roma, Centro Informazione Stampa Universitaria (CISU), 2001.

 

NOTE

[1] Marcel Mauss, Saggio sul dono, trad. it., Torino, Einaudi, 2002, p. 5.

[2] Rivista di sociologia fondata da Émile Durkheim (1858-1917), zio di Mauss e anch’egli sociologo.

[3] Edda, canti dell' nell'Enciclopedia Treccani - Treccani - Treccani

[4] Marcel Mauss, op. cit., p. 4.

[5] Ivi, p. 5.

[6] Ivi, p. 10. Corsivi dell’autore.

[7] Ivi, p. 13. Corsivi dell’autore.

[8] Ivi, p. 15.

[9] Ivi, p. 16.

[10] Ivi, p. 17.

[11] Ivi, p. 44.

[12] Ivi, p. 45. Corsivo dell’autore.

[13] Ivi, p. 48. Corsivi dell’autore.

[14] Ivi, p. 50. Corsivo dell’autore.

[15] Ivi, p. 48.

[16] Ibidem. Corsivo dell’autore.

[17] Ibidem. Corsivi dell’autore.

[18] Ivi, p. 50. Corsivi dell’autore.

[19] Ivi, p. 51. Corsivi dell’autore.

[20] Ivi, p. 52.

[21] Ivi, p. 80.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 83.

[25] Ibidem.

[26] Ivi, p. 88.

[27] Ivi, p. 94. Corsivi dell’autore.

[28] Ivi, p. 95.

[29] Ivi, p. 102.


OpenAI e Sam Altman - Anatomia di un Qomplotto (prima parte)

Si è molto parlato (nelle scorse settimane) del licenziamento di Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI, un laboratorio di ricerca sull'intelligenza artificiale costituito dalla società no-profit OpenAI, Inc. e dalla sua sussidiaria for-profit OpenAI, L.P. L'obiettivo dichiarato della sua ricerca sarebbe promuovere e sviluppare un'intelligenza artificiale amichevole (friendly AI) in modo che l'umanità possa trarne beneficio.

Cerchiamo di ricostruire la vicenda.

1. AMERICAN HISTORY Q

Nella cultura americana contemporanea la Q non è una lettera come le altre, perché esercita una forza mitopoietica di cui il resto dell’alfabeto è privo.

Il 6 gennaio 2021 coloro che assaltano la sede del Congresso a Washington brandiscono bandiere con la Q di QAnon: la teoria del complotto universale che per milioni di persone negli USA (e nel resto del mondo) ha trasformato Donald Trump in un supereroe da fumetto contro i poteri occulti del deep state.

Il 22 novembre 2023 la «Reuters» spiega che il licenziamento di Sam Altman da parte del consiglio di amministrazione di OpenAI sarebbe stato giustificato da una lettera di delazione[1], con cui alcuni dipendenti dell’azienda hanno illustrato ai membri del board i pericoli per l’umanità in agguato nelle prossime versioni di ChatGPT.

Il progetto Q* ha appena superato con successo i primi test e si prepara a liberare nel mondo un’AGI – un’intelligenza artificiale generale – armata di una competenza letteraria vasta quanto l’universo, che include le storie sul Golem e sulle altre hybris del genere Frankenstein.

L’assalto al Campidoglio non ha avviato la guerra civile; la minaccia che dai progressi dei software di OpenAI si inneschi l’«esplosione» di un’intelligena artificiale destinata a sostituire l’uomo nel dominio della Terra confida su una probabilità nulla di avverarsi.

La destituzione di Altman, avvenuta il 18 novembre, è un evento simile ad un colpo di stato; anche più di quello tentato dallo Sciamano e dai suoi compagni al Campidoglio nel gennaio 2021, se si considera che OpenAI ha beneficiato di un investimento di 13 miliardi di dollari da parte di Microsoft[2], equivalente al doppio del PIL della Somalia, superiore a quello di un’altra decina di nazioni africane, e pari a quello dell’Armenia, del Madagascar e della Macedonia.

Il finanziamento è in larga parte da ascrivere al rapporto di fiducia tra Kevin Scott, CTO di Microsoft, e Altman; la sua cacciata non è stata preceduta da alcun segnale di crisi, e si è consumata in una fase di espansione e di prosperità dell’azienda.

ChatGPT 3.5 si è laureato nel gennaio 2023 come il servizio internet con la crescita di utenti più veloce di sempre: in soli due mesi dal lancio ha raggiunto la quota di 100 milioni di utenti attivi[3], bruciando in questa competizione il risultato di TikTok (nove mesi) e quello di Instagram (due anni e mezzo).

Il trionfo ha imposto il tema dell’intelligenza artificiale e delle reti neurali all’attenzione del pubblico di massa, ma ha anche riconsegnato a Microsoft una posizione di primato tra le protagoniste dell’innovazione tecnologica.

Il motore di ChatGPT è stato integrato in Bing, e il suo inserimento strutturale nei prodotti di Office (con il marchio «Copilot») è in fase di sperimentazione avanzata.

Trasformerà il rapporto dei colletti bianchi di tutto il pianeta con i loro computer, convertendo in automatico poche idee scarabocchiate con un elenco puntato in un documento di cinque pagine, o in una presentazione Power Point attrezzata di tutto punto; per converso, sarà capace di tradurre il vaniloquio di ore di riunione in un report agile da condividere via mail, e gestirà le operazioni di controllo delle entrate e delle uscite su Excel.

Tuttavia, i burocrati diventeranno ancora più fannulloni, gli impiegati ancora più analfabeti, e Microsoft gioirà sulle disgrazie umane con un valore di mercato anche più immenso di quello attuale.

Quindi siamo di fronte a un caso di «Q di Qomplotto», per usare un’espressione presa in prestito dall’analisi del caso Qanon elaborata da Wu Ming 1 (2023)?

 

2. INTELLETTUALI E IMPRENDITORI

La stupidità spiega molti più misteri del retropensiero, e persino più della serietà del giornalismo di inchiesta.

Potrà sembrare un paradosso, ma lo scenario dei profitti smisurati e la prospettiva di una nuova forma di dominazione culturale sulla produzione dei contenuti business, sono all’origine del colpo di mano del CDA contro Altman.

La governance di OpenAI presentava fino al 18 novembre una configurazione ereditata dalla missione originaria della società, fondata sulla strategia «open source» di Altman, Elon Musk e Peter Thiel[4]: il metodo per assicurare un progetto di intelligenza artificiale a beneficio dell’umanità, e priva di rischi per il futuro, coincide con lo sviluppo di modelli accessibili a tutti, quindi sottoposti al controllo dell’intera comunità degli esperti. Anche dopo l’uscita di Musk dal consorzio, e la maggiore integrazione in Microsoft dal 2020, il comparto di OpenAI destinato alla produzione di servizi for-profit è rimasto sottoposto allo scrutinio di un consiglio di amministrazione nominato dalla componente no-profit.

Nel novembre 2023 il board annoverava oltre ad Altman altri quattro personaggi: Helen Toner, Ilya Sutskever, Adam D'Angelo, Tasha McCauley. Toner ha maturato una carriera di primo piano nell’ambito delle organizzazioni umanitarie grazie al suo coinvolgimento nel movimento accademico dell’«altruismo efficace»[5], che si richiama alla lezione dei filosofi morali Peter Singer, Toby Ord, William MacAskill, e che esercita un’influenza di ampio respiro sull’upper class americana.

Dai temi della beneficienza e del miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi più poveri del pianeta, questa corrente di pensiero è passata alla riflessione sulle professioni meritevoli di essere intraprese, e si è estesa ai «rischi esistenziali» e ai «rischi di catastrofe globale»; con una forte vocazione di futurologia che oscilla tra parossismo e parodia (involontaria) del «principio responsabilità» di Hans Jonas (1979).

In questo contesto viene intercettato l’insegnamento di Nick Bostrom (2014), che arruola tra i propri fedeli anche McCauley e Sustkever, nonostante la loro formazione tecnica di altissimo livello, e li allea alle preoccupazioni di Toner. Le tesi di Bostrom sulle «superintelligenze» sono molto famose, anche grazie alle metafore che ha inventato per rendere più persuasiva la distopia che alimenta la sua ansia: mancano pochi anni all’esplosione delle capacità di raziocinio delle intelligenze artificiali, che travolgeranno quelle naturali per velocità, vastità e precisione di intuizione, quantità di memoria, organizzazione e controllo; ma l’attivazione delle loro facoltà produrrà più conseguenze rovinose per l’umanità rispetto a quelle utili.

Qualunque sia lo scopo cui sarà indirizzata, ciascuna superintelligenza tenderà in modo necessario a perseguire comportamenti utili per la propria sopravvivenza e per il raggiungimento degli obiettivi che compongono la sua ragion d’essere: in primo luogo attraverso l’affinamento della potenza di calcolo e della raccolta di risorse necessarie. Di conseguenza, la macchina cui sarà assegnato, per esempio, il compito di creare graffette, agirà in modo da ottimizzare al massimo l’ambiente a questo scopo, riducendo la Terra intera a un deposito di materiale lavorabile e di graffette già confezionate – genere umano incluso.

L’iperbole di Bostrom potrebbe implicare una critica al modello liberistico della visione del mondo, in cui la razionalità coincide con una subordinazione degli elementi della natura e del lavoro dell’uomo (tutti convertiti in risorse) agli obiettivi di produzione, senza alcun interesse per l’orizzonte di senso in cui il processo dovrebbe essere calato. Questo genere di valutazione può incrociare l’allarme per le conseguenze che l’automazione introdotta dal Copilota nella suite Office potrà determinare nelle facoltà di riflessione, di elaborazione strategica, persino di articolazione linguistica, di gran parte degli impiegati e dei dirigenti del mondo.

Di certo si può paventare una scivolata nel processo di proletarizzazione tecnologica degli individui (di tutte le fasce sociali) impegnati in una professione di tipo intellettuale, almeno nei termini di Stiegler (2012). Ma la furia distopica di Bostrom non si placa a così poco prezzo: brama molto di più di una situazione critica che potrebbe suscitare un dibattito serio; esige che la conversione degli esseri umani nei cervelli in una vasca di Putnam (1981) diventi un canovaccio plausibile, il paradigma delle minacce reali.

Per il CDA di OpenAI il passaggio dal Copilota alle graffette è fin troppo breve; tanto più che Microsoft ha già attentato alla pazienza dell’umanità con Clippy dal 1996 al 2007, il mostruoso assistente di Office a forma di graffetta antropomorfa. È bastato un incidente qualunque nel rapporto tra Altman e Toner per innescare i cinque giorni di crisi che negli uffici di Seattle sono stati battezzati, senza alcun aiuto di copywriting da parte di ChatGPT, il Turkey-Shoot Clusterfuck di OpenAI.

Appena annunciata la notizia della deposizione di Altman, la piattaforma Reddit è stata presa d’assalto da un tumulto di commenti[6] e tentativi di interpretazione del colpo di mano ai vertici di OpenAI, molti dei quali in chiave di Qomplotto. Q* è davvero la culla dell’AI che ci trasformerà tutti in graffette? È il Clippy odioso che abita dentro ciascuno di noi, la nostra anima di silicio?

 

Lo sapremo a breve, con un nuovo post.

 

NOTE

[1] https://www.reuters.com/technology/sam-altmans-ouster-openai-was-precipitated-by-letter-board-about-ai-breakthrough-2023-11-22/

[2] https://www.newyorker.com/magazine/2023/12/11/the-inside-story-of-microsofts-partnership-with-openai

[3] https://www.reuters.com/technology/chatgpt-sets-record-fastest-growing-user-base-analyst-note-2023-02-01/

[4] https://www.nytimes.com/2015/12/12/science/artificial-intelligence-research-center-is-founded-by-silicon-valley-investors.html

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Altruismo_efficace

[6] https://www.reddit.com/r/singularity/comments/181oe7i/openai_made_an_ai_breakthrough_before_altman/?rdt=54043


Un manager utilitarista - Il management scientifico alla prova dei fatti

Negli ultimi mesi ho modo di vedere l’etica utilitarista messa in opera da parte di un gruppo di manager di un’azienda multinazionale.

Non parlo di attitudini caratteriali o di comportamenti specifici che ognuno di noi può avere, parlo proprio di un’impostazione che permea il pensiero, le parole, le azioni e le decisioni dell’individuo.

Parlo di un qualcosa di sistematico che, se applicato alla conduzione di un’azienda, può a ragion veduta definirsi management scientifico: c’è un metodo standard, c’è uno stile manageriale reiterabile, c’è l’estrema specializzazione del lavoro che – in ultima istanza – porta alla piena fungibilità dello stesso.

E la prima volta che mi capita di osservare una cifra etica così netta e chiara; e la cosa non va sottovalutata, perchè tutta la storia della globalizzazione degli ultimi 250 anni si basa su questa etica.

Volete sapere come me ne sono accorto?

Eccovi alcuni esempi.

Il manager utlitarista presenta i risultati di fine esercizio senza commentare neanche un numero della situazione attuale, e concentra tutto l’intervento sul nuovo livello di aspettative del mercato, sulla propria visione strategica e su cosa fare per migliorare la propensione degli investitori.

Cosa è stato raggiunto o fallito nel passato non conta; conta la decisione, adesso, decontestualizzata dalle ragioni che hanno portato ad un determinato stato dell’arte.

Il passato conta solamente in quanto deve essere rimesso in discussione, ma attenzione: non lo si rimette in discussione, per preconcetto o per dare un messaggio di discontinuità.

Lo si rimette in discussione perché è eticamente giusto farlo, perchè il processo decisionale passa dal discreto al continuo, e l’esistenza stessa dell’individuo è un continuo decidere e rielaborare la decisione.

Non a caso il manager utilitarista dichiara sin dall’inizio che sì, è vero, esiste un piano strategico, ma che poi all’interno di tale piano si può (anzi si deve) cambiare direzione n+1 volte.

Certo che è strano: una scienza basata sulle aspettative e non sulla accumulazione delle esperienze...mai vista!

Ma forse sì, se la si applica al management di azienda può essere sostenibile... sicuramente l’utilitarismo consente di fare un passo avanti rispetto ai nostri stereotipi…

Poi, il manager utilitarista identifica dal mercato i propri collaboratori, manager a riporto diretto, presentandoli come il meglio possibile per l’azienda, e rimuovendoli dopo poche settimane senza neanche sentirsi in dovere di spiegare il perchè e cosa sia cambiato rispetto al loro ingresso di poco tempo prima.

Il fatto che ogni ingresso a quei livelli comporti l’avvio di riorganizzazioni aziendali e di nuove relazioni personali non conta, visto che per lui è uguale essere a capo dell’azienda X o dell’azienda Y, sono invarianti anche i nomi dei propri collaboratori e i diversi possibili set up organizzativi.

Tutto è pienamente fungibile, quando si deve massimizzare l’utilità.

Questa me la spiego facilmente dai... il sapere scientifico deve essere invariante rispetto all’individuo, altrimenti è soggettivo; giusto, giusto, sarà per questo che le organizzazioni del manager utilitarista sono tutte piatte: un vertice (il manager stesso), un “cerchio della fiducia” di poche decine di eletti, e migliaia di persone appiattite.

Ah, un attimo, c’è qualcosa che non torna... la scienza applicata all’azienda prevede una struttura piramidale ben definita, qui invece abbiamo: un triangolo, uno spazio bianco, e un grandissimo trapezio sotto. Che roba è? Mi sembra quasi che si sia passati dalla massimizzazione del profitto di azienda alla massimizzazione del profitto individuale. Ma forse, anzi sicuramente, mi sto sbagliando....

Ancora: il manager utilitarista trasforma in valore economico anche le ultime categorie che erano rimaste non oggetto di scambio: l’ambiente e l’identità sessuale.

Essendoci un legame diretto tra massimizzazione dell’utilità e valore degli scambi, negli ultimi anni si stava osservando un problema abbastanza serio per l’utilitarismo: era finito il genere di item passibili di scambio.

E allora ecco che il manager utilitarista definisce come oggetto di scambio, e quindi portatore di valore da massimizzare, cose che prima non lo erano: l’aria, l’acqua, l’identità di genere, e gli dà un nome: ESG.

L’ossigeno? Lo si produce forestizzando i terreni pastorizi del Paese X, lo si “impacchetta” e lo si vende a lotti virtuali alle aziende che inquinano nel Paese Y.

Il pride? Rappresenta un target di clientela nuovo, interessante: e allora perchè non fare un’analisi delle abitudini di spesa dei partecipanti, venderla al Comune ospitante, che così decide i percorsi dei cortei in modo da ottimizzare la presenza degli esercizi commerciali che rispondono a tali abitudini di spesa?

Tutto è pienamente scambiabile, quando si deve massimizzare l’utilità.

La Data Science applicata al management di azienda, ecco: questo è uno spunto veramente “scientifico”! Certo, il fatto che si basi su una funzione che tende asintoticamente a zero, perchè prima o poi gli oggetti di scambio finiranno veramente, potrebbe far pensare che non mi stessi sbagliando poi tanto con la mia precedente impressione...chissà!

In ultimo: il manager utilitarista ci dice che il futuro della cultura è nel Metaverso e nella Generative AI: nuove esperienze, felicità garantita, poter essere contemporaneamente in più luoghi senza essere realmente da nessuna parte.

Non è ancora chiaro cosa muova il manager utilitarista: forse la massimizzazione dell’utilità e della felicità individuale; forse lo spirito “scientifico”.

Quello che non ho ancora capito è qual’è il vantaggio per il manager utilitarista: mi auguro che lo scopo sia, anche qui, semplicemente quello di avere un nuovo item oggetto di scambio; mi auguro a questo punto che sì, le impressioni che ho manifestato in precedenza fossero corrette, e che ce la caviamo banalmente dicendo che l’utilitarismo applicato in un’azienda “scientificamente” organizzata porta solo alla massimizzazione del valore per un singolo individuo.

Non è bello ma me lo auguro perchè, se così non fosse, se ci fosse qualche altro razionale, gli effetti finali potrebbero essere ben più devastanti.

 


Definizione operativa - L’importanza delle definizioni, prima di aprir bocca

Assistiamo quotidianamente a conflitti, liti, controversie.

Sia nel mondo della scienza come in quelli di altre professioni o sfere della vita: dibattiti accademici, consigli di amministrazione, talk shows, discussioni in casa e al bar.

Ci si interroga: “la competenza è sotto attacco?”, “la scienza è denigrata? oppure “Hamas è un gruppo terroristico?”, “la violenza sulle donne è in crescita?”.

Queste domande, apparentemente così diverse, hanno in comune lo stesso problema: prima di rispondere (aprir bocca) bisognerebbe definire con chiarezza che cosa si intende per ‘competenza’, ‘scienza’, ‘terrorista’ e ‘violenza’.

Si tratta di un requisito che accomuna sia il mondo della scienza che quello delle professioni o della vita quotidiana.

Ma che cos’è una ‘definizione’? Secondo l’epistemologo e metodologo Marradi (1984), la definizione è un raccordo (un ponte) tra un concetto e un termine. Essa è essenziale perché, purtroppo o per fortuna, il patrimonio terminologico (parole, segni, immagini) è più povero del patrimonio concettuale.

In altre parole, una cultura è solitamente più ricca di concetti che di termini. Infatti, spesso, a 1 termine vengono associati 4-5 concetti/significati. Ad esempio la parola ‘piano’ può indicare uno strumento musicale, un programma, il livello di un’abitazione, il volume (basso) di un suono, l’avverbio ‘lentamente’.

Questo divario comporta il rischio dell’incomprensione, perché a una (stessa) parola o immagine possono venire associati significati diversi: le persone pensano di parlare della stessa cosa (perché usano la stessa parola), ma in realtà parlano di cose diverse. Infatti i concetti hanno un grosso difetto: non si vedono (come i segni) né si sentono (come le parole). Quindi, sapere che cosa ha in testa una persona quando pronuncia o scrive un termine non è sempre facile (anche se il contesto del discorso può aiutare a disambiguare).

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Le definizioni (lessicali) sono quindi quelle proposizioni che troviamo nei dizionari, che descrivono un termine del lessico di una lingua, solitamente associando una lettera dell’alfabeto (a, b, c ...) o un numero (1, 2, 3 …) al significato/concetto del termine stesso.

Tuttavia nella scienza, oltre alla definizione lessicale, agisce anche la definizione operativa.

E’ una delle poche procedure cognitive che distingue (o dovrebbe distinguere) la scienza da qualsiasi altra attività conoscitiva.

Infatti, altre procedure (come formulare ipotesi, campionare, generalizzare, fare confronti, fare previsioni, verificare la veridicità delle affermazioni ecc.) sono presenti anche nel ragionamento di senso-comune.

Ma la definizione operativa no. Essa ci permette di “problematizzare l'osservazione” (Cicourel 1964: 128; 1976: XX), di denaturalizzare il mondo sociale che stiamo indagando in contrasto con il comportamento di colui che lo osserva come naturale, ovvio, dato per scontato, normale. Ovviamente ci sono sempre delle eccezioni: la polizia scientifica (lo dice la parola stessa) usa procedure (per certi versi) assimilabili alle procedure scientifiche.

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Per cui la definizione operativa consiste nel “complesso delle regole che guidano le operazioni con cui lo stato di ciascun caso sulla proprietà X viene rilevato, assegnato a una delle categorie stabilite [...] e registrato nel modo necessario a permettere [...] l’analisi con le tecniche che si intendono usare. Molte di queste regole sono consuetudini che governano in via generale certi aspetti tecnici della ricerca [...] altre regole sono specifiche, e il ricercatore deve ogni volta esplicitarle se vuole trasformare la proprietà X in una variabile della sua ricerca” (Marradi, 1984, p. 23).

Fra queste consuetudini e regole troviamo la definizione lessicale dell’indicatore, le procedure di accesso al campo, gli accorgimenti (garanzie, contratti informali) per superare la diffidenza degli attori, il modo di raccogliere le note etnografiche, le eventuali procedure di controllo della veridicità delle risposte date.

E senza una definizione non possiamo iniziare una ricerca.

Poniamo di voler fare un ricerca sulla povertà a Milano. Vogliamo intervistare 100 poveri. Come li scegliamo?

Occorre quindi PRIMA dare una definizione lessicale di ‘povero’ (chi è un povero? Che cosa fa di una persona un povero? Quali requisiti deve avere una persona per essere considerata povero? Questa procedura si chiama “intensione del concetto”) per POI scegliere i 100 casi, tra tutti i soggetti di Milano che potenzialmente (estensione) hanno i requisiti delineati. Nel delineare i requisiti, si dovrà dare una risposta a domande complesse: chi ha una casa di proprietà, ma è senza lavoro, è povero? Chi ha un lavoro stabile, ma non riesce ad arrivare alla fine del mese, è povero? Chi vive in condizioni di indigenza, ma ha una cospicua somma di denaro da parte, è povero?

Lo stesso dicasi se si vuole fare un’indagine su 100 famiglie di Milano.

Come le scegliamo? Di nuovo, dobbiamo dare una definizione lessicale di ‘famiglia’ (intensione del concetto): chi è oppure cos’è una famiglia? Che cosa costituisce l’essere una famiglia? Quali di queste situazioni chiamereste “famiglia”: una coppia eterosessuale sposata, ma senza figli? Una madre separata, che vive sola con sua figlia? Un gruppo di studenti oppure di religiosi che vivono nella stessa casa? Una coppia eterosessuale non sposata (coppia di fatto)? Una coppia omosessuale che vive da anni nella stessa casa?

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Per cui definire un termine, prima di aprire una qualsiasi discussione su un qualsiasi argomento, diventa essenziale per evitare fraintendimenti, litigare, non comprendersi. Pensiamo a quanti conflitti si sarebbero potuti evitare se si fossero PRIMA definite le parole ‘flessibilità’, ‘valutazione’, ‘merito’ formazione’, ‘innovazione’ o “scientifico”

Sapendo bene che le definizioni non si danno una volta per sempre, ma possono cambiare nel tempo.

Ad esempio, Cesare Battisti, che (essendo cittadino austriaco, dal momento che gli austriaci a quel tempo governavano legittimamente il Nordest, e diventato dal 1911 al 1914 persino deputato nel parlamento di Vienna) fu catturato mentre combattiva gli austriaci e poi impiccato nel 1916 nel castello di Trento, fu un patriota o un traditore?

E Menachem W. Begin (futuro primo ministro israeliano, assegnatario del Nobel per la pace nel 1978) che nel maggio del 1942 aderì all'Irgun (gruppo paramilitare dedito ad attività terroristica antiaraba e antinglese) del quale divenne il leader, organizzando vari attentati contro militari britannici, culminati con la bomba nel King David Hotel, con novanta morti, e l'assalto alla prigione di Acri? Nel 1948, nonostante la proclamazione dello Stato di Israele, Begin si rifiutò di sciogliere l'Irgun, che si rese responsabile di un massacro nel villaggio palestinese di Deir Yassin, dove morirono un centinaio di civili, tra cui donne e bambini. Begin fu un terrorista oppure un uomo di pace?

E, infine, Yāsser ʿArafāt, combattente e fondatore dell’organizzazione Al-Fatah, dedita alla lotta armata, ma anche assegnatario del Nobel per la pace nel 1994, fu un terrorista o un uomo di pace?

Prima di rispondere, ricorrere alla pratica (scientifica) della definizione operativa potrebbe essere d’aiuto.

 


La svalutazione delle competenze - Le responsabilità di scienziati e giornalisti

Da molto tempo si parla di “crisi delle competenze” (expertise).

Con questa espressione si intende la tendenza a non dare sufficiente credito e importanza al parere degli esperti, dei tecnici, degli scienziati, dei possessori di conoscenze specifiche. In sostanza, delle persone competenti.

Vi è, quindi, in atto una sorta di delegittimazione dell’autorità intellettuale. L’avevano già evidenziato Collins ed Evans con Rethinking Expertise (2007), Nichols (2017) con The Death of Expertise, Eyal con The Crisis of Expertise (2019).

Responsabili di tutto ciò sono spesso additati, di volta in volta, internet (famosa è l’espressione “doctor Google”, per cui le persone si fanno auto-diagnosi e si curano cercando in rete i rimedi), i social media (dove troviamo gruppi che forniscono pareri su qualsiasi cosa e contestano le affermazioni di scienziati), il populismo che ritiene che gli esperti frenino la democrazia, i politici (come Trump, Bolsonaro ecc.)…

Ma siamo proprio sicuri che essi siano i veri responsabili? Non potrebbe essere che la crisi delle competenze sia (almeno in parte) causata proprio dai… competenti?

Questa ipotesi, apparentemente assurda, emerge da una nostra ricerca sulla fiducia negli scienziati.[1] Come altre ricerche hanno evidenziato[2], dopo l’epidemia di SARS-COV-2, abbiamo assistito a un declino della fiducia nei confronti degli scienziati.

Che era molto alta.

Per cui declino significa che è scesa, non che è sparita (come qualcuno potrebbe frettolosamente pensare).

I risultati della ricerca sollevano dubbi sulle recenti teorie che assegnano un forte ruolo ai social network e alle fake news nella sempre maggior diffusione del cosiddetto ‘antiscientismo’ (Moran, 2020). Sicuramente (e anche il nostro sondaggio lo rileva) le persone più critiche nei confronti della scienza e degli scienziati sono assidui frequentatori dei social network.

Tuttavia, le persone che li utilizzano come fonte primaria sono molto poche (3%).

Da qui, la nostra ipotesi che siano proprio i media tradizionali (TV in primis), nei quali è presente un diffuso scientismo rinforzato anche dalla richiesta di certezze (fatta agli scienziati) da parte dei conduttori televisivi, ad alimentare (indirettamente e inconsapevolmente) un crescente atteggiamento critico nei confronti della scienza, che può sconfinare anche in un sentimento antiscientifico. Questi atteggiamenti sono, in parte, la conseguenza di previsioni (statistiche e non) non avveratisi (Campo et al. 2021); del disorientamento e confusione nell’opinione pubblica a seguito dei conflitti televisivi fra scienziati; della disillusione nello scoprire che alcune promesse d’uscita dall’emergenza non sono state mantenute. Quelli elencati sono peraltro anche alcuni degli annosi nodi irrisolti della medicina (cfr. Lello, 2020; Hornsey, Lobera e Díaz-Catalán, 2020).

A ciò vanno aggiunte le dinamiche conflittuali che, sebbene connaturate al dibattito scientifico, sono state amplificate dai processi di spettacolarizzazione della scienza che hanno avuto luogo durante l’epidemia. Nonostante la visibilità pubblica di alcuni scienziati non sia un fenomeno nuovo, l’epidemia ha dato alla comunità scientifica un’esposizione mediale inedita. Gli stessi media, inoltre, hanno in gran parte “premiato” proprio gli scienziati maggiormente noti e visibili nel dibattito pubblico, nonché tendenti a comportarsi come “attori mediali” (quindi più “televisivi”), inclini all’assertività, alla polemica o alla dichiarazione a effetto (anche a scapito della chiarezza informativa); spesso al mero fine di aumentare l’audience. Inevitabilmente, ciò ha portato a esasperare ulteriormente il livello di conflittualità.

A tal fine, Nucci e Scaglioni (2022) hanno parlato di “iatrodemia”, cioè epidemia di medici in TV: «gettandosi nell’arena tra polemisti, nani e ballerine, hanno portato la medicina sul terreno delle opinioni. Il problema è che la scienza non è un’opinione. E che questa percezione cambia il nostro modo di considerare il rischio e la malattia» (p. 11).

Secondo gli autori, il risultato è la perdita di autorevolezza dei medici, a favore del rafforzamento del pensiero antiscientifico, proprio nel momento in cui la fiducia nella classe medica sarebbe cruciale. Infatti, essi sostengono che dalle prime fasi della pandemia abbiamo assistito, da un lato, alla depoliticizzazione delle decisioni sanitarie, presentate come scelte ‘tecniche’ dettate da ‘esperti’, dunque indiscutibili; dall’altro, alla politicizzazione dei medici, che alle prime opinioni divergenti sono diventati i principali alfieri di questa o quella battaglia. Così arriviamo a oggi, gli autori concludono, con medici onnipresenti in tv, che ormai danno anche chiari segni di appartenenza politica.

 

LO SCIENZIATO PASSE-PARTOUT

Ma c’è ancora un altro fenomeno, ancor più recente: lo scienziato prêt-à-porter o passe-partout.

Infatti, sempre più e soprattutto nelle scienze naturali, fisiche, matematiche e anche mediche, gli scienziati esprimono pubblicamente le loro opinioni a proposito di ambiti che esulano dalla loro specifica area di competenza.

E se un fisico (Giorgio Parisi, ad esempio), anziché un epidemiologo, si mette a parlare di previsioni sul virus; un virologo (Burioni) - e non un medico di famiglia o ospedaliero - parla di pazienti e terapie anti-Covid; una farmacologa (Cattaneo), un virologo (Burioni), un fisico (Parisi) o una immunologa (Viola), un biochimico e biologo molecolare convertito all’analisi di Big Data e Reti Sociali per lo sviluppo biofarmaceutico (Bucci) - e non un agronomo - parlano di agricoltura biodinamica;  una biologa molecolare (Gallavotti) o un neurologo - e non uno psicologo o sociologo - di cosa passa per la mente di un no-vax, i loro interventi potrebbero (indirettamente e inconsapevolmente) veicolare il tacito messaggio che gli stessi scienziati non ritengono le competenze così fondamentali e che ognuno può cimentarsi in temi che sono altri rispetto al suo oggetto di studio.

Questo fenomeno si ripresenta ormai con modalità simili a ogni nuovo tema che conquisti l’agenda setting.

Un tempo erano i sociologi a essere accusati di parlare di tutto; ora il ruolo del tuttologo lo stanno, pian piano, assumendo i fisici e i matematici (Rovelli, Odifreddi) che si esprimono su tutto. Anche sulla guerra in Ucraina o in Israele.

Facendo il verso ai giornalisti, che sono ormai diventati i campioni di tuttologia: lo stesso giornalista ormai scrive di vaccini, guerra, antisemitismo, cambiamenti climatici, femminicidi, patriarcato ecc.

Non ci credete? Fate una prova: prendete il nome di una nota firma, e guardate di cosa ha scritto negli ultimi tre mesi. Scoprirete delle menti enciclopediche in formato tabloid. Per cui, forse, sono proprio loro ad ammazzare la competenza.

In conclusione, la crisi delle competenze e della legittimità dei saperi sembra essere non solo il prodotto di forze esterne alla scienza, ma anche degli scienziati mediali stessi (Gobo e Campo, 2021).

 

 

NOTE

[1] Gobo G., Serafini L., Campo E., e Caserini A. (2022), Covid-19 e fiducia negli scienziati. Uno studio pilota sui lettori di due giornali online, in Comunicazione Politica, 23(1), pp. 19-38.

[2] Di ricerche ce ne sono molte, con esisti opposti. Alcune dicono la fiducia è calata, altre che è cresciuta o è rimasta stabilmente alta. Sono ricerche non comparabili perché condotte con domande molto diverse. In altre parole, sono le domande dei questionari a costruire (almeno parzialmente) le opinioni degli intervistati. Osservazione banale, ma quasi sempre dimenticata.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Campo, E., Gobo, G., Galeotti, M. e Parra Saiani, P. (2021). Limiti e fallimenti dei modelli epidemiologici e previsionali nell’epidemia di SARS-COV-2, in A. Favretto, A. Maturo e S. Tomelleri (a cura di) L'impatto Sociale del Covid-19 (pp. 39-48). Milano: Franco Angeli.

Collins, H. and Evans, R. (2007) Rethinking Expertise, Chicago, University of Chicago Press.

Eyal, G. (2019) The Crisis of Expertise, Cambridge, Polity Press.

Gobo, G. e Campo E. (2021). Covid-19 in Italy: should sociology matter? The European Sociologist, 46 (12).

Gobo G., Serafini L., Campo E., e Caserini A. (2022), Covid-19 e fiducia negli scienziati. Uno studio pilota sui lettori di due giornali online, in Comunicazione Politica, 23(1), pp. 19-38.

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Quando lavarsi le mani era considerato anti-scientifico

Spesso nei dibattiti sulla scienza e fra scienziati, manca una prospettiva storica. Essa insegnerebbe a essere meno assertivi e più aperti al possibile, anche se improbabile.

Questa è la storia, davvero triste e per lo più dimenticata, del medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis (1818 – 1865). [1]

Siamo a metà dell’Ottocento. Il giovane Semmelweis, fresco di laurea in medicina e affascinato dalla ricerca in anatomia patologica, fece domanda per un posto di assistente alla famosa Scuola Medica Viennese dove, peraltro, si era appena laureato; ma la sua domanda venne respinta. Chiese allora di diventare assistente di Joseph Škoda, clinico leader della scuola; ma questi aveva già promesso il lavoro a un altro medico. Fu così che Semmelweis si rivolse all'ostetricia, che a quel tempo non occupava un posto di prestigio nella medicina europea. Iniziò così a frequentare la clinica di ostetricia, ma ottenne anche il permesso di dissezionare i cadaveri delle donne morte per malattie e operazioni ginecologiche, imparando così i nuovi metodi di osservazione e di analisi.

 

L'assistentato e le sue ricerche

Conseguito successivamente il dottorato in Chirurgia ed Ostetricia, nel 1846 ottenne un incarico biennale come assistente presso la clinica ostetrica dell'Ospedale Generale di Vienna, a quel tempo il più moderno ospedale europeo. Sin dall’inizio della sua fondazione, la clinica ostetrica era stata diretta dal dottor Johann Boër. Dotato di un grande senso di umanità per le puerpere, il dottor Boër proibiva l'insegnamento sui cadaveri delle donne e ne dissezionava i corpi solo per studiarne le patologie che avevano provocato il decesso. Durante i trent'anni della sua direzione, la mortalità delle partorienti si aggirava intorno all'1%.

Tutto cambiò quando, nel 1823, la clinica fu affidata al dottor Johann Klein, di cui Semmelweis era uno degli assistenti. Inspiegabilmente, il numero di decessi delle partorienti per febbre puerperale cominciò a salire. Semmelweis era letteralmente ossessionato da ciò, anche perché nella clinica di Klein la percentuale di decessi era di molto superiore (circa quattro volte) rispetto alla seconda divisione diretta dal dottor Bartch, dove erano le ostetriche (e non i medici) a far partorire le donne. Il turbamento di Semmelweis aumentava la diligenza che metteva nelle sue ricerche.

La sua prima ipotesi fu l'aria mefitica delle città che, in piena rivoluzione industriale, non era molto salubre. Raccolse così dati sulla mortalità delle puerpere per febbre in città, in campagna e in ospedale; ma l'ipotesi non trovò conferma. La seconda ipotesi fu che le puerpere morissero di autosuggestione a causa del prete della cappella dell'ospedale che, per dare l'estrema unzione, passava scampanellando per i corridoi. Costrinse quindi il parroco a non usare più la campanella, ma le morti rimasero costanti.

Infine, ebbe l'intuizione che risolse il problema.

 

L'intuizione

Come a volte accade, fu un fatto apparentemente non collegato ai decessi delle partorienti ad aiutarlo a venir a capo della sua ossessione. Durante l'assenza di Semmelweis, tra il primo e il secondo periodo contrattuale, il suo collega e amico Jakob Kolletschka era morto a seguito di una malattia fulminante. Semmelweis ebbe la possibilità di studiarne la cartella clinica e fu colpito da due elementi:

  • l'autopsia praticata sul cadavere evidenziava lesioni simili a quelle che si riscontravano sulle donne morte per febbre puerperale;
  • Kolletschka solo qualche giorno prima si era ferito nel corso di una autopsia praticata sul cadavere di una di queste mamme.

Gli fu chiaro che la febbre puerperale e la morte del professor Kolletschka erano la stessa cosa dal punto di vista patologico, perché entrambe presentavano gli stessi cambiamenti anatomici. Se nel caso di Kolletschka i cambiamenti nella sepsi derivavano dall'inoculazione di particelle cadaveriche, allora la febbre puerperale doveva avere origine dalla stessa fonte. A questo punto Semmelweis si ricordò di un cambiamento nell’organizzazione del lavoro introdotto dal direttore Klein: gli assistenti avevano l'obbligo di eseguire fino a 15-16 autopsie al giorno per poi andare a visitare le partorienti della clinica. Ciò fu sufficiente a Semmelweis per giungere a un'ipotesi contro-intuitiva (e un po’ blasfema) per l'epoca: la febbre puerperale è una malattia che viene trasferita da un corpo all'altro a seguito del contatto che i medici e gli studenti presenti in reparto hanno prima con le donne decedute (su cui praticano autopsia) e poco dopo con le partorienti che vanno a visitare in corsia.

Era una teoria sconvolgente per i tempi. Per accertarla Semmelweis mise in atto, in accordo con la Direzione Sanitaria, una banale disposizione: tutti coloro che entravano nella clinica sarebbero stati obbligati a lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce (ipoclorito di calcio). A questo aggiunse la disposizione che, per tutte le partorienti, si cambiassero le lenzuola sporche con altre pulite.

Era il maggio 1847, lui aveva 29 anni e, soprattutto, agiva con troppa proattività e al di fuori delle sue competenze…

 

La conferma della teoria

Dopo l'adozione del lavaggio delle mani con ipoclorito di calcio, l'anno successivo la percentuale di decessi per febbre puerperale si attestò tra l'1 e il 2%, all'incirca la stessa percentuale da sempre presente nell’altra divisione.

Quando Semmelweis espose ai colleghi i risultati della sperimentazione ottenne una reazione inaspettata: venne insultato, nonostante l’evidenza statistica, per aver costretto i medici a una pratica indecorosa, priva di alcun fondamento reale dato che “è ridicolo lavarsi le mani per qualcosa che non si vede” e anche perché le puerpere “venivano chiamate a lasciare questo mondo dal Buon Dio e non per colpa dei medici”.

Si attirò così gelosia, invidia e risentimenti. Il suo direttore, Johann Klein, che sosteneva con forza la necessità per gli studenti di praticare molte autopsie, trovava irritanti le iniziative di questo straniero ungherese, per giunta nazionalista (partecipò con entusiasmo ai moti del 1848), che si arrogava il diritto di emanare disposizioni che non gli competevano, offensive per il personale (l'obbligo di lavarsi le mani) ed onerose per l'ospedale (cambio frequente delle lenzuola). Così nel 1849, non gli rinnovò il contratto.

Semmelweis, affranto ed esasperato, successivamente scrisse molte lettere (alcune anche insolenti e aggressive) a colleghi dentro e fuori l’impero senza essere, però, mai compreso. Molti e illustri medici europei gli risposero, con qualche apprezzamento, ma senza che alcuno di loro riuscisse realmente a comprendere la portata dell’intuizione.

L'appoggio di alcuni amici - Josef Škoda, Ferdinand von Hebra, del suo vecchio maestro e grande patologo Rokitansky - servì solo in parte ad aiutarlo e a diffondere la nuova teoria, osteggiata dal mondo medico che per principio rifiutava di ammettere che i medici stessi potessero essere degli "untori" e quindi la causa diretta dei decessi. Peraltro, uno dei suoi più accaniti oppositori fu Rudolf Virchow, considerato il padre della patologia cellulare.

 

Ricovero in manicomio e morte

A causa dell'ostilità mostrata nei suoi confronti dai medici della Scuola Viennese, Semmelweis cadde in depressione, schiacciato anche da complessi d'inferiorità. Purtroppo, ci vollero molti anni prima che la scoperta di Semmelweis venisse accettata e applicata in modo esteso. Infatti, la prova della contaminazione batterica fu data da Pasteur solo nel 1864, quasi venti anni dopo la prima disposizione di Semmelweis di lavarsi le mani. Prima di allora la scoperta di Semmelweis venne screditata e, nonostante gli effetti positivi, fu licenziato dall'ospedale di Vienna per aver dato disposizioni senza esserne autorizzato. Vale la pena notare come ovviamente, a seguito dell’allontanamento di Semmelweis, le morti per infezione ripresero ad aumentare e questo non fu sufficiente a far cambiare opinione a Klein e agli altri oppositori di Semmelweis. Insomma, per loro il dato empirico non era poi tanto… empirico.

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Tornato in Ungheria Semmelweis applicò lo stesso metodo all'ospedale di San Rocco a Pest, ottenendo anche qui un abbassamento significativo dei casi di febbre puerperale. Fu proprio in Ungheria che nel 1861 scrisse il libro Eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale. Purtroppo la comunità scientifica dell'epoca gli si scagliò nuovamente contro e Semmelweis finì per essere ricoverato in manicomio. Morì nel 1865 (a 47 anni) per setticemia, sviluppatasi a causa delle ferite inferte dalle guardie del manicomio e delle cure non sottoposte ad adeguata profilassi; proprio ciò che la sua scoperta avrebbe potuto evitare.

Solo qualche decennio dopo, i lavori di Louis Pasteur (del 1879e di Joseph Lister (nel 1883) avrebbero definitivamente mostrato la grandezza delle intuizioni di Semmelweis.

A compensazione dei pregiudizi e torti subiti, la città di Budapest nel 1894 gli eresse un monumento tombale; poi nel 1906 una statua (successivamente collocata davanti all'ospedale San Rocco); e infine gli intitolò la Clinica Ostetrica dell'Università, che ancora porta il suo nome.

 

Infine

Nel Novecento il neopositivista Carl Gustav Hempel, in Filosofia delle scienze naturali (1966), utilizzò l'indagine di Semmelweis sulle cause della febbre puerperale come modello di ricerca scientifica basata sull'evidenza empirica. In particolare, venne apprezzato il suo uso della modalità logica modus tollens, cioè la prova tramite confutazione di ipotesi alternative; anticipando così alcuni aspetti del falsificazionismo.

Anche lo scrittore e medico francese Louis-Ferdinand Céline nel 1924 dedicò la sua tesi di laurea in medicina al medico ungherese e poi nel 1952 pubblicò il libro Il dottor Semmelweis, in cui racconta la sua vicenda.

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La lezione non (ancora) appresa

Oggi è chiamata "riflesso di Semmelweis" la riluttanza o resistenza ad accettare una scoperta in campo scientifico o medico che contraddica norme, credenze o paradigmi stabiliti. Un fenomeno a cui, dagli anni Cinquanta in poi, molti filosofi, storici e sociologi della scienza hanno dedicato molta attenzione.

Eppure, nonostante ciò, il mondo scientifico non si è fatto (nel corso degli ultimi decenni) più aperto e tollerante verso ipotesi o teorie alternative rispetto a quelle dominanti. Al contrario, stiamo assistendo a un ritorno dello scientismo, dove vengono usate con troppa facilità (e talvolta violenza) espressioni quali “anti-scientifico”, “pseudoscienza”, “teorie complottiste”, “fake news”, “post-verità”.

Oggi, visto il clima di caccia alle streghe a cui abbiamo assistito negli ultimi anni,
Semmelweis forse non sarebbe finito in manicomio, ma radiato probabilmente sì…

 

Riferimenti

  • Sherwin B. Nuland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignác Semmelweis, Torino: Edizioni Codice, 2004.
  • Louis-Ferdinand Céline (1952), Il dottor Semmelweis, Milano, Adelphi 1975.

 

Film

  • Semmelweis(cortometraggio), USA/Austria 2001: Belvedere Film (regia Jim Berry)
  • Docteur Semmelweis, Francia/Polonia 1995 (regia Roger Andrieux)
  • Semmelweis, Olanda 1994: Humanistische Omroep Stichting (regia Floor Maas)
  • Ignaz Semmelweis - Arzt der Frauen(Ignaz Semmelweis, il Medico delle Donne), Germania/Austria 1987: ZDF/ORF (regie Michael Verhoeven)
  • Semmelweis, Italia/Svizzera 1980: RTSI(regia Gianfranco Bettetini)
  • Semmelweis - Retter der Mütter(Semmelweis, il Salvatore delle Madri), Germania dell'Est, 1950: DEFA (Regia Georg C. Klaren)
  • Semmelweis, Ungheria 1940: Mester Film (regia André De Toth)
  • That mothers might live(Che le madri possano vivere), USA 1938: MGM (Regia Fred Zinnemann) Oscar per il Miglior Cortometraggio

 

[1] Per una ricostruzione più approfondita: https://it.wikipedia.org/wiki/Ign%C3%A1c_Semmelweis e https://ambulatoridemetra.it/demetra/ignac-fulop-semmelweis-fra-genio-e-follia-la-storia-del-medico-che-intui-il-valore-del-lavaggio-delle-mani/

 


Perché ci chiamiamo ‘mammiferi’? Il persistere dei pregiudizi nella scienza

Contrariamente a chi pensa che scienza e società siano due sfere separate e portatrici di due tipi di conoscenza molto diversi, numerosi studi mostrano che invece esse si influenzano e contaminano reciprocamente.

Tant’è che le conoscenze scientifiche poggiano anche su conoscenze sociali (pregiudizi compresi); e viceversa.

Potrà meglio illuminare questa posizione (apparentemente blasfema) uno studio tratto dalla storia della biologia, pubblicato da Londa Schiebinger nel 1993 (nel American Historical Review, 98: 382-411), dal titolo Why Mammals are Called Mammals: Gender Politics in Eighteenth-Century Natural History. L’autrice, professoressa di storia della scienza presso il Dipartimento di Storia, della Stanford University (https://en.wikipedia.org/wiki/Londa_Schiebinger), sostiene che il termine mammalia (che potremmo rendere con l’espressione “che hanno il seno”) fu introdotto dal botanico svedese Linneo soltanto nella… decima edizione del Sistema Naturae (1758).

Quindi non nelle edizioni precedenti.

Tale termine cominciò a indicare quella specie che, da allora, conosciamo come mammiferi; mentre per secoli essi erano stati chiamati quadrupedi, secondo le indicazioni di Aristotele. Perché questo cambio di nome? Era proprio necessario? Peraltro Linneo, scegliendo quel termine, considerò solo una fra le diverse proprietà comuni ai mammiferi. Nonostante fosse adatta, a stretto rigore di termini, solo alle femmine di quella specie. Infatti Schiebinger sostiene che Linneo poteva ricorrere ad altre possibili definizioni equivalenti, quali: Pilosa (“che hanno peli”); Aurecaviga (“che hanno orecchie cave”); Lactentia (“che allattano”); Sugentia (“che succhiano”); Vivipora (“che allevano i piccoli”). Che tuttavia non scelse. Perché?

Peraltro, scegliendo Aurecaviga oppure Vivipora egli avrebbe individuato un attributo in comune fra uomini e donne (al contrario delle mammelle). Certamente il termine ‘mammifero’ suonava particolarmente bene foneticamente, per la facile assonanza di mammalia sia con il termine animalia che quello di mamma (forse la prima parola che i bambini imparano).

Nel cercare una spiegazione, l’autrice nota che la «fissazione di Linneo per le mammelle femminili”» (1993, p. 64) si inseriva in un più ampio processo culturale di erotizzazione del seno femminile che proprio in quegli anni giunse a compimento, con esiti ben visibili anche nella storia dell’abbigliamento.

Inoltre Linneo era anche politicamente schierato in una battaglia socio-culturale (nella quale egli era stato appena coinvolto) di reazione all’uso che andava diffondendosi fra le donne delle classi agiate di dare i figli da allattare alle balie. Proprio per arginare questo fenomeno, nel 1793 in Francia, e subito dopo in Prussia, fu promulgata una legge volta a promuovere l’allattamento materno. Tuttavia la pratica dell’allattamento da balia era ormai diffusa non solo tra le famiglie aristocratiche o quelle più ricche, ma anche in altre fasce sociali: infatti a Parigi e a Lione nel 1780 il 90% dei neonati andava a balia (Schiebinger 1993, p. 66).

Schiebinger osserva, inoltre, il differente trattamento che Linneo riserva al genere femminile e a quello maschile, visto che introduce l’espressione Homo sapiens per la nostra specie.

Questo passaggio è particolarmente interessante: se da una parte egli unisce la nostra specie agli altri animali mammiferi attraverso un attributo distintivo della donna (le mammelle), dall’altra per distinguere la specie umana da quella animale, usa un altro attributo pregiudizialmente (soprattutto ai tempi di Linneo) assegnato agli uomini: la ragione o razionalità. Anche se, sostiene Schiebinger, egli probabilmente non era consapevole della scelta politica che lo stava guidando nella sua classificazione.

Inoltre Linneo riteneva l’allattamento “mercenario” una catastrofe sociale, mentre l’allattamento al seno derivava da una legge naturale; quindi, una pratica benigna sia per il neonato che per la madre. Tuttavia, questa battaglia nascondeva una più generale avversione all’emancipazione femminile, al fine di ricondurre la donna al ruolo domestico tradizionale. Se pensiamo che a quel tempo una donna faceva (mediamente) 7-8 figli, questo comportava il suo allontanamento dal lavoro pubblico per almeno una decina d’anni.

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In conclusione, nel campo scientifico spesso si usano termini e classificazioni che hanno un fondamento profondamente sociale (con pregiudizi annessi) e che continuano ad essere attive anche quando questi pregiudizi sono superati.

Per cui scienza e società sono fortemente compenetrate. Nel bene e nel male. Che lo si voglia o no.


Giocattoli di genere - Psicologia e influenza sociale

La psicologia, la filosofia e la sociologia hanno documentato come i giocattoli per l’infanzia siano portatori di modelli sociali legati al genere. In questa sede, ci concentreremo prevalentemente sul gioco in età infantile, cercando di esaminare non solo come esso trasmetta stereotipi di genere già in questa fase della vita, ma anche come sia un momento molto importante nei processi di sviluppo per bambini e bambine.

Innanzitutto, cos’è il gioco? La Treccani lo definisce così: “esercizio singolo o collettivo a cui si dedicano bambini o adulti, per passatempo, svago, ricreazione, o con lo scopo di sviluppare l’ingegno o le forze fisiche”[1]. Se diamo a questa definizione generica una sfumatura, funzionale allo scopo di questo post, potremmo aggiungere che il gioco non è un’entità statica ma si modifica, mutando i propri contenuti e la loro fruizione, al variare dei contesti (socioculturali, anagrafici ecc.).

Andiamo ad approfondire il discorso esaminando alcune riflessioni psicologiche sul fenomeno del gioco:

  • Secondo H. Spencer (1820-1903), attraverso il gioco si bruciano le energie che si dovrebbero consumare nella lotta per la sopravvivenza; lotta che gli esseri umani non attuano più, in quanto “evoluti”. C’è dunque un patrimonio energetico che non si sfrutta più, ma che deve essere scaricato «in modo istintivo»[2]; il suo sfogo è individuato nell’attività ludica, grazie alla quale «il bambino sprigiona l’eccesso di energia psichica accumulata»[3].
  • La “teoria catartica” di S. Freud (1856-1939) e A. Adler (1870-1937) afferma che «il gioco avrebbe la funzione di liberare l’individuo da tendenze o istinti incompatibili con le esigenze della vita sociale»[4]. Inoltre, lo stesso Freud «per primo ha posto in evidenza la funzione del gioco come manifestazione simbolica di disturbi profondi, di un conflitto psichico inconscio che richiede risoluzione»[5].
  • Winnicott (1896-1971) «ha studiato lo sviluppo del bambino e le diverse fasi che lo contraddistinguono a partire dal grado di dipendenza del bambino dalla figura di accudimento. Egli ha sottolineato come il gioco permetta al bambino di prendere consapevolezza di sé stesso e, attraverso la creatività, di imparare a conoscersi»[6].

Per quanto riguarda le teorie dello sviluppo, citiamo:

  • Per K. Groos (1861-1946), il gioco è un bisogno innato che ha valore di esercizio preparatorio alla vita adulta (spesso, infatti, i bambini si divertono a imitare il comportamento dei “grandi”). Pertanto, «con il gioco, […] il bambino acquisisce abilità e schemi mentali man mano più complessi che risultano indispensabili per condurre una vita autonoma»[7].
  • Vygotskij (1896-1934) ritiene che il gioco abbia una funzione fondamentale per lo sviluppo del bambino su più livelli (cognitivo, emotivo e sociale)[8]. Egli evidenzia, inoltre, «come nel passaggio dall’infanzia alla fanciullezza il gioco rappresenti per il bambino un utile strumento per la gestione dell’emotività ansiogena e per la realizzazione di desideri insoddisfatti, mentre si sta relazionando con difficili compiti evolutivi, quali la differenziazione e il distacco dalla figura materna, la scoperta del Sé, la dilazione dei propri desideri»[9].
  • Secondo J. Piaget (1896-1980), il gioco ha «la funzione di palestra di sviluppo, di esercitazione attiva e interattiva con l’ambiente, in grado di apportare competenze e abilità all’individuo in stretta correlazione con lo sviluppo neurobiologico e cognitivo del medesimo»[10]. In breve: «il giocare muta nella sua forma con il crescere del fanciullo»[11]; rimarcando così «una corrispondenza diretta tra gioco e sviluppo mentale del bambino»[12]. La teoria di questo autore prevede dunque degli stadi, secondo cui «il bambino matura superando una serie di tappe»[13].

Dal punto di vista sociale, infine, riportiamo:

  • Fröbel (1782-1852) ritiene che il gioco sia lo strumento grazie al quale il bambino si relaziona sia col mondo esterno, sia con gli altri individui[14].
  • Huizinga (1872-1945) «ha considerato il gioco come il fondamento della cultura e della vita umana organizzata in società»[15]; per questo autore, l’essere umano «è soprattutto Homo ludens più che sapiens»[16].
  • Caillois (1913-1978) distingue quattro categorie:
    • «Giochi di competizione (agon): tutte le gare in generale»[17], fisiche e mentali;
    • «Giochi di fortuna (alea): dove il fattore primario è il caso»[18] (lotterie, scommesse, gioco dei dadi, “testa o croce” ecc);
    • «I giochi incentrati sulla finzione e il mimetismo»[19], definiti «di simulacro (mimicry)»[20], nei quali si imita qualcun altro (rientrano in questa categoria, per esempio, anche i giochi dove i bambini emulano le attività degli adulti);
    • «Giochi di vertigine (ilinx)»[21], dove vengono sfidati il pericolo e le leggi fisiche come, per esempio, gli sport estremi.

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Questa carrellata di teorie e di pensatori permette di capire come il gioco sia un’attività complessa, dalle infinite finalità e sfaccettature, e che sia un’occupazione decisamente più “seria” di quanto saremmo portati a pensare a prima vista. Essa coinvolge numerose abilità, impegnandoci sotto diversi punti di vista. Non a caso, «la principale caratteristica delle ricerche psicologiche degli ultimi decenni del 20° sec. è la rinuncia a una spiegazione unitaria ed esaustiva del significato psicologico del gioco»[22]; pertanto, «viene riconosciuta l’esistenza di forme distinte di gioco: ciascuna di esse assolverebbe diverse funzioni psicologiche, utili alla crescita fisica e psichica dell’individuo, oltre che all’adattamento e alla sopravvivenza della specie»[23]. Ricordiamo, inoltre, che i giochi di gruppo e i giochi sociali permettono relazioni interpersonali e stimolano attività condivise, ma possono creare ruoli e gerarchie; ed è proprio su questi concetti (ruoli e gerarchie) che ci dobbiamo soffermare per proseguire nell’esposizione.

Esaminiamo ora la nostra società, approfondendo il tema dei giocattoli e analizzando le imposizioni sociali che essi trasmettono a bambini e bambine, con particolare riferimento al genere.

Sotto un punto di vista evoluzionistico anche il genere sessuale e le caratteristiche temperamentali svolgono un ruolo discriminante a livello dell’evoluzione e della sperimentazione ludica, creando differenze tra maschi e femmine evidenti già dall’età infantile: i maschi sono infatti più orientati ad attività aggressive, competitive, realizzate singolarmente e basate sul movimento, sulla scoperta, sull’azione e la sperimentazione concreta, mentre le bambine appaiono propense a giochi realizzati in gruppo e fondati sull’accudimento, l’immaginazione, la cooperazione; tale differenza sembra generalmente dovuta ad una serie di influenze ambientali/esperienziali che rendono le femmine soggette ad un’educazione più improntata al controllo emotivo e alla bassa competizione rispetto al corrispondente maschile.[24]

Il discorso che ora dobbiamo affrontare prende le mosse dalla consapevolezza che i giocattoli sono (anche) uno strumento di controllo e conformismo sociale, costruiti per trasmettere (nonché conservare) modelli, ruoli e gerarchie fin dall’infanzia. Infatti, «è chiaro che anche i giocattoli sono fruitori di stereotipi di genere, intesi come rappresentazioni semplificate e riduzionistiche della realtà, socio-culturalmente condivise, che attribuiscono determinate caratteristiche agli uomini, alle donne e ai rapporti tra loro»[25]. Finalmente ci siamo: anche i giocattoli sono fautori di binarismo di genere! (Per intenderci: «si definisce binarismo di genere quella rigida distinzione tra maschile e femminile, uomo e donna, da cui deriva una altrettanto rigida aspettativa su quali debbano essere i comportamenti, gli atteggiamenti, l'aspetto, l'abbigliamento, i compiti di uomini e donne, chi debbano amare»[26]).

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Come si applicano le osservazioni e le analisi compiute fino a questo punto con uno sguardo su possibili sviluppi futuri?

Iniziamo parlando di “COFACE Families Europe”. Esso è un network che lavora per garantire pari opportunità e benefici a tutte le famiglie; co-fondato dall’Unione Europea, tra i suoi valori fondanti troviamo, per esempio, la non-discriminazione (il riconoscere tutte le forme di famiglia), il rispetto dei diritti umani e l’inclusione sociale. Vediamo adesso uno studio che ha coinvolto questa organizzazione:

"Con COFACE Families Europe lo scorso dicembre 2015 abbiamo lanciato una campagna sui social media, chiedendo a genitori e a chiunque volesse partecipare di inviarci foto di giocattoli e pubblicità, che mostrassero esempi positivi o stereotipi. La campagna, con l’hashtag #ToysAndDiversity ha avuto un buon successo e abbiamo deciso di andare più a fondo, con uno studio che ci facesse avere un’immagine più chiara di cosa ci fosse in Europa.

I primi anni della vita di un bambino sono fondamentali per il suo sviluppo e il gioco e i giocattoli contribuiscono a formare la personalità e gli interessi del bambino, influenzando così anche le scelte che farà nel suo futuro. Abbiamo quindi deciso, per cominciare, e per avere materiale abbastanza omogeneo, di guardare i cataloghi di giocattoli in diversi paesi europei. Con l’aiuto delle ONG che sono membri [sic] della rete di COFACE, con l’esperienza della campagna inglese “Let Toys Be Toys” e con il supporto scientifico di due professoresse universitarie, abbiamo raccolto i cataloghi e creato un questionario, composto da oltre 200 domande) che ci servisse per analizzarli."

Un anno dopo, ecco i risultati.

"Abbiamo analizzato le immagini di 3125 bambini in 32 cataloghi di 9 paesi: Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.

  • 12 cataloghi erano divisi in sezioni “per maschi” e “per femmine”. 20 cataloghi non avevano questa divisione formale ma le sezioni e i giocattoli per maschio/femmina erano facilmente individuabili con il colore delle pagine (rosa e colori pastello per le bambine, colori più scuri e marcati per i bambini), dall’associazione di giocattoli nella stessa pagina (bambole e peluche per le femmine, treni e dinosauri per i maschi).
  • i maschi erano almeno due terzi dei bambini presenti in 5 sezioni (su 13 in cui era diviso il nostro questionario): videogames (67%), costruzioni [sic] (69%), droni (72%), macchine e mezzi di trasporto (74%), guerra e armi (88%). Le femmine erano più di due terzi del totale solo in due sezioni: attività di cura, bambole (87%) e prodotti di bellezza (94,5%). Nelle altre sezioni, sebbene i numeri siano più bilanciati, si possono vedere delle grandi differenze guardando con quali giochi sono rappresentati i maschi e le femmine all’interno della stessa sezione (es. nella sezione “animali” i maschi giocano con dei dinosauri, le femmine coi peluche).
  • La sezione dei costumi e maschere è particolarmente interessante: nei cataloghi divisi tra […] maschi/femmine, la sezione per maschi aveva costumi per supereroi, personaggi di film e cartoni animati e professioni, come dottore, pompiere, poliziotto…, la sezione per femmine aveva un numero ridotto di personaggi dei cartoni e professioni e un altissimo numero di principesse. Nei cataloghi formalmente non divisi, maschi e femmine apparivano vestiti, in pagine diverse, con lo stesso tipo di vestiti proposti nei cataloghi con categorie separate. Due proposte quindi completamente diverse. Ma se scegliamo noi per loro, proponendo solo una parte delle maschere e dei costumi disponibili, non stiamo influenzando le loro scelte? Non stiamo già dicendo come “è normale” che si immaginino?

[…]

  • Sui 3125 bambini, 2908 sono stati identificati come bianchi, 120 neri, 59 di famiglie miste, 31 asiatici, 7 medio-orientali. Su 3125 bambini, nessuno aveva disabilità visibili." [27]

COFACE Families Europe si è impegnata, nel tempo, a promuovere campagne di sensibilizzazione sugli stereotipi trasmessi nei giocattoli rivolgendosi a diversi settori chiave, con lo scopo di sottolineare quanto sia importante che bambini e bambine decidano liberamente con cosa giocare, che non vengano limitati nel loro divertimento da imposizioni e pregiudizi[28].

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Esaminiamo adesso altri casi, che mostrano come (forse) le cose stiano cambiando:

  • Il 25 settembre 2019, l’azienda di giocattoli Mattel lancia sul mercato una nuova bambola “gender free”, descritta come «né maschio né femmina» e «libera di essere come vuole, senza etichette»; l’idea alla base di questo prodotto è quella di pensare un mondo più inclusivo, che oltrepassi i vecchi stereotipi. Infatti, si può creare un numero elevato di bambole, grazie alle molteplici possibilità di personalizzazione (il colore della pelle, i capelli, gli indumenti ecc.), nonché a una corporatura definita “neutra”, permettendo così a bambini e bambine di liberare la propria fantasia[29].
  • In Francia, nel 2019, una spiacevole consapevolezza ha portato a dei cambiamenti importanti. Infatti, «la mancanza di rappresentazione femminile scoraggerebbe le bambine nel perseguire una carriera nei campi delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)»[30]; tra i responsabili di questo problema sono stati individuati anche i messaggi trasmessi dai giocattoli per l’infanzia, i quali possono portare a cattiva comunicazione, ponendo il focus su una ristretta narrazione del mondo: «molto spesso, infatti, le bambine vengono associate a cucine, bambole, casette, che rimandano all’ambiente domestico, come a dire che da adulte saranno madri e donne di casa, al contrario dei maschietti, più di frequente raffigurati davanti a un microscopio»[31]. Così, il cambio di rotta: «l’accordo per una rappresentazione nel mondo del giocattolo più equilibrata è stato firmato dal governo francese, dalla Federazione Francese dei produttori di giocattoli e dalle associazioni di settore»[32]; uno statuto, quindi, che dovrebbe abbattere gli stereotipi di genere. Infatti, «i giocattoli legati alla scienza e alla tecnologia prodotti d’ora in avanti dovranno […] includere le ragazze e, che bella novità, i giochi legati alla sfera domestica dovranno includere anche i maschietti»[33]. Infine, sottolineiamo che «le nuove linee guida punteranno […] a spostare le attenzioni dei giocattolai verso il potenziale dei bambini e ciò che amano»[34].
  • Nel 2021, dopo aver commissionato un sondaggio internazionale, la Lego annuncia che eliminerà gli stereotipi di genere dai suoi giocattoli. È emerso, infatti, che «mentre le bambine sono sicure di sé e pronte a giocare anche con le confezioni di mattoncini pensate per i maschi, il 71% dei bambini intervistati ha confessato di temere di essere presi in giro qualora avessero utilizzato scatole descritte come “giocattoli per ragazze”»; l’articolo riporta, inoltre, che questa è «una paura […] condivisa se non più accentuata nei genitori». La Lego, insieme al togliere le etichette di genere sui suoi giocattoli, ha diviso i giochi per “passione”.[35]

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È giunto il momento di tirare le conclusioni. Lo scopo di questo articolo è di esporre il delicato tema dei giocattoli per l’infanzia, cercando di mostrare il grande potere che tali strumenti hanno nella creazione di un conformismo collettivo, che ci influenza fin da piccoli. Per esporre le mie riflessioni in modo efficace, ho voluto iniziare con un’analisi del fenomeno “gioco”, in modo da falsificare i miti che lo vogliono vedere solo come un momento di svago fine a sé stesso; successivamente, ho voluto studiare la società in cui ci muoviamo. Come ho cercato di mostrare, le influenze sociali sono ovunque, immateriali e silenziose, ma ci plasmano in ogni momento della nostra vita dicendoci, per esempio, cosa pensare, dove andare, chi vedere ecc. E’ il prezzo da pagare per vivere in una società ordinata e non caotica. Tuttavia, voler comprendere questi schemi intorno a noi è il primo passo per una maggiore consapevolezza, grazie alla quale si può fendere il velo che avvolge la superficie delle cose, scavando più in profondità e accedendo così a un mondo completamente nuovo, invisibile e sotterraneo. È fondamentale, infatti, imparare a riflettere e a decostruire i modelli sociali, guardare la realtà con occhio attento e critico, non pensare che sia tutto immutabile, ma capire che la linea di demarcazione può essere rinegoziata e spostata «sempre un po’ più in là...» (per citare una raccolta di storie di Corto Maltese). I giocattoli, per tornare a noi, sono dunque uno dei tanti modi con cui siamo bombardati da influenze e scelte che (forse) in realtà non ci appartengono, tra l’altro in un periodo della nostra vita davvero importante: avere (o non avere) determinati stimoli in età infantile può plasmare gli adulti che saremo. Se è vero che il giocare prepara i piccoli alla vita “da grandi”, è innegabile che molti giocattoli in commercio assolvono a questa funzione, ma al costo di incanalare bambini e bambine nei ruoli che la società ha costruito per loro e per la loro vita futura, stabilendo che tipo di adulti saranno e discriminando chiunque non si conformi a questa collocazione. I giocattoli, pertanto, aprono un’interessante finestra sulla nostra stessa realtà sociale, sul mondo in cui viviamo, con tutti i suoi stereotipi da individuare (sono ben nascosti), esaminare, comprendere e, lo ripeto, decostruire.

 

Note e Bibliografia

[1] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[2] https://www.studenti.it/gioco-in-pedagogia-come-strumento-educativo.html

[3] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[4] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[5] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[6] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[7] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[8] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[9] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[10] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[11] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[12] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it)

[13] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[14] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[15] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[16] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivi in origine)

[17] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[18] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[19] Il gioco in pedagogia come strumento educativo | Studenti.it

[20] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[21] gioco in "Dizionario di Medicina" (treccani.it) (corsivo in origine)

[22] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[23] gioco nell'Enciclopedia Treccani

[24] Gioco: le funzioni evolutive e la sua importanza nello sviluppo del bambino (stateofmind.it)

[25] Sinapsi - Spiderman non è una principessa e non è rosa... eppure ad Emma piace! Gli stereotipi di genere nei giocattoli (unina.it)

[26] Sinapsi - Binarismo di genere: fin dove possono spingersi le sue conseguenze? (unina.it)

[27] Stereotipi di genere: l'educazione inizia dai giocattoli - Netural Family-Attività per bambini a Matera e proposte innovative per famiglie felici.

[28] #ToysAndDiversity | COFACE Families Europe (coface-eu.org)

[29] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: Barbie, arriva la bambola "gender free": "Libera da ogni etichetta perché i bambini sono contrari agli stereotipi" - Il Fatto Quotidiano

[30] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[31] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe

[32] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[33] In Francia firmata carta con i produttori di giocattoli contro gli stereotipi di genere - greenMe

[34] Stereotipi di genere nei giocattoli: la Francia dice no (tomshw.it)

[35] Le informazioni e le citazioni qui riportate provengono da: La Lego annuncia, niente più etichette di genere sui giocattoli - Notizie - Ansa.it


Ripensare la scienza - Un programma di lavoro

Da qualche anno la scienza è diventata un tema centrale nelle conversazioni quotidiane, nei talk show, nei quotidiani e nei social. Non era mai successo prima.

Quello che (almeno all’apparenza) dovrebbe essere un fenomeno positivo, in realtà nasconde diversi pericoli: semplificazione dei contenuti, banalizzazione dei temi, visione poco realista della scienza stessa. Spesso si scambia l’essere (della scienza) con il suo dover essere.

Ciò fa male sia alla scienza (nella storia certi idealismi sono stati nefasti) che alla società, che in questi ultimi anni è diventata sempre più divisa, dicotomica, contrapposta.

Questo blog (fatto da student* e studios* delle pratiche scientifiche) intende portare un contributo per contrastare e invertire questa recente tendenza, di sapore neopositivista. Essa è costituita da una retorica infarcita di espressioni quali “fake news”, “post-verità”, “pseudoscienze”, “realtà dei fatti”, “evidence-based…”, “anti-scientifico”, “naturale”, “oggettivo”, ecc. Una costellazione di termini tesa a fornire una visione rassicurante della scienza, pensata come impresa dai confini precisi e dai risultati inequivocabili, e a demonizzare i pensieri divergenti.

Le conseguenze sono un ritorno a una visione ingenua della scienza, il riaffacciarsi di un certo dogmatismo, maggiori ostacoli alla libertà di pensiero e a chi esercita il dubbio metodico e il pensiero critico, la sistematica delegittimazione (e, talvolta, gogna mediatica) di pensatori non allineati, un eccesso di fiducia nella tecnologia. Tuttavia, l’effetto più preoccupante è la polarizzazione dei punti di vista, cioè la riduzione della complessità e molteplicità delle posizioni (su una questione) a due soltanto: scientifiche e anti-scientifiche, razionale e irrazionale, pro o contro.

Nel frattempo notiamo anche il riemergere dello scientismo, quell’atteggiamento intellettuale in base al quale il sapere scientifico dev’essere a fondamento di tutta la conoscenza in qualunque dominio, anche in etica e in politica. Visione verso cui si scagliarono, con accenti diversi, il premio Nobel per l’economia (1974) Friedrich von Hayek, i filosofi Karl Popper, Hilary Putnam e Tzvetan Todorov, e i sociologi Max Horkheimer  e Jürgen Habermas. La deriva scientista porta a pensare che di qualsiasi tema (scientifico, sociale, politico, etico ecc.) se ne debbano occupare solo gli “esperti”, gli unici ad avere le conoscenze adatte per affrontare i problemi e risolverli. E a lamentare il fatto che i politici ascoltano troppo poco gli scienziati e gli esperti, prefigurando i governi tecnocratici come quelli più adatti.

Questo blog, ricordando la lezione parzialmente dimenticata della "nuova filosofia della scienza" (Hanson, Kuhn, Feyerabend) e accogliendo i risultati degli studi sociali della scienza (Bloor, Latour, Collins) intende presentare una visione più equilibrata della scienza: pur riconoscendone la sua specificità, vuole anche far luce sulla sua natura di impresa umana, radicata nello spirito dei tempi. Storicizzazione e sociologizzazione della scienza (cioè pensare la scienza e la tecnologia come imprese culturali e collettive) non vanno considerate come qualcosa di negativo, ma semplicemente come un processo inevitabile, inerente a qualsiasi impresa umana (senza eccezioni). Anzi, è solo attraverso il riconoscimento del carattere sociale della scienza che sarà ripristinato un rapporto più equilibrato con la essa (e un atteggiamento più tollerante verso le opinioni e ipotesi diverse), a beneficio sia della società che della scienza.

Come scrivono lucidamente Collins e Pinch (1993), la scienza è un’attività controversa: da una parte ci fornisce i mezzi per curare gli ammalati; dall’altra produce l'infido veleno causato dagli incidenti nucleari; da una parte ci offre migliori condizioni di vita e dall’altra la possibilità di trovare la morte a causa degli effetti collaterali di un farmaco. La scienza è quindi simile a un Golem, una creatura della mitologia ebraica, né buona né cattiva in sé, ma potente e potenzialmente pericolosa, un gigante mite che può in qualunque momento impazzire e spargere terrore. Soltanto in questo modo è possibile comprendere questa potente ma imperfetta (e quindi umana) creazione che chiamiamo scienza, imparando ad amare il gigante maldestro per quello che è.