Scienza maggioritaria e scienza minoritaria

La maggior parte degli scienziati delinea un confine tra scienza e pseudo-scienza, tra teorie ufficiali e teorie eterodosse, senza esaminare approfonditamente ciò che le teorie marginali hanno da dire e senza valutare se possono essere un elemento di arricchimento per la ricerca. Vi è quindi, spesso, un rifiuto “a prescindere”, come diceva Totò. Al contrario, noi proponiamo di oltrepassare questo confine a favore di un modello di classificazione più aperto e permeabile.

Nelle scorse settimane, a proposito dei premi Nobel, un nostro Autore – parlando del “principio di autorità” nella comunicazione scientifica - ha scritto che «alcuni eccellenti scienziati, dopo aver ricevuto il premio, abbiano iniziato a sostenere posizioni discutibili dal punto di vista della fondatezza e – spesso – poco attinenti con il loro campo di studi». A tal fine ha citato alcuni casi – Kary Mullis, Luc Montagnier e Linus Pauling – in cui i premiati hanno abbracciato posizioni considerate poco ortodosse e – sicuramente – ancor meno condivise dalla comunità scientifica, fino a diventare emblemi dello pseudo-scientifico e dell’anti-scientifico.

È effettivamente difficile negare che, sull’onda della celebrità conferita dal premio Nobel, i media di massa e divulgativi chiedono ai premiati di commentare e di esprimere opinioni su qualunque evento e problema, e che i premiati difficilmente si negano: Carlo Rubbia, che abbiamo ascoltato alla radio, visto in televisione e letto su tutti i giornali su argomenti di tipo diverso, dice di essere trattato come un oracolo; Kary Mullis scrive che il premio ha messo lui e la sua tavola da surf sulle copertine di tutto il mondo[1].

È, invece, opportuno fare qualche breve e semplice considerazione sul tema delle cosiddette teorie pseudo o anti-scientifiche e di come queste sono viste dalla comunità scientifica e dal pubblico di massa. Con le relative ambiguità, dubbi interpretativi e influenze sociali.

Contrariamente a quanto ci possiamo aspettare, si possono spesso trovare delle specularità e affinità tra

  • le posizioni di chi crede in teorie considerate - dalla scienza ufficiale e dalla narrazione mediatica - pseudo-scientifiche, scientificamente confutate o non verificate,
  • e quelle di alcuni scienziati autorevoli che osteggiano le teorie marginali ed emergenti.

PRIMA POSIZIONE: CREDENTI NELLE TEORIE ETERODOSSE

Seguendo il senso comune, sembra accettabile pensare che alcune persone continuino a credere in teorie scientifiche di cui si dice che sono state confutate o che non sono state verificate per almeno una di queste ragioni: la mancanza di alfabetizzazione scientifica o la scarsa capacità di pensiero critico che fanno percepire come familiari teorie ormai superate; la ricerca di conferma delle proprie posizioni che porta a ignorare le evoluzioni scientifiche più recenti e teorie diverse dalla proprie; l’attaccamento emotivo, per ragioni religiosi, politici o di vissuto personale, che fanno rifiutare e contrastare le prove che sfidano la loro visione del mondo; la diffidenza verso l’establishment scientifico, considerato corrotto, di parte o conservatore; la disinformazione diffusa – ad esempio attraverso i social media – che mette in dubbio le teorie valide ed accreditate; in ultimo, la malafede: la volontà di sostenere una teoria difficilmente sostenibile per interesse, o per non dover affrontare il confronto con la realtà.

SECONDA POSIZIONE: SCIENZIATI AUTOREVOLI E TEORIE MARGINALI

Tuttavia, ci sono casi in cui anche scienziati quotati, accreditati e considerati affidabili si comportano esattamente come chi crede nelle teorie chiamate pseudo-scientifiche: con attaccamento emotivo; per non mettere in dubbio la teoria mainstream; per interesse, legato alla propria posizione all’interno della comunità scientifica, se le teorie offstream la possono scalfire; per eccesso di familiarità delle teorie dominanti la cui forma paradigmatica è particolarmente rassicurante; raramente, ma non mancano i casi, per malafede, se le teorie altre possono evidenziare errori nelle proprie posizioni.

Tra le vittime di questi casi possiamo ricordare:

  • il dottor Semelweiss, nel XIX secolo, i cui colleghi che rifiutarono la teoria della sepsi come causa della morte puerperale per ragioni emotive, che riguardavano il presunto decoro dei medici – perché lavarsi le mani? non siamo puliti? – e per ragioni di interesse, cambiare spesso le lenzuola comportava spese onerose
  • Kary Mullis, premio Nobel per la Chimica nel 1993, che ha messo in dubbio il nesso causale tra il virus HIV e la Sindrome da immunodeficienza acquisita, l’AIDS: l’ipotesi offstream di Mullis oggi è rifiutata.
  • Peter Duesberg, citologo e biologo molecolare statunitense, che propone una combinazione di concause come fattori scatenanti la malattia, ipotesi anch’essa marginalizzata.

citare Robert Gallo, che nel 1984 non dice nulla sul nesso causale tra HIV e AIDS, nel 1993 sostiene – sulla base degli stessi esperimenti e studi – che «questa specie di virus [il HIV] è la causa dell'Aids» e attribuisce la prova inconfutabile di questo nesso a sé e al proprio Team; e più avanti nel tempo, quando gli chiedono quale sia la prova definitiva che l’HIV è LA causa dell’AIDS si rifiuta di rispondere (L. Rossi, Sex virus, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 319) ed è uno degli autori della marginalizzazione delle teorie alternative di Mullis e di Duesberg.

È possibile che la posizione della comunità scientifica e, ad esempio, di Gallo che marginalizzano il punto di vista di Mullis e di Duesberg – oltre che tutte le altre ipotesi alternative sulle cause dell’AIDS – siano influenzate da attaccamento emotivo o da questioni di interesse legate alle montagne di finanziamenti che sostengono quel ramo della ricerca sull’AIDS? O, forse, anche dalla consapevolezza, come sostengono alcuni autori come V. Turner e Zolla Pazner, che i test di isolamento del virus potrebbero essere stati sbagliati o interpretati convenientemente per confermare la teoria?  E che nei lavori di Gallo e del suo team c'erano «differenze tra quanto venne descritto e quanto venne fatto»? Che Gallo «come capo di laboratorio creò e favorì condizioni che diedero origine a dati falsi/inventati e a relazioni falsificate»[2]?

D’altra parte, è significativo che il nesso tra HIV e AIDS sia ancora oggi oggetto di una controversia tra teorie mainstream e teorie alternative – per forza di cose offstream – di cui si trova una traccia ampia e diffusa in un articolo pubblicato nel 2014 dal PMC – Pub Med Central del U.S. National Institute of Health - Questioning the HIV-AIDS Hypothesis: 30 Years of Dissent, di Patricia Goodson. Articolo che appare equidistante e con approccio storiografico, poi fatto ritirare perché considerato «di parte» e «a supporto delle fringe theories on HIV-AIDS».[3]

CONCLUSIONE E PROPOSTA DI UNA CLASSIFICAZIONE ALTERNATIVA

Sembra evidente che ci siano scienziati e comunità scientifiche che non hanno desiderio di mettersi in discussione e di dialogare con scienziati latori di  teorie alternative, non allineate con il flusso della scienza mainstream.

Scienziati e comunità che cadono nel “riflesso di Semmelweis”[4] e che impoveriscono la ricerca con un atteggiamento poco aperto e tollerante verso ipotesi o teorie alternative.

Forse, per contribuire a questo dialogo sarebbe opportuno rinunciare a disegnare un confine – che ormai sappiamo essere labile, illusorio, socialmente determinato, storicamente variabile – tra scienza e pseudo-scienza, tra scienza ufficiale e anti-scienza, adottando una classificazione più permeabile di teorie maggioritarie – che godono del seguito di una parte più rilevante della comunità scientifica – e teorie minoritarie, che – seguite da meno o da pochi  - si occupano di minare le certezze a volte non così solide delle teorie maggioritarie.

 

NOTE

[1] Cfr, ad esempio, lo studio di Lorenzo Beltrame Ipse dixit: i premi Nobel come argomento di autorità nella comunicazione pubblica della scienza, in Studi di Sociologia, 45:1 (Gennaio-Marzo 2007).

[2] Cfr.: Franchi F., Marrone P., Sex virus? Implicazioni etiche e politiche della ricerca sull’Aids, https://www.openstarts.units.it/handle/10077/5546, che citano i risultati della commissione governativa statunitense nominata dall'OSI, Office of Scientific Integrity dell'NIH sulle presunte irregolarità negli studi del laboratorio di R. Gallo

[3] Cfr.: https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC4172096/ e https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC6830318/

[4] Riluttanza o resistenza ad accettare una scoperta in campo scientifico o medico che contraddica norme, credenze o paradigmi stabiliti. Un fenomeno a cui, dagli anni Cinquanta in poi, molti filosofi, storici e sociologi della scienza hanno dedicato molta attenzione. Cfr. Gobo G., Quando lavarsi le mani era considerato anti-scientifico, Controversie 31/10/2023

 

 


Latour, la stampa e gli immutable mobiles - Scienze, iscrizioni, cultura visiva

Come si è affermata la cultura scientifica moderna? Quali sono le sue origini? Quali caratteristiche possiede? Secondo alcuni studiosi di stampo cognitivista l’emergere della scienza e le sue attuali conquiste sono riconducili a dei cambiamenti nella mente o nella coscienza umana, nella struttura del cervello, mentre secondo alcuni economisti la causa è lo sviluppo dell’infrastruttura economica.

Bruno Latour nel saggio “Visualisation and Cognition: Drawing Things Together” (2012, in H. Kuklick (editor) Knowledge and Society Studies in the Sociology of Culture Past and Present, Jai Press vol. 6) da una risposta diversa:

«Nessun “uomo nuovo” è emerso improvvisamente nel sedicesimo secolo, e non esistono mutanti con cervelli più grandi che lavorano nei laboratori moderni e che possano pensare diversamente dal resto di noi. L'idea che una mente più razionale o un metodo scientifico più vincolante sia emerso dall'oscurità e dal caos è un'ipotesi troppo complicata» (cit. p.1)

Latour evita ogni distinzione tra società prescientifiche e scientifiche, in quanto ciò che le divide è semplicemente un confine che viene applicato arbitrariamente, ma non rappresenta alcun confine naturale.

Secondo il sociologo francese i vasti effetti della scienza e della tecnologia sono in parte riconducibili a semplici cambiamenti nel modo in cui gruppi di persone discutono tra loro usando carta, stampe, grafici e diagrammi. Ma non basta. Bisogna spostare l’attenzione su quegli aspetti che aiutano gli scienziati nella raccolta e nella presentazione credibile dei propri risultati, volta a convincere gli altri scienziati della loro validità (in termini ANT “arruolarli” nella propria rete):

«Chi vincerà in un incontro agonistico tra due autori, e tra loro e tutti gli altri che devono costruire un'affermazione? Risposta: quello in grado di raccogliere sul posto il maggior numero di alleati ben allineati e fedeli» (cit. p.5)

Il punto sta nel chiedersi in che modo qualcuno convince qualcun altro a riprendere un'affermazione, a condividerla, a renderla un fatto?

Bisogna fare in modo che i nostri risultati, grafici, diagrammi (Latour le chiama iscrizioni) siano in grado di sopportare continui viaggi attraverso altri laboratori, università, centri di ricerca e scienziati, senza subire cambiamenti. Le iscrizioni devono diventare oggetti che abbiano la proprietà di essere mobili ma anche immutabili.

Secondo Latour, la chiave per far coincidere carattere mobile con quello immutabile sta nella coerenza ottica, che permette all'iscrizione di mantenere relazioni stabili con l'intera rete (laboratori, università, centri di ricerca, scienziati ecc.) tramite un linguaggio omogeneo, rendendo omogenei vari elementi e combinabili nel momento in cui vengono raccolte diverse iscrizioni provenienti da più fonti.

Oltre alla coerenza attiva è necessaria una  cultura visiva, ovvero un modo di guardare il mondo e renderlo visibile, stabilendo cosa sia vedere e cosa ci sia da vedere. Lettere,  inventari, lenti, microscopi, telescopi, specchi, libri fanno parte di una cultura fisica; sono oggetti che permettono di vedere ciò che viene fatto in altri luoghi. Le iscrizioni non sono interessanti di per sé ma perchè rappresentano un nuovo modo di accumulare tempo e spazio, aumentando la mobilità o l'immutabilità delle tracce.

Com’è possibile tutto ciò?

Grazie all’invenzione e allo sviluppo della stampa che ha consentito di raccogliere simultaneamente iscrizioni da diverse località e periodi in un unico luogo. Il processo di stampa permette di pubblicare molte copie identiche, che grazie alla loro mobilità circolano e creano legami tra  diversi luoghi nel tempo e nello spazio. Allo stesso tempo permette agli scienziati di esaminare i materiali in modo diverso. I libri diventano un luogo che può accumulare altri luoghi lontani nello spazio e nel tempo e presentarli sinotticamente all'occhio; tale presentazione però può essere rielaborata e modificata e resa disponibile in altri luoghi e in altri tempi.

Ad esempio, grazie alla stampa anche i testi antichi si diffondono in modo ampio e possono essere facilmente raccolti in un unico luogo, rendendo così più evidenti le varie contraddizioni, errori e controversie; questi ultimi possono essere aggiunti ai vecchi testi e, a loro volta, diffusi senza modifiche in tutti gli altri contesti in cui si può applicare lo stesso processo di confronto.

«La stampa non aggiunge nulla alla mente, al metodo scientifico, al cervello. Semplicemente conserva e diffonde tutto, non importa quanto sbagliato, strano o selvaggio. Rende tutto mobile (…). I nuovi scienziati, i nuovi chierici, i nuovi mercanti e i nuovi principi, (…) non sono diversi da quelli vecchi, ma ora guardano a nuovo materiale che tiene traccia di numerosi luoghi e tempi. Non importa quanto queste tracce possano essere imprecise all'inizio, diventeranno tutte accurate proprio come conseguenza di una maggiore mobilitazione e di una maggiore immutabilità.» (cit. p.12)

Le immagini e le iscrizioni hanno un ruolo centrale. Gli scienziati infatti passono molto tempo a produrre, disegnare, ispezionare, calcolare e discutere su documenti, risultati, valori numerici, stampe, diagrammi, perchè possono essere dispiegati come prove davanti agli occhi di altri scienziati.

La rivoluzione della medicina delineata da Michel Foucault non è stata il risultato di un cambiamento nelle menti degli scienziati, ma piuttosto nell'utilizzo di vecchie menti e vecchi occhi per interpretare nuove informazioni all'interno di nuove strutture sanitarie, come l’ospedale. Si tratta di una conoscenza radicalmente diversa, che non si basava solamente sull’analisi ventri, febbri, gole e pelli di pochi pazienti, ma piuttosto su centinaia di casi documentati, raccolti in cartelle cliniche in modo uniforme.

«la “Verità” non deriva da una nuova visione, ma dalla stessa vecchia visione che si applica a nuovi oggetti visibili che mobilitano spazio e tempo in modo diverso» (cit. p.11)

In questo senso, i ricercatori iniziano a vedere quando smettono di osservare direttamente la natura e si concentrano solo sullo studio dettagliato di stampe e iscrizioni. Documenti, teorie, indici, bibliografie, procedure, tabelle, colonne, fotografie, picchi, macchie, sono mobili perchè si spostano all'interno di comunità scientifiche, riviste accademiche, programmi universitari, centri di ricerca ecc. ; ma rimangono immutabili poiché i ricercatori lavorano per mantenerli tali mentre circolano sotto diversi sguardi, senza subire modifiche. La relazione che lega l’iscrizione e la mobilitazione è di co- costruzione:

«Non è l’iscrizione di per sé che dovrebbe portare il peso di spiegare il potere della scienza; è l'iscrizione come limite sottile e stadio finale di un intero processo di mobilitazione, che modifica la scala della retorica. Senza lo spostamento l'iscrizione non ha valore; senza la scritta lo spostamento è sprecato. Questo è il motivo per cui la mobilitazione non si limita alla carta, ma la carta appare sempre alla fine quando si vuole aumentare la portata di questa mobilitazione.» (cit. p. 16)

Se un risultato, prodotto situazionalmente in un laboratorio, riesce a viaggiare lungo tutta la rete (composta da comunità scientifiche, riviste accademiche, editors, syllabus, centri di ricerca ecc.) senza subire modifiche diventa un immutable mobile. Se invece, la circolazione del risultato all’interno della rete si inceppa, l’oggetto o la procedura vengono modificati a seconda del contesto e perdendo così la loro immutabilità. La circolazione degli immutable mobiles all’interno di una rete consente la riproduzione e la standardizzazione di teorie scientifiche e tecnologie generate istituzionalmente in altri contesti.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bruno Latour (2012), Visualisation and Cognition: Drawing Things Together” in H. Kuklick (editor) Knowledge and Society Studies in the Sociology of Culture Past and Present, Jai Press vol. 6, pp. 1-40


Ossessione per il nuovo e cura delle cose - Riparare e manutenere

“Innovare”, in senso letterale, significa semplicemente introdurre qualcosa di nuovo. Tuttavia, sappiamo bene quanto questa sia in realtà un’espressione assiologicamente carica; rimanda, cioè, a una precisa idea di valore per cui tendiamo a pensare un’innovazione come a qualcosa di per sé positivo.

Infatti, espressioni che si richiamano al “nuovo” e all’innovazione, in particolare tecnologica, infestano la retorica dei programmi politici di ogni sorta e negli ultimi anni sono sistematicamente associati al digitale. Con il declino delle grandi narrazioni del Novecento, l’ideologia del digitale, l’ultima almeno in ordine di tempo (Balbi 2023), ha contribuito a rafforzare il mito dell’innovazione tecnologica come obiettivo prioritario e in sé desiderabile. Come problematizzare quella che secondo alcuni assume la forma di una vera e propria ossessione collettiva? Le possibilità sono molteplici. Tra queste, una consiste nel mettere al centro dell’interesse pubblico alcune attività che sembrano avere finalità sostanzialmente opposte rispetto all’innovazione: mentre innovare è un atto straordinario che, nell’introdurre una novità, rende allo stesso tempo qualcosa come obsoleto, riparare e manutenere invece sono pratiche che mirano a far durare le cose un po’ di più.

Un’inversione infrastrutturale

Per molto tempo, la storia delle tecnologie ha pensato l’innovazione come il motore del progresso e ha così alimentato una narrazione lineare dello sviluppo storico. Questo viene dunque rappresentato come un succedersi di grandi invenzioni che si affermano in forza della loro superiorità funzionale e che,  di conseguenza, rendono superati gli apparati precedenti, relegandoli nell’ambito delle cose invecchiate.

Un apparato concettuale che rinforza l’idea della storia come fatta da grandi uomini dalle caratteristiche eccezionali. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta gli studi sulla scienza e la tecnologia (Science and Technology Studies, STS) hanno puntato l’attenzione verso ciò che, in questi racconti, era di fatto rimosso, o perché spiacevole o perché pensato come ordinario e dunque banale. Sia le ricerche sulle infrastrutture sia quelle dedicati alla attività di riparazione e manutenzione (infrastructural studies e maintenance and repair studies) avevano sin dall’inizio l’ambizione di provocare una sorta di inversione figura-sfondo. In altri termini, l’obiettivo è spostare sullo sfondo ciò che normalmente attira l’attenzione (l’ultimo ritrovato tecnologico) e mettere in primo piano gli aspetti meno appariscenti del discorso comune – il fallimento, il rimosso oppure ciò che si ripete ma che permette al singolo apparato di esistere. Mentre “l'infrastruttura” può essere così ordinaria da sembrare noiosa, la ‘tecnologia’, al contrario, è un concetto orientato verso la novità [...].

Abbiamo la deleteria abitudine di isolare le parti più luminose, brillanti, nuove o spaventose del nostro ambiente e chiamarle ‘tecnologia’, trascurando le parti più vecchie e apparentemente più noiose”, nonostante sia “lì che si svolge gran parte del duro lavoro” (Peters 2015, p. 36).

Per “infrastruttura” di norma si intende un complesso di elementi materiali e immateriali costruiti dagli esseri umani che soddisfano bisogni e forniscono un servizio percepito come basilare. Basti pensare all’infrastruttura energetica che alimenta buona parte delle cose che usiamo quotidianamente o all’infrastruttura viaria o idrica. Da questo angolo visuale, la storia della tecnologia si delinea meno come una sequela di cambiamenti rivoluzionari e più come un processo di lunga durata, di ampia scala e di continuità ma anche di fallimenti, rotture, falle. La storia dell’infrastruttura ferroviaria, ad esempio, implica anche il disastro ferroviario.

Le rotture e i fallimenti hanno quindi un valore epistemico.

Sono operatori di problematizzazione e di visibilizzazione: richiedono di affrontare – ovvero di intervenire, prendere scelte sul futuro, individuare responsabilità, comprendere e ricostruire i processi – quello che nel processo normale di funzionamento può essere dato per scontato.

Durante una rottura viene messo in questione sia il singolo oggetto che si è inceppato sia il complesso sistema di interdipendenze in cui è inserito. Se ad esempio ci si rompe l’auto, siamo costretti a interrogarci sul suo funzionamento interno: una cosa che prima non era problematica, che funzionava come un tutto organico, emerge come un assemblaggio di parti che hanno anche una loro dinamica e temporalità propria (cos’è quel rumore? Si sarà logorata la cinghia di distribuzione? Ho cambiato l’olio di recente?). Ma siamo costretti anche a interrogarci su altre questioni che non erano in apparenza legate all’auto: non possiamo andare a prendere i nostri figli da scuola o i nostri cari dall’ospedale e non ci sono mezzi pubblici in quelle zone; così magari ci rendiamo conto della riduzione dei servizi pubblici che in precedenza non ci interessavano.

Prendersi cura delle cose

Un guasto alla macchina ci costringe a interrompere la nostra quotidianità ed andare dal meccanico per farla riparare.  Certo: di fronte a questo imprevisto potremmo prendercela con noi stessi, magari rimproverandoci per non essercene occupati abbastanza.

Eppure, nonostante riparazione e manutenzione siano termini spesso associati, essi rimandano ad attività molto diverse. A giudizio dei sociologi francesi Jérôme Denis e David Pontille (2022), ad esempio, è proprio la manutenzione a lanciare la sfida più radicale alla ideologia dell’innovazione. Entrambe hanno in comune un obiettivo di fondo: allungare la vita delle cose. Ma ci sono alcuni elementi che avvicinano chi ripara a chi innova: i primi, infatti, devono restituire la cosa al suo funzionamento originario e, spesso, vi riescono in forza di una conoscenza tecnica specifica. Riparare, dunque, può anche avere un aspetto eroico-salvifico e, agli occhi dei profani, anche un po’ magico. Molto diverso è invece il caso della manutenzione: pensiamo ai servizi di pulizia degli spazi pubblici e privati, che sembrano essere portati avanti da donne e uomini senza qualità. Insomma, innovare e riparare rientrano comunque in una temporalità stra-ordinaria, mentre la manutenzione è necessariamente una pratica routinaria, ripetitiva, ordinaria e, come spesso accade in questi casi, tende a far sparire dalla vista le persone che se ne occupano.

Hirayama (Kōji Yakusho), il personaggio principale di Perfect Days  di Wim Wenders, lavora alla manutenzione dei bagni di Tokio e non viene degnato di uno sguardo se qualcuno entra nel bagno mentre lui lo sta pulendo. E non si tratta solo della tipica discrezione giapponese: il sociologo cognitivo Eviatar Zerubavel (2024, 52) menziona una scena del tutto simile che si trova in Maid in Manhattan  per sostenere che le persone che si occupano di lavori di pulizia sono spesso considerate come “di sfondo […]. Essi subiscono un’emarginazione attentiva […] solitamente associata all’essere di status inferiore”. A questa invisibilità e misconoscimento sociale della manutenzione e delle persone a essa associate corrisponde però sia una grande diffusione sociale sia, soprattutto, un’enorme rilevanza collettiva.

In primo luogo, tutte le cose sono di per sé fragili – hanno bisogno di una manutenzione di qualche tipo – e dunque siamo tutti coinvolti a vario titolo in questa attività. Inoltre, è possibile addirittura sostenere, come fanno Denis e Pontille, che la manutenzione sia addirittura più importante per la nostra vita rispetto all’innovazione, poiché attiene più al registro della riproduzione che a quello della produzione.

Proviamo a immaginare, ad esempio, un futuro del tutto privo di innovazioni nell’ambito dello spazio urbano in senso lato (nessun cambiamento nell’edilizia, nei trasporti, nei sistemi fognari o idrici, ecc.). Anche in questo scenario fittizio, potremmo comunque continuare a costruire, al netto del consumo di risorse, per millenni.

Al contrario, basta una sospensione delle attività di manutenzione di poche settimane per mandare qualunque città in crisi. Anche la realizzazione del miglior progetto possibile, partorito dalla mente della più creativa archistar, senza lavori di manutenzione, finirebbe in rovina in pochissimo tempo (mentre anche con un progetto mediocre, ad esempio di un complesso urbanistico, è possibile ottenere buoni risultati se è ben curato nel tempo).

Per una politica della manutenzione

Eppure, tutta l’attenzione e il riconoscimento sociale ed economico vanno in direzione del gesto creativo e innovativo[1]. Possiamo fare qualcosa per mettere in discussione questa tendenza apparentemente ineludibile? Qual è la rilevanza politica del nostro modo di misurarci con il tema della manutenzione?

Il sottotitolo del già citato libro di Denis e Pontille è, appunto, Politique de la maintenance e secondo i due autori guardare alla manutenzione permette di sottoporre a critica la visione molto ristretta di economia circolare che si concentra sul circuito produzione-consumo-riciclo lasciando intatta la struttura del sistema e le sue disuguaglianze. Inoltre, chiarire mettere in primo piano i lavori di manutenzione permette di dare ulteriore forza a due lotte politiche molto significative. La prima è contro l’obsolescenza programmata e tutti i processi di chiusura informativa e tecnologica (“blackboxing”). La seconda richiama la necessità di un maggiore riconoscimento, simbolico ed economico, per i lavori di manutenzione, essenziali per la tenuta del sistema sociale. Infine, a un livello più astratto ma non per questo meno importante, guardare alla manutenzione permette di cambiare il nostro sguardo sulle cose, il nostro rapporto con loro e quindi, in definitiva, noi stessi. Le ricerche sociologiche che hanno studiato i lavoratori della manutenzione (sia che si tratti della metropolitana di Parigi, di un sistema idrico o di un museo) hanno molto da insegnarci: si tratta di sviluppare una diversa sensibilità alle cose, più attenta alle dinamiche della materia, alla sua fragilità, all’invecchiamento e alla degradazione. Un rapporto che è l’esatto contrario del consumo delle merci: non si tratta solo di usare le cose, ma di occuparcene e dunque di riconoscere che il nostro benessere dipende anche dalla loro tenuta.

Avere cura delle cose ha molto a che fare con l’avere cura delle persone e dei sistemi viventi (Jackson 2017), anzi a volte ci prendiamo cura degli altri attraverso la manutenzione delle cose da cui dipendiamo. La politica della manutenzione esprime anche un invito a riconoscere e prendersi carico delle nostre reti di dipendenza reciproca. Perché noi dipendiamo gli uni dagli altri, ma anche – perché no? – dalle cose.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Balbi, G. (2022), L’ultima ideologia. Breve storia della rivoluzione digitale, Laterza, Bari.

Denis, J., Pontille D. (2022), Le soin des choses. Politiques de la maintenance, La Découverte, Parigi.

Jackson, S.J. (2017), Speed, Time, Infrastructure Temporalities of Breakdown, Maintenance, and Repair, in  J. Wajcman e N. Dodd (a cura di), The Sociology of Speed: Digital, Organizational, and Social Temporalities, Oxford University Press, New York, pp. 169–85.

Peters, J.D. (2015), The Marvelous Clouds: Toward a Philosophy of Elemental Media, University of Chicago Press, Chicago.

Zerubavel, E. (2024), Nascosto alla luce del sole. La struttura sociale dell’irrilevanza, PM edizioni, Varazze.

 

NOTE

[1] In ambito specificamente artistico si vedano i lavori di Mierle Laderman Ukeles e il suo “Manifesto For Maintenance Art, 1969!” (a tal proposito si veda inoltre Denis e Pontille 2022, 28-33).


Il doppio click – Seconda parte: il complottismo come scientismo pop, un confronto fra il modello a diffusione e quello a traduzione

Nella prima parte di questa riflessione sul tema del doppio click come atteggiamento blasé nei confronti del mondo, abbiamo associato lo scientismo, ovvero la forma mentis che assegna alla scienza il monopolio della verità, a quanto di più frivolo possa esserci, la pratica del turismo, con il suo portato inevitabilmente classista ed essenzialista[1].

In questa seconda parte, tenteremo di completare questa prima argomentazionecon la pars construens: ovvero, ora che sappiamo distinguere lo scienziato dal sacerdote e dalla guida turistica, come possiamo prendere le distanze da un modo di fare scienza in maniera indifferente e ingenua, e invece affermarne uno responsabile?

Per rispondere possiamo seguire ancora Latour, nel suo confronto fra il modello a diffusione, tipico dello scientismo, a cui oppone quello a traduzione[2].

 

Il modello a diffusione

Questo modello ci è molto familiare e definisce il sapere e la cultura basandosi sul concetto di scoperta. In breve, si ritiene che le discipline scientifiche accrescano di un certo quantitativo le cose conosciute sui fatti del mondo, e quanto più si sarà in possesso di nuove scoperte a proposito della natura di questi fatti, quanto più sarà possibile divulgarli, ovvero diffonderli, presso il pubblico più allargato.

Attraverso la diffusione, questo pubblico può prendere atto e venire a patti col nuovo stato di cose. Stato che, in fondo, potrebbe parlare da sé, mentre basta che sia semplicemente rivelato dagli esperti, di modo che «quando un fatto non viene creduto, quando un’innovazione non viene recepita, quando una teoria viene impiegata in modo del tutto diverso, il modello a diffusione si limita a dire ‘alcuni gruppi fanno resistenza’ … [Quindi] i diffusionisti non fanno altro che aggiungere al ritratto nuovi gruppi sociali passivi che possono rallentare con la loro inerzia la diffusione dell'idea o smorzare gli effetti della tecnica. In altre parole, il modello a diffusione inventa una società per spiegare l'ineguale diffusione di idee e di macchine» (Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, p. 183).

Questa, a dire il vero, e l’idea più comune che abbiamo dell’attività del sapere istituzionalizzato, a cui affidiamo un ruolo emancipatorio. Ovvero, pensiamo che al multiculturalismo tipico dei gruppi sociali vada sempre comunque opposto il mononaturalismo offerto dalla ricerca scientifica. L’unica dimensione capace di far convergere le disposizioni delle intelligenze umane su una base di accordo universale, a scapito dei turbamenti politici, sociali, e degli interessi di parte.

Il modello a diffusione è quindi inevitabilmente asimmetrico (sì, classista), perché ogni nuova “scoperta” prevede qualcuno che ancora non la conosce, ma a cui presto deve perentoriamente adeguarsi, pena la sua arretratezza e ignoranza: pensiamo, ad esempio, alla frase-comando «ormai viviamo nell’epoca dell’IA…».

Il progressismo, o l’attitudine al pensiero critico[3] , in realtà, non appartiene solamente agli scienziati col camice bianco, ma è un atteggiamento diffuso trasversalmente, per esempio anche dai complottisti, gli “acerrimi avversari” degli scienziati. «Vi ricordate i bei vecchi tempi, quando i professori universitari potevano guardare dall’alto in basso le persone comuni perché quei buzzurri credevano ingenuamente alla chiesa, la famiglia e la torta di mele? Le cose sono cambiate un sacco, almeno nel mio paese. Adesso sono io quello che crede ingenuamente in alcuni fatti perché sono istruito, mentre gli altri tizi sono troppo poco sofisticati per essere dei creduloni: che cosa è accaduto alla critica quando il mio vicino mi giudica come uno irrimediabilmente ingenuo perché credo che gli Stati Uniti siano stati attaccati dai terroristi? ‘Ma dove vivi? Non lo sai che sono stati il Mossad e la CIA?’» (Latour B. (2004), Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in «Critical Inquiry», 30, University of Chicago, p. 228)

 

Il modello a traduzione

Così, per cercare di appianare le divergenze fra esperti e profani che nascono da un fraintendimento comune, Latour propone il modello a traduzione, per il quale invece, come dice il nome, l’attività della ricerca non ha niente a che vedere con la scoperta. Secondo questo approccio infatti, che si tratti di una nuova interpretazione di un’opera letteraria a partire da un manoscritto, del conteggio della popolazione di microorganismi in una coltura, della somministrazione di un questionario o della rivelazione di particelle subatomiche in un acceleratore, quello che noi facciamo, e che finisce nei nostri articoli scientifici, sono sempre trasformazioni di un determinato contenuto di realtà, sotto forma di testo, grafici, immagini, simboli o diagrammi. Per Latour, la ricerca consiste in un’attività di manipolazione continua delle informazioni, in quanto esse stesse sono il frutto di mediazioni precedenti.

Questo – chiedo scusa per il gioco di parole – cambia tutto. In altre parole, «dire è dire altrimenti. Altrimenti detto è tradurre» (Latour B. (2021), Politiche del design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità, Mimesis, Milano, cfr. il capitolo Irriduzioni, p. 254): ogni calcolo, etichettamento, definizione, campionamento, riassunto, misurazione, è un modo per représenter[4]una certa entità in maniera diversa, e secondo il linguaggio proprio dello strumento con cui è rappresentata, in modo da renderla così comparabile, gestibile, associabile, predittiva o vincolante rispetto alle altre entità con cui è messa a confronto.

Perciò, poiché permette di mobilitare risorse, raggruppare alleati e avversari, e definire i campi di lotta, ogni forma di sapere, è prima di tutto una tecnica di governo. Anziché un modo per “osservare” in modo “neutrale” la “natura”.

Prendiamo un esempio, quale i rapporti del IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sui cambiamenti climatici: essi non riportano banalmente le prove che il cambiamento climatico è causato dall’attività umana, ma con le loro conclusioni, a cui hanno fatto seguito azioni politiche, questi agiscono come portavoce – come il deputato del nostro collegio o il rappresentante sindacale nel CDA dell’azienda per cui lavoriamo – parlando a nome di tutti i dispositivi che sono serviti come strumenti mediatori del vasto repertorio di capta (presi, anziché dati) per produrre grafici, tabelle e indicazioni testuali, come satelliti, boe oceanografiche, stazioni di rilevamento dell’anidride carbonica, e così, via; tutti finanziati e implementati dagli Stati. Se si tolgono questi ultimi, se si toglie l’organizzazione sociale che foraggia il lavoro di ricerca, esterno all’accademia e agli altri istituti, le prove svaniscono. O meglio, non hanno più di che distinguersi dalle presunte contro-deduzioni degli scettici del clima, che solitamente non dispongono di un paragonabile apparato strumentale. Ma ciononostante, seguendo il positivismo, hanno capito benissimo come servirsi dell’argomento dell’impossibilità di ottenere evidenze verificate per sollevare dubbi e polemiche, con una certa efficacia.

Perciò, quello che cambia di sostanziale nel modello a traduzione è che il mondo scientifico e quello politico non possono più essere visti come due dimensioni in conflitto, da mantenere distinte.

Anzi, più l’istituzione scientifica dispone di mezzi, più essi vengono discussi pubblicamente e definiti nei loro obbiettivi, più l’attività di ricerca sarà presentata come una pratica come le altre, che lavora e costruisce i propri “fatti” (anziché fornici l’accesso diretto a questi fatti), e più sarà in grado di tradurre le nostre volontà con enunciati solidi e legittimati.

Per cui, infine, «se vogliamo che le persone comprendano la scienza, bisogna mostrare come è prodotta» (Intervista rilasciata al Guardian il 06/06/20)

 

 

NOTE

[1] Con essenzialismo, nelle scienze sociali, si indica quel presupposto erroneo per il quale una certa entità possiede una natura – immodificabile, inevitabile e inopinabile – che ne determina il comportamento. Fra gli esempi più celebri in questo senso possiamo citare la teoria della razza di De Gobinau, quella del delinquente nato di Lombroso, e la frenologia di Gall (che pure, in un certo senso è tornata di moda con il pericolosissimo film Pixar Inside Out). Il turismo sarebbe essenzialista perché si basa precisamente sul fatto che «da qualche parte» esistano popolazioni e territori che conservano un’identità “autentica”, cioè naturale e immutabile, venendo così trasformata in un loro destino. Cfr. Barthes R., Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2016. In particolare, il capitolo La Guida Blu.

[2] Cfr Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea

[3] Con “pensiero critico”, che ereditiamo da Kant, in senso lato intendiamo la concezione per cui esista una verità oggettiva e naturale che ci può essere più o meno evidente in base alla nostra rappresentazione soggettiva e culturale di essa. Si pensi ad esempio, all’enorme successo del grande classico 1984 di George Orwell e della sua importanza per il pensiero politico progressista, in cui il protagonista Winston Smith alla fine si arrende al bipensiero imposto dal Grande Fratello, il quale può imporre a suo piacimento che 2+2 faccia 5. Per un superamento di questa sorta di riduzionismo matematico prêt-à-porter, confronta l’articolo di Benoit Mandelbrot How Long Is the Coast of Britain? Statistical Self-Similarity and Fractional Dimension: https://it.wikipedia.org/wiki/How_Long_Is_the_Coast_of_Britain%3F_Statistical_Self-Similarity_and_Fractional_Dimension

[4] In italiano, a differenza dell’inglese o il francese, abbiamo due sostantivi diversi per indicare la rappresentanza e la rappresentazione, finendo per pensare che si tratti di due attività differenti e separate, dove una ha a che vedere con la mobilitazione politica, e l’altra con la produzione di immagini mentali. Si può dire che l’intera opera di Latour è incentrata precisamente sul rifiuto di questo dualismo.


La costruzione sociale della bicicletta - Ovvero, le tecnologie non sono neutrali

Figura 1: “ordinary bicycle”. “Ariel” di J. Starley e W. Hillman, brevettata nel 1870 (Bijker 1995, p.31)

Provate ad immaginare una di quelle volte in cui avete deciso di fare un giro in bicicletta, magari in una bella giornata di primavera. Dopo esservi preparati e aver preso quello che vi serve, entrate finalmente in garage per prendere la bici ed uscire. Tuttavia, invece di trovare la bici che usate di solito trovate una di quelle bici con la ruota anteriore molto grande (figura 1) e diffuse alla fine dell’Ottocento. Pensate ad un mondo in cui tutto è uguale ad oggi, ma invece che utilizzare la bici moderna tutti usano queste bici. Partire da questa immagine strampalata e apparentemente senza senso permette di porre in rilievo una questione: le cose potrebbero essere andate diversamente da come le conosciamo? Oggi potremmo avere una bici diversa da quella che ci risulta apparentemente come normale? Infatti, come vedremo, “non c’è un solo modo possibile o un solo modo migliore di progettare un artefatto” (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p.40 trad. mia), come nel caso della bici. È da questi interrogativi che parte anche l’approccio SCOT (Social Construction of Technology) allo studio della tecnologia, e attraverso cui Wiebe Bijker (1995) ricostruisce la traiettoria di sviluppo che ha portato alla bici moderna.

 

Figura 2: célerifère nel 1791, poi in seguito vélocifère nel 1793 (Bijker 1995, p. 22)
Figura 3: il vélocipède costruito da Pierre Michaux nel 1865 (Bijker 1995, p.27)

Un primo prototipo risale ad un disegno del 1493, attribuibile a Leonardo Da Vinci, in cui viene rappresentato un biciclo con due ruote delle stesse dimensioni, pedali e manubrio. Dunque, Bijker (ibidem) si chiede: perché si è dovuto aspettare fino al XIX secolo per l’affermazione della bici moderna? Questo mostra come per avere un’innovazione tecnologica non basta che ci sia un inventore isolato dal mondo e con una buona idea (Magaudda e Neresini 2020). Infatti, si è dovuto attendere fino al Settecento per la costruzione del primo célerifère (figura 2), un biciclo con una struttura di legno e due ruote della stesse dimensioni, e senza la possibilità di sterzo. Per spostarsi era necessario spingere a terra con i piedi, il più della volte infangandosi. Per questo motivo, iniziarono ad emergere una serie di varianti, tra le quali ebbe particolare successo il vélocipède (figura 3): aveva una struttura di ferro, il manubrio, la sella e i pedali regolabili. In questo caso, i problemi erano principalmente legati alle troppe vibrazioni e allo slittamento laterale del mezzo. In seguito, con l’ordinary bicycle (figura 1) venne introdotta una posizione di guida rialzata sopra la grande ruota anteriore, la quale permise di attenuare i colpi e di non infangarsi, evitando il contatto diretto con il terreno. Inoltre, questo biciclo fu reso più leggero con l’impiego di raggi di filo metallico per la struttura delle ruote.

L’ordinary bicycle fu pubblicizzata dai suoi ideatori attraverso un’impresa ciclistica in cui venne percorsa la tratta che va da Londra a Coventry in un solo giorno. Questo evento contribuì alla costruzione dell’immagine della bici a ruota alta come mezzo sportivo, veloce ed efficiente. Non a caso, in un primo momento i principali utilizzatori di questo biciclo furono i “giovani atletici e danarosi” (Bijker 1995), per i quali era un mezzo sportivo per andare veloce e per manifestare la propria virilità e machismo. Infatti, viste le grandi dimensioni, l’ordinary bicycle richiedeva una serie di doti fisiche e atletiche per essere utilizzata, non era un mezzo sicuro e accessibile a tutti.

Se da un lato i giovani atletici erano i principali utilizzatori dell’ordinary, dall’altro lato, diversi individui rimanevano esclusi dalla possibilità d’impiego del biciclo, per cui si può parlare anche di una serie di gruppi di non-utilizzatori. Nello specifico, per le persone anziane e per chi non aveva una certa prestanza fisica l’ordinary non era un mezzo sicuro con cui potersi muovere: c’era un forte rischio di cadute ed infortuni. Inoltre, veniva escluso dall’utilizzo del biciclo anche chi non aveva la disponibilità economica per acquistarlo. Infine, alle donne non era consentito utilizzare questo mezzo perché entrava in netto contrasto con i codici di abbigliamento femminile dell’epoca. In relazione a ciò, in quel periodo si sviluppò la Rational Dress Society, una società di donne che rivendicava il diritto di vestirsi in maniera più libera evitando corsetti, tacchi e gonne pesanti, in modo da poter accedere anche all’utilizzo della bici.

Figura 4: il modello “Ariel” da donna progettato da J. Starley e W. Hillman nel 1874, con pedalata laterale (Bijker 1995, p.44)

Se da un lato i giovani atletici erano i principali utilizzatori dell’ordinary, dall’altro lato, diversi individui rimanevano esclusi dalla possibilità d’impiego del biciclo, per cui si può parlare anche di una serie di gruppi di non-utilizzatori. Nello specifico, per le persone anziane e per chi non aveva una certa prestanza fisica l’ordinary non era un mezzo sicuro con cui potersi muovere: c’era un forte rischio di cadute ed infortuni. Inoltre, veniva escluso dall’utilizzo del biciclo anche chi non aveva la disponibilità economica per acquistarlo. Infine, alle donne non era consentito utilizzare questo mezzo perché entrava in netto contrasto con i codici di abbigliamento femminile dell’epoca. In relazione a ciò, in quel periodo si sviluppò la Rational Dress Society, una società di donne che rivendicava il diritto di vestirsi in maniera più libera evitando corsetti, tacchi e gonne pesanti, in modo da poter accedere anche all’utilizzo della bici.

Come sottolinea Bijker (1995), questa prima fase di sviluppo della bicicletta si caratterizzata per la presenza di diversi “gruppi sociali rilevanti” (giovani atletici e danarosi, donne, anziani); ovvero, gruppi di attori che condividono al loro interno la medesima interpretazione di un artefatto tecnologico come la bici. In tal senso, si parla di una “flessibilità interpretativa” tra i vari gruppi: se per i giovani atletici l’ordinary è un mezzo sportivo e virile, per il gruppo degli anziani rappresenta qualcosa di poco sicuro, mentre, per il gruppo delle donne diventa un campo di rivendicazione dei diritti alla libertà di abbigliamento e all’utilizzo della bici. Queste diverse interpretazioni riguardano una serie di problemi e soluzioni che vengono poste dai vari gruppi rispetto al funzionamento di un particolare artefatto tecnologico e che lo rendono utilizzabile. Va precisato che questa flessibilità non riguarda solo il “modo in cui le persone pensano o interpretano gli artefatti, ma anche la flessibilità nel modo in cui gli artefatti sono progettati” (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 40 trad. mia). Dunque, è in relazione alle interpretazioni dei diversi gruppi social che prendono materialmente forma differenti modelli di bici. Ad esempio, per rispondere al problema del codice di abbigliamento femminile vennero sviluppate delle bici con la pedalata laterale (figura 4); mentre, per rispondere al problema della sicurezza vennero progettati modelli come la Lawson bicycle (figura 6) e la xtraordinary (figura 5), delle varianti della Ordinary in cui venne ridotta la grandezza della ruota anteriore e la trazione venne spostata sulla ruota posteriore. In questo senso, si vede bene come la tecnologia incorpori una serie di aspettative sociali da parte di chi la progetta e, al contempo, essa contribuisca a stabilizzare e dare forma alle relazioni tra i vari gruppi di utilizzatori.

 

Figura 5: xtraordinary bicycle del 1878 (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 43).
Figura 6: Lawson bicycle del 1879 (Bijker, Hughes e Pinch 1987, p. 39).

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 7: Safety bicycle del 1886 (Bijker 1995, p. 91).

Quindi, com’è stato poi possibile passare da questa molteplicità e varietà di bicicli differenti a quella che noi riteniamo essere la bici moderna? Per Bijker (1995) la risposta è da trovare nello pneumatico ad aria. Quest’ultimo inizialmente era visto come qualcosa di esteticamente ridicolo e poco funzionale. Tuttavia, la situazione cambiò nel maggio del 1889, quando il ciclista W. Hume vinse una gara dimostrando la validità degli pneumatici ad aria e della Safety bicycle (figura 7). È in questo momento che per Bijker (ibidem) c’è il momento di “stabilizzazione e chiusura” nella traiettoria di sviluppo tecnologico della bici: c’è una soluzione tecnica che permette di far convergere le interpretazioni dei vari gruppi sociali, rispondendo ai diversi problemi che essi pongono. In questo senso, la safety bicycle permette di rispondere sia alla necessità di andare veloce del gruppo dei giovani atletici, sia all’esigenza di una certa guida in sicurezza da parte di persone anziane e meno prestanti fisicamente, inoltre, permette un allineamento dei codici di abbigliamento femminile con l’utilizzo della bicicletta. Con la fase di stabilizzazione e chiusura la bici diventa quello che gli STS (Science and Technology Studies) definiscono una “scatola nera”; ovvero, una tecnologia pronta all’uso, disponibile per essere impiegata e che non è necessario problematizzare ulteriormente. Per questa ragione, quando ci riferiamo alla bicicletta nella vita di tutti i giorni non dobbiamo specificare che ha due ruote della stessa misura, i pedali, il manubrio, la catena; questi sono degli elementi che assumiamo come certi.

Da questa storia può essere fatto emergere quello che è il modello analitico dell’approccio SCOT per guardare allo sviluppo e all’innovazione tecnologica, il quale si articola principalmente in tre fasi (Bijker, Hughes e Pinch 1987; Bijker 1995): inizialmente c’è una “flessibilità interpretativa” di quelli che possono essere particolari dispositivi tecnologici, i quali vengono progettati con forme e caratteristiche diverse per rispondere ai problemi posti dai vari gruppi sociali; in una seconda fase avviene la “chiusura interpretativa”, l’artefatto tecnologico e le interpretazioni dei gruppi si stabilizzano arrivando a convergere tra loro; infine, questa chiusura va ricollegata e spiegata in un contesto sociale più ampio.

In conclusione, riprendendo gli interrogativi da cui siamo partiti, le cose potrebbero essere andate effettivamente in modo diverso? Gli STS, e in particolare l’approccio SCOT, ci insegnano che la traiettoria dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico è qualcosa di aperto, incerto, e non deciso a priori. Come nel caso della bici, le tecnologie vengono progettate in relazione alle aspettative dei gruppi sociali e, al contempo, contribuiscono a dare forma alle stesse relazioni tra gruppi e individui. In altri termini, tecnologia e società co-evolvono e si danno forma a vicenda in un tessuto unico e senza cuciture, un saemless web (Bijker 1995). Per questa ragione, il percorso che porta all’affermazione di una tecnologia non è qualcosa di lineare e già scritto: non è sufficiente che ci sia un inventore o una scoperta scientifica per sviluppare automaticamente una tecnologia più sofisticata, la quale finirebbe per impattare sulla vita quotidiana delle persone. In tal senso, le tecnologie che si affermano non sono quelle “più efficienti” o che “funzionano meglio”, ma quelle che si configurano come tali in particolari contesti d’uso. Per questa ragione, la bici moderna non si è affermata perché era la migliore da un punto di vista tecnico e di costruzione rispetto alle concorrenti, ma perché ha permesso di far convergere le interpretazioni dei vari gruppi sociali rispondendo ai loro problemi d’uso. Questo discorso può essere esteso per l’analisi di altre tecnologie e mostra come il processo di sviluppo tecnologico sia un processo non lineare e mai dato per scontato, in cui gruppi di attori e artefatti tecnologici si costruiscono reciprocamente.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bijker, W. E. (1995). Of Bicycles, Bakelites, and Bulbs. Toward a Theory of Sociotechnical Change. The MIT Press.

Bijker, W. E., Hughes, T. P., Pinch, T. J. (1987). The social Construction of Technological Systems. New Directions in the Sociology and History of Technology. The MIT Press.

Magaudda, P., Neresini, F. (2020). Gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia. Il Mulino.

 


Quando è nata la Scienza? - Dall'antica Grecia all'epoca dei lumi

Fino a qualche decennio fa, quando la scienza era considerata un corpus di idee sul mondo naturale, i suoi albori venivano collocati nel contesto del pensiero filosofico della Grecia Antica (Popper 1972). È ragionevole? Vediamo.

Partendo da Platone…

Platone nel Teeteto usa il termine epistêmê con il significato (ampio) di conoscenza: epistêmê non sarebbe altro che sensazione (151 E). Un concetto quindi non sovrapponibile all’attuale concetto di scienza, solitamente esibito come alternativo alla (semplice) conoscenza. Infatti, nel Teeteto la conoscenza scientifica sarebbe una specie particolare della conoscenza più generale, non una conoscenza alternativa. Per cui non sarebbe corretto tradurre epistêmê con ‘scienza’.

Invece, alla fine del Libro VI della Repubblica, nella celebre immagine della linea divisa (509 D-511 E), Platone parla di due tipi di conoscenza: chiara (saphenêia) e oscura/indeterminata (asapheia). Per Platone, però, ‘chiara’ non vuol dire ‘certa’. La conoscenza chiara pertiene al mondo intellettuale (anima); quella oscura deriva dai sensi e riguarda il mondo sensibile. Per Platone abbiamo sapere o scienza solo nel mondo intellettuale, non di quello sensibile perché le osservazioni empiriche non aggiungono nulla alla conoscenza piena (o conoscenza in senso stretto). Viene così introdotta una distinzione netta tra ‘epistêmê’ (che diviene la conoscenza chiara, basata sulla logica, che sta in piedi da sola, da epi + istemi) e doxa (le credenze, che possono essere dogmatiche perché poggianti sull’autorità, oppure basate sulle opinioni, sia vere che false, credibili o meno). Infine, Platone distingue anche due tipi diversi di ‘epistêmê’ o conoscenza chiara: quella (come la matematica e la geometria) che si sviluppa a partire da ipotesi e deduce attenendosi alle conseguenze che ne derivano; e quella (la dialettica) che si interroga e spiega anche i fondamenti delle ipotesi stesse. Per cui, anche se le scienze matematiche sono epistemai, tuttavia solo la dialettica è in grado di raggiungere la conoscenza piena, perché si interroga sulle ipotesi di partenza.

Aristotele: un passo avanti…

Aristotele, nel libro Analitici Secondi (II 2, 71b9-15), compie un ulteriore passo, sviluppando una teoria della "conoscenza scientifica", che chiama… epistêmê. Questo diverso significato della parola epistêmê l’avvicinerebbe maggiormente al concetto di scienza. In questo testo, Aristotele sostiene che abbiamo episteme (cioè, conoscenza scientifica) di X quando si danno le seguenti condizioni: conosciamo Y, sappiamo che Y è la ragione/causa (aitìa) di X, e questa relazione tra X e Y è necessaria. Per Aristotele epistêmê implica quindi dare spiegazioni, trovare le cause/ragioni. Necessità e spiegazione causale sono i due ingredienti fondamentali della conoscenza scientifica, che è una forma molto precisa di conoscenza.
Per cui la nostra domanda iniziale (quando è nata la scienza?) sembrerebbe trovare risposta nella proposta di Popper. Ma non è così.

Dal Medioevo al 1600

La tradizione latina medievale ha poi tradotto epistêmê in ‘scientia’. In questo senso c’è una dipendenza diretta tra il testo degli Analitici Secondi e l’epistemologia medievale. Tuttavia, il termine ‘scientia’ significava solo conoscenza, sapere, notizia; almeno fino al XVII secolo. Ciò non di meno, il termine ‘scientia’ ha significato cose molto diverse in epoche diverse e culture diverse. Perciò le cose si complicano nuovamente.
Infatti, a quel tempo, lo studio della natura cadeva invece sotto l'espressione "filosofia naturale". Essa comprendeva al suo interno tutti quei campi di ricerca che noi oggi chiamiamo geologia, astronomia, chimica, ottica, biologia e botanica, ma anche la filosofia e la teologia. Inoltre, a differenza della scienza contemporanea, la filosofia naturale non si basava sulla sperimentazione (ritenuta invece successivamente l’elemento centrale della scienza), ma sulla speculazione intellettuale e la tradizione. Infine, tutti coloro che investigavano la natura si identificavano comunemente con l'espressione "filosofo naturale".
Il "metodo scientifico" - sperimentale e quantitativo - che diede origine alla scienza sperimentale, venne sistematizzato solo tra il XVI e XVII secolo, durante il periodo della cosiddetta Rivoluzione Scientifica. Secondo alcuni (per esempio Whitehead 1920) il merito di questo cambiamento andrebbe attribuito a poche illustri figure come quella di Francis Bacon o Galileo Galilei; secondo altri, invece, il processo di formalizzazione del metodo scientifico richiese ancora diversi decenni e il contributo di molte scoperte in molti campi differenti, dall'astronomia alla geologia.

Il padre di tutti i fraintendimenti: l’essenzialismo

Entrambe le prospettive, però, partono da un presupposto essenzialista, cioè che possano essere identificate delle caratteristiche costitutive della scienza come categoria di pensiero, e che queste rimangano immutate nel tempo. Tuttavia, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, la scienza non ha caratteristiche fisse e immutabili ma, in quanto istituzione, essa coincide con la comunità che ne riproduce le convenzioni e così facendo la pone in essere. Se così non fosse non si potrebbero spiegare molte figure ‘ibride’, se viste con gli occhi di oggi: ad esempio Newton, da alcuni considerato il fondatore della fisica classica e la figura con la quale la rivoluzione scientifica raggiunse il culmine, non solo intitolò la sua opera più celebre Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (1687) (e non utilizzò quindi la parola “scienza”) ma benché oggi poco ricordato, scrisse copiosamente anche di teologia, occultismo e soprattutto di alchimia.
Invece il termine ‘scienziato’ (scientist) è stato introdotto solo nel primo Ottocento. Tant’è che personaggi come Galileo o Newton erano ancora chiamati ‘filosofi naturali’ (natural philosophers). Il termine ‘scienziato’ fu coniato per la prima volta dallo studioso inglese William Whewell nel 1834, in una sua recensione all’opera di Mary Somerville On the Connexion of the Physical Sciences. Ma la diffusione di questo termine non fu immediata. Infatti, il britannico Lord Kelvin (1824-1907), più di tre decenni dopo, nel 1867, intitolava ancora la propria opera Trattato sulla Filosofia Naturale.
Infine, il termine platonico epistêmê non ha avuto fortuna nei secoli ed è stato reintrodotto come ‘epistemologia’ soltanto a metà dell’Ottocento, a opera dello studioso scozzese James Frederick Ferrier nel suo libro Institutes of Metaphysics (1854), con il significato (però) di teoria della conoscenza (che oggi chiameremmo gnoseologia). Peraltro, il termine epistemologia ha oggi significati un po’ diversi nei paesi anglosassoni e nell’Europa continentale.

Concludendo…

Come si può vedere, da questa breve disamina, la domanda iniziale è destinata a rimanere inevasa.
Se invece adottiamo la strategia costruttivista del boundary work, possiamo dire che la scienza, in quanto istituzione, nasce quando comincia a venire riconosciuta come un campo a sé stante, distinto, e quando gli scienziati cominciano a identificarsi come tali e quindi a rivendicare autorità a partire dalla categoria di scienza. A questo si aggiunga il fatto che oggi si tende a privilegiare una diversa prospettiva, che considera la scienza come un insieme di pratiche (anziché di idee). Per cui le attività dei filosofi della Grecia Antica, così lontane dalle pratiche scientifiche odierne, non sarebbero rubricabili sotto il concetto di ‘scienza’ (Bowler e Morus 2005). L'istituzione della scienza moderna viene invece fatta coincidere con l'emergere di una certa organizzazione istituzionale, di pratiche, di strumenti. In base a questa diversa prospettiva, la scienza avrebbe inizio all'epoca dei lumi, quando il metodo scientifico venne sistematizzato e la scienza istituzionalizzata in organizzazioni come l’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma (1603), l’Academie des Sciences di Parigi (1666), La Real Academia de Ciencias y Artes di Barcellona (1764), la Royal Society di Londra (1768) o l’Academia das Ciências di Lisbona (1779).

 

NOTE

Articolo tratto da: Gobo, G. e Marcheselli, V. (2021), Sociologia della scienza e della tecnologia, Roma: Carocci, pp. 149-151.

 

BIBLIOGRAFIA

Bowler P. J. e Rhys Morus I. (2005), Making Modern Science. A Historical Survey, University of Chicago Press, Chicago, London.

Popper, K. (1972), Objective Knowledge: An Evolutionary Approach, Oxford University Press, New York (trad. it. Conoscenza Oggettiva, Armando Editore, Roma 1972).

Whitehead A. N. (1920), The Concept of Nature, Cambridge University Press, Cambridge.

 


Le tecnologie non sono neutrali. La lezione dimenticata del determinismo tecnologico

Il determinismo tecnologico (DT), nella sua forma più pura, è un approccio che vede le tecnologie e le innovazioni come indipendenti dalla più ampie dinamiche sociali.

L’idea è che la tecnologia sia il fattore determinate delle vicende umane e gli sviluppi tecnologici non siano guidati dall’attività umana, ma da una logica interna all’innovazione scientifica.

Un esempio è il concetto di blockchain e cryptovalute che, secondo chi li promuove, sono liberi dalla manipolazione del potere istituzionale e generano effetti sociali in modo autonomo; un secondo esempio è la IA che, secondo alcuni sostenitori  in grado aumentare le capacità umane e di rivoluzionare settori quali la finanza, sicurezza nazionale l’assistenza sanitaria ecc.

I principi del DT sono tre:

  • la tecnologia rappresenta una dimensione esterna rispetto alla società, in grado di agire al di fuori di essa;
  • ogni cambiamento tecnologico produce un cambiamento nelle forme di organizzazione e di interazione sociale;
  • la società si adatta alla tecnologia.

Il DT è stato molto criticato dagli Science and Technology Studies (STS), tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ’80, , ritenuto un approccio obsoleto, se non addirittura sbagliato, e “ridotto allo status di uno spaventapasseri” (Lynch 2008, 10).

Infatti, sociologicamente parlando, risulta difficile sostenere che le innovazioni tecnologiche riescano a plasmare in maniera univoca la nostra vita quotidiana.

Per cui è più interessante impostare delle analisi in cui, si tiene conto di una serie di dinamiche che le tecnologie innescano, senza però farsi affascinare troppo e senza pensare che queste siano le uniche possibili.

Dunque, è più corretto parlare di tre forme di DT:

  • forte: la tecnologia impatta sulla società e rappresenta il principale motore del cambiamento sociale;
  • media: la tecnologia determina lo sviluppo sociale e le possibilità d’azione dei soggetti;
  • leggera: la tecnologia influenza la società e orienta l’innovazione sociale.

Quindi, cosa possiamo salvare del determinismo tecnologico?

Ciò che di buono ha messo in luce il DT è che le tecnologie non sono neutre, ma producono degli effetti. Ovviamente poi possiamo discutere l’intensità di questi effetti. Ma un approccio sociale alle tecnologie deve partire dall’idea che la tecnologia non sia qualcosa di neutrale. Se così non fosse, le tecnologie sarebbero materia solamente per gli ingegneri o tecnologi. Invece, anche gli scienziati sociali possono dire la loro, partendo proprio dall’idea che la diffusione di una tecnologia è legata al proliferare delle dinamiche d’uso.

Quest’ultima idea è stata evidenziata da un altro approccio alle tecnologie: Social Construction of Technology (SCOT). Una delle lezioni fondamentali dello SCOT è che le tecnologie e i loro effetti, vanno misurate sempre in relazione ad altre cose, come l’infrastruttura esistente in un contesto o i gruppi sociali che entreranno in contatto con la tecnologia. Secondo lo SCOT non c’è niente di predeterminato nelle tecnologie; quindi, una nuova tecnologia all’inizio è caratterizzata da un certo tipo di “flessibilità interpretativa” ovvero un periodo in cui alcuni gruppi sociali si approcciano a una tecnologia e ci vedono alcune cose: per alcuni potrebbe essere utile per i propri fini, mentre per altri potrebbe essere pericolosa. Durante questo periodo entrano in gioco diversi “gruppi sociali pertinenti” che cercano di orientare l’artefatto nella loro direzione in base ai loro interessi.

In questo modo si raggiunge una stabilizzazione della tecnologia, incorniciandola, con uno specifico significato d’uso e una forma in grado di tenere insieme le diverse istanze poste dai vari gruppi.

Dunque, guardare alla tecnologia, come fa il DT, come una variabile indipendente che si origina dall’innovazione scientifica e si “impone” agli attori, determinandone le pratiche, le relazioni e le interazioni, risulta troppo radicale. Non è detto che se la tecnologia funziona in un determinato modo, allora le persone dovranno adattarsi e sforzarsi di far funzionare la tecnologia in quello stesso modo.

Risulta difficile pensare che la tecnologia offra determinati input alla società e che questa non possa far altro che adattarsi passivamente. Certo, le tecnologie non sono neutrali, ma diventano quello che sono nel momento in cui gruppi di utenti se ne appropriano, ad esempio un computer può essere utilizzato per lavoro, per lo studio, per giocare, guardare film ecc.

Il punto è che le tecnologie più diffuse sono quelle che vengono utilizzate nei modi più vari, ognuno le usa in base ai propri interessi, problemi, fini e attività quotidiane, permettono dunque una varietà di usi. Di conseguenza l’innovazione vincente non è tale soltanto perché contiene un elemento tecnico migliore o superiore ad altri, ma perché attraverso quell’elemento tecnico riesce a soddisfare una serie di istanze sociali.

Proviamo ora a fare un passo in avanti, attraverso un altro approccio alla tecnologia, l’Actor Network Theory (ANT), ovvero “un semplice metodo per imparare dagli attori senza imporre loro una definizione a priori circa la loro capacità di costruire il mondo” (Latour 1999, 20). Si tratta di un metodo che guarda alla realtà e agli attori senza partire dal presupposto che questi ultimi abbiano un qualche tipo di agency a priori. Attori umani e non-umani sono ugualmente capaci di dare forma ai processi che conducono all’emergere di un’idea, di una conoscenza o di una tecnologia.

Ma quindi in che modo possiamo descrivere il ruolo che hanno le tecnologie?

Una prima risposta è di guardare come gli oggetti intervengono all’interno delle azioni e delle pratiche e come le trasformano. Una nozione classica dell’ANT, è quella di script, ovvero ciò che è inscritto in un artefatto. L’idea è che nel processo di progettazione vengano inscritte, dai progettisti e designer, delle sceneggiature negli oggetti, dei copioni o delle istruzioni su come questi si devono utilizzare; e sono in grado di delineare ruoli, competenze e possibilità d'azione per chi interagisce con tale oggetto. In altre parole, inscrivono una certa idea di utilizzatore e per farlo introducono nell’oggetto alcune caratteristiche che riguardano le competenze dell’utilizzatore e delineano programmi d’azione e ruoli.

A questo punto potrebbe sembrare che lo script rappresenti solamente una serie prescrizioni e proscrizioni inscritte dal progettista e quindi una sorta di determinismo tecnologico, ma non è così. Il concetto di script è un concetto aperto, non ricade all’interno del determinismo tecnologico, è un partire dal presupposto che gli oggetti hanno una loro agency e contribuiscono in vari modi allo sviluppo di una azione, ma non la determinano mai.

Possiamo identificarne due aspetti. Il primo è l’inscrizione: progettisti e designer che tentano di inscrivere un qualche tipo di comportamento o azione nell’oggetto. In questa concezione l’oggetto un po' scompare. Il secondo è ciò che si ritrova inscritto nell’artefatto, ovvero il modo in cui le competenze, le possibili azioni, i ruoli degli utilizzatori sono effettivamente inscritti nell’artefatto. In questo senso l’oggetto assume una sua autonomia di cui dobbiamo tenere conto, il progetto dei designer non esaurisce le possibilità di un oggetto, ma ha una sua autonomia anche perché poi interagirà con altri oggetti e sarà sempre in trasformazione. In altre parole, si tratta di guardare le affordance (Gibson 1979), ovvero tutte quelle possibilità che gli utenti intravedono negli oggetti a partire dalle loro caratteristiche materiali e che non erano state previste dai progettisti. In questo modo gli utenti hanno l’occasione per fare qualcosa di diverso con l’oggetto che hanno di fronte.

In conclusione, la lezione del determinismo tecnologico è valida ancora oggi con alcune sfumature, ma il punto è che le tecnologie non sono neutrali. Gli STS sostengono la necessità di coltivare un approccio più “simmetrico” ai fenomenti sociali guardando alle tecnologie come pratiche sociali, ovvero si comprende l’utilità, la rilevanza, quando se ne osserva l’uso in contesti concreti. L’idea che sta dietro al concetto di affordance è che tutti quanti gli oggetti abbiamo un loro uso e ci pongono dei vincoli, però possiedono delle caratteristiche materiali che possono essere lette da chi li utilizza come inviti ad un uso diverso. La direzione non è quella di fermarsi a guardare la tecnologia-in-sé, ovvero come qualcosa che funziona ed è efficace indipendentemente dai suoi utilizzatori e contesti d’uso pratici. Piuttosto quello di focalizzarsi sulla tecnologia-in-uso (Orlikowski 1992; 2000; Gherardi 2008), ovvero come gli oggetti vengono ri-significati nella pratica, di conseguenza questi non nascono “efficaci” o “sicuri”, ma lo diventano nel momento in cui una comunità di utilizzatori, in specifici contesti d’uso, li costruisce come tali.

 


RIFERIMENTI

Gherardi S. (2008), La tecnologia come pratica sociale: un quadro interpretativo, in Gherardi S. (a cura di) Apprendimento tecnologico e tecnologie di apprendimento, Il Mulino, pp. 7-44.

Gibson J.G. (1979), Per un approccio ecologico alla percezione visiva, Angeli (ed. It. 1995)

Latour B. (1999), On recalling ANT, in “Actor Network Theory and After”, in J. Law, e J. Hassard  (a cura di), Oxford, Blackwell, pp. 15-25.

Lynch M. (2008), Ideas and perspectives, in E Hackett, O. Amsterdamska, M. Lynch e J. Wajcman (a cura di), The Handbook of Science and Technology Studies, Cambridge, MIT Press, pp. 9-12.

Orlikowski W.J. (1992), The duality of Technology: Rethinking the Concept of Technology in Organization, in “Organizational Science”, Vol. 3, n.3, pp. 398-427.

Orlikowski W.J. (2000), Using Technology and Constituting Structures: A Practice Lens for studying technology in organizations, in “Organization Science”, vol. 11, n.4, pp. 404-428.


La matematica e la logica sono istituzioni sociali

Il sociologo britannico David Bloor (n. 1942) nel 1976 pubblicò un libro, Knowledge & social imagery [1],  che segnò una svolta nella sociologia della scienza. Al suo interno egli si interessa di quelle che vengono comunemente ritenute discipline che hanno una natura cogente, che rispecchiano verità uniche e immutabili: la matematica e la logica. Con l’obiettivo di arrivare al nocciolo (che lui ritiene profondamente sociale) della conoscenza matematica:

«l’idea che la matematica sia variabile, allo stesso modo dell’organizzazione della società,
viene considerata da molti sociologi un’enormità»[2].

Eppure, già il filosofo, storico e scrittore tedesco Oswald Sprengler, nel suo famosissimo Il tramonto dell’Occidente (1918), e Ludwig Wittgenstein, nel difficile Osservazioni sopra i fondamenti della matematica (1956), avevano ipotizzato una connessione tra mondi di numeri e mondi di civiltà.

Anche il matematico, logico e filosofo tedesco Gottlob Frege, ne I fondamenti dell’aritmetica nel 1884, aveva argomentato che la matematica (contrariamente alla posizione di John Stuart Mill, presentata in Sistema di logica raziocinativa e induttiva del 1843) non era una scienza induttiva, nel senso che non si basava sull’esperienza, cioè su operazioni fisiche sugli oggetti. L’idea di Mill poteva tutt’al più essere utile pedagogicamente, ossia a insegnare ai bambini ad apprendere la matematica attraverso la manipolazione di oggetti (sassolini, granelli di pepe, biglie ecc.).

Frege sostiene che i numeri non sono esperienza: chi ha mai avuto esperienza dello zero («zero sassolini») o di numeri estremamente grandi come 10.000.000.000? Avere esperienza di «una cosa», non significa avere esperienza del numero 1, dice Frege. I numeri naturali (0, 1, 2, 3 ecc.) servono per numerare, ma non si identificano con le cose numerate. Infatti, hanno proprietà che non si trovano nella cosa numerata (es. il pari o il dispari), che non si vedono né si toccano, mentre si vedono e toccano le cose a cui essi si riferiscono. Allo stesso modo è difficile sostenere che i numeri ‘immaginari’ (es. 2i), che nascono dal fatto che non è possibile calcolare la radice quadrata di un numero negativo, e i numeri ‘complessi’ (dati dalla somma di una parte reale e una immaginaria - es. 5 + 2i) siano astrazioni ottenute da cose reali.

E anche il matematico tedesco Richard Dedekind, nel suo Essenza e significato dei numeri (1888), riteneva i numeri libere creazioni dello spirito umano, del tutto indipendenti dalla realtà, e un’emanazione diretta delle pure leggi del pensiero.

Come sottolinea il matematico italiano Enrico Giusti (1999) anche gli oggetti della geometria euclidea (retta, piano, lunghezza, area, cerchio, angoli, ecc.) non provengono dall’astrazione di oggetti reali, esterni, indipendenti dall’osservatore, ma da un processo di oggettivazione delle procedure, di pratiche sociali che formalizzano l’operare umano (come tracciare un cerchio sul terreno usando una corda ecc.). La matematica si sviluppa mediante il ripetersi di una sorta di modulo che porta a «fissare», e quindi a far esistere, gli oggetti matematici. Questo avviene in tre fasi: inizialmente vengono introdotti nuovi strumenti, metodi dimostrativi originati da idee innovative; poi essi diventano soluzioni di problemi e insieme oggetti di studio; infine, se vengono accettati, acquistano una vera e propria esistenza oggettiva.

Lo stesso sostiene Bloor (1976/1994, p. 143-4):

i tessitori di tappeti imparano a riprodurre un modello osservando e lavorando con gli altri. Dopo di che possono lavorare autonomamente e applicare più e più volte la tecnica a nuovi casi. Potrebbero, per esempio, mettersi a tessere il tappeto più grande che si sia mai visto: a loro basta solo aver imparato ed essersi esercitati su quelli piccoli.
Questa è la natura delle tecniche.
Analogamente, una spiegazione dell’aritmetica può basarsi su un’esperienza di portata limitata, a condizione che l’esperienza fornisca modelli, procedure e tecniche che possano essere applicati
o riprodotti all’infinito
.

Certamente la matematica non nasce dall’esperienza e dalla percezione (come già sosteneva Frege), ma viene inventata.

Tuttavia, secondo Bloor, essa non è solo un’invenzione (un gioco formale, mentale, puramente soggettivo) senza rapporti con la realtà circostante, perché essa nasce da necessità, da una manipolazione empirica.

In altri termini, essa è un’invenzione sociale, una costruzione (quindi con una certa dose di arbitrarietà) basata su pratiche. Gli enti matematici hanno, quindi, la natura di costrutti ideali, che trovano però un fondamento in una concreta prassi umana che col tempo si stabilizza e si generalizza nella forma di soluzione di problemi.

Bloor, quindi, da una parte accetta la posizione di Frege; dall’altra la porta alle estreme conseguenze, criticando lo stesso Frege e rivalutando e correggendo Mill (che aveva parlato della matematica anche come realtà soggettiva, psicologica): se i numeri non sono basati su una realtà empirica bensì su nozioni teoriche (altamente elaborate, le più fini e le più pure che mai mente sia riuscita a pensare), da dove vengono queste nozioni? Se non dalla natura, allora dalla cultura: «la componente teorica della conoscenza è proprio la componente sociale»[3].

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Bloor comincia quindi, fenomenologicamente, a immaginare una matematica alternativa[4] in cui gli esiti delle operazioni dovrebbero produrre sistematicamente risultati diversi. In questa idea apparentemente assurda, egli trova conforto nella matematica greca antica, dove il numero 1 non era considerato un numero. Non era neppure pari o dispari; esso era entrambi, cioè parimpari, perché era considerato il punto di partenza, il generatore dei numeri (1+1=2; 1+1+1=3 ecc.), sia dei pari che dei dispari, per cui partecipava di entrambe le nature (pp. 155-6). All’interno di questa visione, l’1 è anche il numero più grande perché contiene tutti gli altri numeri; è inoltre il numero con il più alto numero di relazioni/rapporti con gli altri numeri, perché tutti i numeri partono da lui e sono scomponibili nell’unità minima che è 1. Infine, l’1 è la totalità, la parte più grande: se si scompone/taglia l’1 (es. 1 torta), le parti che emergono (2, 3, 5 ecc.) sono più piccole dell’1 interezza o totalità. Peraltro, etimologicamente il numero 2 sembra derivi da «taglio».

La matematica dei pensatori pitagorici e, successivamente, dei platonici era di tipo catalogatorio e riecheggiava le classificazioni in uso nella vita quotidiana. Tale “schema di classificazione simboleggiava la società, la vita e la natura [...] I vari tipi di numeri ‘stavano per‘ proprietà come la Giustizia, l’Armonia e Dio“ (p. 169). Era una matematica applicata, usata per questioni pratiche e carica di magia: per esempio i Pitagorici consideravano il 2 un numero femminile, come tutti i numeri pari, e il numero 10 era collegato alla salute e all’ordine del cosmo. Un po’ come la smorfia napoletana[5] oppure il simbolismo numerico nella Bibbia, dove (ad esempio) il 3 era la perfezione (mentre la stessa, per i Maya, era rappresentata dal 4). Il 4 nel Medioevo era considerato un numero perno e risolutore (quattro sono i punti cardinali, i venti principali, le stagioni, le fasi lunari, le arti liberali del quadrivio, i lati del quadrato a cui veniva paragonata la Terra, in opposizione al triangolo del cielo, simbolo della Trinità). Inoltre, 4 è il numero della perfezione morale e delle proporzioni dell'uomo. Il 7 è il numero buddhista della completezza.

Bloor quindi ha trovato una matematica alternativa: “è chiaro che se non riconosciamo il misticismo del numero come una forma di matematica, nessuna questione di matematica alternativa può essere posta [...] esso rende tautologico il fatto che non via sia una matematica alternativa»[6]. Quindi la matematica non ha una vita propria o un significato intrinseco racchiuso negli stessi simboli che devono essere solo percepiti e compresi[7].

Bloor si chiede: la radice quadrata di 2 è un numero irrazionale (1.41421 35623…), come sostengono i moderni, oppure non è per niente un numero, come dicevano gli antichi greci? Nessuna dimostrazione giungerà a risolvere la questione perché si tratta di visioni matematiche incommensurabili, il cui «significato [non] risiede sulla carta o nelle procedure simboliche del calcolo stesso»[8]. Occorre che esistano determinate condizioni sociali, cioè un sistema di classificazioni e un insieme di significati culturalmente condivisi, perché il calcolo abbia un significato[9].

Quindi il numero è un ruolo[10], una posizione da non confondersi con l’oggetto che incontra stando in quel ruolo. Ma se parliamo di ruoli, posizioni, allora ci troviamo nel campo della sociologia e i numeri possono essere tranquillamente definiti delle istituzioni sociali: «se la matematica riguarda i numeri e le loro relazioni e se queste sono prodotti e convenzioni sociali, allora, effettivamente, la matematica riguarda qualcosa di sociale»[11].

Citando le conclusioni a cui giunge il filosofo (di origini lettoni) Jacob Klein, studioso del pensiero matematico greco, Bloor sostiene che «attribuire alla nozione di numero una tradizione di significato unica e ininterrotta sia un errore [...] la continuità che noi vediamo nella tradizione della matematica è artificiale. Deriva dal fatto che attribuiamo il nostro stile di pensiero a opere precedenti»[12].

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Per concludere, e rafforzare l’idea di un nucleo sociale della matematica, possiamo notare che i numeri raramente vengono usati in forma pura o astratta. Più spesso appaiono sempre insieme a un referente: “possedere 5 case”, “decidere in 2”, “conservare 10 lingotti”.

Il referente è il motore dell’interpretazione, del giudizio, dell’invidia o risentimento. Inoltre, a seconda del referente, possono perdere la loro natura cardinale: avere 3 figli non vuol dire avere 3 volte 1 figlio e non è come avere 3 sassolini o 3 fagioli.

La dinamica sociale, nel primo caso, si mostra in tutta la sua pregnanza: se si hanno 3 figli contemporaneamente si devono affrontare dinamiche molto diverse dall’avere 3 figli a distanza: l’organizzazione sociale ed economica sarà molto diversa nel secondo caso.

Per cui i numeri sono profondamente sociali. Se così non fosse perché gli studenti ci rimangono così male se prendono 29 anziché 30? Perché i/le docenti, in seduta di laurea, danno a malincuore un 109, considerato quasi una beffa nei confronti della/o studente/ssa?

 

NOTE

[1] D. Bloor, Knowledge and Social Imagery, The University of Chicago Press, 1976 – traduzione italiana in La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994

[2] D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994, p. 151

[3] Ibidem, p. 137

[4] Ibidem, p. 152

[5] Essa è una sorta di «dizionario» di interpretazione di sogni (ma a volte anche di situazioni reali), in cui a ciascun vocabolo (persona, oggetto, azione, situazione ecc.) corrisponde un numero da giocare al Lotto. L'origine del termine Smorfia è incerta, ma la spiegazione più frequente è legata al nome di Morfeo, il dio del sonno nell'antica Grecia. Esiste un gran numero di smorfie locali, in uso in altre città.

[6] D. Bloor, La dimensione sociale della conoscenza, Milano Cortina, 1994, p. 170

[7] Ibidem, p. 171

[8] Ibidem, p. 173

[9] Ibidem, p. 174

[10] Ibidem, p. 142

[11] Ibidem, p. 142

[12] Ibidem, p. 157


Solaris, il racconto della scienza - Un manifesto

Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto:
alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte.
Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce,
spesso siamo convinti di essere persone straordinarie.
In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo,
ma estendere la Terra fino alle sue frontiere.[1]

 

 

PERCHÉ UNA RUBRICA CHIAMATA SOLARIS?

 Solaris è un romanzo pubblicato da Stanislaw Lem nel 1961, l’anno in cui Jurij Alekseevič Gagarin accedeva allo spazio per la prima volta nella storia dell’umanità. È la storia di un incontro tra uno psicologo-astronauta e la forma di vita del pianeta Solaris. Ma è anche una riflessione sul senso del “contatto”, sulla straniante alterità del cosmo.

Solaris è un pianeta oceanico che non risponde all’umano: con apparente e incomprensibile volontà crea geometrie megalitiche e “quasi architettoniche”, materializza figure femminee estratte dall’inconscio di chi gli si avvicina e poi disfa ogni sua creazione nell’oblio della sua essenza marina.

“Perché il mondo parla?” Si chiede Kris Kelvin - lo psicologo coinvolto nello studio di Solaris e attorno a cui gira la narrazione - “vuole giocare con noi? O forse punirci?”[2]

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La letteratura parla della scienza esprimendone l’immagine sociale, la scienza parla infondendo le sue fantasie nelle storie che ci raccontiamo.  Libri più o meno noti, pellicole apparentemente super partes partecipano collettivamente alla produzione degli immaginari scientifici e fantascientifici che finiscono inevitabilmente per influire sulle nostre aspettative future, sulla nostra percezione presente, sul modo in cui riorganizziamo il passato.

La letteratura, come le grandi cose, vive nel via vai che oscilla tra l’espressione e la descrizione.

Può raccontare la scienza che conosciamo, favorirne la diffusione; si pensi a Quando abbiamo smesso di capire il mondo (2021) di Benjamín Labatut o a La Bomba (2020) di Alcante, Bollet e Rodier.

La letteratura è avvertimento sul futuro e tentativo di previsione.

Günther Anders scriveva che autori come Huxley, Orwell o Lem lasciano indietro i filosofi che arrancano: i secondi indaffarati a definire chi ha fatto cosa, i primi preoccupati di cosa le cose faranno di noi.[3]

Tramite l’artificio e l’incanto si raccontano i timori di un’intera società, come nei grandi racconti socio-fantascientifici di James Graham Ballard o, ancora, nel romanzo scientifico-distopico che ha ispirato molti racconti del secolo scorso: Noi (1924) di Evgenij Ivanovič Zamjatin.

Alle volte la letteratura è la via privilegiata per testimoniare l’incontro del singolo - così piccolo - rispetto ai grandi Golem della scienza, della medicina, della tecnologia, del progresso.

Ne è esempio: Non morire di Anne Boyer, una lunga lettera di denuncia al mondo delle terapie contro il cancro che sarà oggetto di questa prima uscita.

D’altra parte, L’enorme bagaglio immaginativo di cui la letteratura si fa carico è ciò che, a sua volta, influenza inevitabilmente le pretese e le traiettorie di chi lavora attivamente nel mondo “scientifico”.

Ci sono le scienze, gli scienziati con il camice bianco, le tecnologie, le politiche di controllo e sviluppo, le controversie e le invidie, i dati e le persone.

Poi c’è Kris, “razionale e scientifico”, trascinato nell’alterità policroma di Solaris. C’è la solaristica, fatta di termini dotti ed esperti che su Solaris non avevano mai messo piede, pur scrivendone: solarista-ciberneti, solarista-simmetriologi… Infine c’è Lem che scrive una storia: sua, nostra? È sempre Kelvin a rispondere, rieccheggiando un noto aforisma di Proust: “non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi”.[4]

L’immenso insieme di queste storie mostra le scienze e le tecnologie nel rapporto che instaurano con la singola vita o con un gruppo sociale, con le speranze implicite di un’intera cultura, nel continuo gioco di scambi che le attraversa.

Perciò, noi che vi raccontiamo questi libri, non potevamo che chiamare Solaris questa rubrica: nell’amore per ciò che ci si racconta, speriamo che le parole possano parlarci ancora, e nuovamente.

 

NOTE

[1] S. Lem, Solaris (1961), a cura di M. Cataluccio, 2013, p. 108.

[2] S. Lem, Solaris, cit., p. 110.

[3] G. Anders, L'uomo è antiquato vol. II (1979), tr. it. M. A. Mori, Bollati Boringhieri editore, Torino 2007, p. 396.

[4] S. Lem, Solaris, cit., p. 109.


Non morire, di Anne Boyer - Un confronto con la medicina

Non morire (La nave di Teseo, 2020) è il libro di Anne Boyer dedicato al racconto delle sue esperienze e impressioni successive alla diagnosi di un carcinoma mammario, che ricevette nel 2014 all’età di 41 anni.

Boyer è poetessa e saggista nata e cresciuta in Kansas e, con Non morire, ha vinto il Premio Pulitzer nel 2020.

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Vi parlo di questo libro perché non è il racconto di una malattia, bensì il racconto di una persona che ha il cancro.

La sua ribellione risulta potente proprio nella misura in cui - di fronte a tutto il mondo - Boyer continua imperterrita a affermare la sua completezza come persona.

La sua opposizione è un caleidoscopio di estrema lucidità, nelle sue critiche femministe e sociologiche, nella passione poetica e filologica, nelle sue impressioni, nell’introspezione e intimità delle riflessioni.

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In questo post cerco di riassumere alcune delle sensazioni – non saranno piacevoli – che emergono dalla lettura di Boyer, in particolare dal suo confronto con la medicina e con la scienza.

Sono argomenti che la sociologia della salute ha già trattato, spesso in modo approfondito, dove possibile li segnalerò in nota.

In chiusura riporto uno dei casi che Boyer ha raccolto per raccontare le truffe e la sporcizia nel mondo delle cure del cancro americano.[1]

Per un quadro completo, per comprendere e conoscere meglio, per una visione più ampia e una poetica amarezza nel cuore, leggete il libro!

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Etichette

La prima etichetta è quella diagnostica. «Prendere oggetti e azioni da un sistema e riclassificarli come elementi in un altro sistema è ciò che fa la diagnosi: prende informazioni dai nostri corpi e riorganizza ciò che avevamo dentro in un sistema imposto da lontano». Il radiologo evidenzia la massa, assegna un punteggio.

Si diventa malati, pazienti, clienti.

Boyer descrive la lenta spersonalizzazione di sé che avviene entrando nel dispositivo dell’oncologia. Mentre ancora il corpo non percepisce la differenza tra sano e malato, questo mondo apre le sue porte e comincia a tradurti in numeri e dati.

Quando con la malattia sorge la sofferenza, ci si rivolge alla medicina in cerca di un vocabolario per definire quel male. Non sempre questo avviene - spesso perché, ormai spersonalizzati, non ci si riconosce più - e i malati, racconta Boyer, sviluppano una loro narrazione intorno alla ricerca di risposte.

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Quindi si accede al padiglione, «crudele democrazia dell’apparenza», gli stessi volti, gli stessi segni sul corpo, umori, sudori, sangue e urine.

Può farci ribrezzo, ma sono le condizioni a cui le chemioterapie portano i malati.

«Non sembriamo persone: sembriamo persone col cancro. Somigliamo a una patologia prima di somigliare a noi stessi.»

Nel padiglione la produzione del malato di cancro viene portata a termine. Il nome viene registrato su un codice a barre a quel codice si aggiungono via via tutti i dati del paziente.[2]

Meglio, specifica Boyer, sono le donne a farlo.

Perché il tumore al seno è una malattia che ha un genere[3]. Sono le infermiere che lavorano nel padiglione certo, ma prima ancora sono le pazienti che si prestano a quel lavoro.

Compilano questionari, controllano la correttezza dei dati in database, rispondono alle domande delle persone incaricate della loro cura. «La parola “cura” raramente richiama alla mente una tastiera» scrive Boyer, eppure è così, la cura e la raccolta dati vanno a braccetto in un paradossale sistema sincronizzato che culmina nella richiesta di quantificare il tuo dolore da 1 a 10.[4]

Diventa una paziente fatta di dati, prodotta dal lavoro femminile.

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Vita del paziente

A un certo punto l’autrice deve prendere atto che è diventata una paziente.

Ha provato a lungo a resistere; si è informata sui social network e sui motori di ricerca; ha imparato a consultare le riviste scientifiche di settore, per cercare una comprensione che i medici non le davano.

A resistere è l’immagine del sé precedente alla diagnosi, si cerca di comportarsi normalmente, di truccarsi, di portare parrucche e vestiti che coprano le ferite delle terapie.

Non basta, si crolla, anzi, proprio quell’aspetto che si ricercava viene in odio perché non lo si è fatto per sé stessi, ma per rispondere alle richieste di una società che non vuole prendersi cura dei suoi.

La società chiede di nasconderti in quanto malato di cancro. Chiede di dissimulare, di pensare positivo, di vivere la terapia con coraggio.

Certo, Boyer è forte, nella sua convinzione di voler vincere la malattia.

Ma non può raccontare questo, non può raccontare la sua battaglia con orgoglio e un nastro rosa appuntato perché è arrabbiata: «Preferirei non scrivere nulla piuttosto che far propaganda del mondo così com’è».

Lei, madre, single, riesce a malapena a seguire il percorso di cura grazie all’aiuto di amiche e amici, tanto da chiedersi se fosse stata una persona un poco meno piacevole che fine avrebbe fatto?

I giorni di malattia al lavoro finiscono presto, devi negoziare la tua nuova situazione, ma hai una condanna a morte scritta in faccia.

L’assicurazione copre certe cure.

Dopo la chemioterapia resti devastata, intossicata per giorni, per non parlare di quando si decide per l’asportazione del tumore. Operazione in giornata, la mammella viene rimossa e il paziente rimandato a casa: questi i costi che ci si può permettere.

«Sono sopravvissuta. Eppure, a causa del regime ideologico del cancro, definendomi una sopravvissuta mi sembra di tradire i morti.»

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Certo Boyer è impietosa ma quello che risulta vero è la sua richiesta di essere accettata per come è con la sua malattia.

Chiede che le sia permesso anche di essere debole, di non farcela, di un posto in questo mondo anche per la donna malata di tumore al seno.

Invece la società è letale con chi non collabora alla sua guarigione: «Il rifiuto conduce all’isolamento: l’esecuzione sociale dell’ottemperanza medica intorno a una patologia genderizzata come il tumore al seno può essere brutale.»

Chi muore poi, tradisce il Progresso della società; quella stessa società in cui – come risponde la figlia di Boyer a sua madre– siamo condannati a vivere e che ci fa ammalare.

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Non morire si rivela quindi essere una denuncia poetica delle nostre società tecno-scientifiche.

Se possiamo curare alcune patologie con le “pallottole magiche” o con operazioni ad hoc, il tumore è si rivela più grande di quanto pensiamo.

Di fronte alla persona, il sistema ospedaliero simil-fordista fallisce.

Questo è ancora più marcato quando si è donna (per non parlare di quando si è donna e nera) perché il sistema della cura non è alieno alle dinamiche discriminatorie e patriarcali della società tutta.

Chi si ammala di forme gravi se ha la fortuna di morire presto diventa un “angelo”, le donne che sopravvivono sono invece spesso «abbandonate, tradite, rese disabili, licenziate».

Boyer è sopravvissuta a quel nodulo alla mammella, ma stenta a sopravvivere alla cura: «I fiocchi rosa adornano gli oggetti e i processi che ammazzano la gente. Non esiste cura né c’è mai stata».

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La truffa

Ecco uno dei racconti che Boyer raccoglie, che costituiscono una raccolti di casi e truffe scientifiche legate alle terapie contro il cancro, negli Stati Uniti ma con effetti anche negli altri paesi:

Nel 1991 viene diagnosticato un tumore mammario a Nelene Fox.

La compagnia assicurativa non voleva coprire le spese per una nuova terapia basata su un trapianto di midollo osseo contornato da un’alta dose di chemio.

Fox riuscì a pagarsi le spese da sola, ma morì due anni dopo la diagnosi senza accedere alla terapia.

La famiglia fece causa alla compagnia assicurativa ricevendo 89 milioni di dollari di indennizzo.[5]

A partire da questo evento e incoraggiate dai successi dell’attivismo per l’AIDS[6] - racconta Boyer – le donne con tumore al seno si organizzarono in lobby per avere accesso alla nuova terapia.

«Gli ospedali addebitarono da ottantamila dollari a centomila per l’altamente remunerativa procedura, con un costo ospedaliero di meno di sessantamila dollari.»

Lentamente gli assicuratori si prestano e quarantunomila pazienti ricevono la cura.

La terapia era dolorosa e prevedeva l’isolamento per giorni in ospedale, inoltre erano previsti diversi effetti collaterali anche gravi. «Secondo alcuni documenti, la terapia ha ucciso una donna su cinque.»[7]

L’unico studio a supporto era quello condotto da Werner Bezwoda. Quando i ricercatori replicarono quella procedura per la terapia, quattro delle sei donne trattate riportarono gravi danni cardiaci, di queste quattro due morirono di lì a poco.

Più tardi Bezwoda ammetterà che la sua ricerca era fraudolenta.[8]

 

È del 2016 invece uno studio che conferma[9] i risultati di molte ricerche precedenti: il carcinoma mammario è stato trattato eccessivamente e la maggior parte delle donne con diagnosi di cancro al seno hanno ricevuto trattamenti che non erano necessari. Le mammografie avevano portato all’individuazione precoce di tumori. Questa anticipazione invece di salvarle le ha condannate a trattamenti invasivi e spese insostenibili.

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«Morire di cancro al seno non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti. Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti.»

 

 

 NOTE

[1] Per un’analisi che tenga conto della storia delle politiche italiane sul cancro, comparate a quelle statunitensi, si può leggere G. Vicarelli, Le tappe della politica oncologica in Italia. Riflessioni a margine del caso Di Bella, in “Prospettive sociali e sanitarie”, 2, pp. 6-11.

[2] Boyer racconta nel dettaglio la conformazione del padiglione con cure “passthrough”, che contrappone all’etimo di clinica, alla cura prestata al letto del paziente. Un classico in sociologia al riguardo è D. Sudnow, Passing On. The Social Organization of Death, Englewood Cliffs, Prentice Hall 1967.

[3] Anche gli uomini possono venire colpiti da forme di neoplasia alla mammella, ma i casi sono rarissimi e il tumore al seno si configura come una malattia della donna anche per le implicazioni sociali e politiche che comporta. Queste tematiche sono tutte affrontate da Boyer nel suo libro.

[4] Boyer prova a raccontare il dolore in scale che non siano numeriche, a esempio con frasi tratte dalle poesie di Emily Dickinson – un gioco che fa con le sue amiche per esorcizzare la brutalità della richiesta del medico.

[5] E. Eckholm,  $89 Million Awarded Family Who Sued H.M.O, “The New York Times”, 30 dicembre 1993.

[6] Per approfondire l’impatto della partecipazione pubblica alle policy e terapie riguardanti l’AIDS: S. Epstein, Impure Science: AIDS, Activism and the Politics of Knowledge, University of California Press, Berkeley 1996.

[7] R.A. Rettig, False Hope: Bone Marrow Transplantation for Breast Cancer, Oxford, Oxford University Press, 2007.

[8] D. Grady, Breast Cancer Researcher Admits Falsifying Data, “The New York Times”, 5 febbraio 2000.

[9] M. Healy, Majority of Women Diagnosed with Breast Cancer after Screening Mammograms Get Unnecessary Treatment, “Los Angeles Times”, 12 ottobre 2016.