Il luddismo, ieri e oggi – Paralleli, rischi e opportunità

LUDDISMO

Alla fine del XVIII secolo – in termini molto semplificati – l’introduzione, nel sistema produttivo inglese, di tecnologie come la macchina a vapore e il telaio meccanico furono gli elementi catalizzatori di una profonda trasformazione del sistema socioeconomico britannico.

Al timone di questa trasformazione – sempre semplificando al massimo – ci fu la nuova borghesia capitalista inglese che comprese l’enorme potenzialità produttiva delle nuove tecnologie, che potevano: affrancare il sistema produttivo dalla dipendenza dalle competenze artigianali; permettere la concentrazione industriale in “nuovi” luoghi in cui controllare in modo pervasivo i lavoratori e obbligarli a mantenere alti tassi di produttività; abbattere il costo della manodopera grazie ad migliore (per gli industriali) rapporto tra domanda e offerta di lavoro. In definitiva, moltiplicare in modo geometrico la produzione con costi altrettanto ridotti.

Il punto di vista dei lavoratori tessili – che in buona parte lavorava manualmente, a cottimo, in piccole fabbriche oppure a casa propria, controllando di fatto i mezzi di produzione e valorizzando le proprie competenze artigianali – era esattamente speculare a quello degli industriali: riduzione dei salari e della domanda di lavoro, annullamento del valore delle competenze, scelta tra disoccupazione e lavoro malpagato nelle nuove grandi fabbriche.

Una delle forme di reazione alla drammatica trasformazione fu una serie di rivolte, iniziate nel 1811, ispirate alla figura – forse leggendaria – di Ned Ludd, un operaio che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio meccanico in segno di protesta contro la nascita di questa nuova forma di produzione: il fenomeno del “luddismo”.

Il movimento luddista durò fino verso il 1824, tra leggi repressive – come la Frame Breaking Bill che prevedeva la condanna a morte per chi avesse danneggiato i telai per calze o pizzi, o altre macchine per la produzione tessile – tumulti, ondate di distruzione delle macchine, appoggio di massa da parte della popolazione, soprattutto nello Yorkshire, sostegno di alcuni parlamentari illuminati e scontri violenti con la polizia e l’esercito.

I cambiamenti sociali e politici che seguirono il crollo dell’impero napoleonico, la promulgazione delle Corn Laws, con i relativi dazi protezionistici e l’ulteriore gravissimo impatto sulle condizioni economiche dei ceti popolari, uniti alla nascita delle Trade Unions, primi sindacati operai, decretarono la fine della protesta luddista.

IERI E OGGI

Sembra possibile trovare un parallelismo tra la percezione dei ceti operai del XIX secolo che fu alla base del luddismo e l'attuale preoccupazione nei confronti delle radicali trasformazioni del tessuto produttivo delineate dallo sviluppo e della adozione di tecnologie di Intelligenza Artificiale.

Oggi come allora, l'innovazione tecnologica suscita timori, resistenze e opposizione al “nuovo progresso”.

Tra chi progetta e sviluppa – singoli individui o grandi imprese che siano - le tecnologie di Intelligenza Artificiale sembrano pochi a porsi il problema delle conseguenze sull’occupazione, sui salari, sul benessere dei lavoratori “tradizionali”; si procede con entusiasmo, in nome del progresso tecnologico, del superamento di ostacoli e di barriere fino a ieri considerati impossibili, dell’avvicinamento della macchina alle performance umane.

Anche tra gli studiosi di I.A. sensibili a questi problemi, l’eccitazione per i risultati sembra appannare la visione umanista. Un esempio è quello di Nello Cristianini, studioso e professore di intelligenza artificiale a Bath, che – nonostante l’impegno a rappresentare i rischi legati ad una massiva adozione di tecnologie I.A. – sembra farsi trascinare dall’entusiasmo per i nuovi sviluppi: «Dopo essere eguagliati, potremmo essere superati? E come? O la macchina diventa più brava a fare ciò che già facciamo, oppure la macchina impara a svolgere compiti che non sappiamo fare. A me interessa l’idea che riesca a capire cose che io non posso» (A. Capocci, Nello Cristianini, il ragionamento delle macchine, Il Manifesto, 14/03/2025).

I timori sembrano giustificati dal fatto che, in altri settori produttivi – come quello della realizzazione del software – si sta già generando uno scenario di sostituzione del lavoro dei programmatori con sistemi automatici basati sull'Intelligenza Artificiale, con una conseguente ondata di licenziamenti.

E, nei media e nelle discussioni pubbliche, viene dato grande risalto al rischio che il ruolo centrale dell'uomo in molte fasi della vita collettiva cui siamo abituati venga meno.

D’altra parte, però, per alcune occupazioni, l’utilizzo di strumenti di Intelligenza Artificiale permette a molti lavoratori e professionisti di delegare “alle macchine” compiti di basso profilo competenziale che richiedevano molto impegno di tempo, oppure attività ad elevato rischio fisico, migliorando le condizioni di lavoro.

POSSIBILITÀ

Ora, il fenomeno del luddismo e delle tensioni tra lavoratori, industriali e governo, come si verificò nel XIX secolo in Inghilterra, non sembra essere una possibilità, anche solo perché - nel caso dell’Intelligenza Artificiale - è difficile trovare qualcosa da distruggere.

E, tutto sommato, il fenomeno luddista sembra aver solo spostato avanti di qualche anno la trasformazione industriale e il suo correlato di cambiamento sociale, di inurbazione, di povertà e degrado nelle periferie, e di successiva - nel XX secolo - “normalizzazione” del lavoro in fabbrica.

Oggi, i punti da dibattere, in modo serio e puntuale, sono:

  • come governare la I.A., anche facendo leva sulla sensibilità del problema anche a livello istituzionale, sensibilità da preservare e non lasciar catturare dagli intenti delle grandi industrie digitali [1]
  • come capire quali reali opportunità di benessere potrà offrire ai viventi,
  • come identificare i rischi dello sviluppo della tecnologia
  • come evitare lo sviluppo in nome del solo “progresso tecnologico” e della sola remunerazione delle grandi aziende digitali.

Per farlo sono necessari: ● una difesa istituzionale che si metta rigorosamente dalla parte dei cittadini, ● attenzione e coraggio da parte di tutti - lavoratori, professionisti, manager e imprenditori - per identificare sul nascere le reali opportunità e i reali rischi e per infondere una coscienza morale tra chi queste tecnologie promuove e intende utilizzare.

 

NOTE

[1] Cfr.: A. Saltelli, D. J. Dankel, M. Di Fiore, N. Holland, M. Pigeon, Science, the endless frontier of regulatory capture, Science Direct, Futures, Volume 135, January 2022, 102860

 


Critica del soluzionismo tecnologico

Il sociologo Morozov ha coniato alcuni anni fa l'espressione "soluzionismo digitale" per indicare l'atteggiamento prevalente ai nostri giorni nei confronti dei dispositivi digitali.

Si ritiene che i problemi siano risolvibili da qualche algoritmo, e dagli strumenti che ne automatizzano l'applicazione alla realtà. Le smart city, le smart home, i dispositivi biometrici che indossiamo, sono alcune delle declinazioni di questa concezione: l'ottimizzazione del traffico nei centri urbani, del consumo energetico e degli scenari di abitabilità nelle case, della forma fisica individuale, sono sottratti alle decisioni collettive e personali, e vengono aggregati intorno ai pattern definiti dalla medietà dei comportamenti sociali.

Persino l'uso della lingua si stabilisce sull'ortografia e sull'ortodossia media, con i motori di ricerca le piattaforme di intelligenza artificiale generativa trasformativa - e lo stesso accade alla selezione delle informazioni più rilevanti per l'assunzione di qualunque decisione.

Si avvera al massimo grado la previsione che Adorno e Horkheimer avevano elaborato sulla dialettica della ragione illuministica, che nel momento in cui si libera dal giogo delle autorità tradizionali finisce per limitarsi alla selezione degli strumenti in vista del fine, ma non è più in grado di pensare le finalità stesse, e i principi che dovrebbero governarle.
Per di più, i dispositivi digitali vantano una proprietà che le tecnologie del passato non avevano mai tentato di pretendere. Servizi digitali come Google, Facebook, Instagram, Amazon, accumulano una mole di dati così ampia e profonda su ciascun individuo, da sapere sui singoli più di quello che i soggetti sanno di se stessi.

Questa espansione quantitativa si tramuta in una condizione qualitativa: la concezione liberale del mondo, che abbiamo ereditato dall'Illuminismo, pone l'individuo come valore fondamentale, collocando nella sua coscienza e nella sua libertà le chiavi di volta della società e della storia.

Oggi le grandi piattaforme digitali possono rivendicare una conoscenza sui singoli, e sui contesti in cui si muovono, superiore a quella di cui i soggetti stessi dispongono, e potrebbero quindi reclamare un diritto di decisione sulla loro vita quotidiana e sul loro destino fondandolo sulla maggiore capacità di prevedere le conseguenze di ogni gesto, su una maggiore razionalità, quindi su una maggiore assunzione di responsabilità per ogni scelta.

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Bisogna sottoporre ad analisi critica questa narrazione, dalla confusione di dati e informazioni alla definizione di "decisione razionale", per evitare non solo che la distopia si avveri, ma anche per impedire che le sue (false) assunzioni ricadano nelle attuazioni parziali che il soluzionismo tecnologico tende ad agevolare, o persino ad imporre.


Recensione di "Eppure non doveva affondare - Quando la scienza ha fatto male i conti"

Il saggio Eppure non doveva affondare - Quando la scienza ha fatto male i conti (Bellucci D., Bollati Boringhieri, 2024) offre una riflessione approfondita sugli errori scientifici, mettendo in evidenza come questi non siano da considerarsi come semplici fallimenti ma opportunità, fondamentali per il progresso della conoscenza. Attraverso una serie di casi emblematici, l’autore mostra l’importanza di un’analisi critica e della capacità di apprendere dagli errori per migliorare le tecnologie e il metodo scientifico.

Uno degli ambiti in cui gli errori hanno avuto conseguenze drammatiche è l’ingegneria. Bellucci analizza alcuni fallimenti progettuali clamorosi, come quello degli aerei con finestrini quadrati. Questo design, apparentemente banale, si rivelò fatale: la forma degli angoli causava una concentrazione eccessiva delle sollecitazioni meccaniche, portando alla rottura della fusoliera in volo. Un altro caso emblematico riguarda le navi che si spezzano in due a causa di calcoli errati sulla distribuzione del peso e delle forze strutturali. Questi esempi mostrano quanto sia essenziale un’analisi accurata nella progettazione, perché anche il minimo errore può trasformarsi in una catastrofe.

Il libro si sofferma poi sugli errori nel campo dell’hardware e dell’informatica, mostrando come difetti nei microchip possano compromettere operazioni matematiche fondamentali. Un singolo errore nella progettazione di un processore può avere ripercussioni enormi, rendendo necessarie operazioni costose di aggiornamento o sostituzione. Anche nel software gli sbagli possono avere conseguenze impreviste e pericolose: sistemi che perdono la cognizione del tempo possono causare problemi gravi, soprattutto in ambiti critici come il settore bancario o le telecomunicazioni. A volte, persino un dettaglio apparentemente insignificante—come un cavo allentato—può mandare in fumo esperimenti scientifici di grande importanza.

Un altro ambito in cui gli errori possono avere conseguenze drammatiche è la medicina. L’autore analizza i problemi legati alla ricerca farmaceutica e alla produzione di medicinali, evidenziando come piccole variazioni nella formulazione o nella fase di sperimentazione possano rendere un farmaco inefficace o addirittura pericoloso. Inoltre, Bellucci mette in luce le criticità legate ai trial clinici, spiegando come un’interpretazione errata dei dati possa compromettere l’affidabilità delle cure e generare rischi per i pazienti.

L’intelligenza artificiale è un altro settore in cui gli errori assumono un ruolo centrale. Bellucci evidenzia i pericoli legati ai modelli predittivi, che possono produrre risultati distorti o discriminatori se vengono addestrati su dati errati. Un ulteriore problema riguarda la trasparenza: la cosiddetta “scatola nera” delle reti neurali rende difficile comprendere i meccanismi decisionali degli algoritmi, complicando l’individuazione e la correzione degli errori. Questo solleva questioni cruciali non solo dal punto di vista tecnico, ma anche etico.

Ma come si possono prevenire questi errori? Il libro dedica una sezione alle strategie utilizzate dalla scienza per ridurre i rischi e migliorare l’affidabilità delle scoperte. Tra queste, l’autore cita la peer-review nella ricerca accademica, il debugging nel software, i trial clinici randomizzati in medicina e l’uso della ridondanza strutturale in ingegneria, ovvero l’inserimento di margini di sicurezza nei progetti per evitare cedimenti improvvisi. Questi metodi mostrano che, pur non potendo eliminare completamente gli errori, è possibile limitarne gli effetti attraverso un’attenta verifica e un approccio sistematico.

Infine, Bellucci sottolinea come la scienza sia un processo collettivo: gli errori sono inevitabili, ma è proprio grazie al metodo scientifico che possono essere individuati, corretti e trasformati in nuove conoscenze. Il progresso non è mai il risultato del lavoro di un singolo, ma della condivisione e della verifica incrociata tra esperti. In definitiva, Eppure non doveva affondare offre una panoramica affascinante su come anche i più clamorosi fallimenti possano diventare strumenti preziosi per migliorare la nostra comprensione del mondo e affinare le nostre tecnologie.

 

 

DEVIS BELLUCCI

Devis Bellucci, nato nel 1977, è un fisico, scrittore e divulgatore scientifico italiano. Ha conseguito la laurea in Fisica nel 2002 e il dottorato nel 2006 presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove attualmente ricopre il ruolo di ricercatore in Scienza e Tecnologia dei Materiali. La sua attività di ricerca si concentra principalmente sui biomateriali per applicazioni in ortopedia, odontoiatria e medicina rigenerativa.

Oltre alla carriera accademica, Bellucci è autore di numerosi romanzi e saggi. Tra le sue opere narrative si annoverano "La memoria al di là del mare" (2007), "L'inverno dell'alveare" (2010), "La ruggine" (2011), "La sete dei pesci" (2013) e "La cura" (2017). Nel campo della divulgazione scientifica, ha pubblicato "Materiali per la vita. Le incredibili storie dei biomateriali che riparano il nostro corpo" (2020) e "Eppure non doveva affondare" (2024), in cui esplora gli errori nella scienza e le loro conseguenze.

Come divulgatore, Bellucci ha collaborato con diverse testate, scrivendo di scienza, viaggi e cultura. È attivo anche sui social media, attraverso i quali condivide contenuti legati alla scienza e alla tecnologia.


Biochar, il carbone amico

Quando pensiamo al carbone, andiamo subito col pensiero all’inquinamento, a colonne di fumo nero e denso e alle città coperte di fuliggine di non tanti decenni orsono. E, nonostante i progressi tecnologici che hanno reso progressivamente meno inquinanti i sistemi di combustione del carbone, questa visione è ancora attuale, perché il carbone è ancora largamente usato in tutto il mondo nelle centrali per la produzione di energia elettrica (circa il 30% dell’energia elettrica mondiale è prodotta da centrali a carbone, fonte IEA - International Energy Agency).

Ma in questo articolo parliamo di un altro tipo di carbone che - al contrario - ha delle proprietà che lo pongono agli antipodi del carbone fossile e dei suoi utilizzi: questo prodotto si chiama biochar e la sua scoperta è relativamente recente, i primi studi scientifici si devono al professor Johannes Lehmann della Cornell University negli anni 80.

Il biochar è il residuo carbonioso ottenuto dalla combustione in assenza di ossigeno di biomassa (materia organica). Qualsiasi tipo di biomassa di origine vegetale o animale, sottoposta al processo di combustione in assenza di ossigeno – pirolisi – produce biochar. Evidentemente la materia di partenza (feedstock), influisce sulle caratteristiche chimiche del prodotto finale.

Proviamo, qui, a dare una breve panoramica globale delle qualità di questo composto e a focalizzare un aspetto di particolare interesse, ovvero la sua capacità di stoccare CO2, diventando, quindi, anche un elemento per contrastare l’immissione di gas a effetto serra in atmosfera.

COME SI FA IL BIOCHAR

Il carbone vegetale si fa dalla notte dei tempi; in tutta l’Europa mediterranea c’erano le carbonaie dove si bruciavano residui legnosi per produrre carbone, il biochar è l’evoluzione scientifica di questo sapere antico.

Oggi esistono sofisticate apparecchiature che per produrre il biochar attivano un processo di combustione lenta a temperature di circa 500-600 gradi Celsius in assenza di ossigeno.

A partire dal feedstock introdotto, si realizzano essenzialmente tre prodotti:

  • il biochar, ovvero la frazione solida del processo di pirolisi
  • il syngas, i residui gassosi del processo
  • il bio-olio, residuo liquido del processo

In realtà la questione è più complessa e se il processo di combustione prevede la presenza di limitate quantità di ossigeno, parliamo di “gassificazione” e l’output del processo è diverso.

Tuttavia, concentrandoci sul solo biochar, esso viene prodotto essenzialmente a partire da biomassa vegetale, residui legnosi di qualsiasi origine.

Si comprende facilmente che questo tipo di processo permette l’utilizzo e la valorizzazione circolare di materiale che altrimenti andrebbe disperso o bruciato senza alcun vantaggio. Parliamo dei residui di potature, sfalci, rami degli alberi che diventano tronchi puliti destinati alle segherie per usi industriali.

E su questo punto va aperta una parentesi: i boschi vanno gestiti e i piani di tagli programmati non solo non arrecano alcun danno ma, al contrario, fanno bene alla salute dei boschi.

Il problema è il disboscamento selvaggio e illegale (che non esiste in Europa), non certo la gestione forestale sostenibile che prevede dei tagli programmati mirati a rinforzare lo stato di salute del bosco o della foresta.

Nel processo di pirolisi, fatto cento in quantità il feedstock, la resa è del 25 – 30% circa, ovvero si ottiene, dalla combustione della massa vegetale, il 30% di biochar.

Ne risulta un prodotto simile alla carbonella che si usa per i barbecue, ma più fine, le cui caratteristiche principali sono la porosità, la capacità di trattenere l’acqua, il potere alcalinizzante dei terreni.

APPLICAZIONI IN AGRICOLTURA

Il biochar può essere utilizzato in agricoltura, come filtro nella depurazione di acque inquinate, nell’edilizia come materiale per l’isolamento, nella produzione di biocarburanti.

Ma il suo utilizzo attualmente più diffuso e importante è quello agricolo.

Distribuito sui terreni è un potente ammendante[1], quindi migliora la qualità chimiche, fisiche e biologiche dei terreni, rendendoli molto più produttivi e contrastando gli effetti della siccità perché trattiene l’acqua nei terreni.

Immesso nel terreno, il biochar aumenta il ph, quindi rende la terra più alcalina, aumenta la disponibilità di acqua, migliora le condizioni di sviluppo delle radici, migliora l’apporto e l’assorbimento di nutrienti per le piante, aumenta la resistenza alle malattie e ai fattori di stress ambientale.

In pratica, è una specie di potentissimo ricostituente dei terreni.

In funzione del tipo di terreno di cui si vogliono migliorare le caratteristiche chimico – fisiche, si potranno produrre diversi tipi di biochar (variando la composizione del feedstock e le condizioni di pirolisi) che daranno risposte mirate per obiettivi specifici. Risultati eccellenti si stanno raggiungendo con i terreni aridi, sabbiosi, sovrasfruttati.

BIOCHAR E ATMOSFERA

Ma c’è un’altra caratteristica di grande interesse di questo prodotto, esso è efficace per il sequestro di CO2 dall’atmosfera.

Infatti, al termine del processo di produzione, la CO2 presente nel materiale vegetale viene mineralizzata e quindi “intrappolata” nel biochar. Circa il 90% di questa CO2 resta inglobato nella struttura molecolare del prodotto che rimane stabile per centinaia di anni.

È bene precisare che è giusto parlare di sequestro e non di stoccaggio della CO2 in quanto si tratta di carbonio di origine vegetale fotosintetizzato a partire da CO2 atmosferica.

In questo modo il biochar diventa anche uno strumento di lotta all’effetto serra, e infatti la sua produzione permette anche di emettere crediti di carbonio (al termine di un processo di certificazione) da vendere sul mercato volontario (quindi non per le aziende obbligate a compensare le proprie emissioni).

Che i boschi bruciati rinascano velocemente e con grande forza è un fenomeno conosciuto da sempre; una delle ragioni che determinano questa situazione è la modifica delle caratteristiche del suolo dovuta alle ceneri. È esattamente ciò che fa il biochar.

A volte la scienza va avanti guardando al passato.

 

 

PER APPROFONDIRE

Ichar, Associazione Italiana Biochar

International Biochar Initiative

Unibo, Biochar, presente e futuro

 

NOTE

[1] La differenza tra una sostanza ammendante e un fertilizzante è che la prima interviene sulla struttura del suolo e apporta migliorie stabili nel tempo, i fertilizzanti sono solo l’immissione nel terreno di sostanze nutritive che vengono utilizzate e consumate dalle piante.


Deskilling e Diverse Skilling - La trasformazione delle competenze nell'era digitale

L'innovazione tecnologica ha rivoluzionato il nostro modo di vivere e lavorare, delegando molte attività a strumenti digitali. L'adozione di queste tecnologie genera due importanti dinamiche che impattano le competenze umane: il fenomeno del deskilling e quello del diverse skilling.

Da un lato, il deskilling indica la perdita di competenze necessarie a svolgere un'azione, che viene – invece - affidata a una macchina. Dall'altro lato, il diverse skilling sottolinea la trasformazione  delle competenze del fare in quelle dell'uso e della gestione della macchina che fa.

IL FENOMENO DEL DESKILLING

Il termine deskilling indica la progressiva perdita delle competenze necessarie a svolgere un'attività specifica, fenomeno che si verifica quando un'azione che era abitualmente eseguita da una persona umana viene completamente delegata a uno strumento tecnico o tecnologico. In particolare, nel corso di questo XXI secolo, si tratta di strumenti di automazione digitali.

Un esempio emblematico è quello della calcolatrice: l'introduzione di questo strumento ha ridotto la necessità di eseguire calcoli complessi manualmente. Analogamente, i sistemi di navigazione satellitare hanno reso quasi superflua la capacità di leggere mappe o orientarsi con elementi naturali.

In ambito lavorativo, il deskilling è maggiormente evidente nei settori industriali oggetto di processi di progressiva automazione, settori in cui operai - che un tempo padroneggiavano procedure complesse - ora supervisionano processi gestiti da robot; oppure nei settori dei servizi, in cui numerose attività svolte tradizionalmente da umani – come, ad esempio, l’assistenza ai clienti – iniziano ad essere gestite da bot[1], sistemi automatici digitali che trovano spesso applicazione nelle chat o nei numeri telefonici di assistenza ai clienti: trascrivono e interpretano il linguaggio naturale parlato o scritto, estraggono i riferimenti delle richieste e provano (spesso senza successo, va detto) a dare delle risposte.

Questo fenomeno ha conseguenze significative sia sui processi che sui lavoratori . Da un lato, possono aumentare l'efficienza e ridurre gli errori; dall'altro, portano – sicuramente - ad una progressiva dipendenza dagli strumenti utilizzati e all’oblio delle competenze che permettono ad un umano di fare quel lavoro.

La perdita di competenze pratiche, quelle del fare può avere effetti devastanti: dal punto di vista industriale, infatti,

  • riduce la comprensione del processo, in cui l’azione dello strumento, diventato una black box in cui viene immesso qualcosa e che produce qualcosa di diverso, viene data per scontata
  • diminuisce la possibilità di integrazione umana manuale in caso di errori o di malfunzionamenti
  • segrega le conoscenze di come funziona il passo di processo automatizzato tra gli esperti della tecnologia, del progettare (informatici, meccanici, fisici, chimici) che hanno progettato l’automatismo e che, frequentemente, non partecipano per nulla al processo produttivo, togliendole – invece - a chi il processo produttivo lo vede o lo gestisce quotidianamente
  • riduce, quindi, la possibilità di miglioramento della qualità del prodotto – che continua a dipendere dal processo di realizzazione – ai soli momento di re-engineering istituzionalizzato, perdendo il contributo degli esperti del fare, operai e impiegati

Dal lato di chi lavora, invece, riduce l'autonomia dell'individuo, del lavoratore, annulla il valore del suo contributo professionale, e può generare significative ripercussioni sul piano psicologico e sociale.

IL CONTRAPPESO DEL DIVERSE SKILLING

In contrapposizione al deskilling, il diverse skilling è la traslazione delle competenze dall'esecuzione diretta di un compito ,il fare, alla gestione dello strumento che lo compie. Questo fenomeno non implica la perdita totale delle abilità, ma una loro trasformazione e adattamento.

Tornando agli esempi precedenti, l'uso di una calcolatrice richiede la comprensione dei meccanismi logici sottostanti, così come l'interpretazione di dati forniti da un sistema di navigazione richiede la capacità di valutare le condizioni reali del contesto.

In ambito lavorativo, l'automazione può portare gli operai a sviluppare competenze di monitoraggio e di manutenzione delle tecnologie di automazione i sistemi, rendendo necessarie conoscenze più avanzate, come quelle informatiche o ingegneristiche.

Un caso esemplare è stato quello della vulcanizzazione degli pneumatici: negli anni ’80, in una grande azienda industriale italiana, le attività manuali – svolte dai caposquadra – di pianificazione della produzione, delle singole macchine vulcanizzatrici, seguite – in corso di produzione – dalle vere e proprie attività di preparazione e di attrezzaggio delle macchine, sono state sostituite da sistemi informatici che permettevano di effettuare una programmazione efficace ed efficiente per la giornata o la settimana e – sulla base del conteggio automatizzato dei pezzi e delle attività, indicavano al capoturno sulla consolle di controllo quando fosse opportuno intervenire per la manutenzione oppure per il cambio di attrezzaggio programmato per una diversa lavorazione.

In questo caso, il personale ha potuto intervenire nella fase di progettazione per dare le necessarie indicazioni competenziali a chi progettava i sensori, i contatori e il software, in fase di test per controllare se il funzionamento dell’automatismo fosse in linea con le indicazioni e le esigenze e, infine, ha completato la traslazione competenziale con corsi di formazione che hanno permesso alle operaie e agli operai di gestire in autonomia i sistemi automatici e di dare indicazioni su come migliorarne il funzionamento nel tempo.

Il diverse skilling rappresenta, quindi, una forma di resilienza umana all'innovazione tecnologica. Mentre alcune competenze si perdono, altre vengono acquisite, spesso più complesse e specializzate. Questo fenomeno può favorire una maggiore produttività e migliorare la qualità del lavoro, ma non è privo di sfide: la transizione richiede risorse significative in termini di formazione e adattamento culturale e rappresenta – probabilmente – un importante cambiamento sociale guidato delle rivoluzioni tecnologiche.

UN CONFRONTO CRITICO

Il confronto tra deskilling e diverse skilling solleva interrogativi sulla direzione e sulle conseguenze del cosiddetto progresso tecnologico.

Da un lato, il deskilling è un rischio per la sostenibilità delle competenze umane, soprattutto quando interi settori lavorativi si trasformano rapidamente, lasciando molte persone senza le capacità necessarie per adattarsi.

Dall'altro, il diverse skilling dimostra che il cambiamento tecnologico può non annullare le competenze, ma – sotto alcune condizioni – può favorirne un riallineamento verso nuove frontiere di apprendimento.

Il punto di equilibrio – o di crisi - sta certamente nell'accessibilità: non tutti gli individui e non tutti i contesti sociali sono in grado di affrontare il passaggio dal deskilling al diverse skilling.

La focalizzazione delle imprese sull’incremento di efficienza, che va sempre letto come riduzione dei costi di produzione e contestuale aumento della produttività, spesso non contempla investimenti volti a ridurre le lateralità della trasformazione tecnologica.

Questo significa minori opportunità di formazione e infrastrutture dedicate alla transizione verso un diverse skilling e, come conseguenza, amplifica le disuguaglianze, creando una società divisa tra chi detiene le nuove tecnologie, chi le padroneggia e chi ne è escluso.

Nel mondo delle imprese si sente dire che “non si progredisce senza cambiare”, ma il cambiamento è una trasformazione che – purtroppo - non è alla portata di tutti e - spesso - non è portatore di maggiore benessere.

Ad esempio, in settori come la medicina o l'ingegneria, affidarsi completamente alla tecnologia senza mantenere competenze critiche e intuitive può avere conseguenze disastrose.

CONCLUSIONI

Il deskilling e il diverse skilling non sono – quindi - fenomeni mutuamente esclusivi, ma due facce della stessa medaglia. Mentre il primo evidenzia i rischi di una delega eccessiva alla tecnologia, il secondo dimostra la capacità dell’umano di adattarsi e innovarsi, migliorando di fatto la qualità delle sfide che affronta.

Per massimizzare i benefici e minimizzare i rischi, è essenziale – però – che gli innovatori promuovano strategie formative e lavorative che facilitino il diverse skilling, senza trascurare l'importanza delle competenze di base.

In un mondo sempre più automatizzato, il futuro del lavoro e dell'apprendimento dipenderà dalla capacità di bilanciare innovazione tecnologica e adattamento delle abilità umane. Solo così sarà possibile costruire una società in cui la tecnologia sia uno strumento di emancipazione e non di alienazione.

 

 

NOTE

[1] I bot sono sistemi automatici digitali che trovano spesso applicazione nelle chat o nei numeri telefonici di assistenza ai clienti: trascrivono e interpretano il linguaggio naturale parlato o scritto, estraggono i riferimenti delle richieste e provano a dare delle risposte.

 


La morale della storI.A. - Corpus documentali, training e decisioni

GENTE DI TROPPA FEDE

Nel libro Paura della scienza Enrico Pedemonte racconta che nel Kentucky, a Petersburg, il pastore australiano Ken Ham ha investito 27 milioni di dollari per costruire un parco tematico in cui la storia della Terra viene esposta secondo il punto di vista della Bibbia. Dalla sua fondazione, nel 2007, il Creation Museum ha accolto oltre 3 milioni e mezzo di visitatori, che hanno potuto vedere con i loro occhi come il nostro pianeta non conti più di 6.000 anni di vita, e come i dinosauri esistessero ancora durante il Medioevo – quando San Giorgio e gli altri cavalieri li hanno sterminati, scambiandoli per draghi. Ai tempi di Dante il WWF avrebbe raffigurato la minaccia di estinzione con un povero tirannosauro, bullizzato da giovanotti di buona famiglia in armatura rilucente – altro che panda.

Una porzione molto ampia dell’opinione pubblica coltiva un rapporto con l’intelligenza artificiale paragonabile a quello che gli abitanti della «Bible Belt» americana nutrono nei confronti della storia: una fede che libera da ogni fatica di studio e approfondimento. Solo che gli imbonitori delle fantasticherie tecnologiche non hanno nemmeno bisogno di cimentarsi nella fatica di costruire parchi a tema per persuadere i loro spettatori: non mancherebbero i mezzi, visto che tra le loro fila si schierano personaggi come Elon Musk e Sam Altman. Nel film fantasy di portata universale che propone l’AGI come un evento imminente, i ruoli sembrano invertiti: il computer che raggiungerà l’intelligenza artificiale generale viene descritto come un vero drago di talento e raziocinio, con personalità propria, autonomia di giudizio, memoria illimitata, conoscenze smisurate, lucidità strategica, sottigliezza logica, e (perché no?) cinismo teso al dominio sull’uomo e sull’universo. Cosa potrà fare un San Giorgio moderno, negli abiti di un programmatore nerd, o di un eroico poeta in carne e ossa, o di un chirurgo che si prodiga per la salute dei suoi pazienti, o di un giudice che brama difendere la giustizia quanto Giobbe davanti a Dio – cosa potranno questi santi laici di fronte a un mostro simile?

Nick Bostrom ha avvisato più di dieci anni fa che se dovesse comparire questa forma di intelligenza, per tutti noi e i nostri santi sarebbe già troppo tardi, perché la macchina che raggiungesse le prestazioni dell’AGI non si fermerebbe al nostro livello di razionalità, ma crescerebbe a intensità esponenziale, conquistando gradi di perspicacia tali da impedire la scoperta delle sue manovre, e da inibire l’interruttore di spegnimento.

TOSTAPANI CON TALENTO PER LA STATISTICA

Ma è davvero così?

L’AGI è grande, e ChatGPT è il suo profeta: molti lo considerano tale. Il software di OpenAI è stimato l’avanguardia nel settore dell’intelligenza artificiale, grazie al marketing che gli ex e gli attuali soci fondatori hanno animato intorno alle sue prestazioni: il licenziamento di Sam Altman da CEO nel novembre 2023, rientrato dopo meno di una settimana, e le polemiche con Elon Musk, hanno contribuito ad amplificare il clamore intorno ai prodotti dell’azienda californiana. Ma se proviamo ad aprire l’armatura che protegge la macchina, ed esaminiamo l’euristica del suo funzionamento, troviamo un dispositivo che calcola quale dovrà essere la prossima parola da stampare nella sequenza sintattica della frase, sulla base del grado maggiore di probabilità che il lemma possiede nel campo semantico in cui compare il suo predecessore. I campi semantici sono strutture matematiche in cui ogni parola è convertita in un vettore che misura la frequenza delle sue occorrenze accanto alle altre parole, nel corpus di testi che compongono il database di training. Per esempio, il lemma finestra compare con maggiore frequenza vicino a casa, strada, balcone; la sua presenza è meno probabile dopo transustaziazione o eucaristia

Naturalmente ChatGPT è un prodigio di ingegneria, perché calcola (al momento) 1.500 miliardi di parametri ad ogni parola che viene aggiunta nella sequenza proposizionale; ma in ogni caso non ha la minima idea di cosa stia dicendo, non sa nemmeno di stare parlando, non ha alcuna percezione di cosa sia un interlocutore e che esista un mondo su cui vertono i suoi discorsi. Lo provano i «pappagalli stocastici» che ricorrono nelle sue composizioni: gli errori che possono apparire nelle sue dichiarazioni non violano solo le verità fattuali (quali possono essere inesattezze di datazione, citazioni false, e simili), ma aggrediscono la struttura delle «conoscenze di Sfondo», la logica trascendentale che rende possibile l’esperienza stessa. Per i testi redatti da ChatGPT un libro pubblicato nel 1995 può citare saggi usciti nel 2003 o descrivere una partita di Go avvenuta nel 2017: l’eloquio del software è infestato da allucinazioni che provano l’assenza di comprensione, in qualunque senso del termine intelligente, di ciò che significa la sequenza dei significanti allineati dal suo chiacchiericcio. Un dispositivo che non mostra alcun intendimento dell’esistenza del mondo, e delle sue configurazioni più stabili, non è nemmeno in grado di perseguire obiettivi autonomi, di giudicare, stimare, volere, decidere. ChatGPT è un software con l’intelligenza di un tostapane, e uno smisurato talento per il calcolo della probabilità nella successione delle parole.

COSA DICE L’I.A. SUGLI UMANI

Come se la passano i fratelli, i cugini e i parenti vicini e lontani di ChatGPT?

Consideriamo il caso esemplare, descritto da Gerd Gigerenzer, del software COMPAS adottato dai tribunali americani per collaborare con i giudici nella valutazione della libertà sulla parola. Ogni anno la polizia degli Stati Uniti arresta circa dieci milioni di persone, e il magistrato deve stabilire se convalidare l’imprigionamento o lasciare libero il cittadino, sulla base della convinzione che non reitererà il reato. COMPAS ha contribuito ad emanare circa un milione di sentenze, dopo essere stato formato sull’intera giurisprudenza depositata nei provvedimenti di ogni ordine e grado dei tribunali americani. L’analisi delle sue proposte ha evidenziato una serie di pregiudizi che discriminano per colore della pelle, genere, età e censo, sfavorendo gli uomini neri, giovani, che provengono da quartieri poveri. Tuttavia la penalizzazione a sfondo razziale che è implicita nelle decisioni del software non proviene dal carattere ghettizzante dell’intelligenza artificiale: la macchina non ha autonomia di giudizio, ma sintetizza le opinioni catalogate nell’archivio delle ordinanze dei magistrati in carne e ossa, che sono i reali agenti dei preconcetti e dell’intolleranza di cui il dispositivo digitale è solo il portavoce. La convinzione che la sospensione del ricorso all’IA, in favore dell’autonomia di delibera da parte dei giudici umani, possa mettere a tacere l’intolleranza che serpeggia tra le valutazioni del software, è un’illusione come l’Eden del Creation Museum: gli autori dei testi da cui COMPAS ha appreso il funzionamento del suo mestiere continueranno ad applicare i principi – più o meno inconsapevoli – del razzismo che innerva la società americana e l’upper class giuridica. 

Al pregiudizio concettuale i magistrati umani aggiungono anche le deviazioni dettate dalla loro fisiologia. Uno studio congiunto della Columbia Business School e della Ben-Gurion University pubblicato nel 2011 ha dimostrato che i giudici scelgono con la pancia – e lo fanno in senso letterale, poiché i verdetti diventano sempre più severi quanto più ci si allontana dall’orario dei pasti. Almeno i software non sono sensibili ai morsi della fame. 

Nemmeno vale la pena di coltivare illusioni sul miglioramento del trattamento dei candidati per le selezioni dei posti di lavoro: gli uffici del personale che abbandonano la lettura dei curricula ai dispositivi di IA (che a loro volta hanno imparato a discriminare nel training sul database delle assunzioni precedenti) non sarebbero pronti a compiere valutazioni migliori – con ogni probabilità si limiterebbero a non leggere i CV.

RATING UNIVERSALE E ALTRI ANIMALI FANTASTICI

Gigerenzer invita a verificare con cura i numeri divulgati dagli uffici marketing e dai giornalisti affamati di sensazionalismo: ne abbiamo già parlato in un altro articolo su Controversie.

La convinzione che qualche nazione sia in grado di gestire un calcolo del rating sociale di ciascuno dei suoi cittadini appartiene al repertorio degli effetti dei mass media per la generazione del panico. L’opinione che la Cina sia in grado di praticarlo, con quasi 1,4 miliardi di abitanti, è ancora meno credibile. Per allestire un processo di portata così vasta occorre una potenza di calcolo che al momento non può essere gestita da alcuna infrastruttura tecnologica. La realtà di questo progetto è assimilabile a qualcuno degli animali del bestiario del Creation Museum, qui a beneficio della propaganda del regime di Pechino e della sua aspirazione a gonfiare muscoli informatici inesistenti. Il governo cinese razzia dati sui cittadini anche dalle imprese che rilasciano servizi di comunicazione e di ecommerce, con l’obiettivo di armare sistemi di controllo di larga scala, che l’Unione Europea ha già vietato con l’AI Act entrato in vigore lo scorso luglio. Senza dubbio è una giusta preoccupazione prevenire simili tentazioni di amministrazione della distribuzione delle utilità sociali; ma il focus su questa minaccia sembra al momento meno urgente della normativa che obblighi i produttori di software a pubblicare le euristiche con cui funzionano i dispositivi di intelligenza artificiale. La consapevolezza che l’euristica alla base di ChatGPT è il calcolo della parola con maggiore probabilità di trovarsi subito dopo quella appena stampata, avrebbe liberato il pubblico dall’ansia e dall’euforia di marciare sulla soglia di un’AGI pronta a rubare il lavoro e a giudicare gli imputati, imminente al prossimo cambio di stagione. Avrebbe anche sterminato le occasioni per Musk e Altman di favoleggiare risultati miracolosi nel marketing dei loro prodotti – più spietatamente di quanto San Giorgio massacrasse dinosauri. 

I rischi più realistici riconducibili all’intelligenza  artificiale riguardano proprio la trasparenza delle euristiche, la bolla finanziaria indotta da società prive di un modello di business (come OpenAI), le attese senza fondamento alimentate da società di consulenza e da formatori improvvisati, il monopolio sui modelli fondamentali già conquistato da pochi giganti della Silicon Valley, il tentativo di accaparrarsi lo sviluppo dell’intero settore da parte di personaggi con finalità politiche ed economiche come Musk e Altman.

Chi costruisce Creation Museum di ogni tipo non ha mai come scopo la divulgazione; dovrebbe essere compito degli intellettuali tornare a smascherare i draghi di questi impostori, come coraggiosi San Giorgio della ragione.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Bostrom, Nick, Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies, Oxford University Press, Oxford 2014. 

Bottazzini, Paolo, La fine del futuro - I.A. e potere di predizione, «Controversie», 10 settembre 2024.

ChatGPT-4, Imito dunque sono?, Bietti Edizioni, Milano 2023.

Danziger, Shai; Levav, Jonathan; Avnaim-Pesso, Liora, Extraneous factors in judicial decisions, «Proceedings of the National Academy of Sciences», vol. 108, n.17, 2011.

Gigerenzer, Gerd, How to Stay Smart in a Smart World Why Human Intelligence Still Beats Algorithms, Penguin, New York 2022. 

Pedemonte, Enrico, Paura della scienza, Treccani Editore, Torino 2022.


Necro-spider hand - Due facce della medaglia della tecnoscienza

Si dice che divertirsi aiuti a rilassarsi, ad imparare più facilmente e, anche, ad essere più creativi.

Sembra assodato che il divertimento sia un tassello fondamentale della vita quotidiana e sembra che sia importante anche nella vita e nel lavoro degli scienziati. 

Anche durante la ricerca scientifica, è utile trovare il giusto divertimento, così da poter "scoprire ridendo". 

Su questa linea di pensiero è stato pensato il premio IgNobel, un riconoscimento che «onora risultati di ricerca così sorprendenti da far prima RIDERE e poi RIFLETTERE»; il premio  vuole «celebrare l’inusuale, premiare l’immaginifico e suscitare interesse, nel grande pubblico, per le scienza, la medicina, le tecnologie».  

Le ricerche che portano alla vittoria di questo tanto ambito premio – dieci vincitori ogni anno - sono pubblicate sulla rivista umoristico-scientifica Annals of Improbable Research, che raccoglie studi su argomenti strani, inaspettati e che dimostrano quanto gli scienziati si divertano a fare ricerca.

In questo post parliamo di un premio IgNobel del 2023, quello assegnato a Te Faye Yap, Zhen Liu, Anoop Rajappan, Trevor Shimokusu, and Daniel Preston, “per aver rianimato ragni morti da usare come micro-strumenti meccanici di presa”.

Faye Yap e colleghi sono bravi ingegneri con un pizzico di eccentricità; immaginiamoli dopo una giornata di lavoro passata “tra bulloni e viti” a costruire una mano robotica, che notano un ragno morto sulla scrivania e – probabilmente  - pensano: «Ma non si potrebbe usare…».

Quello che potrebbe far pensare ad un episodio di Black Mirror,  è il risultato di una ricerca vera e sorprendentemente utile. Gli autori si sono ispirati alla fisiologia degli aracnidi, dando vita a una branca della meccanica che potremmo definire necrobotica.

La necrobotica è l'unione tra biologia e robotica, dove parti di organismi morti vengono riutilizzate come componenti robotici. In questo caso, i ricercatori hanno sfruttato le proprietà naturali del ragno per creare un dispositivo di presa micromeccanico.

I ragni muovono le loro zampe attraverso un sistema idraulico: pompando emolinfa nel loro esoscheletro, le zampe si estendono e quando la pressione diminuisce, si contraggono. Dopo la morte  il sistema idraulico del ragno non funziona più, ma la struttura meccanica rimane intatta. Inserendo un ago nel prosoma (la parte anteriore del corpo del ragno) e applicando una piccola quantità di aria pressurizzata, i ricercatori sono stati in grado di controllare l'apertura e la chiusura delle zampe, trasformando il ragno in una pinza naturale.

Figura 1 - Esempio di creazione della manina-ragno
(immagine tratta dall'articolo di Te Faye Yap, Zhen Liu,
Anoop Rajappan, Trevor Shimokusu, and Daniel Preston)

Questo sistema ha dimostrato di essere sorprendentemente efficace: il ragno "cyber-zombificato" può afferrare oggetti fino a 130 volte il proprio peso. 

Si possono immaginare le applicazioni in micro-ingegneria o in situazioni dove sono necessari strumenti delicati e biodegradabili.

Figura 2 - Esempi di utilizzo della manina-ragno
(immagine tratta dall'articolo di Te Faye Yap, Zhen Liu,
Anoop Rajappan, Trevor Shimokusu, and Daniel Preston)

Sfortunatamente, la durata funzionale della pinza-ragno era limitata a circa due giorni dopo la morte del ragno, a causa della disidratazione che rendeva le articolazioni più fragili e suscettibili a fratture meccaniche nel tempo. 

A cosa può veramente servire questa ricerca? 

Questa tecnologia potrebbe essere impiegata nell'assemblaggio di microelettronica o per la cattura di insetti nel loro habitat naturale. Infatti, la pinza-ragno è in grado di afferrare oggetti delicati e con geometrie particolari, come solo un aracnide può fare. È anche possibile modulare la forza di presa variando la pressione applicata, per applicazioni che richiedono forze dell'ordine di decine o centinaia di micronewton.

Studiare la forza di presa in ragni di diverse dimensioni o specie potrebbe portare a una comprensione più approfondita della relazione tra le dimensioni del ragno e la forza esercitata. I futuri lavori potrebbero includere l'esplorazione di metodi di rinforzo per migliorare la durata e la robustezza della pinza necrobotica, magari con qualche trattamento antietà per mantenere le articolazioni ben lubrificate.

Questa innovazione è una prova del fatto che possiamo imparare molto dalla natura, facendoci dare darci una mano nel migliorare le tecnologie attuali. 

Infatti, la progettazione e la fabbricazione dei robot tradizionali comportano spesso processi complessi e tediosi. La necrobotica, tuttavia, bypassa gran parte del processo di fabbricazione incorporando componenti robotici all’interno di materiali biologici (e anche a chilometro zero) - o viceversa.

Un altro elemento da considerare è che le applicazioni della necrobotica sono realizzate per la maggior parte con materiali biodegradabili e, quindi, non contribuiranno al crescente flusso di rifiuti tecnologici – costituendo un significativo passo per l'ecosostenibilità.

DUE CONCLUSIONI, DUE FACCE DELLA MEDAGLIA

In conclusione, da un lato sembra evidente che il divertimento e la stranezza debbano essere i benvenuti nei laboratori di ricerca e che questi possono portare stimoli e idee tanto simpatici quanto utili per quella cosa che Latour definisce tecnoscienza.

Dall’altro lato, questa storia ci ricorda che “la natura” e gli animali considerati inferiori - in questo caso i ragni - vengono ancora utilizzati per la ricerca e per scopi di innovazione tecnologica con assoluta noncuranza per una loro possibile soggettività e capacità di vivere e sentire in modo complesso: «Il materiale biologico grezzo (i cadaveri dei ragni) venne procurato praticando l’eutanasia attraverso l’esposizione a temperature di congelamento (circa - 4°) per un periodo di circa 5-7 giorni».

 

BIBLIOGRAFIA

Te Faye Yap, Zhen Liu, Anoop Rajappan, Trevor J. Shimokusu, Daniel J. Preston. Necrobotics: Biotic Materials as Ready-to-Use Actuators. DOI: https://doi.org/10.1002/advs.202201174. Link diretto allo studio: https://onlinelibrary.wile


Ridiamo delle macchine? – Seconda parte

IL DISTRATTO E L’OSTINATO

Torniamo, per un’ultima volta, all’esempio dell’inciampo. Chiediamoci: quando affermiamo, nel corso dell’analisi, che la corsa dell’uomo che inciampa è fin troppo meccanizzata? Soltanto quando è già intervenuto un elemento di disturbo - un ciottolo, un’irregolarità, un imprevisto - che interrompe il regolare corso di un’abitudine. Fino a quel momento, fin quando egli non era caduto, l’idea o la sensazione di ridere non ci aveva minimamente sfiorato. Sarebbe evidentemente contro fattuale asserire che ridiamo di ogni abitudine, benché le abitudini siano, in qualche grado, una ripetizione. Con la caduta, l’abitudine contratta diventa immediatamente risibile, ma contemporaneamente è diventata «troppo meccanica», «abitudine irrigidita», e così via. L’elemento di disturbo non ha semplicemente «mostrato» l’abitudine troppo meccanica, ma l’ha in qualche modo determinata, l’ha resa per ciò stesso troppo meccanica per la realtà con cui è entrata in contrasto: la «rigidità di meccanismo» e «l’elemento di disturbo» nascono in unisono, laddove fino all’attimo prima operavano congiuntamente.

Tutto ciò ci permette di proporre una questione alternativa, nata in seno alla divisione delle due ragioni precedentemente espresse: il riso, in questa sua funzione squisitamente sociale, non è forse, piuttosto che essere il castigo di ciò che è umanamente troppo meccanizzato, il meccanismo sociale ad un tempo di razionalizzazione e oggettificazione per carpire e respingere ciò che di imprevedibile tocca l’abitudine?

Consideriamo i due casi del «distratto» e dell’ «eccentrico» o «ostinato», entrambi citati da Bergson[1]. Quando rido del distratto, in superficie irrido ciò che c’è di troppo meccanismo nei suoi atti, mentre in profondità la risata è l’atto stesso con cui allontano e oggettivo da me, singolo o società, l’evento dell’imprevedibilità che colpisce «qualcuno sino ad allora come me». Il riso è un atto di differenziazione non da ciò che è “troppo meccanico”, ma da ciò che è stato reso “troppo meccanico”, e dalla forza che è responsabile d’essersi “impossessata” di quell’abitudine: non allontano solamente il soggetto divenuto oggetto, ma in pari tempo la forza che ha reo possibile quell’oggettificazione. È qualcosa che Bergson tocca, seppur fugacemente e con gran dose d’ambiguità, nelle battute finali dell’opera: il riso, come il sogno, «è distacco».

Quando, diversamente, irrido colui che è ostinato oltre ogni ragione, in superficie posso sì affermare che, nuovamente, sto deridendo ciò che v’è di troppo meccanico in questi atti, ma la risata è, in profondità, il preciso meccanismo con cui allontano e dissacro ciò che v’è di imprevedibile negli atti di qualcosa che si «discosta dal centro comune».

Dell’ostinato non ridiamo per via della sua ostinazione, ma per il timore che ispira l’inintelligibilità delle sue ragioni, come il «raccapricciante e imprevedibile» citato da Friedrich Nietzsche (Aurora, p. 17) Infatti, si dovrà pur spiegare perché il folle ispiri così profondamente la coscienza comica.

Con buona pace di Bergson, la vergogna e la colpa impiegate dal riso, «intimidire umiliando» (Cit, p.98) della società non sarebbero dunque la vita vivente e mutevole che castiga ciò che c’è di «troppo automatizzato nella volontà» (Cit. p.94), ma i mezzi diretti per la gestione dell’imprevedibilità. Il riso è strumento dell’economia dell’imprevedibile.

Ridiamo del distratto e dell’ostinato, ma mentre nel primo caso l’evento comico è separato dal soggetto - «Giovanni non è la sua caduta», ma rido contemporaneamente di «Giovanni caduto» e della forza che ha fatto sì che egli divenisse quella forma oggettiva e meccanica -, nel secondo caso l’ostinazione fa tutt’uno con il soggetto - la forza che ha oggettificato il distratto è esterna, la forza che ha stravolto l’ostinato è interna. Non ci vendichiamo dei distratti ma degli ostinati.

Se dovessimo dare una semplicistica differenziazione basata sul binomio volontà-mondo, il distratto intimorisce l’intromissione del mondo negli eventi che provocano un errore, l’ostinato intimorisce per l’intromissione di qualcosa di imprevisto o irregolare nella volontà stessa del soggetto, più che del mondo.

Il riso diretto al distratto distanzia il ridente dall’oggettificazione di una volontà per via di un elemento di intromissione che se ne è come “impossessato”, il riso verso l’ostinato è esso stesso l’atto con cui si tenta di oggettificare una volontà - sbagliato.

Allora, dopo aver detto tutto ciò, ritorniamo a chiederci: ridiamo delle macchine? La risposta di Bergson è doppia: non ridiamo di ciò che è meccanico in quanto tale, ma se ne ridiamo è all’opera una qualche forma di antropomorfosi, un’analogia. Di conseguenza, nella e della macchina non c’è nulla che spieghi la funzione sociale del riso. Eppure, da ciò che si è scritto consegue un’ipotesi alternativa e correlativa.

Non ridiamo delle macchine, non perché queste non partecipano della variabile variabilità che contraddistingue la vita, ma in quanto non partecipano di ciò che comunemente si intende come essenza della volontà, ossia l’imprevedibilità, e la forza di quest’imprevedibilità di trasformare la stessa volontà in cose.

Perché la volontà vuole per sé quell’imprevedibilità che proviene dalla forza dell’ignoto, essa vuole oggettificare ma non vuole essere oggettificata.

 

NOTE

[1] Cfr, H. Bergson, Il riso


Ridiamo delle macchine? – Prima parte

SARTI E ANTROPOLOGI

Alle volte un vestito bisogna smantellarlo per intero perché dalla sua stoffa si possa far nascere qualcosa di nuovo. Altre volte, piuttosto che disfare è meglio tagliare per intromettervi quanto basta, un singolo filo che ne alteri certe piegature, le enfatizzi, produca nuove forme. Per usare un concetto recentemente espresso dall’antropologo Tim Ingold, tra la veste e questo nuovo filo non c’è un rapporto di determinazione quanto piuttosto un’attività di corrispondenza[1]: tra tessuto e filo ci devono essere tensione e risposta reciproca. È come per la costruzione di un cesto di vimini[2], dove progetto prefigurato e materialità dello stelo si incontrano nel reciproco rapporto di corrispondenza attraverso l’arco di tempo della sua realizzazione.

È il medesimo rapporto che c’è tra la domanda che dà il titolo al presente articolo e il saggio de Il riso pubblicato da Henri Bergson nel 1907: Ridiamo delle macchine? Posta la questione, è necessario ripercorrere il testo del filosofo francese. E sì, è una domanda che l’opera originaria non contiene, eppure è altresì erroneo proporla come domanda nuova: è in qualche forma presagita. Se dovessimo parlare per immagini semplici, forse potremmo dire che più che andare per una nuova via è scoprire una traccia sotterranea.

DEFINIZIONE DEL COMICO

Ridiamo delle macchine? Partiamo dal basso, direbbe Bergson (Il riso. Saggio sul significato del comico, Feltrinelli, 2017, p. 69), dalla disamina di alcuni esempi: all’apparenza, non troviamo nulla di risibili e comico nel meccanico andamento di una catena di montaggio, o nel funzionamento regolare delle nostre apparecchiature elettroniche. Per quanto ci sforziamo, questi singoli casi rimangono muti: non destano il riso, e ancor meno sono in grado di mostrarci la ragione precisa di questa mancanza. Insomma, non soltanto non ne ridiamo, ma non sappiamo spiegarci perché.

Variamo leggermente gli esempi: se immaginiamo un tale che, tornato a casa dal lavoro in fabbrica, tratta le vicende familiari con la medesima meccanicità con cui lavora, ecco che avremo creato il tipo squisitamente comico del distratto (Cit. p. 9): mette il pannolino al cane al posto del figlio, invece degli avanzi di cibo butta via i piatti, e alla moglie che richiede le sue tenere attenzioni replica innervosito «cara, non è ancora finito il mio quarto d’ora di pausa» (Questa è definita da Bergson come la forma comica dell’indurimento professionale; H. Bergson, Il riso, p. 89).

Ancora, quando in certe apparecchiature interviene un malfunzionamento, tutt’a un tratto la scena può diventare comica: ridiamo della lentezza del motore di ricerca paragonandolo ad un anziano - «who wins in a speed competition: internet explorer or Joe Biden?»; ancora, c’è qualcosa di risibile nell’apparente ostinazione con cui alcune aspirapolveri automatiche continuano a battere sul medesimo muro senza «voltarsi».

Ripartiamo dalle parole di Bergson: non è comico ciò che è meccanico, ma lo è «il meccanico applicato a qualcosa di vivente» (Cit. p. 9), poiché «non v’è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano» (Cit. p. 9). Da ciò derivano due principi, condizioni sufficienti del riso: anzitutto, perché vi sia riso è necessaria una momentanea insensibilità, una soppressione di empatia, «dove la persona altrui non più ci commuove, là solamente può cominciare la commedia» (Cit. p. 70)[3]; e, secondariamente, «sembra che il riso abbia bisogno d’un eco»(Cit. p. 7), di un pubblico reale, potenziale o implicito - alle volte  siamo soli e ridiamo, ma non è mai un ridere solitario.

Se dovessimo rileggere la batteria d’esempi appena proposti alla luce di queste considerazioni diremmo: la comicità della situazione casalinga è prodotta dall’ineliminabile presenza di una componente umana «meccanizzata». Diversamente, ma in fondo secondo un meccanismo similare, negli esempi riguardanti il malfunzionamento degli apparecchi, si potrebbe forse far valere un’antropomorfizzazione della macchina, la proiezione di una volontà umana sull’ostinazione dell’aspirapolvere, e una rappresentazione dell’atrofia della volontà senile sulla lentezza del motore di ricerca.

Detto ciò ci si potrebbe lasciare andare ad una conclusione provvisoria: non ridiamo delle macchine perché nella loro meccanicità (o oggettività) non c’è nulla di umano, così come «un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime […], non mai ridicolo» (Cit. p. 6). Si tratta, ovviamente, di una petizione di principio: definiamo ciò che è comico in base ad un supposto e ineliminabile «ingrediente umano», escludendo poi le macchine in quanto non partecipi.

Come uscire dal circolo vizioso?  È lo stesso Bergson a predisporre la via: dalla ricerca dal «basso» tramite gli esempi bisogna passare alla ricerca “dall’alto” che ricostruisca una definizione genetica, ossia l’individuazione di una ragione che intenda definire «il comico» non chiedendosi «cosa ci fa ridere», ma andando a individuare una connessione tra comico e riso, una «ragion sufficiente che risponda alla domanda perché ridiamo?» (Cit. p. 69)

Ripartiamo dunque da un esempio, questa volta dello stesso Bergson: «un uomo che corre sulla via, inciampa e cade: i passanti ridono» (Cit. p. 8).

Cos’è successo? Secondo Bergson all’andamento mutevole che dovrebbe contraddistinguere l’abitudine acquista del «camminare» si è sovrapposta un’abitudine «indurita», una «celerità acquisita» (Cit. p. 8), incapace di accordarsi al mutare delle circostanze, una «rigidità di meccanismo» (Cit. p. 9). I passanti ridono, ma perché ridono? Perché non piangere? Perché ci dovrebbe essere un collegamento essenziale e non contingente tra la «meccanicità» sovrapposta a qualcosa di vivente e il riso che ne risulta?

RISO E CASTIGO

Bergson, nel rispondere a questi interrogativi è in apparenza molto chiaro. Nella sua forma più contratta, la spiegazione di questa connessione essenziale è la seguente: «questa rigidità è il comico, ed il riso ne è il castigo» (Cit. p. 14). Ma appunto, perché la meccanicità o artificiosità di una volontà umana dovrebbe suscitare un castigo? Da parte di chi? E perché nella specifica forma del riso?

Per il nostro autore ci sono due ordini di risposta, che tuttavia tendono a sovrapporsi in una definizione unitaria: «la società e la vita esigono da ciascuno di noi un’attenzione costantemente sveglia» (Cit. p. 12). Il riso ha una funzione castigante, messa in atto da e per il funzionamento della società. I due ordini di risposta, quelli che l’autore francese fa coincidere, possono in vero essere separati: una spiegazione metafisica, laddove Bergson parla di «vita», e una spiegazione di ordine sociale, laddove menziona esplicitamente la «società».

Per distinguerle, ripartiamo dall’esempio dell’inciampo. Anzitutto, scrive Bergson, «la legge fondamentale della vita è di non ripetersi mai» (Cit. p. 18), dacché conseguenza che ogni ripetizione meccanica della camminata è da una parte interdetta e interrotta dalla variabilità della realtà, dall’altra suscita immediatamente il castigo di quella parte più variabile della «vita»che richiede ed anzi, è fatta, della maggior flessibilità. I viventi, in quanto viventi, ridono dei sonnambuli in quanto sonnambuli. Come ripete più volte Bergson, «l’automatismo in opposizione all’attività libera, ecco insomma ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere»[4]. È come se affermassimo che l’acqua castiga il fuoco: non c’è ragione dell’opposizione se non nella «natura» dei due elementi.

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D’altra parte, la spiegazione sociale caratterizza il rapporto tra comico e riso in modo, almeno apparentemente, differente: «ogni rigidità» scrive Bergson «sarà sospetta alla società, perché essa è il segno di un’attività che si isola e tende a scostarsi dal centro comune» (Cit. p. 65).

La «vita» castiga ogni ripetizione, la «società» castiga ogni rigidità, e rigidità e ripetizione meccanica sono, nella visione di Bergson, equivalenti. Eppure emergono due differenti connessioni tra la funzione castigante del riso e ciò che è comico: nella spiegazione metafisica, la vita variabile è ipso facto avversa a ogni ripetizione, dacché consegue che il riso è, in quanto atto della vita, opposto a ogni rigidità. Nel secondo caso, e utilizzando gli specifici termini usati da Bergson, la rigidità non è più punita per sua stessa «natura», ma in quanto «segno di ciò che si isola», segno di «insociabilità»(Cit. p. 18): seconda questa seconda spiegazione, la società non castiga «ogni rigidità», ma unicamente ciò che, ripetendosi in una forma che dovremo ancora spiegare, dimostra un discostamento dal «centro comune».

(1 /continua)

 

NOTE

[1] Cfr. Ingold T., Corrispondences, John Wiley and Sons Ltd, 2020

[2] Cfr. Cit.

[3] A p. 72, “il riso è incompatibile con l’emozione”.

[4] H. Bergson, p. 65.


Internet non è una “nuvola” - Prima parte

Qualsiasi cosa si creda dell’universo ipertecnologico che l’umanità sta costruendo in questi anni, che si sia d’accordo coi tecno-ottimisti che vi vedono solo una sequenza sempre più accelerata di miglioramenti verso l’ibridazione felice uomo-macchina o con chi, a vario titolo e con ottime ragioni, ne denuncia le numerose insidie, certo è un dato: il mondo digitale non è e non sarà senza effetti sul piano dell’inquinamento e in generale dell’impatto ambientale.

È, questa, una circostanza che è stata lungamente oscurata dalla cortina fumogena della retorica del “progresso tecnologico” e continua ad essere un vero e proprio «impensato», si direbbe in Francia, a tre decenni ormai da quella rivoluzione tecnologica che ci fece entrare nel mondo dell’informatica e della Rete. Anzi, quelle allora “nuove” tecnologie (chi è un po’ in età tende ancora per pigrizia a trascinarsela, ma è forse giunto il momento di abolire l’espressione “nuove tecnologie”!) apparvero da subito, e in parte continuano ad essere percepite, come tecnologie “soft”, leggere, poco invasive sul piano dell’impatto ambientale. Non si rifletteva – e non si riflette ancora abbastanza – sul fatto che esse sono pur sempre prodotto di filiere industriali non meno inquinanti di quelle “tradizionali” (anzi, per certi aspetti, e per i materiali coinvolti, anche più inquinanti), che per funzionare l’insieme degli apparati necessita di energia, che va pur prodotta, e che infine diventano scarto e dunque vanno a inquinare la terra, le acque, l’aria. Come tutti i manufatti, del resto.

Le cose stanno un po’ cambiando negli ultimi anni, per fortuna: nel quadro della molto accresciuta sensibilità ecologica globale che ha posto attenzione sull’“impronta ecologica” di tante nostre attività quotidiane, anche l’insieme delle attività che compiamo online (una quantità sempre crescente “o per amore o per forza”) ha cominciato ad essere considerata sotto il riguardo del suo impatto ambientale.

E così, anche se l’ideologia dominante tende, comunque, a presentare quello digitale come un progresso senza controindicazioni, apportatore nient’altro che di benefici, un numero crescente di voci si sta sollevando a indicare appunto quello che potremmo chiamare il lato oscuro (non l’unico, peraltro) della società digitale. Libri, ricerche, articoli e servizi giornalistici e televisivi si moltiplicano e richiamano la nostra attenzione sul carattere materiale, pesante, inquinante del mondo digitale.

Di recente, per esempio, si è appreso che in Irlanda il consumo di energia elettrica dei data center ha ormai superato quello necessario per l’illuminazione dell’intero paese,[1] mentre il “Washington Post” ci informa sull’enorme bisogno di energia che sta mettendo a dura prova le reti energetiche statunitensi, anche, da ultimo, per le necessità dell’Intelligenza Artificiale.

Ora, il recente volume di Giovanna Sissa, Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale (Bologna, Il Mulino, 2024) è un’ottima porta d’accesso, chiara e riccamente documentata, a questo enorme problema della contemporaneità. La scelta dell’autrice, docente presso la scuola di dottorato STIET dell’Università degli studi di Genova, è di concentrarsi sull’impatto ambientale del mondo digitale in particolare in termini di emissioni carboniche, da cui evidentemente il titolo. Sì, perché, mentre non sfugge a nessuno che un’acciaieria abbia un certo impatto ambientale in termini di emissioni, appare quasi incredibile che un impatto altrettanto pesante lo abbia anche il digitale: ma come, consultare un sito, ordinare una pizza con l’app, mandare un messaggino ecc. ecc. sono operazioni… inquinanti? Sembra impossibile, ma è così. Naturalmente per comprenderlo – ed è merito dell’autrice guidare il lettore in questo percorso di scoperta – è necessario, metaforicamente, sollevare gli occhi dal proprio schermo (o sollevare la testa dal proprio… smartphone, ciò che in questo momento sembra assai arduo alla nostra umanità tecno-ipnotizzata!) e guardare, o pensare, alle spesso lunghissime filiere industriali che sono alla base della produzione dei dispositivi con i quali le nostre attività digitali possono esistere.

PROCESSI DI PRODUZIONE (EMISSIONI INCORPORATE)

Ed è proprio considerando queste filiere che ci si rende conto di come la produzione dei dispositivi che tutti usiamo per fruire della rete e dei beni e servizi digitali comporti naturalmente un notevole dispendio di energia e dunque di emissioni. Un primo aspetto dell’impatto ecologico del digitale, infatti, consiste in quelle che vengono definite embodied emissions (o emissioni incorporate), quelle cioè dovute al processo di produzione, ma anche di (eventuale) scomposizione e riciclo dei dispositivi (da distinguere dalle operational emissions, ovvero le emissioni che avvengono nella fase di utilizzo, di cui parleremo nel prossimo paragrafo).[2] Il processo di produzione dei dispositivi digitali comporta, innanzitutto, una straordinaria mobilitazione di materia: minerali un tempo usati solo in modo marginale o per nulla sono oggi essenziali per il funzionamento dei nostri feticci tecnologici (per fare solo qualche esempio: il tungsteno che permette ai nostri smartphone di… vibrare; il gallio, contenuto nella bauxite, che permette di realizzare la retroilluminazione; il litio per le batterie e così via). Molti di questi metalli sono noti come terre rare, e sono definiti così non perché rari (non tutti lo sono), ma perché presenti in modo discontinuo e non concentrato, e dunque necessariamente oggetto di complessi processi industriali di estrazione, a loro volta implicanti notevoli emissioni. La qualità di questi materiali, soprattutto per quanto riguarda la realizzazione dei nuovi chip miniaturizzati, dev’essere poi ultra-pura – segnala l’autrice, molto attenta a tale aspetto – e questo comporta processi industriali di raffinazione estremamente specializzati e costosi e, essi pure, assai inquinanti.

L’ammontare delle emissioni determinate dal processo di produzione dei dispositivi è poi reso più cospicuo dal fatto che quella informatica è una industria strutturalmente globale, costruita lungo filiere ramificate e lunghissime e che attraversano i continenti, per cui tutte le materie prime e i semilavorati, e infine i prodotti di questa industria debbono essere spostati per il mondo, con relativo dispendio energetico.

Si può, insomma, sintetizzare così, con le parole dell’autrice: «L’impatto di un dispositivo digitale sull’ambiente, cominciato dal momento in cui sono state estratte le materie prime, si accresce processo dopo processo, continente per continente, laboratorio per laboratorio, fabbrica per fabbrica. Se l’estrazione delle materie prime comporta un forte utilizzo di energia primaria, non è certo da meno la fabbricazione dei componenti» (Cit. p. 32).

È qui opportuno osservare una cosa. Si potrebbe pensare che il processo di continua miniaturizzazione che interessa il mondo dell’informatica, quasi una sua “legge”, favorisca un più basso impatto: è ovvio che potenza sempre maggiore espressa da supporti sempre più ridotti (microchip sempre più piccoli, devices sempre più piccoli, ma sempre più efficienti) comportano minore prelievo di materia. Ciò è vero per il singolo dispositivo, ma un po’ meno se si ragiona sul piano “aggregato”, come dicono gli economisti: è vero che i dispositivi consumano di meno e richiedono meno materia, ma poiché si stanno moltiplicando all’inverosimile, nel complesso le esigenze di estrazione di materia crescono esponenzialmente. Basti pensare che – per dare solo pochi dati – dal 2007 al 2022 sono stati venduti 15.224.000.000 di smartphone, oltre a 5 miliardi di pc, tecnologia ormai “recessiva” e comunque più matura; se poi andiamo a vedere le vendite annuali di smartphone, scopriamo che dal 2014 il numero oscilla tra 1,2 e 1,5 miliardi, mentre per i pc oscilla tra i 250 e i 350 milioni.[3] Va poi tenuto conto che gli smartphone, i pc, o i tablet rappresentano solo una frazione dell’insieme di dispositivi connessi che popolano (e sempre più popoleranno) le nostre società e che vanno sotto il nome di Internet delle cose (IoT: Internet of Things): tale immensa mole di dispositivi connessi ammontava, nel 2021, a circa 11 miliardi di oggetti, che è stimato diventeranno 30 miliardi nel 2030 (Cit. p. 28).

Se a tutto ciò si aggiunge il ritmo sempre più vorticoso di sostituzione dei dispositivi cui siamo indotti dai meccanismi della obsolescenza programmata insieme alla pressione della pubblicità (e al netto dell’acqua fresca retorica degli ultimi anni sull’uso responsabile, il consumo critico ecc.), si capisce che siamo di fronte a un bel problema: «se da un lato (…) il materiale per il singolo componente tende al limite di zero – e ciò porterebbe a dedurre una disponibilità illimitata di risorse –, dall’altro il suo sfruttamento tende all’infinito» (Cit. p. 27-29).

EMISSIONI OPERATIVE

Alle emissioni che sono necessarie per il processo di produzione dei dispositivi, e che stanno per così dire “a monte” dell’universo digitale, le emissioni incorporate, si aggiungono poi quelle prodotte dall’uso della rete stessa, dal funzionamento di tutte le sue applicazioni, dal dialogare oggi sempre più fitto tra i dispositivi (oggi – non lo dimentichiamo – una quota crescente della complessiva attività della rete è tra macchine e non dipende da qualcuno che armeggia su una tastiera da qualche parte): sono, queste, le emissioni operative. Si tratta – come si vedeva in apertura – dell’aspetto che sta avendo la maggiore copertura giornalistica, forse anche perché il fenomeno dell’aumento dei consumi energetici (dovuto tra l’altro ai grandi data-center) si impone di per sé all’attenzione di decisori politici e comunità.

Quando si fa una comune ricerca in rete, o ci si serve di qualche servizio online, o si guarda un video ecc., non c’è infatti solo il proprio consumo casalingo, ben noto a tutti in quanto parte del consumo elettrico che poi uno si ritrova in bolletta (un consumo peraltro, in questo caso, quasi sempre abbastanza basso, rispetto agli altri elettrodomestici…), ma c’è un consumo elettrico dovuto a tutte le interazioni cui quella ricerca, quel servizio richiesto dal proprio dispositivo danno luogo. E in questo caso sono fenomeni che avvengono lontano da noi e che noi non registriamo in alcun modo, spesso neppure immaginiamo. E sono fenomeni che stanno conoscendo una crescita spaventosa, secondo il ritmo di crescita della digitalizzazione di sempre nuove attività e dominî della vita sociale. Anche in questo caso, un solo dato che parla da solo: sembra che oggi si producano quotidianamente 5 exabyte di dati (1 exabyte = 1 miliardo di miliardi di byte), che equivale alla massa complessiva di dati prodotti dalla nascita dell’informatica al 2003 (sì, proprio così!).[4]

Ebbene, per elaborare e gestire tutta questa impressionante mole di dati serve energia, e per produrre energia si producono emissioni.

Particolare peso hanno in questo fenomeno i data center, questi snodi fondamentali dell’attuale architettura della rete su cui oggi – lo vedevamo sopra – si sta appuntando una certa attenzione della stampa. Strumento fondamentale del cloud computing, la modalità oggi prevalente di funzionamento ed erogazione dei servizi e contenuti digitali,[5] i data center sono concentrazioni di server che devono stare accesi costantemente, e che garantiscono, da remoto, il funzionamento delle attività che ogni utente finale svolge online: le dimensioni possono andare dai piccoli data center poco più grandi di un appartamento a quelli giganteschi, che possono giungere alle dimensioni di una grande fabbrica. Qui la “popolazione” di computer accesi H24 sviluppa un  notevole riscaldamento che dev’essere contenuto, mediante impianti di raffreddamento, attraverso l’acqua o altri strumenti.

E tutto ciò che abbiamo detto, inesorabilmente, costa dispendio energetico crescente, che potrebbe raggiungere, secondo alcune stime, il 14% del consumo elettrico complessivo nel 2030.[6]

Mica male, per una tecnologia leggera.

 

(1 / continua in una prossima
uscita di Controversie
)

 

 

NOTE

[1] Il dato, riportato dall’ufficio statistico nazionale, si riferisce al 2023, quando è stato rilevato che il consumo di energia elettrica dovuto ai data center (molto numerosi in Irlanda, grazie alle ben note politiche fiscali di favore) è stato pari al 21% di tutto il consumo di elettricità misurato, mentre quello necessario per l’illuminazione delle abitazioni è stato pari al 18% (cfr. Biagio Simonetta, Irlanda, i data center usano più elettricità di tutte le abitazioni, “Il Sole 24 Ore”, 25 luglio 2024, p. 5).

[2] Le emissioni incorporate sono anche definibili come «la somma dei processi estrattivi, costruttivi e di smaltimento a fine vita» dei nostri dispositivi elettronici (Ivi, p. 86). Sono dunque da considerarsi tali anche le emissioni necessarie per i processi di smaltimento/riciclo, che sono essi pure processi industriali anche molto complessi.

[3] I dati sono tratti da Juan Carlos De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, Torino, Add, 2023, p. 63-66 e da Giovanna Sissa, Le emissioni segrete, cit., p. 27 e ss.

[4] Il dato si trova in Guillaume Pitron, Inferno digitale. Perché Internet, smartphone social network stanno distruggendo il nostro pianeta, Roma, Luiss University Press, 2022,  p. 71.

[5] Ed è curioso notare come, anche grazie all’uso di espressioni come queste  (cloud, “nuvola”), si suggerisca sempre per il mondo della rete una immagine di leggerezza.

[6] Cfr. Kate Crawford, Né intelligente né artificiale. Il lato oscuro dell’IA, Bologna, Il Mulino, 2021.

 

BIBLIOGRAFIA

Evan Halper e Caroline O’Donovan, AI is exhausting the power grid. Tech firms are seeking a miracle solution, “Washington Post”, June 21, 2024, tr.it.: Le aziende tecnologiche assetate di energia, “Internazionale”, n. 1569, 28 giugno 2024, p. 32-33

Giovanna Sissa, Le emissioni segrete. L’impatto ambientale dell’universo digitale, Bologna, Il Mulino, 2024