Celebrare la natura e le sue leggi - Roma Barocca, il Cenotafio di Boullée e la scala di Nervi

Perché possiamo parlare di nesso tra l’architettura, in particolare tra i monumenti, l’architettura celebrativa, e le scienze?

Perché il monumento – che è il culmine dell’architettura di celebrazione – non celebra esclusivamente il suo soggetto, ad esempio il cavaliere della statua equestre, ma spesso amplia la celebrazione verso ampie parti della società, al creato, alle leggi di Dio o a quelle della scienza, e, infine, alle capacità generative e di manipolazione delle scienze e delle tecniche.

1. LA ROMA BAROCCA DEL XVII E DEL XVIII SECOLO

Il piano urbano della Roma barocca che si formò tra il XVII e il XVIII secolo trascende la dimensione monumentale dei palazzi e della loro disposizione e magnificenza: è un piano «urbanistico-monumentale» (Schultz, C. N. Architettura Barocca, città: casa editrice, 1979).

I monumenti, come l’Obelisco della Minerva, posto dal Bernini nell’omonima piazza, come il dialogo creato da Pietro da Cortona tra la chiesa di Santa Maria della Pace e la piazza antistante, Piazza Navona, voluta da Papa Innocenzo X della famiglia Pamphili, la Fontana dei Quattro Fiumi progettata da Bernini per la medesima piazza, la chiesa di S. Agnese, disegnata dal Borromini, sempre in piazza Navona, sono posizionati per spiccare — l’accentramento nelle piazze, la magnificenza, la mole massiccia, i materiali – e, nello stesso tempo, per celebrare la grandezza della controriforma, delle famiglie papali che ne furono i principali fautori,

Ma non tutti i monumenti di questo barocco romano celebrano la stessa cosa.

Le opere di Borromini e Guarini – ad esempio, le conchiglie custodite da Borromini nella sua casa[1] e ispirazione per la lanterna di Sant’Ivo alla Sapienza, oppure i lavori teoretici di Guarini sul carattere vibratorio del reale, che si ritrovano in tutta la sua opera architettonica[2] - celebrano la grandiosità del creato, una natura intessuta di leggi divine, di leggi nuove che alla staticità del vecchio mondo chiuso rispondono con il dinamismo del nuovo mondo aperto e infinito.

Quello romano è un Barocco che mima «la natura», i rapporti complessi del creato, le sue fluttuazioni dinamiche, per restituire una sorta di «spiritualità naturalistica»[3], specchio spirituale della nuova scienza Newtoniana.

 2. IL CENOTAFIO DI NEWTON

Un cenotafio, monumento sepolcrale privo dei resti mortali della persona in onore della quale è stato eretto è nello stesso tempo un oggetto monumentale, commemorativo e un segno che richiama dei caratteri della persona onorata.

Quello in onore di Isaac Newton, disegnato nel 1784 da Etienne Boullée ma mai realizzato, celebra il rapporto tra il «misterioso e sacro turbinio della natura» e l’intelligibilità delle leggi naturali: ciò che prima era mistero e inquietudine, ora è conoscenza e chiarezza.

Ne è prova, ad esempio, la trattazione della luce. Nell’illuminismo, che toccò profondamente Boullée, la luce è chiarezza e rappresentazione auto evidente dell’intelletto umano.

Infatuato dal mondo che era nato in seguito a Newton, Louis-Etienne Boullée realizzò sei disegni a inchiostro per raffigurare il fanta-progetto del cenotafio in onore dello scienziato inglese.

Si trattava di un’enorme sfera, che in quel tempo non sarebbe stato possibile realizzare tecnicamente, adagiata su una base circolare che le avrebbe fatto da immenso piedistallo, sul cui bordo esterno sarebbero stati piantati – a tre altezze differenti – una moltitudine di cipressi ben ordinati in file e colonne.

All’interno sarebbero stati posizionati soltanto un sarcofago romano vuoto e un enorme astrolabio sferico posto a mezz’altezza. L’astrolabio - attraverso una lanterna posizionata al centro – avrebbe riprodotto, durante le ore notturne l’impressione della luce diurna e, inversamente, durante le ore diurne molte piccole fessure distribuite sulla porzione superiore della sfera avrebbero restituito la posizione delle stelle, dei pianeti e della luna durante le ore notturne.

Pochi elementi essenziali. Le fessure e l’astrolabio riproducono, inversamente, le tracce del cosmo: la notte dentro con il giorno di fuori, il giorno dentro con la notte di fuori.

In aggiunta, l’enorme sfera non «è» solamente un microcosmo ma sta per la forma della terra, per come l’aveva concepita lo stesso Newton, una sfera schiacciata ai poli.

Anche il senso di immensità dovuto all’altezza complessiva della struttura di oltre 146 metri, così come l’utilizzo di forme elementari e platoniche come la sfera, non celebrano direttamente «il naturale», quanto la possibilità da parte dell’intelletto di conoscere le leggi della natura.

A sua volta, la distribuzione ordinata e schematica delle piante, una semplificazione dello schematismo sovrabbondante del barocco, non soltanto avrebbe rievocato le antiche sepolture e i primi paradisi persiani[4], ma avrebbe mostrato la chiarezza matematica e la lucidità schematica del nuovo pensiero illuminista.

A dirla tutta, piuttosto che un’obiezione, il fatto che l’opera fosse tecnicamente irrealizzabile, sembra parlare a favore della ferma convinzione che, un giorno, la scienza avrebbe permesso ogni fantasticheria.

3. IL FUTURISMO DI SANT’ELIA E LA SCALA ELICOIDALE DI PIER LUIGI NERVI

Il Futurismo italiano inaugurò un generale sentimento anti-monumentale che avrebbe attraversato tutto il ‘900. Antonio Sant’Elia nel suo Manifesto dell’architettura futurista dichiarava un odio viscerale per i monumenti imperituri, per ciò che non varia e che s’accontenta di tornare, con stanchezza, alle origini.

Preferiva di gran lunga la variazione repentina e l’esistenza effimera di ciò che ogni giorno deve essere rifatto ex novo - ogni generazione deve rifare da capo la propria città.[5]

Sant’Elia rinnega il monumento forma-tipo, come ciò che si allaccia al passato e non smette di tornarci, ma non rinnega la capacità «celebrativa» di ciò che è monumentale.

Piuttosto esalta la dimensione comune di ciò che celebra e che viene celebrato: la velocità - per fare un esempio - non celebra null’altro che la velocità e le scienze che la rendono possibile.

La piega futurista suggerisce che, con l’impiego di diversi stratagemmi, ciò che è monumentale ha sempre esaltato anche le tecniche che ne rendevano possibile la sua realizzazione.

È esemplare, in questo senso, la scala elicoidale di Pier Luigi Nervi dello stadio di Firenze: l’intento celebrativo «sta» per la realizzazione stessa dell’opera, la dimostrazione del calcestruzzo; non c’è più celebrazione della natura, e neppure celebrazione della capacità intellettiva di carpire le sue leggi; ma auto celebrazione delle capacità manipolative della tecno-scienza.

 

NOTE

[1] Cfr.: Barillier, E., Francesco Borromini: il mistero e lo splendore, Casagrande Editore, 2011

[2] Cfr.: Assunto, R., Un filosofo nelle capitali d’Europa: la filosofia di Leibniz tra. Barocco e Rococò, Storia della critica d’arte annuario della s.i.s.c.a.,2020

[3] Cfr.: D’Ors, E., Del Barocco, SE Editore, 1999

[4] Cfr.: P. Grimal, P., L’arte dei giardini, Feltrinelli Editore, 2014

[5] Cfr.: Sant’Elia, A., Manifesto dell’architettura futurista, 1914


Scoperte giuste, spiegazioni sbagliate: il caso del telegrafo senza fili

Una visione ingenua della scienza, che questo blog cerca di mettere in discussione, è convinta che ci sia sempre coerenza tra scoperte e spiegazioni. In altri termini, quando si scopre qualcosa è perché c’è dietro una corretta individuazione delle cause.

Ma non sempre è così, e una scienza aperta dovrebbe essere tollerante con le scoperte che non hanno (ancora) spiegazioni e non emarginarle soltanto perché non sono in grado di fornirle in modo adeguato o convincente. O sono contrarie alle credenze consolidate in un settore scientifico. E’ il caso del telegrafo senza fili di Marconi.

Nel 1894 Guglielmo Marconi, studente di fisica a Bologna, andò dal suo docente Augusto Righi, famoso per lo studio delle radiazioni elettromagnetiche. Marconi annunciò: “Professore, con le onde elettromagnetiche che lei ha scoperto, faccio il telegrafo senza fili da qui all’America”. Righi rispose: “Ma che stupidaggini. Esca fuori di qui prima che io la prenda a calci!”. Poco dopo un giornale di Parigi intervistò, sullo stesso argomento, Henri Poincarè, il massimo fisico teorico dell’epoca. Egli rispose ironicamente: “Marconi lo sa che la terrà è tonda o pensa ancora che la terra sia piatta?”. 

Infatti le onde elettromagnetiche si propagano in linea retta. Per cui, se forse potevano superare una collina, certamente non la curvatura terrestre.

Incurante di questa impossibilità teorica, Marconi installò un’antenna in Cornovaglia (UK) e una a Terranova (Canada). Il 12 dicembre del 1901, fece l’esperimento e il segnale raggiunse Terranova. Come mai? 

Perché esiste la ionosfera (una fascia dell'atmosfera terrestre, composta da gas), che agisce come uno specchio. Per cui l’onda emessa dalla Cornovaglia andava effettivamente in linea retta (conformemente alla teoria di Righi), ma poi raggiunta la ionosfera veniva rimbalzata nuovamente verso la terra. Ma né Righi né Marconi erano a conoscenza dell’esistenza della ionosfera, che fu attestata solo nel 1924.

Ma allora come faceva Marconi a prevedere il fenomeno della diffrazione delle onde elettromagnetiche? Perché era… ignorante! Nel senso che lui credeva (erroneamente) che le onde elettromagnetiche si propagassero parallelamente alla superficie terrestre. Infatti Marconi la laurea in fisica non la prese mai. Prese solo… il Nobel per la fisica (nel 1909).

Per cui non sempre accade che chi sa le cose vede giusto e chi non le sa vede sbagliato.

 

NOTA

Da una conferenza https://www.youtube.com/watch?v=46iHx2ydTdw di Emilio del Giudice (1940-2014), grande fisico (emarginato) ed eccellente divulgatore. https://it.wikipedia.org/wiki/Emilio_Del_Giudice


Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi – L’inevitabile dimensione politica della scienza

PRECISAZIONI

Precisazione numero uno: la famosa frase “Now I am become death, the destroyer of worlds” non è stata coniata da Oppenheimer ma è presa dal testo Hindu Bhagavad-Gita, in un passo in cui Arjuna prega Krishna, incarnazione della divinità Vishnu, di rivelare la sua forma divina, “armata di molte armi”; quando Krishna-Vishnu si mostra a Arjuna, attribuisce a se stesso il modo d’essere di Kalah, divinità della morte[1].

Precisazione numero due: Robert Oppenheimer dichiarò – in una intervista del 1965 - di aver pensato a quel passo del Bhagavad-Gita il 16 luglio 1945, nel momento in cui vide la luce abbagliante e il fungo della prima esplosione atomica di test levarsi in cielo. Nel testo Hindu Arjuna paragona lo sfolgorio di Vishnu a “migliaia e migliaia di soli [che] sorgessero insieme nel cielo”.

Precisazione numero tre: quando Oppenheimer si attribuisce questo pensiero - nel 1965 - la parabola delle sue considerazioni morali sulla bomba – sulle bombe, compresa quella a idrogeno – ha compiuto il suo ampio arco e si è fermata in una posizione decisamente anti-militarista e contraria alla corsa agli armamenti nucleari.

CHI ERA ROBERT OPPENHEIMER? PERCHÉ NE PARLIAMO OGGI?

Julius Robert Oppenheimer nasce a New York nel 1904 e, dal 1922 (a 18 anni!) studia fisica a Harvard con P. W. Bridgman; a Cambridge, con E. Rutherford e J. Thomson; a Gottingen, con Max Born, suo supervisore di dottorato, dove conobbe e studiò con Heisenberg, Jordan, Dirac, Fermi e Teller; a Leiden con P. Ehrenfest; a Zurigo, con W. Pauli. Dal 1929 fu di nuovo negli Stati Uniti, alla Berkeley e al Caltech.

La sua attività scientifica fino al 1942 è proteiforme e lascia segni importanti sia sul versante teorico che su quello sperimentale della teoria quantistica e di alcuni aspetti dell’astrofisica. Pare che abbia la capacità di vedere i nessi tra lavoro sperimentale e lavoro teorico[2] e generare nuove idee per sviluppare teoria e applicazioni.

Nel 1942 – nonostante il suo vissuto politico di iscritto al Partito Comunista – il governo statunitense gli affida la direzione del Progetto Manhattan, con l’obiettivo dichiarato di realizzare la prima bomba a fissione nucleare.

Il progetto – guidato da Oppenheimer e che vedeva coinvolti i più importanti fisici di quei tempi - portò alla costruzione del primo ordigno di test – il gadget – fatto esplodere il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico.

Poco meno di 15 giorni dopo, due bombe vere realizzate dal Progetto Manhattan e chiamate Little Boy e Fat Man distrussero le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, uccidendo istantaneamente più di 200.000 persone e ferendone gravemente altrettante, con effetti sulla salute di moltissimi altri, che ancora vengono curati dalla sanità giapponese.

Questi tre eventi segnarono il termine della Seconda guerra mondiale e l’inizio dell’escalation degli armamenti nucleari in molte nazioni, armamenti che ancora oggi vengono irresponsabilmente sventolati come minaccia distruttiva e con atteggiamento di sfida in alcuni conflitti locali.

Parliamo di Robert Oppenheimer perché è l’uomo che ha organizzato e, con caparbia e genio, gestito il Progetto Manhattan.

Ne parliamo proprio ora perché nacque centoventi anni fa, il 22 aprile, e perché il film di Christopher Nolan, che ne racconta alcuni tratti della vita, dal dottorato a Cambridge nel 1926 al Premio Enrico Fermi nel 1963, ha appena vinto 7 Oscar, 5 Golden Globe e 7 premi Bafta. Proprio il film – molto ben documentato - di Nolan ci serve come punto di appoggio per raccontare Oppenheimer.

Ne parliamo anche perché Oppenheimer è un personaggio emblematico:

  • è di confine tra l’immagine ideale della scienza neutrale e la realtà spesso disconosciuta della sua dimensione politica,
  • è in bilico, altalenante, tra morale procedurale e morale sostanziale.

L’INEVITABILE POLITICITÀ DELLA FISICA

Nel 1942, Oppenheimer aderisce – stupito dal fatto di essere stato scelto dal governo a dispetto dei suoi modi spesso fuori dalle regole e del suo impegno politico di orientamento comunista – con determinazione e passione al Progetto Manhattan e realizza, guidando militari, civili e scienziati, la più imponente struttura teorica, sperimentale e applicativa che la fisica abbia mai visto: 130.000 persone coinvolte, 2 miliardi di dollari investiti, 3 anni di lavoro e una new town dedicata in cui scienziati, civili e militari convivono e lavorano confinati.

La sua motivazione sembra avere tre teste, come il cane Cerbero della teogonia di Esiodo.

La prima testa è la convinzione che la scienza sia un vettore di progresso, che abbia un carattere incrementale di continuo avanzamento verso la conoscenza più ampia e completa; il Progetto di realizzazione della Bomba, per Oppenheimer, rappresenta l’irripetibile opportunità di sviluppare conoscenza teorica e sperimentale con il più eccezionale gruppo di scienziati viventi e con risorse quasi illimitate.

La seconda testa è la visione del potenziale generativo di bene collettivo che Oppenheimer attribuisce alla scienza, in particolare alla fisica; ancora una volta, il Progetto Manhattan può, nella visione di Oppenheimer, permettere lo sviluppo di tecnologie e opportunità di grande importanza per l’umanità; nel corso delle lezioni Reith alla BBC, nel 1953, Oppenheimer dice:

«

il progresso della scienza non si arresterà finché ci saranno uomini. Sappiamo che il nostro lavoro è tanto un mezzo quanto un fine. Una grande scoperta appartiene al mondo della bellezza; e la nostra fede — la nostra quieta e insopprimibile fede - è che la conoscenza sia un bene in sé e per sé. Ma è anche uno strumento; è uno strumento per i nostri successori, che la useranno per indagare qualcos'altro e più profondamente; è uno strumento per la tecnologia, per le attività pratiche, e per il destino dell'uomo (Oppenheimer R., Scienza e pensiero comune, 2023, p. 91).

  »

La terza testa della motivazione-Cerbero di Oppenheimer è l’apparente necessità di arrivare a fare la bomba prima dei nazisti, prima di Hitler; necessità amplificata dalle congetture strumentali, e poco documentate, sullo stato dell’arte dei fisici del Reich, ed evidenziata nel film di Nolan:

«Oppenheimer (a E. Lawrence)
Lo so bene qual è il fottuto progetto, Lawrence! Sappiamo tutti della lettera di Einstein e Szilard a Roosevelt. Lo avvertono che i tedeschi potrebbero fare la bomba. E io lo so cosa significa per i tedeschi avere la bomba»
(Nolan C., Gadget – sceneggiatura finale di Oppenheimer, p. 42).

«Oppenheimer (al colonnello Groves)
State parlando di trasformare la teoria in una vera e propria arma più rapidamente dei Nazisti»
(Cit. p. 51).

In queste tre posizioni contestuali si mostra il carattere di confine di Oppenheimer.

All’inizio del progetto – coglie il carattere inevitabilmente politico della scienza: è uno strumento di progresso che non si pone in modo neutrale e serve obiettivi etici[3] e politici, con un innegabile valore morale, sconfiggere il male, rappresentato da Adolf Hitler e dai nazisti.

Nel corso del progetto, di fronte alle obiezioni morali di scienziati e amici che intravedono il pericolo rappresentato dall’enorme potere distruttivo della Bomba e dubitano della moralità del loro ruolo nella realizzazione, la risposta di Oppenheimer è di confine: da un lato fa leva sul valore morale della sconfitta di Hitler; dall’altro, si affida all’ideale di neutralità della scienza, dei cui potenziali effetti negativi lo scienziato non si deve occupare; l’uso corretto e moralmente accettabile dei risultati della ricerca e applicazione scientifica è un problema della politica, non della comunità scientifica: «come dovrebbe fare Truman a rassicurare il popolo americano? » gli chiede L. Strauss e Oppenheimer risponde: «Limitando la diffusione delle armi atomiche attraverso il controllo internazionale dell’energia nucleare» (Cit. p. 107-108).

Al momento dell’esplosione – narra lui stesso – ha l’intuizione di stampo Hindu del suo carattere di distruttore di mondi.

Infine, al termine della guerra – la cui fine è attribuita alla bomba realizzata da Oppenheimer e dai suoi colleghi di Los Alamos, alla distruzione “dimostrativa” delle due città giapponesi e alle più di 400.000 vittime tra morti e feriti – viene travolto dalla responsabilità del massacro che ha contribuito a compiere.

IL PERICOLO DELLA MORALE PROCEDURALE

Un’etica formale, o procedurale, «giudica la moralità di un’azione non prendendo in considerazione scopi o conseguenze, ma solo la conformità dell’azione alla legge», a obiettivi predefiniti, per esempio, da una disciplina professionale o da un programma politico.

Differentemente, l’etica sostanziale identifica i principi morali

«

prendendo in considerazione scopi o conseguenze, […] in cui la legge morale non può essere separata dal particolare (le inclinazioni, gli scopi, le situazioni pratiche) perché è solo dalla loro sintesi che nascono i concreti doveri e le reali azioni morali (Heller A., Per un’antropologia della modernità, 2009, pp. 54-71).

  »

Arrivare ad avere la bomba prima dei nazisti è una azione e un dovere morale perché incarna il principio sostanziale di evitare di mettere in mano ad un capo di stato ritenuto folle e capace di tutto, qual è Hitler, un’arma che può distruggere intere nazioni.

È questo principio morale che Oppenheimer usa come traduzione per reclutare gli scienziati nel Progetto Manhattan.

Al contrario, usare il Progetto e costruire la bomba per fare progressi nell’esplorazione della fisica subatomica e per testare nella pratica teoria e matematica della fisica quantistica è senza ombra di dubbio affidarsi a un’etica procedurale: è rispondere ad una legge, quella del progresso scientifico, senza prendere in considerazione le conseguenze; è separare la morale dal particolare, è evitare di confrontarsi con la realtà morale, di farsi domande.

Il film di Nolan – raccogliendo i temi della bio “American Prometeus” di K. Bird e M. J. Sherwin (2005) - propone due momenti emblematici che sottolineano come il Progetto fosse pervaso e fondato su un’etica procedurale, cieca alle conseguenze: il primo è la conversazione tra Hans Bethe e Oppenheimer sul rischio che l’esplosione nucleare, mai fatta prima, possa diventare incontrollata e mettere a fuoco tutta l’atmosfera terrestre,

«Bethe: Le probabilità di una reazione nucleare incontrollata sono vicine allo zero;
- O.: Vicine allo zero?
- Bethe: Oppie, questa è una buona notizia;
- Oppie: Puoi rifare ancora i calcoli?
- Bethe: Avrai la stessa risposta. Finché non facciamo davvero detonare una di queste cose, la migliore rassicurazione che puoi avere è questa: (sbatte le carte) vicine allo zero».

La probabilità di distruggere l’atmosfera terrestre e cancellare la vita dal pianeta in pochi istanti è quasi nulla, e questo quasi nulla è sufficiente per archiviare l’eventualità e procedere con il Progetto della bomba.

Questo è il rischio di affidarsi ad un corpus disciplinare e di adottare un’etica procedurale. Si perde di vista il senso morale, si evitano le considerazioni sulle conseguenze, rassicurati dai dettami della disciplina, riportati nella comodità della deresponsabilizzazione dello scienziato.

Il secondo momento emblematico è la riunione dopo l’annuncio del lancio della bomba in Giappone: tutti – scienziati, tecnici, militari e civili di Los Alamos – vengono presi da un orgasmo di gioia, di delirio e di orgoglio patriottico; è la vittoria nella guerra, è – soprattutto – il successo del Progetto messo in pratica. L’etica procedurale della scienza neutrale annulla le conseguenze dell’azione e fa scordare la dimensione politica della stessa scienza.

Oppenheimer, di fronte alle persone del Progetto Manhattan:

«Alzo le mani in un gesto teatrale e vittorioso – la folla acclama…
“Il mondo ricorderà questo giorno […]
sono orgoglioso di quello che avete realizzato […]
sono sicuro che ai giapponesi non è piaciuto
”» (Cit. pp.139-140).

CONCLUSIONE

Spesso gli scienziati credono ciecamente nel mito del progresso scientifico e nella neutralità della scienza, e si rifugiano nella propria zona di tranquillità, abdicando al ruolo di soggetti morali e lasciando nelle mani della politica o del business tutte le responsabilità dell’uso delle tecnoscienze che creano.

Sono convinto che dimenticare il ruolo nativamente politico, morale e sociale delle tecnoscienze e dei loro creatori sia un comportamento moralmente grave e socialmente pericoloso, che mette fuori gioco la comunità scientifica, asservendola al potere.

Dalla scenografia di Oppenheimer (Cit., p. 143 – 145)

ANTICAMERA DELLA STANZA OVALE, ALLA CASA BIANCA – DI GIORNO

Sollievo, gentile formalità, guardo sul tavolino:
Time magazine con me in copertina: "PADRE DELLA BOMBA ATOMICA”.

ASSISTENTE

Il Presidente Truman la riceve ora.

INTERNO, STANZA OVALE

Truman si alza dalla scrivania per stringermi la mano -

TRUMAN

Dr Oppenheimer, è un onore.

OPPENHEIMER

Signor Presidente. Segretario Byrnes.

TRUMAN

Come ci si sente ad essere l’uomo più famoso del mondo?

TRUMAN (CONT’D)

Lei ha aiutato a salvare molte vite americane. […]

La sua invenzione ci ha permesso di riportare i ragazzi a casa.
La nazione è in debito con voi.

 

Mi torco le mani una con l’altra, profondamente a disagio...

OPPENHEIMER

Signor Presidente, sento di avere le mani sporche di sangue.

 

Truman mi guarda in modo diverso. Si toglie il fazzoletto bianco dal taschino sul petto della giacca e me lo offre -

 

TRUMAN

Lei pensa che a qualcuno a Hiroshima o a

Nagasaki gliene freghi qualcosa di chi ha costruito la bomba?

Loro badano a chi l’ha sganciata.

Io l’ho fatto.

Hiroshima non ha a che fare con Lei.

 

 


NOTE

[1] Il nome della divinità Hindu, Kalah, in sanscrito significa tempo. Argomento delicato.

[2] In quest’ordine: alcuni aspetti del suo lavoro suggeriscono l’importanza delle divergenze sperimentali per generare nuove determinazioni e variazioni delle teorie. Questo tema è sviluppato da M. Hagner e H.J. Rheinberger in Experimental Systems, Objects of Investigation and Spaces of Representation, In Experimental Essays, edited by Heidelberger M. and Steinle F., 355–73. Baden-Baden: Nomos, 1998.

[3] Attenzione, dico “etici” e non morali, la morale è già definita, qui si tratta di perseguirne degli obiettivi.


L’era post-atomica - Achille Mbembe e l’ultima utopia dell’umanità

Necropolitica

Qual è la relazione fra vita, morte e potere in quei sistemi politici che funzionano solo in uno stato di emergenza? Questa è una delle domande fondamentali a cui Achille Mbembe, filosofo originario del Camerun, cerca di rispondere all’interno di Necropolitics, un saggio breve ma molto denso pubblicato nel 2013. In esso, Mbembe afferma che «la massima espressione della sovranità risiede, in larga misura, nel potere e nella capacità di dettare chi può vivere e chi deve morire» (Necropolitics, 2019, p. 11).[1] Da ciò segue che «esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come dispiegamento e manifestazione del potere» (Cit. p. 12).[2]

È chiaro, fin dalle prime righe, il rimando al concetto di biopolitica, sviluppato da Michel Foucault nel corso degli anni ’70 per comprendere i problemi legati a fenomeni propri dei viventi costituiti in popolazione, come quelli riguardanti la salute, l’igiene, la natalità etc… e al modo in cui sono stati gestiti dalla «pratica governamentale» (Naissance de la biopolitique, 1979, p. 333). Secondo Mbembe, tuttavia, la sovranità esercita una forma di potere che va oltre la decisione circa la gestione della vita della popolazione in questione, provocando intenzionalmente la morte di quest’ultima o di parte di essa. Distinguendo tra vita «utile» e vita «superflua», il principio della razza è ciò che permette di tracciare una cesura nel continuum biologico dell’umanità e consente alla sovranità - specialmente in ambito coloniale - di giustificare ed esercitare la sua funzione di morte. Nel mondo contemporaneo, la nozione di necropolitica è necessaria per rendere conto dei modi in cui

«le armi vengono impiegate nell’interesse della massima distruzione delle persone e della creazione di mondi di morte, nuove e uniche forme di esistenza sociale in cui vaste popolazioni sono sottoposte a condizioni di vita che conferiscono loro lo status di morti viventi» (A. Mbembe, Necropolitics, p. 40).[3]

 

Tecnologia nucleare

Sebbene né Mbembe né Foucault parlino esplicitamente delle armi nucleari o dell’era atomica, l’intreccio dei concetti di biopolitica e necropolitica può essere un’utile chiave di lettura del fenomeno, soprattutto per quanto riguarda il nostro presente. Infatti, anche se non viviamo più in un’epoca in cui la bomba atomica occupa un posto centrale nella vita delle persone, così come è stato subito dopo Hiroshima e Nagasaki, e soprattutto durante la Guerra fredda, essa rimane una presenza inquietante sullo sfondo della politica internazionale: lo abbiamo visto con i recenti sviluppi della guerra in Ucraina. Alla luce di quanto detto prima, le armi nucleari possono essere interpretate come una parte fondamentale dell’esercizio della sovranità, basato sull’intreccio tra biopotere e necropotere. Servendosi delle armi nucleari, infatti, la sovranità politica, che sia quella di uno Stato o di un blocco di Stati, può legittimarsi e riaffermarsi di fronte ad eventuali nemici, in quanto unica detentrice non solo di uno strumento di controllo e regolazione della vita, ma anche e soprattutto di un veicolo di morte.

Ciò risulta evidente anche nel Trattato di non proliferazione nucleare, entrato in vigore nel 1970 e a cui oggi aderiscono più di 190 Paesi. Esso si fonda su tre pilastri: impegnare al disarmo i cinque Stati che detenevano ufficialmente armi nucleari (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, USA), offrire una base giuridica alla non proliferazione delle armi nucleari e consentire l’uso pacifico dell’energia nucleare. Di fatto, tuttavia, al Trattato non si sono ancora adeguate quelle stesse nazioni che l’avevano proposto e che avrebbero dovuto puntare al disarmo, dato che gli altri Stati accettarono di non dotarsi di armi nucleari solo perché quelli che le possedevano si impegnarono ad eliminarle nel giro di pochi anni[4]. La tecnologia nucleare, dunque, rimane tutt’oggi essenziale nella definizione del potere politico sovrano, sia a livello nazionale che internazionale.

Brutalismo

Allargando l’orizzonte della riflessione, secondo Mbembe stiamo assistendo a un’escalation tecnologica mai vista prima, la cui scintilla di inizio potrebbe essere a nostro parere identificata con la creazione e l’utilizzo della bomba atomica. Lo sviluppo sempre più rapido delle tecnologie sta rivoluzionando il nostro rapporto con il mondo, rendendo sempre più difficile separarle dalle nostre vite. A questo proposito, il filosofo parla in La communauté terrestre (2023) di una «seconda creazione», che passa attraverso il dispiegamento di un'umanità ibrida dotata di un doppio: l'umano e il suo oggetto.

La tecnologia, oggi, si fa teologia ed escatologia, portando l’uomo a credere in un possibile futuro in cui potrà finalmente separarsi dalla natura, addomesticare la vita e passare ad un altro stadio dell’evoluzione biologica. Mbembe parla di «brutalismo» per mostrare come questa transizione verso un'umanità ibrida corrisponda a forme di politica la cui funzione è quella di distruggere e separare, formando non l'impossibilità del luogo, ma la costruzione di un non-luogo, in cui circoscrivere certe porzioni di umanità. Con questo termine, l’autore fa riferimento a un’epoca in cui la tecnologia non è più solo uno strumento, essa è la forma che ha preso la metafisica, prima nella storia occidentale e dopo nella storia globale. Nell’epoca del brutalismo, ci si avvale di tre tipi di ragione, cioè quella economico-strumentale, quella elettronico-digitale e quella neurobiologica. Tutte si basano sulla convinzione che c’è sempre meno differenza tra l’uomo e la macchina, che anzi quest’ultima dovrebbe prendere sempre più decisioni al posto nostro. Dunque, secondo Mbembe, non sono più solo gli schiavi o i nativi delle colonie ad essere considerati oggetti, ma con lo sviluppo delle intelligenze artificiali e dell’ingegneria genetica il confine stesso tra uomo e oggetto è destinato a sfumare.

Utopia

Contro questa visione del futuro dell’umanità come definitivamente separata dal resto degli esseri viventi sulla Terra, Mbembe propone una politica di «liberazione del vivente» che si dispieghi a partire da una comunità terrestre, che sia composta da una molteplicità di archivi e che abbracci tutti gli esseri viventi. In essa, inoltre, «è il diritto dei viventi e non più il diritto dei popoli che determina i gradi e le condizioni di appartenenza» (Brutalisme, 2023, p. 173)[5]. È evidente, tuttavia, che la Terra come unità politica globale non esiste ancora. Ecco perché Mbembe afferma che «su un piano politico, il nome Terra è un’utopia, forse l’ultima utopia» (La communauté terrestre, p. 72)[6]. Il suo non esserci ancora non ne diminuisce l’importanza, anzi. Secondo Mbembe, infatti, l’essere umano è posto davanti a un’ultima scelta: «o la riparazione, o i funerali» (Cit. p. 72)[7]. La Terra sarà il luogo a partire dal quale l’umanità intraprenderà l’opera di rigenerazione del vivente, oppure «essa ne sarà la tomba universale, il suo mausoleo» (Cit.) [8]. Il concetto di utopia, pertanto, ricopre un ruolo centrale nella riflessione di Mbembe, il quale trae ispirazione dalle opere di Ernst Bloch, un filosofo che, come afferma Fergnani, ha fatto dell’utopia «il nucleo centrale cui si riconducono tutti i momenti ed aspetti essenziali del suo pensiero» (Utopia e dialettica nel pensiero di Ernst Bloch, p.191). Nel paragrafo 7 di Brutalisme, Mbembe cita espressamente Spirito dell’utopia (1918) e Il principio Speranza (1959), i due pilastri fondamentali del lavoro di Bloch, i quali costituiscono una lunga esortazione all’umanità e permettono a Mbembe di approfondire e strutturare la sua idea della Terra come ultima utopia.

Secondo Bloch, infatti, la speranza è uno dei motori più potenti della storia ed esige non un ottimismo ingenuo o una fede cieca nel progresso, né un pessimismo assoluto, incondizionato e paralizzante, ma un ottimismo critico e militante. Gli esseri umani, nati per la gioia, riescono a lanciarsi verso il divenire solo attraverso la speranza, fondando quest’ultima su un’utopia concreta[9], ovvero agendo a partire da condizioni storico-concrete che si radicano nella situazione sociale presente. Occorre analizzare il divenire storico e cercare nell’attualità quelle «eccedenze utopiche» che possono essere utilizzate per concepire nuove possibilità per il futuro; altrimenti sperare «sarebbe soltanto un atto arbitrario della volontà e, in fondo, l’effetto compensativo di una disperazione che è più profonda e ben altrimenti radicata nei fatti» (Falappa, L’umanità come utopia, p. 60).

In conclusione, contro una visione nichilistica della realtà, contro un potere politico che fonda il suo potere sulla paura, contro un’articolazione ingiusta e ineguale delle relazioni internazionali, oggi Achille Mbembe, lettore di Bloch, ci ricorda che «l’importante è imparare a sperare» (Bloch, Principio speranza, p. 5).

 

 


NOTE

[1] Il testo originale è: «the ultimate expression of sovereignty resides, to a large degree, in the power and the capacity to dictate who may live and who must die», traduzione della Redazione.

[2] Il testo originale è: «to exercise sovereignty is to exercise control over mortality and to define life as the deployment and manifestation of power», traduzione della Redazione.

[3] Il testo originale è: «weapons are deployed in the interest of maximum destruction of persons and the creation of death-worlds, new and unique forms of social existence in which vast populations are subjected to conditions of life conferring upon them the status of living dead», traduzione della Redazione.

[4] M. Elena, Il nucleare tra pace e guerra, Atti Acc. Rov. Agiati, a. 263, 2013, ser. IX, vol. III, B: 45-70.

[5] Testo originale: «c’est le droit des vivants et non plus le droit des gens qui determine désormais les degrés et les conditions d’appartenance», traduzione della Redazione.

[6] Testo originale: «sur un plan politique, le nom Terre est une utopie, la dernière utopie peut-être», traduzione della Redazione.

[7] Testo originale: «ou la réparation, ou les funérailles», traduzione della Redazione.

[8] Testo originale: «elle en sera le tombeau universel, son mausolée», traduzione della Redazione.

[9] «L'utopia concreta respinge sia un “superficiale” (oberflächlich) empirismo che aderisce ai dati reificati e che al più si attende la sintesi dal loro progressivo accumulo, sia l'”esuberanza” del sognatore, che pretende di andar oltre sorvolando», (F. Fergnani, Utopia e dialettica nel pensiero di Ernst Bloch, p. 194).


Odorata Ginestra, contenta dei deserti - L’isola di Ghiaccio-Nove

Kurt Vonnegut è un autore tutt’altro che sconosciuto. Considerato uno dei massimi esponenti del racconto fantascientifico del secondo dopoguerra, il romanzo Ghiaccio-nove - pubblicato per la prima volta nel 1963 - gli valse la candidatura al prestigioso premio Hugo; ed essendo che il romanzo parla della bomba atomica, e della “nuova bomba atomica”, il ghiaccio-nove, possiamo aggiungere che molto si è detto e si è scritto di Vonnegut, di Ghiaccio-nove e della bomba atomica.

Mentre giravo per le vie di Firenze e pensavo a cosa scrivere a riguardo, mi sono imbattuto in una mostra intitolata Viaggio di luce che combinava le opere di Abel Herrero e Claudio Parmiggiani. Una serie di minute canoe ricolme di pigmenti puri erano associate, una ad una, a grandi tele ricoperte di fluttuanti curve marittime. C’era una scritta impressa sul muro, una frase di Herrero: «un’isola in un mare senza barche è come una prigione dove ogni sogno di navigazione mai realizzato si trasforma in allucinazione».

Ho pensato che valesse la pena lasciar parlare gli altri dell’ironia tagliente di Vonnegut, della sua contrarietà mal celata per chi, nascosto sotto l’etichetta di tecnico e ingegnere, non pone mai in questione le ripercussioni morali ed etiche delle proprie invenzioni. Vale la pena parlare d’altro - mi sono ripetuto - perché ciò che si può iniziare a dire dell’atomica lo si può dire parlando dell’isola. Perché la storia che gravita intorno alle sorti dei tre figli dell’inventore romanzesco della bomba atomica, Felix Hoenikker, ha tre elementi essenziali. Innanzitutto, la sorte di dei tre figli termina sull’isola-stato di San Lorenzo. C’è Frank, vice del dittatore dell’isola “Papa” Monzano, e poi ci sono il terzogenito nano Newt e la sorella maggiore Angela. Secondo elemento: su quella isola ci finisce la voce narrante di Ghiaccio nove, Jonah - come il profeta dell’antico testamento che fu inghiottito da un pesce -, giunto sino a lì perché sta scrivendo una biografia sull’inventore della bomba atomica che non ultimerà mai, Il mondo in cui il giorno finì. Infine, ognuno dei figli tiene con sé un termos contenente l’ultima, diabolica, invenzione di Hoenikker, il ghiaccio-nove: un composto chimico capace di ghiacciare qualsiasi sostanza acquosa con cui entra in contratto, e sviluppato - un po’ per sfida e un po’ per scherzo -, perché un comandante militare era andato da Felix per lamentarsi dei mezzi di terra costantemente impantanati nel fango.

«In termini geografici, un’isola è un pezzo di terra circondato dal mare», sono sempre parole di Herrero. Ma ciò che conta sono le traiettorie che la attraversano e la intercettano, oppure che mancheranno sempre di toccarla.

Un’isola ignota, celata ai normali corsi marittimi, è quasi inesistente - si giunge sulle sue sponde unicamente tramite miracolo o sventura. Per chi si ricorda il racconto Utopia, ricorderà anche che Thomas More dovette celare le coordinate dell’isola dietro un artificio narrativo, ossia aver sentito parlare dell’isola da un marinaio che non ne rivela mai la posizione. La città ideale, posta sull’isola, non può essere raggiunta navigando: deve essere ignota ed impermeabile al corruttibile mondo al di là della barriera del mare.

Per una ragione analoga, nei lunghi secoli in cui gli esegeti cristiani credettero all’esistenza materiale dell’Eden, innumerevoli di loro posero il divino giardino su qualche isolotto dalle coordinate imperscrutabili. Nonostante ciò, alcuni di loro decisero che il piatto era troppo goloso, così si lanciarono in mare alla ricerca della terra perduta e divennero monaci pirati.

Diversamente, se un’isola entra a far parte di una rotta commerciale, diventa un nodo. Pensate alla coppa di Nestore, rinvenuta ad Ischia, e testimonianza della rete che dall’allora Pitekusa si estendeva fino ai territori sotto il dominio di Cartagine e fino alla Spagna, passando per l’Italia meridionale, sino alla Grecia ed ancora più ad oriente. Oppure, un esempio sopra a tutti, quello di Creta, dove passarono Greci e Romani, Bizantini e Andalusi, Genovesi e Turchi.

L’isola dell’Eden è un “altrove” in un primo senso. È altrove, nella misura in cui custodisce ciò che trascende ogni presenza corruttibile e terrena, è perciò una proprietà del cielo più che della terra. L’isola come nodo è anch’essa un “altrove”, questa volta in un secondo senso. Creta fu un tempo la culla della civiltà minoica e lo snodo fondamentale per arrivare da oriente ad occidente: lo fu, e poi non lo fu più - dunque, assai corruttibile. Perché l’isola-nodo è un’altrove in quanto nasce dai luoghi che la attraversano convogliando le proprie traiettorie verso l’atollo; come un nodo si fa, si disfa.

Né il primo né il secondo senso d’isola riguardano il racconto di Vonnegut, che appare più simile a quello espresso da Herrero, l’isola dove ogni sogno di navigazione è allucinazione.

Indietreggiando, si può affermare la più grande banalità: ogni terra è un’isola.

Da questo punto di vista, l’isola non è più un nodo perché non esistono altri luoghi da cui possano partire delle traiettorie che finiranno per intercettarla. C’è soltanto l’isola, così che anche quell’altra porzione di terra emersa, quella “ideale”, l’altrove dal verde più verde, è una pia illusione. La navigazione nel mare, in tal caso, rasenta l’insanità: l’isola d’Utopia è l’allucinazione nata in seno a chi non sopporta la propria condizione d’isola presente a sé stessa, all’infuori della quale non risiede altro. La narrazione fantascientifica coglie più volte nel segno quando parla di “navigazione spaziale” in questi termini. L’umanità è isola non soltanto geograficamente, ma psichicamente ed escatologicamente: la storia, come economia della salvezza, è il racconto e la promessa di una fruttuosa navigazione che ci porti finalmente altrove, al di là di ogni condizione attuale.

Non è cambiato quasi nulla.

L’isola è destinata ad inabissarsi, si alzeranno le maree o correrà il vento, come in Cent’anni di solitudine - un’altra isola - dove ogni parola umana sarà portata via. L’apocalisse rimane una e una sola cosa: la giustificazione di chi non sa come altro vivere. Se non posso evadere - confessa -, se nessuno verrà a salvarmi, devo dichiararmi in prigione…e libero.

Sono le due false alternative sull’isola di San Lorenzo, stare dalla parte del popolo sotto dittatura, oppure stare dalla parte del santone liberatore.

Eppure è cambiato qualcosa.

Sull’isola c’è chi detiene il potere di distruggerla.

Detto nei termini di Ghiaccio-nove, tre idioti inadatti a gestire sé stessi hanno il potere di distruggere ogni forma di vita presente sul pianeta.


La «minaccia atomica» oggi – Attualità di Günther Anders

L’orologio del Giorno del Giudizio 

Novanta secondi alla mezzanotte, ovvero all'Apocalisse. L'orologio del Giorno del Giudizio, meglio noto come «Doomsday Clock», è un'iniziativa ideata nel 1947 dal gruppo di scienziati – tra i quali ex-membri del «Progetto Manhattan» – facente capo al Bulletin of the Atomic Scientists della Università di Chicago. Si tratta di un orologio «metaforico» atto a misurare il pericolo di un'ipotetica fine del mondo – o, per meglio dire, di un'eventuale fine dell'umanità – dovuta, in primis, a cause di natura «atomico-bellica» ma anche relativamente a fenomeni antropici di lungo periodo, ad esempio il riscaldamento globale e la cosiddetta «emergenza climatica». Ogni anno il team di scienziati internazionali del bollettino è chiamato formalmente a riaggiornare le lancette del timer apocalittico, a seconda degli avvenimenti e delle circostanze contingenti. Il pericolo di un'imminente fine viene quantificato indicando simbolicamente la mezzanotte come orizzonte temporale limite, e, in questo senso, i minuti che separano le lancette dallo scoccare dell'ora finale rappresenterebbero la distanza ipotizzata da quell'evento. Se è vero che, dal 2007, l'orologio prende in considerazione ogni variabile che possa provocare danni irrevocabili all'umanità, è vero anche che, al momento della sua creazione, la mezzanotte rappresentava unicamente l'eventualità della guerra atomica e, in sintesi, lo scenario apocalittico della cosiddetta «M.A.D.» o «Mutual Assured Destruction». Per intenderci, è quello che ha messo in scena molto bene Kubrick nel suo celebre Dottor Stranamore, ovvero la «distruzione mutua assicurata» tra due super-potenze nucleari che decidessero, per scelta o per sbaglio, di «aprire il fuoco» del bombardamento atomico, reciprocamente e senza freni, l'una nei confronti dell'altra.

Al momento della sua creazione, durante la guerra fredda, l'orologio fu impostato alle 23:53, ovvero sette minuti prima della mezzanotte. Da allora, le lancette sono state spostate ventitré volte, e la massima vicinanza alla mezzanotte è stata raggiunta nel 2023, in piena tensione internazionale tra Russia e USA durante il conflitto ucraino, ma anche – come se ciò non bastasse – per l'innalzarsi significativo delle temperature globali dell'anno precedente. Il 2024 ha confermato il trend dell'anno prima, ribadendo la distanza simbolica di 90 secondi dal Giudizio Universale. Un tale countdown è, dunque, pericolosamente vicino alla sua conclusione, ad un livello storicamente mai visto prima. La massima lontananza registrata, invece, è stata di 17 minuti, tra il 1991 e il 1995 – significativamente coincidente con i cosiddetti accordi «ST.A.R.T.», ovvero «Strategic Arms Reduction Tready», e, in tal senso, tangente anche al crollo dell'URSS e all'implosione dell'universo sovietico.

Il fattore umano

Non è del tutto privo di pertinenza, a questo proposito, citare l'evento emblematico che vide protagonista Stanisláv Evgráfovič Petróv, tenente colonnello dell'esercito sovietico, il 26 settembre 1983, quando il sistema radar di rilevamento precoce di attacco nucleare dell'URSS registrò un lancio di missili da basi statunitensi. Interpretando correttamente questa segnalazione come un «falso allarme» in quello che, appunto, è passato alla storia come l'«incidente dell'equinozio d'autunno», il tenente Petróv è stato ribattezzato come l'«uomo che fermò l'Apocalisse»: il suo gesto  ha mostrato meglio di ogni «strategia della deterrenza» quali sono i rischi dell'implementazione degli arsenali nucleari e – oggi più di ieri – quali i possibili vantaggi della cosiddetta «agency» del fattore umano, spesso sacrificato nel nome della presunta oggettività della macchina. Oggi, dati anche i più recenti sviluppi dell'A.I.,  si tende a delegare il più possibile agli algoritmi decisioni di qualsiasi tipo – dalle più banali come la scelta della playlist su Spotify, a quelle più rilevanti in termini di globalità.  La mancanza di fattore umano – per meglio dire, il suo occultamento sotto le mentite spoglie dell'emulatore macchinico, che potenzia le nostre capacità, pregi e difetti compresi – non ci deve  rassicurare: dovrebbe piuttosto ulteriormente inquietarci l'immagine riflessa che ci viene restituita, mediante l'intelligenza amplificata dalle macchine, non tanto delle nostre potenzialità in positivo, quanto in negativo della nostra «piena impotenza» in senso apocalittico.

Già nel 1958, nelle sue Tesi sull'età atomica, il filosofo Günther Anders rifletteva sulla data spartiacque del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki come il vero punto di «non-ritorno» per la vita umana su questa terra: l'avvento di quell'«era atomica» intesa come il «tempo finale» (Endzeit) dell'umanità – scrive appunto Anders (1961, Tesi sull’era atomica, p. 201):

«

Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l'era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un'altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo; ma potendo essere distrutti in ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti.

    » 

Per Anders, infatti, oggi non manca tanto la capacità di realizzare effettivamente la fine della umanità sulla Terra e, quindi, l'Apocalisse intesa come avvento del «mondo-senza-uomo», quanto la effettiva «non-capacità» dell'umanità di frenare il compimento dell'età atomica. Insomma, l'umanità è divenuta «antiquata» (Antiquiertheit), ovvero «obsoleta» a sé stessa, in quanto non è più in grado di salvare sé stessa attraverso l'impiego di una “forza catecontica” che ne freni la deriva apocalittica, cioè non tanto attraverso l'impiego di un potere, quanto piuttosto di un «non-potere» reale. Va anche detto, a scanso di equivoci, che la vita nell'era atomica, per Anders, si colloca ambiguamente in una sorta di «limbo» votato alla «dilazione» (Cit.), e cioè a ritardare il più possibile l'inevitabile. Non, perciò, una passiva accettazione della «fine dei tempi» (Zeitenende), quanto piuttosto una poco compiaciuta e assolutamente inquieta vita «sotto la bomba» nel segno del «tempo della fine» (Endzeit).

La minaccia atomica, oggi

Paradossalmente, dunque, per Anders è proprio l'epoca che massimamente ha visto l'umanità padrona del proprio destino – tanto che, anche se recentemente è stato «bocciato» dagli specialisti, è ormai uso comune riferirsi alla nostra era geologica attuale come «antropocene» – è anche quell'«età atomica» esiziale che di tale destino lo spossessa, fino all'inevitabile auto-estinzione. Attualmente, è lo spettro della «minaccia atomica» che torna prepotentemente a farsi largo tra i titoli di giornale: si pensi, per esempio, alle recenti affermazioni di Amihai Eliyahu, ministro del governo Netanyahu, il quale considerava un'opzione papabile l'utilizzo dell'atomica su Gaza, oppure anche le dichiarazioni di Trump che, da presidente, definì l'atomica appunto l'«arma della fine dei tempi». Recentemente, è stato il deputato Tim Walberg del Michigan a suggerire l'utilizzo dell'atomica su Gaza.

Ovviamente, ciò che oggi fa concretamente paura è l'impiego di armi nucleari tattiche nel conflitto in Ucraina, spesso seriamente paventate da parte di Putin. La «minaccia atomica» oggi è dunque il tema tornato inaspettatamente in primo piano e non solo per la cronaca. Anche la proposta filosofica di Anders, infatti, trova oggi un'inaspettata – o forse no – rifioritura, tanto che alcuni interpreti già si sono espressi nei termini di una vera e propria «Anders reinassaince». In Italia, è significativamente stato dedicato un importante numero della nota rivista «Aut-Aut» (397/2023) proprio all'attualità del pensiero di  Anders per il dibattito. Inoltre, l'apertura di una nuova collana «Andersiana» per la casa editrice milanese «Mimesis» ribadisce il ruolo centrale che Anders va acquisendo sulla scena, anche considerando l'interesse che la teoria andersiana è tornata a suscitare all'estero e, significativamente, oltreoceano – dove Anders è sempre stato considerato, a suo stesso dire, un pensatore ostico e di difficile digestione, a differenza per esempio di un Marcuse o della stessa Arendt.

Le centrali atomiche come polveriere nucleari

Il confronto sull'impiego dell'energia nucleare è oggi all'ordine del giorno, corollario del triste ma necessario dibattito sull'autosufficienza energetica che vede le nazioni europee tutte – ma l'Italia in particolare – sempre maggiormente coinvolte. Le riflessioni andersiane su Černobyl, dal punto di vista critico, rivelano un'importante elemento, spesso trascurato: infatti, le centrali nucleari che, in tempo di pace, producono energia – diciamo in modo sicuro, efficiente e pulito – sono le stesse che, in tempo di guerra, si trasformano in potenziali strumenti bellici. Ancora una volta, lo abbiamo visto nel recente scontro russo-ucraino. Oltre all'impiego effettivo di arsenali atomici, anche le centrali nucleari si trasformano letteralmente in “polveriere nucleari” ad elevato tasso di rischio, veri e propri «punti caldi» nelle escalation dei conflitti bellici tra potenze.

In questo senso, l'attualità di Günther Anders sta anche nel ricordarci che, come provocatoriamente sosteneva lui stesso con una celebre battuta: «non ci si può fermare ad insegnare l'Etica Nicomachea, mentre le testate atomiche si accumulano». Per Anders, non c'è effettivamente una grande differenza tra una bomba nucleare progettata esplicitamente per esplodere e una centrale nucleare che, eventualmente, può farlo, se non il fatto che, in effetti, quest'ultima è una bomba atomica in potenza, laddove invece la prima è un ordigno in atto: un dispositivo che esercita attivamente la propria minacciosa presenza sull'umanità in maniera meno subdola o, se vogliamo, necessitando di un «camuffamento mediatico» adeguato. Il fine dell'energia nucleare, sembra dire Anders, è forse appunto quello di far sembrare un'opzione più appetibile, green e innocua, quella stessa potenza atomica che, tuttavia, potrebbe spazzare via l'uomo dalla faccia della terra letteralmente nel tempo di un lampo incandescente.

Anders invita pertanto ad avere il coraggio di avere paura; o, come anche dice in una celebre intervista, tradotta in italiano come Opinioni di un eretico e recentemente ripubblicata (Anders, 2023, p. 70):

«

Coraggio? Non ne so nulla. Non ne ho quasi mai bisogno per il mio agire. Fiducia? Non mi serve. Speranza? Posso solo risponderle: in linea di principio non la conosco. Il mio principio è: anche se nell'orrenda situazione in cui ci siamo messi ci fosse una pur minima possibilità di poter intervenire, si dovrebbe comunque farlo. I miei Comandamenti dell'era atomica, che lei ha ricordato, si chiudono con il mio principio. Esso dice: ”se sono disperato, ciò non mi riguarda!"

» 


Deus absconditus. Note sull’emancipazione di Homo “sacer”

Nel passaggio mai definitivo dal regno della credenza e della superstizione a quello del sapere laico, razionale e scientifico, ha avuto un ruolo cruciale la progressiva sfiducia nei confronti delle pratiche magiche e religiose, sacrificio compreso. Meno acclarato è il fatto che, nel secolare mondo occidentalizzato, le antiche istanze di homo “sacer” riemergono volentieri sotto mentite spoglie, camuffate da rituali emancipati e tecnologicamente avanzati. In realtà, esse non ci hanno mai abbandonato, in barba alle distinzioni tra sacro e profano, alle diatribe sul primato di struttura e sovrastruttura, al senso della storia in quanto lineare processo di secolarizzazione. Attraverso una moltitudine di pratiche quotidiane apparentemente neutre si rinnovano culti rivolti a divinità misconosciute, le quali donano e tolgono la vita come ogni divinità che si rispetti. Non si tratta di cedere alle fallacie dell’analogia, tali per cui il presente storico è reso anacronistico da una sovrapposizione efficace ma surrettizia con il mondo arcaico. Al contrario, occorre prendere coscienza che tra sacro e laicità non passa alcuno iato necessario. Senza scomodare casi probatori eclatanti quali lo sforzo ingegneristico nazista o l’attacco alle Torri Gemelle, è alla quotidianità che occorre guardare per scongiurare il bias dell’evento, il quale rischia di relegare il sacro contemporaneo all’eccezione in un quadro di normalità. Tre esempi tratti dalla vita di tutti i giorni restituiscono la nemesi in oggetto.

Il centro commerciale

L’isolato centro commerciale, a cui giungono in pellegrinaggio migliaia di devoti ogni giorno, non rappresenta affatto un “nonluogo”. Si tratta, invece, di un’area sacra votata all’odierna religione del consumo. Tempio e Granaio, tradizionalmente distinti, hanno finito per coincidere senza avvicendarsi. Oggi come un tempo, la divinità dona prosperità in cambio di prelievi di sostanza vitale. In luogo del sangue sacrificale, scorre copioso il risparmio finanziario. Se i sacerdoti dei vari templi amministrano offerte equivalenti, i Numi si spartiscono i reparti: ad Afrodite quello della bellezza, a Dioniso i vini e liquori, a Demetra il settore ortofrutticolo, ad Asclepio i prodotti farmaceutici, a Efesto quelli tecnologici, ad Apollo le dispense musicali, ad Atena le librerie, e così via per le varie divinità. Contrassegnate ciascuna dai rispettivi marchi di fabbrica, scambiano le loro merci divine con pellegrini giunti a omaggiarle sulla scia della pubblicità, l’equivalente laico della propaganda religiosa. I doni “in offerta”, degni delle ossa taroccate di Prometeo rifilate alla divinità, ingannano consumatori evidentemente indiati. I sacrifici animali veri e propri, celati sotto l’eufemistica promessa di “carne”, avvengono in un altrove così inattingibile, da evitare di contaminare l’area sacra anche solo con l’immaginazione. Ciò denota ulteriormente il desiderio di identificazione del consumatore con le divinità che viene a venerare, le quali tuttavia sono parzialmente a portata di mano, ché altrimenti non potrebbe tendervi. Rinnovare il gesto d’appropriazione identificante, moltiplicarlo per ogni reparto e condividerlo con l’intera comunità, è renderlo rituale.

I mezzi di trasporto

Un’altra divinità misconosciuta è quella delle quattro ruote. Ad essa sono immolate quotidianamente migliaia di vittime in tutto il mondo, umane e non. Il quadrupede della velocità, munito di occhiacci luminosi e prognatismo aerodinamico, è avido di sangue quanto una divinità Azteca. Gli altarini sui cigli delle strade ne sono fedele testimonianza mentre i non umani, si sa, non omaggiano i malcapitati. Gli incidenti da mezzi di trasporto sono tali solo agli occhi di spiriti non avvezzi al sacro ineluttabile. Ancorché inconsci, si tratta di sacrifici umani in piena regola, con le vittime scelte a sorte secondo un copione sacrificale noto e documentato. Non solo i candidati all’immolazione non sono disposti a rinunciare al culto della velocità, ma molti di loro si offrono entusiasti al dio calcando l’acceleratore oltre misura, sovente aiutati dalle stesse sostanze psicoattive che usavano nell’autosacrificio arcaico. Si osserva giustamente come i giovani d’oggi più non pratichino i riti di passaggio all’età adulta, ma si dimentica di aggiungere che sballo e velocità rivestono esattamente tale funzione. Il calcolo utilitaristico dovrebbe convincere iniziati e navigati che la loro fede universalistica va mietendo più vittime delle due guerre mondiali messe assieme, eppure tale verità scandalosa permane inopinata nel diniego collettivo. Ai morti sull’asfalto si sommano quelli di aerei, navi, sottomarini, treni, funivie: un pantheon di divinità zoomorfe adattate ai loro habitat specifici. Se la convergenza evolutiva contempla i veicoli umani, al dio della velocità volentieri si accompagna la dea di altezza e profondità, detta Ubiquità. Così alcuni si schiantano a bordo di uccelli metallici stipati di guano infiammabile, mentre altri si inabissano dentro cetacei a motore che non riemergeranno più, o più prosaicamente scivolano nelle tane degli ascensori.

Archeologia della morte

Un terzo esempio di revival sacrale è dato dall’archeologia della morte. Una volta si andava sottoterra a seppellire i propri cari in loculi più o meno accoglienti, in un misto di nostalgia e terrore che potessero ritornare tra i vivi colmi di risentimento, tanto che prima di sigillare l’accesso venivano forniti di ogni comfort. La nostalgia odierna, viceversa, usa disseppellire quegli stessi resti per riportarli in vita. C’è perfino chi si adopera in preistorici contorcimenti volti a espugnare recessi ancestrali scelti appositamente per l’oblio. L’iter speleologico è identico, ma a ritroso; le torce elettriche. Il ritorno dei morti viventi non fa più paura e anzi sono i benvenuti, quantomeno dal XIX secolo in giù. Antenati immortali lo divengono nuovamente sub specie di mummie e scheletri di progenitori sottoposti all’imperitura ammirazione del pubblico nei musei di storia e scienze naturali. Qui i devoti sono acculturati, la religione ufficiale è quella del sapere storico e scientifico. La collocazione delle suppellettili a fianco delle reliquie è bene che sia la stessa di sottoterra, così la cura certosina nel disporle. Le teche di vetro echeggiano per contrasto l’oscurità delle camere sepolcrali, il controllo dell’umidità è affidato a guardiani tecnologici, i neon evocano la luce dell’aldilà. Un perfetto rovesciamento del culto precedente, allorché erano gli inferi a dover specchiare il mondo supero.

Provvidenza, Immolazione, Velocità, Ubiquità e, dulcis in fundo, Immortalità, sono contrassegni inconfondibili della divinità. Ulteriori marcatori sacrali, per altrettanti culti della contemporaneità, sono rinvenibili nelle odierne società tecnologiche. Rimandiamo la loro investigazione a successivi appuntamenti.


Con Kafka, contro Kafka – Recensione a «Kafka. Pro e Contro» di Günther Anders

Nel 1934, esule a Parigi durante la “piena” nazista, Anders tenne presso l'«Institut d'Études Germaniques»un'importante conferenza su Kafka, per intercessione di Gabriel Marcel. La situazione era già kafkiana di per sé, ma a renderla ancora più surreale fu la conversazione con il direttore, tale Liechtenberg, che dapprima propose ad Anders di parlare di Stefan Zweig, poi accettò la proposta di Anders stesso, sostenendo di avere già sentito il nome del «per niente germanico» Kafka – così lo  definisci lo stesso Anders – e autorizzando l'evento. Davanti ad un uditorio che, eccezion fatta per la allora moglie di Anders – ovvero, niente meno che Hannah Arendt – e il di lui cugino Benjamin, del tema in questione probabilmente non sapeva nulla e mai aveva letto una sola riga di Kafka, Anders tenne quindi la sua conferenza in un clima di “straniamento” generale, parlando di un autore che, in patria come all'estero, era ancora praticamente sconosciuto. Dal punto di vista della critica letteraria è infatti sorprendentemente lungimirante quanto Anders riesca a presagire lo “spirito dei tempi” e ad ammonire i presenti sulla futura “moda kafkista” che avrebbe snaturato, alla lunga, il messaggio del  romanziere boemo. Anders, dunque, fin dal principio non tratta quest'autore come uno scrittore per i soli “iniziati” ma come un fenomeno “pop” e legge nella figura di Kafka il segno di un'intera epoca, profeticamente descritta in trasparenza nella “essenza metamorfica” della sua attualità.

Di che epoca stiamo parlando? Dell'epoca della tecnocrazia, ovviamente. Anders intuisce già durante gli anni dell'esilio il legame profondo che sottende alla società totalitaria che ha davanti – il fenomeno dell'hitlerismo – e alla caratteristica «impersonale» della tecnocrazia, che vede appunto in controluce nella lettura dei racconti kafkiani – e, in particolare, ne Il castello. Fa questo, in un senso ancora troppo analogico per essere espresso col rigore del concetto, ma non per questo meno attento rispetto agli anni successivi della maturità, in cui Anders tornerà ancora ad elaborare questa “critica della società tecnocratica” nei due volumi de L'uomo è antiquato, l'opera della sua «Kehre». Invece, la conferenza su Kafka era destinata a rimanere a lungo inedita – come, del resto, buona parte degli scritti andersiani degli anni dell'esilio – fino alla pubblicazione per C.H. Beck di Monaco, nel '51. Il saggio, subito accolto dalla stroncatura di Max Brod – nume tutelare di tutti i kafisti – inaugura così una feroce querelle che lo stesso Anders riporta poi, in appendice, nella ripubblicazione del testo per la raccolta dei suoi scritti estetici sull'uomo «senza-mondo», edita nel '84 sempre per C.H. Beck. Da tutt'altra parte, invece, il dibattito marxista risulterà ancora troppo acerbo e polarizzato per cogliere i nessi e le implicazioni sociali della lettura andersiana di Kafka, che ne critica la spoliticizzazione; si pensi, ad es., al convegno di critici “austro-marxisti” tenutosi a Libice nel '63, che Anders stesso cita come “dimostrazione per assurdo” della chiusura mentale della critica militante verso Kafka, da quel pulpito strumentalizzato per contrastare il diktat sovietico: propaganda contro la propaganda.

Quello che invece sfuggiva a Brod, e che Anders ribadisce, è che Kafka non rappresenta, per Anders ma anche più in generale, solamente un fatto letterario, ma soprattutto (forse innanzitutto) il primo esempio in letteratura di quella forza “spersonalizzante” che è la tecnica in quanto «apparato» o «impianto, dispositivo» (Gestell) impersonale. Emblematica, in tale senso, è l'interpretazione che Anders fornisce del «Castello» kafkiano come il luogo “anonimo” del potere. La «chiamata senza colui che chiama» è l'essenza fondamentale della ragione tecnica, che “piove” dall'alto sulle teste del malcapitato «agrimensore K.» reo di avere semplicemente fatto il suo lavoro, nel tentativo di entrare tra le mura del castello medesimo. L'inversione della colpa e della pena, stavolta evidente nell'altro romanzo di Kafka preso in analisi da Anders – ovvero il Processo – rappresenta invece la situazione di ricattabilità a cui costantemente i cittadini sono sottoposti nei regimi totalitari: tuttavia, l'elemento di novità espresso da Kafka ha ancora una volta molto più a che fare con la “tecnocrazia” che con il “tecnocrate” di turno, e riguarda precisamente la fine del nesso causale tra la colpa e la pena ad essa  commisurata. In sintesi, nel regno della tecnocrazia incontrastata non si tratta più di venire puniti perché colpevoli, ma viceversa si diventa colpevoli in base alla punizione a cui si viene condannati.

Nella lettura andersiana di Kafka, pertanto, l'elemento di critica letteraria è solo in apparenza predominante. La figura di K. come colui che è imprigionato nel «non-potere-arrivare-al mondo» è, in questo senso, in una sola sintesi la trascrizione autobiografica della condizione esule di Anders medesimo – e, in generale, dell'ebreo come tradizionalmente “errante” – ma anche, ad un tempo, il riassunto della situazione di “spossessamento” di cui l'uomo si trova ad essere vittima nelle società a stampo “tecno-totalitario” e, in tal senso, l'anticipazione e la premessa a tutto il successivo lavoro di  sviluppo di una critica alla “società tecnocratica” così definita, in Anders. Motivi successivi, quali il celebre tema della «vergogna prometeica», trovano già una loro prima formulazione autonoma nelle pagine del saggio su Kafka; oppure, la cosiddetta «religiosa irreligiosità» che, per Anders, pervade l'intero corpus letterario kafkiano, può certamente essere ricondotta con facilità alle riflessioni sulla “religione immanente” nell'età della tecnocrazia che lo stesso Anders sviluppa in seguito. Da questo punto di vista, Anders lettore di Kafka non è soltanto un aiuto per la comprensione della caratura del romanziere boemo, ma anche uno strumento per l'elaborazione concettuale di una vera e propria sua originale “teoria critica” della tecnocrazia, com'era appunto intenzione del filosofo stesso.

Con Kafka, quindi, ma anche contro Kafka: contro l'elevazione ad idolo dell'immagine che il romanziere boemo mette in luce; contro la psicopatologia della vita nella società tecnocratica: con il sostegno di Kafka, ma non a favore del suo appiattimento in una «Kafka-mode». Anders forse non è il lettore che Kafka poteva aspettarsi, ma certamente è stato l'interprete di cui Kafka aveva bisogno.


Pannelli fotovoltaici e tuberi - Una storia di ibridazione tra tecnologia e ripopolamento

Gagliano Aterno è uno splendido paese abruzzese di struttura medievale, nella Valle Subequana, ai piedi della catena del Sirente, dominato da uno splendido castello del XII secolo e circondato, in direzione delle gole che collegano la valle ai territori dei Peligni, da ampie terre coltivabili, che ne hanno determinato la fortuna nei secoli passati, e da boschi attraverso cui si sale verso le vette del Sirente.

Oggi Gagliano Aterno conta poco più di 200 residenti, di cui solo 150 circa vi abitano in modo permanente. Non è sempre stato così: nel 1931 la popolazione era di 1.926 persone e negli anni ’50 superava ancora le mille persone, tanto che si giocava ogni anno un torneo di calcio con anche 10 squadre, che rappresentavano altrettante zone del paese.

Il declino demografico, iniziato con un brusco calo di abitanti a cavallo della II guerra mondiale e segnato dall’emigrazione diretta in Canada e negli Stati Uniti, si è intensificato nella seconda metà del secolo scorso, con lo spostamento degli abitanti verso le grandi città italiane - Roma, Bologna, Milano, Torino – e verso la costa pescarese, fino a raggiungere gli attuali 200-230 residenti.

Dal racconto degli anziani si coglie che, negli anni ’50 e ’60, il paese era pieno di vita, con 5 taverne, 3 macellerie, almeno altri 2 negozi di alimentari, un fabbro, un calzolaio e tantissimi giovani.

Negli anni ’80 c’erano ancora molti ragazzi, un ritrovo dove suonare e ballare, due bar, una pizzeria, la palestra, un forno rinomato in tutta la valle, 3 negozi di alimentari e un verduriere, la farmacia, un ufficio postale aperto tutti i giorni, un parroco stabile.

Fino a un paio di anni fa nel paese erano rimasti: un solo bar, un ufficio postale operativo due giorni alla settimana, che operava a giorni alterni in un container, il medico di famiglia tre volte alla settimana nei locali della vecchia scuola, e basta. 

Niente pediatra, niente farmacia, niente parroco stabile, nessun luogo di aggregazione, nessun negozio. Il tessuto imprenditoriale locale era limitato ad una – fiorente, va detto – impresa boschiva, una falegnameria con attività minima e una azienda avicola. Nessuna opportunità di lavoro per i giovani, nessuna opportunità per nuove imprese.

Ecco, questo era il quadro del paese nel 2020, quadro aggravato da una situazione di ampia non agibilità di molti fabbricati a seguito del terremoto del 2009 e dai ritardi nell’avvio dei lavori di riqualificazione sismica per i quali erano stati destinati fondi significativi.

PERIMETRO DEL PROBLEMA

Il giovane Sindaco, Luca Santilli, eletto nel 2020 nel mezzo della crisi pandemica, aveva di fronte a sé un problema su diverse dimensioni: demografico - popolazione scarsa e di età avanzata; di assenza quasi totale di servizi; di minima disponibilità finanziaria a causa del gettito fiscale quasi azzerato. Pareva che la crisi fosse inarrestabile e che il destino di spopolamento fosse segnato.

L’intento del Sindaco era, invece, di far “rivivere il paese”; fuori dalla retorica, questa intenzione sottende due macro-obiettivi: invertire la tendenza demografica e ricreare un tessuto di imprese e di servizi che renda il paese un luogo dove si può vivere bene e desiderare di vivere.

Il momento di svolta è l’incontro con MIM – Montagne in Movimento, un gruppo di ricerca-azione in antropologia applicata, progetto affiliato al Centro Universitario GREEN dell’Università della Valle d’Aosta, con cui il sindaco delinea un progetto di ampio respiro per “dare nuova vita alla comunità” e lavorare “per la salvaguardia della memoria storica e delle tradizioni di Gagliano”.

I catalizzatori (in gergo teatrale si potrebbe dire: i pretesti) del processo di avvio di tutto il progetto sono due: le nuove e più efficienti tecnologie del fotovoltaico e la legge sulle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER).

LE TECNOLOGIE

Lo sviluppo del fotovoltaico permette, oggi: 1) di generare potenze di picco, sotto piena insolazione, quasi triple rispetto a solo 10 anni fa, 2) di immagazzinare energia in batterie di dimensioni, prezzo e complessità contenuta, 3) grazie alla cosiddetta Smart Grid, di scambiare energia - efficacemente e senza perdite significative – tra produttori e micro-produttori e i punti di consumo distribuiti sul territorio, in modo intelligente (davvero), allineando momento di produzione e momento del bisogno energetico, 4) di tenere conto e consuntivare sia l’energia prodotta e immessa nella rete che dell’energia consumata, in modo da poter retribuire adeguatamente i produttori.

Queste tecnologie rendono finalmente fattibile, interessante e remunerativo, per privati e comunità, realizzare degli impianti di produzione di energia elettrica, il cui prodotto può essere utilizzato in tempo reale per i propri bisogni (ad esempio: illuminazione pubblica, utilizzo di elettrodomestici privati, punti ricarica di mezzi elettrici) oppure rivenduto al Gestore dei Servizi Energetici nazionale a prezzi concordati.

LE LEGGI

La legge sulle Comunità Energetiche Rinnovabili (CER), dove “rinnovabili” si riferisce alle energie ma può essere anche inteso in senso esteso come rinnovamento delle comunità, recita che le CER sono “sono soggetti giuridici costituiti da privati cittadini, enti e imprese, che consumano energia autoprodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e hanno come scopo principale quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali ai propri membri e alle aree in cui operano”.

È interessante, appunto, come la legge mette in primo piano il tema della produzione energetica ma include anche i benefici ambientali – abbastanza ovvi, trattandosi di energia “pulita” – e quelli economico-sociali per la comunità stessa e le persone che ne fanno parte. È esplicitata la centralità della dimensione sociale e comunitaria, poiché il tema dell’accordo tra i partecipanti alla comunità è un elemento necessario e irrinunciabile per la costituzione della CER e per la realizzazione del progetto.

Altre leggi che fungono da catalizzatori sono quelle che garantiscono finanziamenti per il rilancio della montagna, delle imprese agricole e produttive montane, dello sviluppo della popolazione. 

In ultimo, hanno giocato un ruolo importante le norme e gli incentivi per le forme di neo-popolamento che hanno permesso di creare NEO – Nuove Esperienze Ospitali, il nucleo di attrazione di giovani intenzionati a trasferirsi nel paese per avviare nuove attività.

IL PROGETTO 

Il piano complessivo che delineano il sindaco di Gagliano Aterno e MIM fa, quindi, leva sulle tecnologie evolute del fotovoltaico, dell’accumulo in batterie e della Smart Grid, sulla legislazione delle Comunità Energetiche e sulla disponibilità di fondi per progetti di ricerca sul territorio, con l’obiettivo proteiforme di generare coesione all’interno della comunità rispetto al piano di rilancio, realizzare servizi per la cittadinanza, generare opportunità di occupazione e proposte turistiche che possano attrarre energie – questa volta umane – e persone.

Il progetto prende avvio e si sviluppa attraverso più di 50 assemblee cittadine ad ampia partecipazione (Aristotele e Rousseau avrebbero sorriso, pensando alle dimensioni quasi ottimali della comunità), la realizzazione di bandi di ricerca rivolti a studenti e dottorandi, lo studio di fattibilità tecnico-operativo di impianti fotovoltaici installati in aree pubbliche dismesse – come un vecchio lavatoio – e sui tetti delle abitazioni private. 

PRIMI RISULTATI

Il primo risultato visibile, che è parte e inizio dello stesso cammino progettuale, è l’ampia partecipazione alle numerose assemblee in cui vengono messi a fuoco i desideri e gli obiettivi dei singoli cittadini e le loro proposte progettuali. 

Seguono, nel giro di due anni: 

  • la presenza di più di 15 ricercatori che aderiscono ai bandi e partecipano attivamente alla vita del paese, in alcuni casi inserendosi nel tessuto di relazioni in maniera che può fare pensare a forme di stabilizzazione; 
  • l’installazione di pannelli fotovoltaici per circa 40 KW e di una colonnina di ricarica per veicoli elettrici ed ibridi;
  • la nascita di 3 nuove attività, micro-imprese radicate nel paese, quali un secondo esercizio di ristorazione street food, un forno che aprirà a brevissimo, una attività di escursioni guidate in montagna;
  • la realizzazione di forme di trasmissione di tradizioni culturali – soprattutto culinarie, si parla dell’Abruzzo! - che rischiavano di essere perse;
  • la nascita di una web-radio cittadina;
  • almeno 3 casi di ritorni al paese di persone che lavoravano lontano e che hanno deciso, rispettivamente, di gestire la radio, di rilanciare la produzione di famiglia di patate, di continuare l’attività agricola con il fratello (che non si era mai mosso dal paese) e, contestualmente, di gestire l’attività di escursioni guidate in montagna;  
  • una palestra di arrampicata che ospiterà dei corsi estivi;
  • la apertura – in questi giorni - di una libreria, i cui proprietari, in corrispondenza con il pensionamento hanno deciso di trasferirsi, con armi e bagagli, da Roma a Gagliano.

Sono grandi risultati, soprattutto pensando al punto di partenza, risultati che possono far pensare alla reale possibilità di rilancio del paese.

CONSIDERAZIONI SOCIOLOGICHE MINIME

In maniera molto sintetica e semplificata, rimandando all’articolo più ampio e articolato di Paolo Bottazzini, si può provare ad inscrivere quello che è successo negli schemi della Actor Network Theory sviluppata da Bruno Latour (Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, 2005, Oxford University Press, Oxford). 

Si possono, infatti, identificare una serie di attori umani e ibridi, attanti (nella definizione di Latour); tra gli umani: il sindaco, i ricercatori di MIM, i singoli cittadini; tra gli ibridi: le tecnologie fotovoltaiche, le batterie, la Smart Grid, le normative e i bandi di ricerca; si può rintracciare un lavoro capillare di traduzione del progetto in forma di interessi particolari degli attori, lavoro di traduzione che è sfociato nell’arruolamento di una parte significativa della popolazione, dei ricercatori, dei “nuovi venuti”, di abitanti che avevano lasciato il paese e sono ritornati e, infine, di almeno un giovane che ha deciso di non andare via – pur avendone la possibilità – e di dedicarsi al progetto e alle attività di famiglia.

Questi attori, in linea con la teoria Actor-Network, hanno costituito una rete – in parte formalizzata e in parte informale – che opera in maniera organizzata e quasi sincrona a favore del progetto di rilancio del paese e che cerca, dove possibile, di arruolare nuovi e vecchi abitanti.


Le mani e la techne - Storia di un’origine mancata, da Platone a Latour

1. TECHNE E PREGIUDIZIO

Una delle eredità più durature di Platone è il sospetto nei confronti della techne. La necessità di separare il vero sapere dall’arte dei sofisti è il movente di questo pregiudizio: Protagora, Gorgia, Lisia, e i loro colleghi, inventano tecniche di persuasione di cui vendono la padronanza, o i prodotti, al miglior offerente, senza mostrare alcun interesse per la verità. La manipolazione persegue il vantaggio egoistico di chi la pratica, mentre il logos della filosofia (della scienza) è guidato dalla physis, segue la forma e le prescrizioni di ciò che rimane stabile nell’Essere. L’atteggiamento con cui si pretende di mostrare l’appartenenza all’aristocrazia del gusto e del senno attraverso il rifiuto dell’innovazione tecnologica, e tramite l’ostentazione di disorientamento tra le pratiche e i prodotti digitali, ancora oggi è un atto di accusa contro la corruzione sofistica della techne, e una proclamazione di fedeltà alla purezza dello spirito.

2. MANCANZA DI ESSENZA

Platone proponeva lo scavo interiore per partecipare alla natura inalterabile della verità: l’anamnesi riporta alla luce le idee, la cui eternità si rispecchia in quella dei cieli che insegnano al sapiente la via per la disciplina del sapere e del decidere. La metafisica ha fissato nell’opposizione tra physis e techne, o tra logos e doxa (ma questo significa anche tra trascendentale ed empirico, tra origine e decadenza) il criterio di separazione tra il filosofo e il sofista, anche quando la tesi dell’accesso ad una sfera di universali eterni ha perso la sua presa sulla comunità scientifica, e la moda ha imposto a tutti un atto di fede nell’empirismo. Come insegna Stiegler (1994), il dibattito seguito all’atto di nascita dell’antropologia moderna, con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau, avrebbe dovuto mettere in guardia da tempo sulla validità di questa disgiunzione, introducendo almeno un nuovo genere di sospetto, che colpisce l’autonomia della natura da un lato, la strumentalità reificante della techne dall’altro lato, e la loro opposizione reciproca.

L’uomo delle origini viene descritto da Rousseau come quello moderno: ha mani e piedi e cammina eretto. Leroi-Gourhan (1964-65) dimostra con la paleontologia che la deambulazione bipede permette la liberazione della mano per la costruzione di utensili e strumenti. E l’affrancamento della mano per la tecnica stabilisce un nuovo rapporto tra la mano, il volto e la parola. Quindi Rousseau immagina un uomo delle origini che ha già le caratteristiche di quello tecnicizzato; ma nel suo errore (molto istruttivo) lo descrive come un quasi-animale che non pensa e non si sposta, usa le mani per afferrare e non per produrre, cogliendo tutto ciò che la natura gli offre in modo spontaneo. Nell’origine il tempo (lo spazio, il mondo) non esiste, proprio perché l’uomo non frequenta alcun presagio cosciente della morte, e in generale nessuna forma di programma: non ha desideri né preoccupazioni, ma solo bisogni soddisfatti immediatamente da ciò che è a portata di mano. Il pensiero e il lavoro non vengono alla luce se non per placare passioni e paura – che a loro volta irrompono nella vita dell’uomo solo se la previsione ha aperto un mondo dove gli strumenti materializzati dalla tecnica sono programmati per proteggere dall’incombenza della morte. 

L’istinto è costrittivo per gli animali: il gatto non mangia i tuberi o la frutta, in assenza di carne, e l’oca non mangia la carne in assenza di tuberi. L’uomo invece è libero di imitare il comportamento di qualunque animale, aprendosi la via alla soddisfazione del bisogno con la carne o con i tuberi, secondo la disponibilità. La libertà è una potenzialità dell’origine che annienta l’origine stessa nel momento in cui passa all’atto, perché la ragione che la realizza innesca quel mondo di tecnica e passioni che allontanano dall’immobilità e indifferenza originari. La libertà è la seconda origine dell’uomo, o la sua assenza di origine, la scomparsa o la mancanza di un’essenza. Le conclusioni speculative di Rousseau finiscono comunque per coincidere con quelle della paleontologia di Leroi-Gourhan.

Le passioni di Nietzsche, le pulsioni di Freud, la ragione di Hegel, la società di Hobbes, il lavoro di Marx non possono aspirare a descrivere la condizione essenziale dell’uomo, la sua origine, che invece è sempre già annullata nel momento stesso in cui l’ominazione viene messa in moto da progettazione e tecnica, e che procede con la storia del loro sviluppo: l’interiorità è un ripiegamento del programma di gesti con cui le mani fabbricano utensili, dello schema della loro applicazione per gli usi futuri, del piano per la loro disponibilità contro gli agguati della morte. Ma questa stessa filogenesi precipita nell’oblio (persa di vista da Rousseau e persino da Heidegger), dimenticata nell’eccesso di prossimità degli oggetti tecnici, resa invisibile nella disponibilità con cui i dispositivi sono sempre sottomano, cancellata nell’esperienza che in ogni epoca essi pongono in essere. Eppure, affinché intellettuali, politici e artisti possano ostentare il loro distacco dall’innovazione digitale e dalle tendenze delle comunità virtuali, affinché la spiritualità che effonde dal loro intimo possa segnalare a tutti la loro nobiltà d’animo, è necessaria tutta la storia delle tecniche, dalle tradizioni della coltivazione di tuberi e alberi da frutta, fino all’impaginazione di libri e riviste con InDesign e alla programmazione delle ALI che sviluppano testi e immagini pubblicati sui giornali internazionali. No techne, no party.

3. DISASTRI E SFERE

Sloterdijk (1998 e 1999) ricostruisce il processo con cui Copernico ha scoperchiato la Terra lasciandola esposta al freddo del cosmo, senza più l’involucro delle stelle fisse, e l’impegno con cui gli uomini hanno progettato sfere che tornassero ad avvolgerla e a riscaldarla. Eliminare la stabilità degli astri equivale a rimuovere l’architettura stessa della physis, il primo grande schema di design del mondo, che Platone ha posto come senso dell’universo, e come sistema di orientamento del saggio e della comunità: un vero e proprio disastro, cui è stato necessario rimediare attraverso la pianificazione di nuovi globi che hanno a più riprese protetto e dissolto i territori dei regni dell’Occidente, fino alla globalizzazione del mondo contemporaneo. 

L’uomo non esce mai in una natura spontanea che si dispiega in un «fuori» dalle sfere in cui agiscono le tecniche di immunità e comunità programmate dalla tecnica. Nell’universo di Platone le stelle fisse sono attori della strategia politica che salda la società ateniese, almeno quanto lo è l’istituto degli arconti o quello della bulè: a loro è assegnata la regìa ideologica della forma di vita nella città e l’ontologia dell’uomo greco. Latour (1984) mostra come i miasmi siano attori della struttura civile che compie la trasformazione sei-settecentesca dello Stato dalla configurazione feudale a quella burocratica moderna: la nascita degli uffici di igiene pubblica, l’educazione della famiglia e la cura dei figli, la nuova morale borghese, la ristrutturazione urbanistica delle grandi città, la modellazione della rete dei servizi fognari e idraulici, sono le mosse della costruzione di più sfere immunitarie contro la diffusione di peste e colera, e il contesto di formazione delle metropoli della rivoluzione industriale e del primo capitalismo. La vittoria del movimento di Pasteur coincide con l’introduzione di un nuovo attore sociale, il microbo, che in parte prende il posto dei miasmi, ma che di fatto sviluppa un nuovo mondo di istituzioni mediche e di welfare, quella che conduce all’antropologia occidentale moderna e postmoderna, dove alla cura dell’individuo si sostituisce il presidio di un’intera tassonomia di agenti patogeni. 

Il contributo sui Comunelli di Ferriere su Controversie mostra come un bosco non sia il «fuori» del villaggio, ma sia l’attore che ne consolida la comunità, arrestando il suo processo di disgregazione; quello su Gagliano Aterno evidenzia come la sfera di appartenenza alla comunità sia inscritta nella ripresa della tradizione della coltivazione dei tuberi e nell’innovazione della posa dei pannelli solari. Tuberi e alberi da frutto possono incrociare il programma genetico di alcune specie di animali, ed essere obbligati ad una simbiosi da cui non possono svincolarsi; per gli uomini il programma è tecnico, non è costrittivo ma deliberato, e come ogni gramma si iscrive negli attori coinvolti e viene regolato da una grammatica. Latour (2005) la tratteggia sul modello della grammatica attanziale di Greimas (1966), mostrando che ogni forma di vita si istanzia in una rete di relazioni tra ruoli registrati in attanti (malati, contadini, miasmi, batteri, canali fognari, tuberi – a pari diritto umani o non umani), il cui grado di integrazione nella sintassi del programma misura il livello di tenuta o di dissoluzione della società in cui esso si esprime. La struttura di rapporti da cui è disegnata la rete manifesta un significato, come le isotopie narrative di Greimas, che può essere tradotto nel programma di comportamento di altri sistemi: a loro volta, questi possono essere intercettati e arruolati – l’interazione dei turisti con la foresta di Ferriere si traduce nell’inserimento in una sfera di appartenenza territoriale, il contatto tra la nuova urbanistica del Settecento e la privatizzazione dei terreni agricoli (Enclosure Act 1773) alimenta la prima rivoluzione capitalistica, l’incontro tra il movimento della «pastorizzazione» e l’espansionismo coloniale apre la globalizzazione moderna.

Ora che il cielo non è più la cupola delle stelle fisse e delle scorribande degli dèi iperurani con le loro bighe, ma una sfera della quale ci dobbiamo prendere cura rammendando i buchi nella maglia di ozono – l’Actor Network Theory di Latour invita ad abbandonare la ricerca della verità in una psyché che, comunque interpretata, continua a macinare la metafisica delle idee di Platone: chiede di imparare a osservare un mondo dove l’uomo non esce mai in spazi non pianificati, ma progetta ambienti e tempi che sono sottoposti a revisioni continue. Rivendica la necessità di rendere questa attività di design finalmente consapevole e condivisa.

 

BIBLIOGRAFIA

Greimas, Algirdas Julien, Sémantique structurale: recherche de méthode, Larousse, Paris 1966.

Latour, Bruno, Les Microbes. Guerre et paix, suivi de Irréductions, Métailié, «Pandore», Paris 1984.

Latour, Bruno, Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, Oxford 2005.

Leroi-Gourhan, André, Le Geste et la Parole, Albin Michel,Parigi 1964-65.

Sloterdijk, Peter, Sphären I – Blasen, Mikrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998.

Sloterdijk, Peter, Sphären II – Globen, Makrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999.

Stiegler, Bernard, La Technique et le temps, volume 1: La Faute d’Épiméthée, Galilée, Paris 1994.