Assistiamo quotidianamente a conflitti, liti, controversie.

Sia nel mondo della scienza come in quelli di altre professioni o sfere della vita: dibattiti accademici, consigli di amministrazione, talk shows, discussioni in casa e al bar.

Ci si interroga: “la competenza è sotto attacco?”, “la scienza è denigrata? oppure “Hamas è un gruppo terroristico?”, “la violenza sulle donne è in crescita?”.

Queste domande, apparentemente così diverse, hanno in comune lo stesso problema: prima di rispondere (aprir bocca) bisognerebbe definire con chiarezza che cosa si intende per ‘competenza’, ‘scienza’, ‘terrorista’ e ‘violenza’.

Si tratta di un requisito che accomuna sia il mondo della scienza che quello delle professioni o della vita quotidiana.

Ma che cos’è una ‘definizione’? Secondo l’epistemologo e metodologo Marradi (1984), la definizione è un raccordo (un ponte) tra un concetto e un termine. Essa è essenziale perché, purtroppo o per fortuna, il patrimonio terminologico (parole, segni, immagini) è più povero del patrimonio concettuale.

In altre parole, una cultura è solitamente più ricca di concetti che di termini. Infatti, spesso, a 1 termine vengono associati 4-5 concetti/significati. Ad esempio la parola ‘piano’ può indicare uno strumento musicale, un programma, il livello di un’abitazione, il volume (basso) di un suono, l’avverbio ‘lentamente’.

Questo divario comporta il rischio dell’incomprensione, perché a una (stessa) parola o immagine possono venire associati significati diversi: le persone pensano di parlare della stessa cosa (perché usano la stessa parola), ma in realtà parlano di cose diverse. Infatti i concetti hanno un grosso difetto: non si vedono (come i segni) né si sentono (come le parole). Quindi, sapere che cosa ha in testa una persona quando pronuncia o scrive un termine non è sempre facile (anche se il contesto del discorso può aiutare a disambiguare).

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Le definizioni (lessicali) sono quindi quelle proposizioni che troviamo nei dizionari, che descrivono un termine del lessico di una lingua, solitamente associando una lettera dell’alfabeto (a, b, c …) o un numero (1, 2, 3 …) al significato/concetto del termine stesso.

Tuttavia nella scienza, oltre alla definizione lessicale, agisce anche la definizione operativa.

E’ una delle poche procedure cognitive che distingue (o dovrebbe distinguere) la scienza da qualsiasi altra attività conoscitiva.

Infatti, altre procedure (come formulare ipotesi, campionare, generalizzare, fare confronti, fare previsioni, verificare la veridicità delle affermazioni ecc.) sono presenti anche nel ragionamento di senso-comune.

Ma la definizione operativa no. Essa ci permette di “problematizzare l’osservazione” (Cicourel 1964: 128; 1976: XX), di denaturalizzare il mondo sociale che stiamo indagando in contrasto con il comportamento di colui che lo osserva come naturale, ovvio, dato per scontato, normale. Ovviamente ci sono sempre delle eccezioni: la polizia scientifica (lo dice la parola stessa) usa procedure (per certi versi) assimilabili alle procedure scientifiche.

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Per cui la definizione operativa consiste nel “complesso delle regole che guidano le operazioni con cui lo stato di ciascun caso sulla proprietà X viene rilevato, assegnato a una delle categorie stabilite […] e registrato nel modo necessario a permettere […] l’analisi con le tecniche che si intendono usare. Molte di queste regole sono consuetudini che governano in via generale certi aspetti tecnici della ricerca […] altre regole sono specifiche, e il ricercatore deve ogni volta esplicitarle se vuole trasformare la proprietà X in una variabile della sua ricerca” (Marradi, 1984, p. 23).

Fra queste consuetudini e regole troviamo la definizione lessicale dell’indicatore, le procedure di accesso al campo, gli accorgimenti (garanzie, contratti informali) per superare la diffidenza degli attori, il modo di raccogliere le note etnografiche, le eventuali procedure di controllo della veridicità delle risposte date.

E senza una definizione non possiamo iniziare una ricerca.

Poniamo di voler fare un ricerca sulla povertà a Milano. Vogliamo intervistare 100 poveri. Come li scegliamo?

Occorre quindi PRIMA dare una definizione lessicale di ‘povero’ (chi è un povero? Che cosa fa di una persona un povero? Quali requisiti deve avere una persona per essere considerata povero? Questa procedura si chiama “intensione del concetto”) per POI scegliere i 100 casi, tra tutti i soggetti di Milano che potenzialmente (estensione) hanno i requisiti delineati. Nel delineare i requisiti, si dovrà dare una risposta a domande complesse: chi ha una casa di proprietà, ma è senza lavoro, è povero? Chi ha un lavoro stabile, ma non riesce ad arrivare alla fine del mese, è povero? Chi vive in condizioni di indigenza, ma ha una cospicua somma di denaro da parte, è povero?

Lo stesso dicasi se si vuole fare un’indagine su 100 famiglie di Milano.

Come le scegliamo? Di nuovo, dobbiamo dare una definizione lessicale di ‘famiglia’ (intensione del concetto): chi è oppure cos’è una famiglia? Che cosa costituisce l’essere una famiglia? Quali di queste situazioni chiamereste “famiglia”: una coppia eterosessuale sposata, ma senza figli? Una madre separata, che vive sola con sua figlia? Un gruppo di studenti oppure di religiosi che vivono nella stessa casa? Una coppia eterosessuale non sposata (coppia di fatto)? Una coppia omosessuale che vive da anni nella stessa casa?

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Per cui definire un termine, prima di aprire una qualsiasi discussione su un qualsiasi argomento, diventa essenziale per evitare fraintendimenti, litigare, non comprendersi. Pensiamo a quanti conflitti si sarebbero potuti evitare se si fossero PRIMA definite le parole ‘flessibilità’, ‘valutazione’, ‘merito’ formazione’, ‘innovazione’ o “scientifico”

Sapendo bene che le definizioni non si danno una volta per sempre, ma possono cambiare nel tempo.

Ad esempio, Cesare Battisti, che (essendo cittadino austriaco, dal momento che gli austriaci a quel tempo governavano legittimamente il Nordest, e diventato dal 1911 al 1914 persino deputato nel parlamento di Vienna) fu catturato mentre combattiva gli austriaci e poi impiccato nel 1916 nel castello di Trento, fu un patriota o un traditore?

E Menachem W. Begin (futuro primo ministro israeliano, assegnatario del Nobel per la pace nel 1978) che nel maggio del 1942 aderì all’Irgun (gruppo paramilitare dedito ad attività terroristica antiaraba e antinglese) del quale divenne il leader, organizzando vari attentati contro militari britannici, culminati con la bomba nel King David Hotel, con novanta morti, e l’assalto alla prigione di Acri? Nel 1948, nonostante la proclamazione dello Stato di Israele, Begin si rifiutò di sciogliere l’Irgun, che si rese responsabile di un massacro nel villaggio palestinese di Deir Yassin, dove morirono un centinaio di civili, tra cui donne e bambini. Begin fu un terrorista oppure un uomo di pace?

E, infine, Yāsser ʿArafāt, combattente e fondatore dell’organizzazione Al-Fatah, dedita alla lotta armata, ma anche assegnatario del Nobel per la pace nel 1994, fu un terrorista o un uomo di pace?

Prima di rispondere, ricorrere alla pratica (scientifica) della definizione operativa potrebbe essere d’aiuto.

 

Autore

  • Giampietro Gobo

    Professore ordinario di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Per molti anni si è occupato di epistemologia e metodologia della ricerca sociale. Attualmente si dedica allo studio dei “sensi sociali” e di controversie scientifiche nel campo della salute. Per le sue pubblicazioni cliccare il link qui sotto.