Nella prima parte di questa riflessione sul tema del doppio click come atteggiamento blasé nei confronti del mondo, abbiamo associato lo scientismo, ovvero la forma mentis che assegna alla scienza il monopolio della verità, a quanto di più frivolo possa esserci, la pratica del turismo, con il suo portato inevitabilmente classista ed essenzialista[1].

In questa seconda parte, tenteremo di completare questa prima argomentazionecon la pars construens: ovvero, ora che sappiamo distinguere lo scienziato dal sacerdote e dalla guida turistica, come possiamo prendere le distanze da un modo di fare scienza in maniera indifferente e ingenua, e invece affermarne uno responsabile?

Per rispondere possiamo seguire ancora Latour, nel suo confronto fra il modello a diffusione, tipico dello scientismo, a cui oppone quello a traduzione[2].

 

Il modello a diffusione

Questo modello ci è molto familiare e definisce il sapere e la cultura basandosi sul concetto di scoperta. In breve, si ritiene che le discipline scientifiche accrescano di un certo quantitativo le cose conosciute sui fatti del mondo, e quanto più si sarà in possesso di nuove scoperte a proposito della natura di questi fatti, quanto più sarà possibile divulgarli, ovvero diffonderli, presso il pubblico più allargato.

Attraverso la diffusione, questo pubblico può prendere atto e venire a patti col nuovo stato di cose. Stato che, in fondo, potrebbe parlare da sé, mentre basta che sia semplicemente rivelato dagli esperti, di modo che «quando un fatto non viene creduto, quando un’innovazione non viene recepita, quando una teoria viene impiegata in modo del tutto diverso, il modello a diffusione si limita a dire ‘alcuni gruppi fanno resistenza’ … [Quindi] i diffusionisti non fanno altro che aggiungere al ritratto nuovi gruppi sociali passivi che possono rallentare con la loro inerzia la diffusione dell’idea o smorzare gli effetti della tecnica. In altre parole, il modello a diffusione inventa una società per spiegare l’ineguale diffusione di idee e di macchine» (Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, p. 183).

Questa, a dire il vero, e l’idea più comune che abbiamo dell’attività del sapere istituzionalizzato, a cui affidiamo un ruolo emancipatorio. Ovvero, pensiamo che al multiculturalismo tipico dei gruppi sociali vada sempre comunque opposto il mononaturalismo offerto dalla ricerca scientifica. L’unica dimensione capace di far convergere le disposizioni delle intelligenze umane su una base di accordo universale, a scapito dei turbamenti politici, sociali, e degli interessi di parte.

Il modello a diffusione è quindi inevitabilmente asimmetrico (sì, classista), perché ogni nuova “scoperta” prevede qualcuno che ancora non la conosce, ma a cui presto deve perentoriamente adeguarsi, pena la sua arretratezza e ignoranza: pensiamo, ad esempio, alla frase-comando «ormai viviamo nell’epoca dell’IA…».

Il progressismo, o l’attitudine al pensiero critico[3] , in realtà, non appartiene solamente agli scienziati col camice bianco, ma è un atteggiamento diffuso trasversalmente, per esempio anche dai complottisti, gli “acerrimi avversari” degli scienziati. «Vi ricordate i bei vecchi tempi, quando i professori universitari potevano guardare dall’alto in basso le persone comuni perché quei buzzurri credevano ingenuamente alla chiesa, la famiglia e la torta di mele? Le cose sono cambiate un sacco, almeno nel mio paese. Adesso sono io quello che crede ingenuamente in alcuni fatti perché sono istruito, mentre gli altri tizi sono troppo poco sofisticati per essere dei creduloni: che cosa è accaduto alla critica quando il mio vicino mi giudica come uno irrimediabilmente ingenuo perché credo che gli Stati Uniti siano stati attaccati dai terroristi? ‘Ma dove vivi? Non lo sai che sono stati il Mossad e la CIA?’» (Latour B. (2004), Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, in «Critical Inquiry», 30, University of Chicago, p. 228)

 

Il modello a traduzione

Così, per cercare di appianare le divergenze fra esperti e profani che nascono da un fraintendimento comune, Latour propone il modello a traduzione, per il quale invece, come dice il nome, l’attività della ricerca non ha niente a che vedere con la scoperta. Secondo questo approccio infatti, che si tratti di una nuova interpretazione di un’opera letteraria a partire da un manoscritto, del conteggio della popolazione di microorganismi in una coltura, della somministrazione di un questionario o della rivelazione di particelle subatomiche in un acceleratore, quello che noi facciamo, e che finisce nei nostri articoli scientifici, sono sempre trasformazioni di un determinato contenuto di realtà, sotto forma di testo, grafici, immagini, simboli o diagrammi. Per Latour, la ricerca consiste in un’attività di manipolazione continua delle informazioni, in quanto esse stesse sono il frutto di mediazioni precedenti.

Questo – chiedo scusa per il gioco di parole – cambia tutto. In altre parole, «dire è dire altrimenti. Altrimenti detto è tradurre» (Latour B. (2021), Politiche del design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità, Mimesis, Milano, cfr. il capitolo Irriduzioni, p. 254): ogni calcolo, etichettamento, definizione, campionamento, riassunto, misurazione, è un modo per représenter[4]una certa entità in maniera diversa, e secondo il linguaggio proprio dello strumento con cui è rappresentata, in modo da renderla così comparabile, gestibile, associabile, predittiva o vincolante rispetto alle altre entità con cui è messa a confronto.

Perciò, poiché permette di mobilitare risorse, raggruppare alleati e avversari, e definire i campi di lotta, ogni forma di sapere, è prima di tutto una tecnica di governo. Anziché un modo per “osservare” in modo “neutrale” la “natura”.

Prendiamo un esempio, quale i rapporti del IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sui cambiamenti climatici: essi non riportano banalmente le prove che il cambiamento climatico è causato dall’attività umana, ma con le loro conclusioni, a cui hanno fatto seguito azioni politiche, questi agiscono come portavoce – come il deputato del nostro collegio o il rappresentante sindacale nel CDA dell’azienda per cui lavoriamo – parlando a nome di tutti i dispositivi che sono serviti come strumenti mediatori del vasto repertorio di capta (presi, anziché dati) per produrre grafici, tabelle e indicazioni testuali, come satelliti, boe oceanografiche, stazioni di rilevamento dell’anidride carbonica, e così, via; tutti finanziati e implementati dagli Stati. Se si tolgono questi ultimi, se si toglie l’organizzazione sociale che foraggia il lavoro di ricerca, esterno all’accademia e agli altri istituti, le prove svaniscono. O meglio, non hanno più di che distinguersi dalle presunte contro-deduzioni degli scettici del clima, che solitamente non dispongono di un paragonabile apparato strumentale. Ma ciononostante, seguendo il positivismo, hanno capito benissimo come servirsi dell’argomento dell’impossibilità di ottenere evidenze verificate per sollevare dubbi e polemiche, con una certa efficacia.

Perciò, quello che cambia di sostanziale nel modello a traduzione è che il mondo scientifico e quello politico non possono più essere visti come due dimensioni in conflitto, da mantenere distinte.

Anzi, più l’istituzione scientifica dispone di mezzi, più essi vengono discussi pubblicamente e definiti nei loro obbiettivi, più l’attività di ricerca sarà presentata come una pratica come le altre, che lavora e costruisce i propri “fatti” (anziché fornici l’accesso diretto a questi fatti), e più sarà in grado di tradurre le nostre volontà con enunciati solidi e legittimati.

Per cui, infine, «se vogliamo che le persone comprendano la scienza, bisogna mostrare come è prodotta» (Intervista rilasciata al Guardian il 06/06/20)

 

 

NOTE

[1] Con essenzialismo, nelle scienze sociali, si indica quel presupposto erroneo per il quale una certa entità possiede una natura – immodificabile, inevitabile e inopinabile – che ne determina il comportamento. Fra gli esempi più celebri in questo senso possiamo citare la teoria della razza di De Gobinau, quella del delinquente nato di Lombroso, e la frenologia di Gall (che pure, in un certo senso è tornata di moda con il pericolosissimo film Pixar Inside Out). Il turismo sarebbe essenzialista perché si basa precisamente sul fatto che «da qualche parte» esistano popolazioni e territori che conservano un’identità “autentica”, cioè naturale e immutabile, venendo così trasformata in un loro destino. Cfr. Barthes R., Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 2016. In particolare, il capitolo La Guida Blu.

[2] Cfr Latour B. (1998), La scienza in azione, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea

[3] Con “pensiero critico”, che ereditiamo da Kant, in senso lato intendiamo la concezione per cui esista una verità oggettiva e naturale che ci può essere più o meno evidente in base alla nostra rappresentazione soggettiva e culturale di essa. Si pensi ad esempio, all’enorme successo del grande classico 1984 di George Orwell e della sua importanza per il pensiero politico progressista, in cui il protagonista Winston Smith alla fine si arrende al bipensiero imposto dal Grande Fratello, il quale può imporre a suo piacimento che 2+2 faccia 5. Per un superamento di questa sorta di riduzionismo matematico prêt-à-porter, confronta l’articolo di Benoit Mandelbrot How Long Is the Coast of Britain? Statistical Self-Similarity and Fractional Dimension: https://it.wikipedia.org/wiki/How_Long_Is_the_Coast_of_Britain%3F_Statistical_Self-Similarity_and_Fractional_Dimension

[4] In italiano, a differenza dell’inglese o il francese, abbiamo due sostantivi diversi per indicare la rappresentanza e la rappresentazione, finendo per pensare che si tratti di due attività differenti e separate, dove una ha a che vedere con la mobilitazione politica, e l’altra con la produzione di immagini mentali. Si può dire che l’intera opera di Latour è incentrata precisamente sul rifiuto di questo dualismo.

Autore

  • Francesco Bertuccelli

    Dottorando in Sociologia all'Università di Pisa. Ha un interesse particolare per la teoria sociale, l'ecologia politica, la filosofia della scienza e l'epistemologia. Nel tempo libero cerca ispirazione dal cinema, dall'architettura e dall'arte contemporanea, cercando di prendere le cose con leggerezza, e in fare questo si impegna molto.