Mesi di agitazione e scioperi per i professionisti della sanità. I sindacati di infermiere e infermieri delle aziende pubbliche contestano la mancanza di accordi con lo stato e mentre scrivo è previsto per il 23 settembre uno sciopero dei lavoratori della sanità privata e delle RSA che coinvolgerà oltre 200.000 persone.

Lo scorso maggio a Cagliari un grosso sciopero di infermieri denunciava il carico di lavoro esagerato a fronte di una continua carenza di personale. Alla fine di agosto la protesta coinvolgeva i lavoratori delle province di Grosseto, Siena e Arezzo. Infermieri e infermiere, operatori socio-sanitari, amministrativi, ostetriche e tecnici sanitari hanno limitato la disponibilità alle richieste dell’azienda sanitaria

Le principali richieste: assumere per far fronte all’importante e perdurante carenza di personale. Aumentare i salari e le possibilità di carriera interne alla professione, garantire ferie e malattia. Implementare dispositivi per la sicurezza sul lavoro e tutela dalle malattie e dalla violenza dei pazienti.

LA DIMENSIONE DELL’ABBANDONO DEGLI INFERMIERI

Quanti ne manchino alla nostra sanità per funzionare è difficile da quantificare. Lo scorso febbraio il ministro della salute, Orazio Schillaci, dichiarava che la mancanza di personale si attesta sulle 10.000 persone. Ben più alto il dato fornito da Walter De Caro (presidente di CNAI – Consociazione Nazionale Associazioni Infermieri/e) a maggio in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere. De Caro stima la necessità di un’integrazione di 100/200 mila professionisti. Cifra, quest’ultima, che varia a seconda degli indicatori di cui si tiene conto, ma in ogni caso lontana da quella del Ministero.

Lo stesso Ministero, in un report del 2023 relativo al periodo 2021-2022, osservava un lieve incremento generale del personale di salute pubblica, ma l’abbandono di oltre 15.000 tra infermieri e infermiere con contratto a tempo indeterminato. Difficile parlare di normale ricambio: il 18% di questi abbandoni avviene infatti nei primi due anni post-laurea. A questo si aggiunge il triste dato di un 20% che lascia del tutto il settore sanitario, pubblico o privato, rinunciando alla professione.

Certo, il governo ha cercato di colmare questi vuoti con timide iniziative come l’aumento dei posti nelle facoltà di Infermieristica. Al test d’ingresso 2024, tenutosi a inizio di settembre, i posti a concorso erano 20.435 (+3% rispetto al 2023) e le domande sono state 20.715 (-4,2%). Un rapporto tra domanda e posti che sfiora l’1 mentre in altre professioni sanitarie è ben più elevato (Fisioterapia 6,7; Osteopatia 4,8; Ostetricia 4,2) e che deve tenere conto di tutti coloro che non riusciranno a passare il test.

IL PROBLEMA PER GLI INFERMIERI È RIUSCIRE A SVOLGERE LA LORO PROFESSIONE

Leggendo uno studio pubblicato su Eurohealth nel 2023 il problema assume dimensioni internazionali (pur con le dovute differenze di trattamento e stipendio). A incidere sui numeri dell’abbandono sono, secondo i ricercatori,

1) gli effetti del periodo pandemico, il cui carico di lavoro in condizioni estreme ha comportato un grosso esodo di professionisti sanitari.

2) L’invecchiamento delle nostre società e il correlato aumento di malattie croniche aumenta la domanda di assistenza, a fronte di un’offerta limitata dai pochi professionisti formati.

3) Assenza di pianificazione per le sanità pubbliche.

4) Un mercato del lavoro non favorevole: stipendi bassi e soprattutto poche possibilità di carriera che non permettono adeguati aumenti di stipendio in rapporto a esperienza, formazione e anzianità.

Ora, quali sono le proposte di questi ricercatori? Una riflessione a partire dai dispositivi economici che l’Unione Europea può mettere in atto. Aumentare gli stipendi. Proteggere lavoratori e lavoratrici dai rischi di infezione così come dalla violenza nei luoghi di lavoro. Prendersi carico della loro salute mentale e del loro benessere dentro e fuori il luogo di lavoro (M. Wismar, T. Goffin, 2023).

Qui è il punto. Il lavoro è diventato sempre più duro e pericoloso. È richiesta continua preparazione clinica e all’uso di nuove tecnologie mentre il contesto lavorativo a malapena rende possibile compiere adeguatamente la professione. La carenza di personale comporta turni infiniti, congedi e malattie respinte, ferie interrotte (quando non “eliminate” dal contratto). E queste carenze ricadono poi sulla percezione che la società ha degli stessi infermieri, essendo loro il punto di contatto principale e quotidiano tra pazienti e istituzione ospedaliera.

CHI PUÒ ABBANDONA, CHI NON PUÒ TIENE DURO A CARO PREZZO

In un recente studio realizzato tra il 2022 e il 2023, il 45% di infermiere e infermieri si dichiaravano disposti a lasciare il lavoro entro un anno se ce ne fosse stata la possibilità. Nello stesso campione (3200 persone ca. da 38 presidi ospedalieri italiani), il 40% risultava soggetto a stress emotivo elevato, un quinto di loro erano a forte rischio di depressione maggiore (Bagnasco et al. 2023).

Nello stesso studio, una collaborazione tra Università di Genova e Fnopi, le cause dell’insoddisfazione venivano fatte risalire (tra le altre) a stipendio (78%) e mancanza di avanzamenti professionali (65 %). La quasi totalità dei partecipanti indicava nell’aumento di organico e nella maggiore autonomia la soluzione.

Crisi di vocazione, scarsa volontà di lavorare e attaccamento al denaro insomma. Atteggiamento che non stupisce soprattutto nei giovani. È così?

No. Il 70% delle persone interrogate nello studio UNIGE/FNOPI dichiarava di essere in numero insufficiente per prestare cure di qualità al paziente e il 45% denunciava la mancata applicazione di una filosofia della persona. A questo si aggiunge la generale sensazione di non essere ascoltati dalla governance aziendale.

Vengono così a mancare le cure essenziali allo svolgersi di una giornata ospedaliera (per noi, che veniamo allettati!). A esempio la mobilizzazione per evitare le piaghe da decubito o la nostra educazione come pazienti e le informazioni relative alle terapie in atto. Chi lavora si accorge di queste mancanze, ma fatica a prestare attenzione alla routine quotidiana dovendo vivere in una continua situazione di emergenza. Non si parla solo della pandemia, basta prendere uno studio del 2019 per farsi un’idea di quanta letteratura esista sul burnout nella professione infermieristica. Esaurimento che si presenta con una prevalenza del 30% fino al 60% e osservato già da un decennio almeno (si veda a es. A. Dordoni et al., 2019).

IDENTITÀ PROFESSIONALE, AMBIENTE SOCIALE E RUOLO IN SOCIETÀ

Il problema ha radici più profonde e una di queste affonda nel terreno sociale. Il ruolo sociale di infermiere e infermieri come professionisti sanitari fatica ancora oggi a venire riconosciuto. Un ruolo che certo a che fare con vocazione e motivazioni personali, ma che altrettanto è prodotto dalle interazioni con gli altri così come dai contesti sociali e lavorativi (Miao et al. 2024).

La categoria ha un profilo professionale dal 1994 e dal 1999 è riconosciuta, per legge, come professione sanitaria con relative responsabilità. Nonostante questo, è ancora difficile che a infermieri e infermiere venga riconosciuta l’importanza del loro servizio per la comunità.

Fa sorridere leggere in un articolo pubblicato su ANSA che un italiano su due riconosce l’importanza del ruolo sociale degli infermieri. Un italiano su due. L’altro italiano dei due ancora non vede un professionista con competenze e conoscenze cliniche. Anche dopo il covid, finita l’epoca di eroi ed eroine, sono tornati a essere suore caritatevoli e servi del dottore.

E cruciale è la percezione esterna. Esterna, ma portata all’interno del luogo di lavoro da ogni paziente e dalle scelte amministrative e politiche riguardanti i presidi ospedalieri. Una percezione negativa può portare a un conflitto tra i ruoli. Perché dovrei fare l’infermiere? Che cosa sto facendo qui? Perché sacrificare per questo i ruoli famigliari, amicali e altri possibili ruoli lavorativi riconosciuti? Il conflitto sfinisce, logora e mina le forze, già provate, con cui la persona affronta quel mondo di emergenza continua che è il lavoro in reparto.

Non possiamo dire a una persona di provare emozioni positive per evitare il rischio di esaurimento. Possiamo disporre, come società e come individui, un ambiente lavorativo salubre e dare a queste persone il giusto riconoscimento professionale. L’ambiente di lavoro è prodotto e produce l’attività quotidiana, ripetitiva, di cura. La ripetizione può essere quella della frustrazione, del fallimento, dei rapporti trascurati e degli errori clinici. Al contrario, l’ambiente sociale può permettere che a ripetersi siano la relazione col paziente, i corretti trattamenti, la crescita personale e professionale.

 

 

NOTE

A. Bagnasco et al. (2023) “Benessere professionale dell’infermiere e sicurezza delle cure in epoca pandemica” in L’Infermiere 60 (4): 164-177.

A. Dordoni et al. (2019) “Relazione tra burnout infermieristico, qualità dell’assistenza e errore clinico” in L’infermiere 4: 44-54.

C. Miao et al. (2024) “Nurses’ perspectives on professional self-concept and its influencing factors: A qualitative study” in BMC Nursing 23: 237.

M. Wismar, T. Goffin (2023) “Tackling the Health Workforce Crisis: Towards a European Health Workforce Strategy” in Euroealth 29 (3): 22-26.

Autore

  • Jacopo Gibertini

    Laureato in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, è il Libraio della redazione. Filosofo che non riesce a separarsi dalla narrativa. Oggi studia soprattutto filosofia della medicina, con un taglio innovativo.