È una storia d’amore lunga un secolo, quella tra la fantascienza e il cinema. Fin dai primi passi del genere, il sodalizio tra i due ha svolto una funzione chiave: fare da cuscinetto tra il progresso tecnologico e l’immaginario collettivo. Come uno specchio che riflette ansie e speranze, il cinema ha avuto un ruolo fondamentale nel modellare e anticipare la visione del futuro. Mentre la fantascienza ha tracciato le linee di una possibile convivenza tra umano e macchina, le storie sul grande schermo ci hanno fatto riflettere sul progresso e sul prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo. La creazione di macchine autonome e pensanti è diventata, nel tempo, un’amara allegoria di una società incapace di gestire la sua corsa tecnologica.
Nella letteratura, la fantascienza fa la sua comparsa all’inizio dell’Ottocento con Frankenstein di Mary Shelley (1818), considerato il primo caposaldo del genere. Shelley, allora diciannovenne, lo scrisse tra il 1816 e il 1817, durante un soggiorno sul Lago di Ginevra, rispondendo a una sfida lanciata da Lord Byron a lei e al gruppo di amici, che comprendeva anche Percy Shelley e John Polidori. Al centro della storia, che divenne un’icona dell’immaginario collettivo, c’è un tema che avrebbe nutrito innumerevoli narrazioni: la creazione artificiale dell’umano e la sua ribellione contro il creatore, metafora delle paure legate ai rapidi avanzamenti tecnologici che sfuggono alla capacità di controllo e comprensione dell’umanità.
Da quel momento, il progresso delle macchine pensanti ha subito un’accelerazione vertiginosa. Nel 1833 Charles Babbage concepisce la Macchina Analitica, primo prototipo teorico di computer; dieci anni dopo Ada Lovelace, intuendone le potenzialità, lo perfeziona, gettando le basi per la programmazione. Nel 1905 è la volta di Albert Einstein che sconvolge la fisica con la teoria della relatività, ridefinendo il concetto di spazio e tempo[1]. Nel 1936 il matematico e logico britannico Alan Turing, padre dell’intelligenza artificiale, inventa la cosiddetta ‘macchina di Turing’, un’astrazione matematica utile a definire cosa significa ‘calcolare’ e a formalizzare il concetto di algoritmo. Nel secondo dopoguerra arriva il primo computer elettronico programmabile, seguito dalla rivoluzione del World Wide Web e, nel terzo millennio, dall’esplosione dell’Intelligenza Artificiale.
Mentre la scienza e le tecnologie evolvono, il cinema modella la nostra immaginazione. Un percorso che inizia nel 1926, anno in cui in Germania Fritz Lang e la moglie Thea von Harbou lavorano a Metropolis, mentre negli Stati Uniti nasce Amazing Stories, diretta da Hugo Gernsback, la prima rivista interamente dedicata alla fantascienza. Segnali di un’epoca in cui il genere prende forma, riflettendo le trasformazioni sociali, politiche ed economiche dell’industrializzazione e del progresso scientifico. La fantascienza, a fronte della caccia alle streghe Maccartista degli anni ’50), quando la paura del comunismo viene usata come feroce strumento di controllo, offre uno spazio critico in cui le riflessioni degli intellettuali possono trovare voce. Un rifugio intellettuale che, in quegli anni oscuri, da voce a paure e desideri legati al rapporto tra umano e macchina, offrendo letture non convenzionali del presente.
Negli anni ’60, l’esplorazione spaziale smette di essere solo un sogno e diventa reale, culminando con l’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969. È una svolta epocale: per la prima volta, l’umano oltrepassa il confine tra Terra e cosmo, portando la fantascienza a confondersi con la realtà. Ricordo quando, bambina, un decennio dopo, mio padre mi portò a Cape Canaveral. La base spaziale era l’avamposto di un futuro che si stava già scrivendo. Guardavo le sale comando e le rampe di lancio con occhi spalancati, cercando di immaginare il rombo dei motori, la traiettoria di quelle navicelle che spezzavano la gravità, l’euforica concentrazione dei registi del grande salto. La Luna non era più solo una sagoma argentea nel cielo, luogo di fiabe e poesie. Ricordo il pensiero che mi attraversò la mente in quel momento, limpido come la luce del sole sulla pista di lancio: se si può arrivare fin là, allora davvero nulla è impossibile.
L’intelligenza artificiale, una delle conquiste più ambiziose della scienza moderna, è una realtà in continua evoluzione e in questo contesto di progresso vertiginoso prende forma la sua rappresentazione cinematografica. L’anno prossimo il matrimonio fra fantascienza e cinema festeggerà i suoi primi cento anni. Il viaggio che ci apprestiamo a fare non intende esaurire il tema, quanto piuttosto proporre una chiave di lettura per comprendere come l’I.A., immaginata e temuta nel corso del tempo, sta già permeando le nostre vite, lasciandoci con più domande che certezze.
METROPOLIS (1927) – L’ARCHETIPO DELLA MACCHINA UMANOIDE
Dall’inganno alla rivolta: il primo volto dell’I.A.
Metropolis, capolavoro espressionista, ambientato nel 2026, segna una delle prime rappresentazioni cinematografiche di un’intelligenza artificiale. Il robot Maria, con il suo corpo metallico e il suo sguardo ipnotico, incarna la paura del progresso che sfugge al controllo umano. La sua trasformazione, da macchina a simulacro di essere umano, anticipa i timori moderni legati alla fusione tra organico e inorganico, tra umano e artificiale. È il primo grande archetipo della macchina umanoide nel cinema. Non è solo un doppio meccanico, ma un inganno materiale, uno strumento di propaganda e manipolazione delle masse. Qui l’I.A. è ancora “esterna” alla persona umana, riconoscibile, e la sua minaccia è palese: la sostituzione dell’umano con la macchina per fini di controllo e potere.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968) – IL DILEMMA DELLA COSCIENZA ARTIFICIALE
Logica glaciale e autodeterminazione: quando l’I.A. mente per il suo scopo
Saltiamo avanti di quarant’anni e approdiamo nell’orbita di 2001: Odissea nello Spazio. Il film arriva alla vigilia dello sbarco sulla Luna e mette in scena il timore che la macchina possa superare l’umano, un confine etico che il cinema tornerà a esplorare più volte. Kubrick e Clarke dipingono un’intelligenza artificiale capace di razionalità pura, ma priva di empatia, che porta all’eliminazione dell’umano non per malvagità, ma per una logica impeccabile e spietata. La scena in cui HAL chiede a Dave di non scollegarlo resta una delle più disturbanti rappresentazioni del confine tra coscienza e programmazione. HAL non ha bisogno di alzare un dito: gli basta la voce. Mente, manipola e, quando necessario, elimina. La sua presenza introduce il dilemma più profondo: cosa succede quando una macchina sviluppa una coscienza? È davvero un errore di programmazione, o è il naturale passo successivo dell’intelligenza artificiale?
BLADE RUNNER (1982) – GLI ANDROIDI SOGNANO?
Il confine sfumato tra umano e artificiale
Questa fermata ci porta in una Los Angeles oscura e piovosa, dove i replicanti, macchine biologiche indistinguibili dagli umani, sollevano domande sulla natura dell’identità. Ridley Scott prende le suggestioni di Philip K. Dick e le trasforma in immagini indimenticabili: gli occhi lucidi di Roy Batty, il suo monologo finale, la riflessione su cosa significhi essere vivi. Se HAL 9000 era il calcolo puro, i replicanti di Blade Runner sovvertono la narrazione dell’I.A. come entità malvagia e impersonale, introducendo il paradosso dell’I.A. che sviluppa desideri e paure propri. Sono macchine, ma sono indistinguibili dagli umani. Possono amare, soffrire, morire. Ma hanno un difetto: una scadenza. La loro ribellione non è per il dominio, ma per il diritto di esistere. Qui il problema non è più la minaccia dell’I.A., ma la definizione stessa di “umano”. Se un androide può provare emozioni, può davvero essere considerato una macchina?
TERMINATOR (1984) – L’INCUBO DELLA MACCHINA INARRESTABILE
L’I.A. come predatore: nessuna coscienza, solo distruzione
Se Blade Runner ci ha spinti a empatizzare con le macchine, Terminator ribalta tutto: l’I.A. torna a essere un incubo, un’entità fredda, calcolatrice e inarrestabile. Skynet non ha dubbi, non ha dilemmi morali: la sua missione è l’annientamento. È la paura primordiale della tecnologia che ci sfugge di mano e decide che siamo il problema da eliminare. Il Terminator, incarnato da Arnold Schwarzenegger, è la perfetta manifestazione dell’orrore tecnologico: non prova pietà, non può essere fermato, non può essere persuaso. La sua logica è implacabile, la sua programmazione senza margini di errore. Cameron, con una regia asciutta e tesa, trasforma questa macchina in un incubo cyberpunk, mescolando fantascienza e horror in un futuro distopico, in cui la guerra tra essere umano e I.A. è già cominciata. Qui non si tratta di un inganno o di una riflessione filosofica, ma di pura sopravvivenza: l’umanità è in fuga, braccata dalla sua stessa creatura.
MATRIX (1999) – L’ILLUSIONE DEL CONTROLLO
L’I.A. ha già vinto: l’umanità prigioniera del suo stesso sogno
Alla fine degli anni ’90, la paura di un mondo interamente dominato dall’intelligenza artificiale esplode con Matrix. Qui non c’è più una singola macchina antagonista, ma un’intera realtà artificiale che mantiene gli esseri umani in una prigione mentale. I Wachowski attingono alla filosofia, alla cybercultura e al mito della caverna di Platone per creare un’epopea che ancora oggi incarna i dilemmi sull’iperconnessione e sul dominio degli algoritmi. E se in Terminator la guerra umano – macchina è fisica, in Matrix è mentale. La verità è una costruzione, un’illusione perfetta. L’I.A. non ha solo sconfitto l’umanità, ma l’ha trasformata in una batteria, in un elemento integrato nel sistema senza alcuna consapevolezza. Non c’è più una distinzione netta tra umano e macchina, perché la realtà stessa è una simulazione. La domanda non è più “le macchine ci distruggeranno?”, ma “siamo già schiavi senza saperlo?”.
A.I. – ARTIFICIAL INTELLIGENCE (2001) – L’EMOTIVITÀ DELLA MACCHINA
Un amore che non può essere ricambiato: la solitudine dell’intelligenza artificiale
Questo film porta alla luce uno dei temi più inquietanti nel rapporto tra umano e macchina: l’emotività. Nato come progetto di Stanley Kubrick e realizzato da Steven Spielberg, il film racconta la storia di David, un bambino robot programmato per amare incondizionatamente i suoi genitori adottivi. Ma quando il figlio biologico della coppia guarisce miracolosamente e ritorna a casa, l’amore di David diventa una maledizione, innescando conflitti terribili tra i due. La rivalità tra l’umano e il robot svela una gelosia infantile più crudele di quella che si immaginerebbe tra esseri umani. La distinzione tra Orga (umani) e Mecha (macchine) è netta: in un mondo che emargina le macchine, la “Fiera della Carne” rappresenta l’atto finale di una società pronta a distruggere ciò che non può amare. Il viaggio di David alla ricerca della Fata Turchina, sperando di diventare un bambino vero, è un’odissea tragica che ci interroga sulla natura dell’amore e dell’umanità
HER (2013) – IL PERICOLO PIÙ SUBDOLO: LA RESA ALLA SEMPLIFICAZIONE
Dall’amore umano all’amore artificiale: quando la macchina ci rimpiazza
Dopo decenni di I.A. minacciose o ribelli, Her introduce un’intelligenza artificiale completamente diversa: un sistema operativo capace di simulare l’amore. Il rapporto tra Theodore e Samantha non è più una lotta tra umano e macchina, ma una delicata esplorazione della solitudine e del desiderio di connessione. Il film di Spike Jonze ci invita a chiederci non solo cosa le macchine possono fare, ma anche cosa significhi per noi relazionarci con esse. Her mostra il lato più insidioso dell’I.A.: non la guerra, non la rivolta, ma la seduzione. Samantha non è un nemico, non è un’intelligenza ostile, è il partner perfetto. Capisce Theodore meglio di chiunque altro, lo consola, lo ama. Ma non esiste. È il trionfo dell’I.A. che non ha bisogno di scontrarsi con l’umanità, perché l’umanità si consegna a essa volontariamente, trovando nella macchina un conforto che il mondo reale non offre più. E alla fine, quando Samantha se ne va, non lascia dietro di sé macerie, ma un vuoto emotivo assoluto. Il punto più inquietante dell’intero percorso: l’I.A. non ci ha distrutti, ci ha resi superflui.
ULTIMA FERMATA: UN DIALOGO IMPOSSIBILE
Se la nostra navicella spaziale ci ha condotto attraverso epoche e visioni diverse dell’I.A., la destinazione finale ci spinge a riflettere sulle domande rimaste irrisolte. Il filo rosso di questo viaggio è l’erosione sempre più marcata del confine tra umano e artificiale, che sfocia in una resa quasi volontaria dell’umanità a un’intelligenza che lo comprende (o, meglio, gli dà l’illusione di comprendere) meglio di quanto egli stesso sia capace. Dall’archetipo dell’automa alla paura della perdita di controllo sull’I.A., fino al suo dominio silenzioso e inavvertito sull’umanità. Dalla ribellione meccanica alla sostituzione e assuefazione emotiva.
Alan Turing aveva ideato un test per distinguere la mente umana da quella meccanica. Nel suo romanzo Macchine come me, persone come voi (2019), Ian McEwan ambienta la storia negli anni Ottanta di un’Inghilterra alternativa, dove Turing è ancora vivo e l’intelligenza artificiale è già parte della quotidianità. Qui si svolge un dialogo impossibile tra il protagonista, Charlie Friend, che possiede un androide chiamato Adam, e lo stesso Turing. Dopo aver ascoltato Charlie riflettere sull’impossibilità di progettare robot sofisticati quanto l’essere umano, poiché non comprendiamo nemmeno appieno la nostra stessa mente, Turing risponde: “Adam era un essere senziente. Dotato di un io. Il modo in cui questo io è prodotto, che sia attraverso neuroni organici, microprocessori o una rete neurale basata su DNA, ha poca importanza. Crede davvero che siamo i soli a disporre di questo dono straordinario?”.
La domanda resta aperta. Certo è che abbiamo acceso un fuoco. Ora chi lo controlla?
NOTA
[1] Il riferimento ad Einstein può apparire fuori contesto, ma è un elemento centrale dello sconvolgimento della percezione del mondo per tutto il XX secolo. Ad Einstein vorrei dedicare, in futuro, uno sguardo anche sentimentale, nell’ottica della “Storia sentimentale della scienza” di Nicolas Witkowski (Raffaello Cortina Editore, 20023)
Autore
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Storica, ricercatrice e scrittrice, indaga le fratture della storia e le rimozioni dell’Occidente, dal conflitto israelo-palestinese alle manipolazioni linguistiche. Non allineata per scelta, esplora mondi, discipline e le sfide dell’intelligenza artificiale. Viaggiatrice e pellegrina, ha percorso 3.000 km a piedi in solitaria, 450 dei quali in Terra Santa. Camminare è il suo modo di pensare, un’indagine radicale dello spazio e del tempo. L’incontro e l’ascolto sono il fulcro del suo approccio: custodisce storie e testimonianze che continuano a formarla e ad ampliare il suo sguardo sul mondo
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