Nel suo libro Nel tempo delle catastrofi (2021, Rosemberg & Sellier), Isabelle Stengers, una delle più importanti filosofe della scienza contemporanee, propone in maniera divulgativa una serie di riflessioni che tentano di delineare una connessione tra il pensiero ecologista e quello femminista. Ciò che emerge dalla lettura, è che entrambi gli approcci non sono solo intimamente connessi, fino a rappresentare due facce della stessa medaglia, riguardo ai problemi che sollevano e agli scopi che si prefiggono, ma nella loro più profonda essenza sono accomunati perché esprimono anche una radicale rivalutazione – e archiviazione – della narrazione del progresso, nella sua duplice veste di obbiettivo delle scienze (incluse quelle sociali, e sì, anche delle humanities) e indiscusso fine economico.

Più precisamente quindi, è attraverso la mobilitazione di diverse prospettive – epistemologica, di genere e di ecologia politica – e mostrando esplicitamente l’impossibilità di scindere l’una dalle altre, che l’autrice elabora la propria proposta per riformare le scienze secondo una concezione del sapere fortemente democratica e anticlassista. Questo allo scopo precipuo di «imparare l’arte di fare attenzione», come lei dice, nel nuovo regime climatico in cui Gaia ha fatto irruzione, costringendoci a pensare e a convivere con le minacce ecologiche che mettono in crisi il nostro modello di civiltà[1].

Stengers, infatti, argomenta che per potersi dire davvero «obiettori della crescita», occorre mettere in discussione proprio «quali idee usiamo per pensare altre idee», come direbbe l’antropologa Marilyn Strathern, perché queste inficiano la possibilità di affermare una forma di organizzazione sociale veramente plurale e sostenibile, oltre che un controllo orizzontale e diffuso del sapere e della tecnica.

Per farlo quindi, la storica della scienza esamina la genealogia del pensiero moderno, a partire dalla scoperta dei «fatti sperimentali», come delle entità che acquisiscono la capacità di prefigurare il modo in cui essi stessi devono essere interpretati. Acquisendo dunque una certa autonomia nel far pensare e dirigere gli esseri umani che li hanno fabbricati. Un’autonomia che però, come illustra appunto l’autrice, è andata sempre più trasformandosi in indipendenza:

«Tuttavia, chi ha scoperto che una simile riuscita era possibile, Galileo, si è affrettato a generalizzarla, vale a dire a trasformare la riuscita (riuscire a produrre un tipo di fatto che “provi”) in metodo (inchinarsi davanti ai fatti). Gli diventava così possibile contrapporre la nuova ragione scientifica, che riconosce autorità ai soli fatti, all’attitudine di chiunque prenda posizione riguardo questioni indecidibili, che conferiscono potere alle sue convinzioni o ai suoi pregiudizi. Questa messa in scena è senza dubbio una delle operazioni di propaganda meglio riuscite nella storia umana, se è vero che essa è stata ripresa e ratificata anche da parte dei filosofi – sebbene essi stessi ne risultassero spogliati della loro pretesa all’autorità. Certi vanno ancora oggi ripetendo il giudizio lapidario di Gaston Bachelard: ‘In linea di principio, l’opinione ha sempre torto. L’opinione pensa male; anzi, non pensa; traduce dei bisogni in conoscenze’. Che questo giudizio sia stato emesso in un libro intitolato La formazione dello spirito scientifico è una circostanza capace di testimoniare di una logica profonda. Un tale “spirito scientifico” è definibile solo in contrapposizione a qualcosa che sarebbe “non scientifico” – e ciò vale anche quando qualcuno si crede intelligente a invertire specularmente il significato di questa opposizione, attribuendo alla “gente” una ricchezza soggettiva o emozionale di cui sarebbe invece privo lo spirito scientifico, freddo, calcolatore e razionale» (Cit. p. 88).

Si sviluppa così una prima contrapposizione fra i gruppi di esperti (conoscitori di prima mano dei fatti naturali) e i profani, cioè tutti gli altri che vivrebbero nell’ignoranza rispetto a questi fatti, o peggio ancora nel disorientamento in base a bias culturali da correggere – che quindi corrisponde a una distinzione di ceto, stabilito in base alla scolarizzazione e professionalizzazione del sapere. A questa antitesi si aggiunge la naturalizzazione di questi fatti, che porta anche a oscurare le domande (cioè l’opportunità o meno di una scoperta o un’invenzione, in base al gruppo che la richiede e le sue esigenze), gli strumenti, il lavoro, le numerose prove ed errori, e il finanziamento che li hanno generati e le conseguenze che ne derivano. E si perviene quindi alla etero-direzione della società da parte di «fatti che parlano da soli», capaci di imporre valori e fini alla collettività senza che la formazione del loro determinismo possa essere messa in discussione.

L’invenzione della natura e dei fatti come entità esterne alla società e al regno della cultura, o più precisamente dell’oggettività, in quanto referenza indipendente dalla sua opinabile realizzazione a partire da soggetti incarnati che la generano, si propone come termine ultimo e insindacabile per la risoluzione di tutte le controversie, scientifiche, economiche e politiche; da essa discende la predisposizione di acritiche “parole d’ordine” che favoriscono e allo stesso tempo deresponsabilizzano coloro che le pronunciano.

Dal determinismo scientifico e tecnologico a quello economico il passo è breve; dove la realizzazione del valore di un bene e la sua commercializzazione è conseguentemente effettuata prescindendo – o circoscrivendo – da tutta la sfera di elementi possibili che contribuiscono a realizzarlo. Come l’estrazione e trasformazione di “risorse” non-umane da un lato, ma anche e soprattutto dal lavoro negletto di cura e riproduzione della vita necessaria alla creazione dei beni, che è stato storicamente svolto dalle donne.

Prendiamo ad esempio la diffusione dell’etichetta «l’era dell’Intelligenza Artificiale», che sentiamo ripetere costantemente come un mantra da entusiasti tecnofili, per forzarci ad accettare come un fatto compiuto un    programma simil-totalitario di politiche sociali e culturali, basato sul preteso successo di un prodotto che in realtà è ancora indefinito e limitato proprio perché basato su un software chiuso, quale appannaggio esclusivo delle poche imprese che lo sviluppano: si tratta di un piano che parte dal bisogno di giustificare la gestione accentrata delle enormi quantità di dati che queste raccolgono, mentre rimane sottaciuto l’importante impatto ecologico dei loro servizi e prodotti[2]. Tuttavia, il successo del software è notevolmente ridimensionato – e ridicolizzato – non solo perché non rappresenta un fatto compiuto dalle vesti immateriali, ma anche da quanto riportato da Oxfam, cioè che il lavoro di cura non retribuito svolto dalle donne di tutto il mondo, varrebbe almeno tre volte il valore dell’industria delle stesse big tech, così da aver provocatoriamente nominato il suo rapporto “l’era della cura”[3].

In questo senso, si vede come la natura come entità disponibile e appropriabile – perché considerata esterna ai condizionamenti della società, che infatti dovrebbe semplicemente limitarsi ad “allocare al meglio le risorse scarse” – si rifletta nell’oggettivazione della donna come “risorsa” gratuita, remissiva e liberamente sfruttabile. Così, la figura dello scienziato ricalca quella del capitalista nella loro estrazione di ricchezza che rimane irresponsabile nei confronti delle loro sorgenti di valore. Ovvero, gli attaccamenti ecologici generativi necessari per la vita.

La scienza maschile si basa così su una soggettività virtuale del ricercatore che, quasi non avesse avuto bisogno di nascere ed essere nutrito, esprime uno «sguardo da nessun luogo» su un universo concepito come res extensa da conquistare progressivamente e da cui estrarre profitto[4]. In maniera profondamente differente, i saperi situati femminili non hanno invece direzione prestabilita, ma sentono il bisogno di radicarsi nel rizoma dei legami terrestri da cui dipendono, e di favorire la loro prosperità.

In effetti, al contrario dei quei barbari che tentano di lasciare il pianeta, per andare a conquistarne altri, o degli altri che con atteggiamento disfattista si sentono inermi rispetto all’apocalisse, questi tipi di conoscenze tentano precisamente di «avere luogo» e di «riferirsi a qualcuno», coltivando l’arte di fare attenzione alle entità neglette che compartecipano alla nostra sfera di esistenza particolare e di cui ignoriamo l’importanza favorendo le condizioni per l’abitabilità. Basti pensare alle catastrofi ambientali che si fanno sempre più tragiche e impellenti, mostrando tutta la nostra incomprensione e incuranza delle connessioni ecologiche da cui dipendiamo che ne sono all’origine.

Riprendendo quindi per concludere un altro passaggio dell’autrice, che si tratti di saperi «altri» o non-umani, che definisce «pratici», a partire dal riferimento pragmatico a ciò che li rende tali, ovvero il lavoro attorno ad una causa che impegna a pensare e ad agire in comune,

«ciò che ho tentato di fare nel caso particolare della ricerca scientifica e della valutazione dei ricercatori, è di pensare a partire da ciò che manca, da ciò di cui la mancanza ci rende malati, così critici e lucidi quanto vogliamo, ma crucialmente incapaci di resistere a ciò che ci distrugge. Sapersi malati, è creare un senso del possibile – non sappiamo ciò che avrebbe potuto essere, ciò che potrà essere la strana avventura delle scienze moderne, ma sappiamo che «fare di più» di quello che abbiamo l’abitudine di fare non sarà sufficiente a permetterci di comprenderla. Si tratta di disimparare la rassegnazione più o meno cinica (realista) e di ridivenire sensibili a ciò che forse sappiamo, ma in modo anestetizzato. È qui che la parola lentezza, così come è utilizzata dai movimenti slow, risulta adeguata: la rapidità domanda e crea l’insensibilità a tutto ciò che potrebbe rallentare, alle frizioni, ai contrasti, alle esitazioni che fanno sentire che non siamo soli al mondo; rallentare è ridivenire capaci di apprendere, di fare conoscenza con, di riconoscere ciò che ci sostiene e ci fa prosperare, di pensare e di immaginare, e, nello stesso processo, di creare insieme ad altri dei rapporti che non siano di cattura; si tratta quindi di creare fra noi e insieme ad altri il tipo di rapporto che si conviene fra malati, che hanno bisogno gli uni degli altri al fine di riapprendere gli uni con gli altri, tramite gli altri, grazie agli altri, che domandano una vita degna di essere vissuta, dei saperi degni di essere coltivati» (Stengers I. (2013), Une autre science est possible! Manifeste pour un ralentissement des sciences, La Découverte, Paris, p. 82).

 

NOTE

[1] Cfr. La politica dopo l’emergere di Gaia, il migliore dei mondi possibili, Controversie, 12/03/2024

[2] Scrive così Francesco Cara su Altreconomia in un articolo del 28 maggio 2024: «esiste una percezione diffusa secondo la quale il digitale è virtuale e immateriale e quindi non produce impatti ambientali significativi in termini di sfruttamento delle risorse, inquinamento, emissioni climalteranti e rifiuti. Nel libro “Ecologia digitale” abbiamo mostrato come il digitale, inteso come sistema costituito da centri di calcolo, reti di trasmissione e dispositivi, sia in realtà altamente energivoro, emissivo e idrovoro; grande consumatore di metalli rari e allo stesso tempo grande produttore di rifiuti. Immersi nel mondo delle rappresentazioni digitali, si tende infatti a dimenticare che il livello simbolico del settore, dove qualunque testo, immagine, video, brano musicale viene tradotto in sequenze di stati binari: Off (0) e On (1), poggi su segnali elettrici che scorrono su circuiti elettronici. Per ricevere l’informazione, archiviarla, trattarla e trasmetterla, il sistema digitale necessita quindi di materiali con caratteristiche conduttive ed elettromagnetiche particolari, di microprocessori molto impattanti, e di una fornitura ininterrotta di elettricità. Inoltre, il flusso elettrico disperde calore che, nei centri di calcolo, viene gestito con l’ausilio di sistemi di raffreddamento che, a loro volta, richiedono materiali, lavorazioni, elettricità e acqua. E lo stesso discorso vale per le reti di trasmissione dati». Disponibile al link: https://altreconomia.it/lecologia-digitale-alla-prova-dellintelligenza-artificiale-generativa/

[3] Cfr. Oxfam (2020), Time to Care: Unpaid and underpaid care work and the global inequality crisis. Disponibile al link: https://oxfam.dk/documents/analyser/davos/rapport_time-to-care-inequality-200120-embargo-en.pdf

[4] Cfr. Clarke A., Haraway D. (2022), Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, DeriveApprodi, Roma

Autore

  • Francesco Bertuccelli

    Dottorando in Sociologia all'Università di Pisa. Ha un interesse particolare per la teoria sociale, l'ecologia politica, la filosofia della scienza e l'epistemologia. Nel tempo libero cerca ispirazione dal cinema, dall'architettura e dall'arte contemporanea, cercando di prendere le cose con leggerezza, e in fare questo si impegna molto.