E la fine di “un mondo” non significherà la fine “del mondo” ma, semplicemente, “il mondo di domani”
Ernesto De Martino
Risale ai miti fondativi dell’antica Roma la comparsa del termine mundus, con cui si indicava il perimetro della città. Terra già esistente, diviene cosmo creato in virtù di un gesto collettivo. Il rito di fondazione prevedeva la partecipazione di un gruppo o, secondo uno sguardo diacronico, di una comunità. Ovidio racconta che venne scavato un fosso in cui riporre beni di vario genere. In seguito questo venne riempito di terra. Fu Romolo stesso, secondo l’autore, a tracciare con l’aratro «il solco su cui costruire le mura»[1]. Non solo un perimetro, bensì un’intera superficie. Catone spiega la derivazione del senso terreno del mundus dal mondo che sta «sopra di noi: la sua forma infatti […] è simile alla forma di quello»[2]. Alla forma a volta dell’universo corrisponde la forma a fossa, a “U”, del mondo sotto di noi, chiamato anche mundus Cereris: il mondo dei defunti. Il mondo degli inferi è cautamente sigillato con un apposito coperchio apribile, oppure è sovrastato dall’altare di Romolo. Mundus è dunque l’insediamento, il centro fissato, ma anche il limine tra mondo celeste e inferi. In quanto soglia esso assume un significato aggiuntivo, inserendosi in un’articolazione di senso e di operazioni ulteriori. Insieme al bue nero e alla giumenta bianca[3], Romolo si mette alla guida della sua aratro per tracciare il confine, il limen, del nuovo insediamento. È a partire dalla centralità delle tecniche agricole nella società romana “delle origini” che è possibile individuare il terzo senso del termine mundus che, secondo Herbert J. Rose, «poteva essere destinato a determinati riti agrari, poteva contenere per esempio piccole quantità di grano non tanto come primizie bensì per essere benedette dalle potenze del mondo infero»[4]. Si istituisce uno scambio tra mondo dei vivi e mondo dei morti cui segue la rigenerazione della terra. Nel capitolo di Morte e pianto rituale dedicato alla “Messe del dolore”, l’etnologo napoletano Ernesto De Martino (1908-1965) analizza la configurazione del rapporto dell’uomo del mondo antico con l’esperienza di morte. L’autore sostiene che «veder fiorire» e «veder scomparire» sono accadimenti che dipendevano «in larga misura da potenze che sfuggivano al controllo umano»[5], ma che nondimeno venivano integrati in un «ordine di lavori agricoli» che – come l’arare, il seminare e il raccogliere – istituivano un rapporto speculare con quelle forze indomabili, per cui l’uomo «si fa procuratore di morte secondo una regola umana»[6]. Così come, attraverso il raccolto, l’uomo decide per la morte della spiga, così attraverso il seminare l’uomo opera in direzione della propagazione della vita, della sua ripetizione. L’autore riconosce che questo rapporto organico non risolve, non evita, il rischio di una crisi[7]. Occorre fissare un primo interrogativo: in che senso non è sufficiente osservare e domesticare la natura – imitandola – per essere certi che «domani ci sarà un mondo»[8]?
Che cosa è “mondo”? È una sfera? Oppure è una volta, cui corrisponde una fossa, separate da un coperchio che noi uomini calpestiamo? Lo storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha tentato di descrivere il tipo di spazio che viene in essere nell’esperienza dell’uomo religioso. Così come il coperchio serve ad un tempo da membrana e da limite invalicabile del mundus Cereris, così le Colonne d’Ercole sono il limite ultimo oltre cui non spingersi, pena cadere nel nulla e ritrovarsi faccia a faccia con Atlante. Allo strapiombo dell’Inferno dantesco corrisponde, secondo una simmetria longitudinale, la verticalità del Purgatorio alla cui somma sta l’Eden[9]. In queste tre rappresentazioni ricorre un carattere osservato da Eliade: «per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo»[10]. Esistono spazi consacrati, con una loro forza, un loro preciso significato; ed esistono spazi «non consacrati […] amorfi»[11]. I primi sono «l’unica cosa reale», mentre i secondi costituiscono una mera «informe distesa» che circonda i primi[12]. Lo spazio sacro diviene tale in virtù di una ierofania, di una manifestazione delle forze sacre che sancisce una separazione ontologica tra lo spazio sacro e lo spazio profano[13]. Da questa cesura nasce il templum come perimetro e indice che questo posto, questo cerchio di terra, è sede delle potenze sacre. Il tempio si costituisce come centro di orientamento, come centro di irradiamento: qui il sacro si concentra, il fedele vi si dirige, il sacro ne emana e viene sigillato in una forma – coperchio o montagna. Il mondo sembra essere, stando a Eliade e De Martino, il “reale” che si dispiega in quanto tale in forza di una significazione. Più che un villaggio, un bosco o un pianeta, il mondo è un prodotto – da producere, portare avanti – derivante e continuamente costruito nel rinnovamento di un legame agonistico dell’uomo con sé stesso e con le forze su cui non può nulla. Il mondo è il risultato di una tessitura faticosa che ricorda quella di Penelope: potenzialmente infinita. Se il mondo non è qualcosa di stabile bensì di stabilizzato che cosa succede quando l’uomo cessa di essere religioso? Religio, rilegare, cucire insieme l’uomo e il mondo, inserire l’esteriorità entro una trama ordinata, un disegno. Secondo Eliade non è possibile trovare un uomo che non sia religioso in toto, «anche la vita più desacralizzata conserva tuttavia le tracce di una valoristica religiosa del Mondo»[14]. Siamo meno religiosi, ossia siamo meno adeguati ad una religione istituzionalizzata, e il nostro rapporto con la natura è per molti aspetti meno sacralizzante che un tempo. Eppure la religione intesa come rapporto non riguarda solo le relazioni uomo-divinità e uomo-natura, bensì anche quella dell’uomo a sé e al suo simile. La religione è quel comportamento umano che continuamente sancisce la validità di determinati valori che divengono condivisi in quanto universalizzabili, ossia: traduce quotidianamente in pratiche le regole di un comportamento dello stare insieme in uno spazio collettivo. La comunità non è una sommatoria di individui, bensì un insieme organico orientato verso un modo del vivere in comune che costituisce la base per la formulazione delle regole – tacite o meno – di questo stesso vivere in comune. La religione, come la politica; il mundus, come lo Stato. Cosa hanno in comune queste forme di rapporto? Arrischiamo una risposta provvisoria: la religione e la politica, il mundus e lo Stato, costituiscono le forme – dunque i mondi? – entro cui si regolano le attività umane attraverso l’istituzione di regole e di valori che, differentemente da quanto oggigiorno si predica, non sono indefinitamente rinegoziabili. Se viviamo nell’epoca di crisi dei valori non è perché siamo meno religiosi o perché ci muoviamo in un mondo in cui le scienze “dure” insegnano la prevedibilità dei fenomeni, mostrandoci contemporaneamente la loro fallibilità intrinseca e dunque inducendoci a un certo scetticismo. La crisi dei valori deriva in primo luogo dalla friabilità della postura di chi ritiene che questi siano tutti, indipendentemente, sempre di nuovo rinegoziabili. L’apparente marmoreità di questa posizione vacilla nel momento in cui ne si considera il rovescio, il risvolto pratico: l’equivalenza potenziale di ogni futuro possibile.
Ci siamo domandati in che senso non è sufficiente osservare e domesticare la natura per essere certi che domani ci sarà un mondo. Se il mondo sorge come effetto di un procedimento di tessitura del reale che pone l’uomo al livello di Aracne, non stiamo dando troppo potere all’uomo? Se questo rimane religioso in quanto tessitore, possiamo accettare che il mondo finisca? Eppure, prima di domandarci questo, dobbiamo chiederci, insieme a De Martino, che cosa significa pensare la fine del mondo. Secondo l’etnologo il mondo è primariamente culturale. Il problema della fine sorge anticamente[15]: culture differenti rappresentano secondo le relative divinità, concezioni dello spazio e del tempo, della morte, la loro fine del mondo[16]. Il rischio della fine del mondo è ricorsivo e va affrontato in quanto, secondo l’etnologo, «se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’umanità»[17]. Nel suo contributo De Martino declina gli assi portanti della sua riflessione alla luce dei «200 000 di Hiroshima»[18]. Il 6 agosto 1945, alle otto del mattino, un mondo è finito. Eppure, qualcuno ha preparato questa fine, la ha calcolata scrupolosamente sottomettendola a sperimentazioni, approvazioni e registri; ne ha osservato gli effetti dopo averli previsti più o meno approssimativamente. Il mondo è finito quel giorno per chi ignorava lo spesso tessuto di preparazioni, ma è finito anche per chi pazientemente preparava questo avvenimento, per chi lo ha curato. Un decadimento annoso dunque, le cui manifestazioni terminali indicano che la krisis è già trapassata nell’epoca in cui «l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la possibilità stessa della cultura»[19].
Come armarci contro questo scacco? Una fine senza escaton, in cui alla vastità del mondo sopra e sotto di noi corrisponde la puntuale e calcolata localizzazione di una promessa di salvezza o di condanna. Il mondo non è forse mai stato così aperto.
NOTE
[1] Ovidio, Fasti e frammenti, in Opere, materiali a c. di F. Stok, UTET, Torino 1999.
[2] Catone, Commentari, in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali (1977), materiali a c. di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Giulio Einaudi editore, Torino 2019, pp. 119-120.
[3] Ovidio, cit., p. 337.
[4] H. J. Rose, “The Mundus”, in Studi e materiali di storia delle religioni, XII, 1931, pp. 115-127, qui p. 121. Traduzione italiana parziale in E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), materiali a c. di M. Massenzio, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021, p. 125.
[5] E. De Martino, Morte e pianto rituale, cit., p. 225.
[6] Ibid.
[7] Ippocrate di Coo e la sua scuola medica impiegavano il termine krisis per indicare quella fase del decorso della malattia che si impone come discrimine all’interno del percorso di guarigione del paziente. I due esiti possibili che potevano configurarsi anche contraddicendo le previsioni del medico e repentinamente consistevano nel decadimento nella morte o nella risoluzione dell’equilibrio organico nella guarigione. Più che l’alternativa del decorso ci interessa il carattere di imprevedibilità, di sorpresa, che comunque accompagna l’osservazione e la ricerca.
[8] E. De Martino, La fine del mondo, cit., p. 65. Corsivo nostro.
[9] Giorgio Agamben ne Il regno e il giardino dedica un capitolo al cosmo dantesco ricostruendone alcune interpretazioni teologiche e reinterpretandone il ruolo alla luce della sua percorribilità da parte di Dante, in forza della quale l’Eden si configurerebbe come “la figura della beatitudine terrena”, cui l’uomo può accedere. G. Agamben, Il regno e il giardino, Neri Pozza, Vicenza 2019, p. 71. Corsivo nostro.
[10] M. Eliade, Il sacro e il profano (1957), tr. it. E. Fadini, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 19.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
[13] L’Inferno dantesco nasce dall’urto di Lucifero sulla terra in seguito alla sua cacciata dal Paradiso. La terra risponde all’urto e alla forza ritirandosi. A questo movimento corrisponde l’emergere della forma conversa: il monte del Purgatorio.
[14] M. Eliade, Il sacro e il profano, cit., p. 20.
[15] “Il problema della fine del mondo” è il titolo del contributo di De Martino al convegno internazionale organizzato dal filosofo cristiano Pietro Prini nel 1964. Il convegno “Il mondo di domani” ebbe luogo a Perugia tra il maggio e il luglio 1964. Stando a Giordana Charuty al convegno parteciparono anche, tra altri, Paul Ricœur, Gabriel Marcel e Umberto Eco. Il contributo di De Martino venne inserito nel testo che seguì al convegno, dall’omonimo titolo, pubblicato da Prini a Roma nello stesso anno.
[16] Nel testo del 1977 De Martino analizza una varietà di modi di intendere, prevedere e interpretare, il tema della fine del mondo. Possiamo indicare, tra i numerosi indagati dall’autore, i casi della schizofrenia, del marxismo e della decolonizzazione. Nondimeno, si potrebbe considerare lo studio su Morte e pianto rituale come una propedeutica al testo del 1977: il lutto sancisce la fine di un mondo culturale, necessita la restaurazione di un ordine che può essere riarticolato e riassunto solo entro una dinamica collettiva che si esplica attraverso operazioni e tecniche intersoggettive.
[17] E. De Martino, “Il problema della fine del mondo”, in La fine del mondo, cit., pp. 69-76, qui p. 69.
[18] Ivi, p. 71.
[19] Ivi, p. 70.
Autore
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Laureanda in Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano. La sua ricerca si focalizza sull’Estetica con un particolare interesse per la costruzione e l’esperienza degli spazi, siano essi rituali, simbolici o espositivi.