Non morire (La nave di Teseo, 2020) è il libro di Anne Boyer dedicato al racconto delle sue esperienze e impressioni successive alla diagnosi di un carcinoma mammario, che ricevette nel 2014 all’età di 41 anni.
Boyer è poetessa e saggista nata e cresciuta in Kansas e, con Non morire, ha vinto il Premio Pulitzer nel 2020.
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Vi parlo di questo libro perché non è il racconto di una malattia, bensì il racconto di una persona che ha il cancro.
La sua ribellione risulta potente proprio nella misura in cui – di fronte a tutto il mondo – Boyer continua imperterrita a affermare la sua completezza come persona.
La sua opposizione è un caleidoscopio di estrema lucidità, nelle sue critiche femministe e sociologiche, nella passione poetica e filologica, nelle sue impressioni, nell’introspezione e intimità delle riflessioni.
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In questo post cerco di riassumere alcune delle sensazioni – non saranno piacevoli – che emergono dalla lettura di Boyer, in particolare dal suo confronto con la medicina e con la scienza.
Sono argomenti che la sociologia della salute ha già trattato, spesso in modo approfondito, dove possibile li segnalerò in nota.
In chiusura riporto uno dei casi che Boyer ha raccolto per raccontare le truffe e la sporcizia nel mondo delle cure del cancro americano.[1]
Per un quadro completo, per comprendere e conoscere meglio, per una visione più ampia e una poetica amarezza nel cuore, leggete il libro!
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Etichette
La prima etichetta è quella diagnostica. «Prendere oggetti e azioni da un sistema e riclassificarli come elementi in un altro sistema è ciò che fa la diagnosi: prende informazioni dai nostri corpi e riorganizza ciò che avevamo dentro in un sistema imposto da lontano». Il radiologo evidenzia la massa, assegna un punteggio.
Si diventa malati, pazienti, clienti.
Boyer descrive la lenta spersonalizzazione di sé che avviene entrando nel dispositivo dell’oncologia. Mentre ancora il corpo non percepisce la differenza tra sano e malato, questo mondo apre le sue porte e comincia a tradurti in numeri e dati.
Quando con la malattia sorge la sofferenza, ci si rivolge alla medicina in cerca di un vocabolario per definire quel male. Non sempre questo avviene – spesso perché, ormai spersonalizzati, non ci si riconosce più – e i malati, racconta Boyer, sviluppano una loro narrazione intorno alla ricerca di risposte.
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Quindi si accede al padiglione, «crudele democrazia dell’apparenza», gli stessi volti, gli stessi segni sul corpo, umori, sudori, sangue e urine.
Può farci ribrezzo, ma sono le condizioni a cui le chemioterapie portano i malati.
«Non sembriamo persone: sembriamo persone col cancro. Somigliamo a una patologia prima di somigliare a noi stessi.»
Nel padiglione la produzione del malato di cancro viene portata a termine. Il nome viene registrato su un codice a barre a quel codice si aggiungono via via tutti i dati del paziente.[2]
Meglio, specifica Boyer, sono le donne a farlo.
Perché il tumore al seno è una malattia che ha un genere[3]. Sono le infermiere che lavorano nel padiglione certo, ma prima ancora sono le pazienti che si prestano a quel lavoro.
Compilano questionari, controllano la correttezza dei dati in database, rispondono alle domande delle persone incaricate della loro cura. «La parola “cura” raramente richiama alla mente una tastiera» scrive Boyer, eppure è così, la cura e la raccolta dati vanno a braccetto in un paradossale sistema sincronizzato che culmina nella richiesta di quantificare il tuo dolore da 1 a 10.[4]
Diventa una paziente fatta di dati, prodotta dal lavoro femminile.
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Vita del paziente
A un certo punto l’autrice deve prendere atto che è diventata una paziente.
Ha provato a lungo a resistere; si è informata sui social network e sui motori di ricerca; ha imparato a consultare le riviste scientifiche di settore, per cercare una comprensione che i medici non le davano.
A resistere è l’immagine del sé precedente alla diagnosi, si cerca di comportarsi normalmente, di truccarsi, di portare parrucche e vestiti che coprano le ferite delle terapie.
Non basta, si crolla, anzi, proprio quell’aspetto che si ricercava viene in odio perché non lo si è fatto per sé stessi, ma per rispondere alle richieste di una società che non vuole prendersi cura dei suoi.
La società chiede di nasconderti in quanto malato di cancro. Chiede di dissimulare, di pensare positivo, di vivere la terapia con coraggio.
Certo, Boyer è forte, nella sua convinzione di voler vincere la malattia.
Ma non può raccontare questo, non può raccontare la sua battaglia con orgoglio e un nastro rosa appuntato perché è arrabbiata: «Preferirei non scrivere nulla piuttosto che far propaganda del mondo così com’è».
Lei, madre, single, riesce a malapena a seguire il percorso di cura grazie all’aiuto di amiche e amici, tanto da chiedersi se fosse stata una persona un poco meno piacevole che fine avrebbe fatto?
I giorni di malattia al lavoro finiscono presto, devi negoziare la tua nuova situazione, ma hai una condanna a morte scritta in faccia.
L’assicurazione copre certe cure.
Dopo la chemioterapia resti devastata, intossicata per giorni, per non parlare di quando si decide per l’asportazione del tumore. Operazione in giornata, la mammella viene rimossa e il paziente rimandato a casa: questi i costi che ci si può permettere.
«Sono sopravvissuta. Eppure, a causa del regime ideologico del cancro, definendomi una sopravvissuta mi sembra di tradire i morti.»
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Certo Boyer è impietosa ma quello che risulta vero è la sua richiesta di essere accettata per come è con la sua malattia.
Chiede che le sia permesso anche di essere debole, di non farcela, di un posto in questo mondo anche per la donna malata di tumore al seno.
Invece la società è letale con chi non collabora alla sua guarigione: «Il rifiuto conduce all’isolamento: l’esecuzione sociale dell’ottemperanza medica intorno a una patologia genderizzata come il tumore al seno può essere brutale.»
Chi muore poi, tradisce il Progresso della società; quella stessa società in cui – come risponde la figlia di Boyer a sua madre– siamo condannati a vivere e che ci fa ammalare.
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Non morire si rivela quindi essere una denuncia poetica delle nostre società tecno-scientifiche.
Se possiamo curare alcune patologie con le “pallottole magiche” o con operazioni ad hoc, il tumore è si rivela più grande di quanto pensiamo.
Di fronte alla persona, il sistema ospedaliero simil-fordista fallisce.
Questo è ancora più marcato quando si è donna (per non parlare di quando si è donna e nera) perché il sistema della cura non è alieno alle dinamiche discriminatorie e patriarcali della società tutta.
Chi si ammala di forme gravi se ha la fortuna di morire presto diventa un “angelo”, le donne che sopravvivono sono invece spesso «abbandonate, tradite, rese disabili, licenziate».
Boyer è sopravvissuta a quel nodulo alla mammella, ma stenta a sopravvivere alla cura: «I fiocchi rosa adornano gli oggetti e i processi che ammazzano la gente. Non esiste cura né c’è mai stata».
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La truffa
Ecco uno dei racconti che Boyer raccoglie, che costituiscono una raccolti di casi e truffe scientifiche legate alle terapie contro il cancro, negli Stati Uniti ma con effetti anche negli altri paesi:
Nel 1991 viene diagnosticato un tumore mammario a Nelene Fox.
La compagnia assicurativa non voleva coprire le spese per una nuova terapia basata su un trapianto di midollo osseo contornato da un’alta dose di chemio.
Fox riuscì a pagarsi le spese da sola, ma morì due anni dopo la diagnosi senza accedere alla terapia.
La famiglia fece causa alla compagnia assicurativa ricevendo 89 milioni di dollari di indennizzo.[5]
A partire da questo evento e incoraggiate dai successi dell’attivismo per l’AIDS[6] – racconta Boyer – le donne con tumore al seno si organizzarono in lobby per avere accesso alla nuova terapia.
«Gli ospedali addebitarono da ottantamila dollari a centomila per l’altamente remunerativa procedura, con un costo ospedaliero di meno di sessantamila dollari.»
Lentamente gli assicuratori si prestano e quarantunomila pazienti ricevono la cura.
La terapia era dolorosa e prevedeva l’isolamento per giorni in ospedale, inoltre erano previsti diversi effetti collaterali anche gravi. «Secondo alcuni documenti, la terapia ha ucciso una donna su cinque.»[7]
L’unico studio a supporto era quello condotto da Werner Bezwoda. Quando i ricercatori replicarono quella procedura per la terapia, quattro delle sei donne trattate riportarono gravi danni cardiaci, di queste quattro due morirono di lì a poco.
Più tardi Bezwoda ammetterà che la sua ricerca era fraudolenta.[8]
È del 2016 invece uno studio che conferma[9] i risultati di molte ricerche precedenti: il carcinoma mammario è stato trattato eccessivamente e la maggior parte delle donne con diagnosi di cancro al seno hanno ricevuto trattamenti che non erano necessari. Le mammografie avevano portato all’individuazione precoce di tumori. Questa anticipazione invece di salvarle le ha condannate a trattamenti invasivi e spese insostenibili.
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«Morire di cancro al seno non è una prova della debolezza o del fallimento morale dei morti. Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti.»
NOTE
[1] Per un’analisi che tenga conto della storia delle politiche italiane sul cancro, comparate a quelle statunitensi, si può leggere G. Vicarelli, Le tappe della politica oncologica in Italia. Riflessioni a margine del caso Di Bella, in “Prospettive sociali e sanitarie”, 2, pp. 6-11.
[2] Boyer racconta nel dettaglio la conformazione del padiglione con cure “passthrough”, che contrappone all’etimo di clinica, alla cura prestata al letto del paziente. Un classico in sociologia al riguardo è D. Sudnow, Passing On. The Social Organization of Death, Englewood Cliffs, Prentice Hall 1967.
[3] Anche gli uomini possono venire colpiti da forme di neoplasia alla mammella, ma i casi sono rarissimi e il tumore al seno si configura come una malattia della donna anche per le implicazioni sociali e politiche che comporta. Queste tematiche sono tutte affrontate da Boyer nel suo libro.
[4] Boyer prova a raccontare il dolore in scale che non siano numeriche, a esempio con frasi tratte dalle poesie di Emily Dickinson – un gioco che fa con le sue amiche per esorcizzare la brutalità della richiesta del medico.
[5] E. Eckholm, $89 Million Awarded Family Who Sued H.M.O, “The New York Times”, 30 dicembre 1993.
[6] Per approfondire l’impatto della partecipazione pubblica alle policy e terapie riguardanti l’AIDS: S. Epstein, Impure Science: AIDS, Activism and the Politics of Knowledge, University of California Press, Berkeley 1996.
[7] R.A. Rettig, False Hope: Bone Marrow Transplantation for Breast Cancer, Oxford, Oxford University Press, 2007.
[8] D. Grady, Breast Cancer Researcher Admits Falsifying Data, “The New York Times”, 5 febbraio 2000.
[9] M. Healy, Majority of Women Diagnosed with Breast Cancer after Screening Mammograms Get Unnecessary Treatment, “Los Angeles Times”, 12 ottobre 2016.
Autore
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Laureato in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, è il Libraio della redazione. Filosofo che non riesce a separarsi dalla narrativa. Oggi studia soprattutto filosofia della medicina, con un taglio innovativo.