Mai fidarsi della bellezza - Inganni e illusioni di un criterio scientifico

La bellezza può essere una splendida guida per lo sviluppo di formalismi matematici, ci suggerisce in questo blog Matteo Donolato (Che bella equazione! – Il ruolo della bellezza nelle scienze) seguendo il pensiero di P. Dirac.

Ai fisici teorici, in particolare, piace maneggiare teorie e oggetti matematici “belli”, addirittura considerano l’eleganza come un criterio di successo delle formulazioni teoriche, delle spiegazioni della realtà, delle descrizioni dei sistemi fisici.

Tuttavia sembra necessario essere cauti, perché a volte la bellezza matematica può nascondere dei tranelli.

Un bel formalismo matematico, infatti, ha il pregio di rendere la descrizione della realtà più semplice, più maneggevole, apparentemente più efficace e più elegante, ma, spesso, non rappresenta la realtà nel suo modo di essere effettivo, nei suoi comportamenti fenomenici.

Proviamo a fare qualche esempio:

  • Il primo può essere l’identità di Eulero: è bellissima, compatta e semplice; comprende una serie di elementi che ricorrono in tutte le matematiche e geometrie – euclidee e non – ma, poiché è un’identità, non significa altro che un oggetto è identico a sé stesso, seppur descritto in modi diversi.

Esattamente come Hesperus e Vesperus, la stella del mattino e la stella della sera; nomi diversi per la stessa cosa, vista da angolazioni diverse, ma pur sempre una e una sola cosa è: il pianeta Venere.

L’identità di Eulero racconta di come la bellezza matematica possa diventare un formalismo di nessuna utilità nella pratica scientifica e applicativa.

È opportuno ricordare Husserl[1], quando accusava Galileo e, con lui, molta scienza della modernità, di realismo metafisico, di aver dimenticato – inseguendo i formalismi idealizzati – il contatto con il mondo delle cose reali.

Un secondo esempio – dobbiamo però per un attimo dimenticare che è stato falsificato nel ‘600 – è il modello geocentrico aristotelico-tolemaico dell’universo con la terra, con noi/io al centro di tutto. Cosa c’è di più bello, simmetrico, elegante, appagante, soprattutto per chi lo ha disegnato, di questo modello? Secondo il punto di vista antico  era anche efficace nella rappresentazione della realtà. In parte anche per il nostro punto di vista: nella nostra esperienza quotidiana, non pare anche a noi di essere fermi, con il cielo che ci gira intorno?

Come sappiamo, però, questo schema non ha retto il confronto con i paradigmi successivi; per cui, è “caduto” ed è stato sostituito da un altrettanto elegante modello (quello di Newton) basato su un formalismo matematico, anch’esso, come ci dice Matteo Donolato, di grande bellezza: la legge della gravitazione universale.

Ecco, quindi, il terzo esempio: la legge di gravitazione universale si basa su un “oggetto scientifico”[2] misterioso e mai dimostrato: la forza di attrazione gravitazionale, cioè un’azione a distanza tra due corpi macroscopici.

“Oggetto” che è stato a sua volta sostituito, nella teoria della relatività, dalla nozione di campo gravitazionale. Che fa a meno della forza.

Il quarto ed ultimo esempio di bellezza teorica e matematica, nel campo della fisica delle particelle, è la Teoria supersimmetrica delle stringhe (o supersimmetria); questa teoria è in grado – grazie a dei formalismi matematici giudicati molto eleganti da quasi tutti i fisici – di descrivere il mondo dei bosoni e dei fermioni, e converge nella Teoria del Tutto: un tentativo di unificazione delle teorie quantistica e relativistica.

La “supersimmetria” – teoricamente – permetterebbe anche di aver a che fare con quantità e numeri vicine all’unità, che molti fisici definiscono “naturali”; e di evitare di far uso del cosiddetto “fine tuning”, cioè di aggiustamenti della teoria – assimilabili alle cinture di protezione di Lakatos – a fronte di casi particolari e risultati non allineati con le previsioni.

La teoria della supersimmetria, però, non sembra dare frutti sperimentali. Nessuno dei suoi risultati riesce a essere testato, con ovvio fastidio dei fisici che hanno puntato sulla sua produttività potenziale.

----------------

Al contrario, possiamo fare degli esempi di formalismi “non così belli” che – almeno per ora – sono di successo e (abbastanza) testati sperimentalmente.

Il modello che descrive una cosa apparentemente banale come i pennacchi di fumo (avete presente quelli che escono dalle ciminiere?) è costituito da un sistema di equazioni che - già in una approssimazione semplificata - riempiono almeno due pagine di un normale libro di testo – solo come formalismo matematico.

Purtroppo, un pennacchio di fumo non può essere descritto con formule prese dalla geometria solida; è, invece, un oggetto di grandissima complessità in cui compaiono più di un centinaio di fattori e termini e ancora non ne è descritta completamente la struttura. È più brutta di un orco delle favole. Ma funziona piuttosto bene.

In fisica delle particelle, il "Modello standard", teoria che resiste da alcuni anni e che ha numerosi riscontri sperimentali – non ultima la rilevazione del bosone di Higgs, previsto anni prima e ora “trovato” e misurato sul campo – è abbastanza orribile, se misurata con il criterio della bellezza e dell’eleganza: più di 25 particelle “elementari”, tra cui: 6 fermioni detti quark; 8 gluoni privi di massa; 6 leptoni, che non partecipano alle interazioni forti; il fotone; 3 bosoni massivi; in ultimo il bosone di Higgs, massivo, neutro elettricamente e funzionale a dare massa a fermioni e bosoni. Tutti questi suddivisi in tre generazioni, in funzione della massa; inoltre, le generazioni non sono definite da criteri matematici a priori ma solo dalla necessità di “far funzionare” il modello (se mi si passa la semplificazione). “Vi delude che il modello standard sia così brutto?” dice Sabine Hossenfelder[3]

--------------

Sembra, quindi, estremamente pericoloso per i fisici, per i naturalisti - e direi persino per gli economisti - che desiderano descrivere in maniera realistica l’universo, affidarsi a dei formalismi molto belli.

Pericoloso perché il mondo e l’universo, nel loro presentarsi sono per lo più disuniformi, presentano continuamente singolarità, sfuggono al principio di omogeneità.

I casi eleganti come, ad esempio, le strutture polimorfe oggi chiamate frattali, sono eccezioni notevoli; tanto che uno strutturalista nato nella matematica come Roger Caillois, li presenta e li esalta proprio come eccezionalità, come fenomeni notevoli.

I salti, le catastrofi, le singolarità, sono la norma della realtà.

In fisica e nelle scienze naturali è meglio non fidarsi - e non affidarsi - alla bellezza matematica.
Si rischia di perdere la strada…

 

 

NOTE

[1] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 2015

[2] L. Daston, Biographies of scientific objects, The University of Chicago Press, Chicago and London, 2000

[3] S. Hossenfelder, Sedotti dalla matematica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, pag. 182


PAST 12.12.2023 - Soggetti o oggetti? Come e perché può essere il caso di pensare un diritto per alcuni robot | Riccardo Boffetti, Unimi

Soggetti o oggetti?
Come e perché pensare un diritto per alcuni robot 

Relatore: Riccardo Boffetti, Laureato Magistrale in Politics, philosophy and public affairs (PPPA), Università degli Studi di Milano

Coordina Giampietro Gobo, Docente di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, Università degli Studi di Milano

 

Martedì 12 dicembre 2023 ore 17:00 – 19:00

Sala Martinetti – Dipartimento di Filosofia, Via Festa del Perdono 7 - Milano


PAST 16.01.2024 - Immagine analogica ed Intelligenza Artificiale. Due mondi apparentemente distanti | Diego Randazzo, artista visivo

Immagine analogica ed Intelligenza Artificiale.
Due mondi apparentemente distanti

Relatore: Diego Randazzo, Artista visivo

Coordina Giampietro Gobo, Docente di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, Università degli Studi di Milano

 

Martedì 16 gennaio 2024 ore 17:00 – 19:00

Sala Martinetti – Dipartimento di Filosofia, Via Festa del Perdono 7 - Milano

 

Diego Randazzo (Milano 1984) vive e lavora tra Milano e Belluno. Consegue la maturità al Liceo Artistico di Brera e si laurea in Scienze dei Beni Culturali con una tesi in ‘Istituzioni di regia’ presso l’Università degli Studi di Milano. Il suo lavoro, articolato su diversi media, è concentrato su alcuni dei principali temi della cultura visuale: l’esperienza dell’immagine, con tutte le sue componenti emotive, evocative, antropologiche e sociali; i dispositivi del guardare, che diventano spesso, a loro volta oggetto/soggetto dell’opera; l’archeologia dei media, intesa come indagine sulle origini tecnologiche dello sguardo moderno e contemporaneo, lo sguardo della macchina, aggiornato sul le più recenti innovazioni (dall’algoritmo alle immagini operative); la dimensione del racconto; l’immersività o – al contrario – la straniazione prodotta dal rapporto con il medium. Sue opere son presenti in collezioni pubbliche e private. Finalista in svariati premi d’Arte contemporanea (The Gifer Festival, 2 volte finalista al Premio Cramum, Arte Laguna, Combat Prize, Radar Mexico, Arteam Cup, Art Right Prize) è tra i vincitori del Premio Ora nel 2019. Sempre nel 2019 la sua installazione #Kids, tributo alla tragedia dei Piccoli Martiri di Gorla e a tutti i bambini vittime delle guerre, diventa opera permanente di Casa della Memoria di Milano. Nel 2023 l’opera ‘Flat – Perchè un algoritmo elimina l’uomo da una stanza piena di solitudine?‘ è segnalata della giuria del Combat Prize, si aggiudica il primo premio dell’Yicca art prize e riceve la Menzione della Giura al Talent Prize di Insideart Magazine.

Parallelamente all’attività artistica lavora in ambito multimediale dal 2005, dal 2019 è montatore e referente tecnico della produzione podcast per l’Agenzia Ansa .

www.diegorandazzo.com

Ig: diego__randazzo


La svalutazione delle competenze - Le responsabilità di scienziati e giornalisti

Da molto tempo si parla di “crisi delle competenze” (expertise).

Con questa espressione si intende la tendenza a non dare sufficiente credito e importanza al parere degli esperti, dei tecnici, degli scienziati, dei possessori di conoscenze specifiche. In sostanza, delle persone competenti.

Vi è, quindi, in atto una sorta di delegittimazione dell’autorità intellettuale. L’avevano già evidenziato Collins ed Evans con Rethinking Expertise (2007), Nichols (2017) con The Death of Expertise, Eyal con The Crisis of Expertise (2019).

Responsabili di tutto ciò sono spesso additati, di volta in volta, internet (famosa è l’espressione “doctor Google”, per cui le persone si fanno auto-diagnosi e si curano cercando in rete i rimedi), i social media (dove troviamo gruppi che forniscono pareri su qualsiasi cosa e contestano le affermazioni di scienziati), il populismo che ritiene che gli esperti frenino la democrazia, i politici (come Trump, Bolsonaro ecc.)…

Ma siamo proprio sicuri che essi siano i veri responsabili? Non potrebbe essere che la crisi delle competenze sia (almeno in parte) causata proprio dai… competenti?

Questa ipotesi, apparentemente assurda, emerge da una nostra ricerca sulla fiducia negli scienziati.[1] Come altre ricerche hanno evidenziato[2], dopo l’epidemia di SARS-COV-2, abbiamo assistito a un declino della fiducia nei confronti degli scienziati.

Che era molto alta.

Per cui declino significa che è scesa, non che è sparita (come qualcuno potrebbe frettolosamente pensare).

I risultati della ricerca sollevano dubbi sulle recenti teorie che assegnano un forte ruolo ai social network e alle fake news nella sempre maggior diffusione del cosiddetto ‘antiscientismo’ (Moran, 2020). Sicuramente (e anche il nostro sondaggio lo rileva) le persone più critiche nei confronti della scienza e degli scienziati sono assidui frequentatori dei social network.

Tuttavia, le persone che li utilizzano come fonte primaria sono molto poche (3%).

Da qui, la nostra ipotesi che siano proprio i media tradizionali (TV in primis), nei quali è presente un diffuso scientismo rinforzato anche dalla richiesta di certezze (fatta agli scienziati) da parte dei conduttori televisivi, ad alimentare (indirettamente e inconsapevolmente) un crescente atteggiamento critico nei confronti della scienza, che può sconfinare anche in un sentimento antiscientifico. Questi atteggiamenti sono, in parte, la conseguenza di previsioni (statistiche e non) non avveratisi (Campo et al. 2021); del disorientamento e confusione nell’opinione pubblica a seguito dei conflitti televisivi fra scienziati; della disillusione nello scoprire che alcune promesse d’uscita dall’emergenza non sono state mantenute. Quelli elencati sono peraltro anche alcuni degli annosi nodi irrisolti della medicina (cfr. Lello, 2020; Hornsey, Lobera e Díaz-Catalán, 2020).

A ciò vanno aggiunte le dinamiche conflittuali che, sebbene connaturate al dibattito scientifico, sono state amplificate dai processi di spettacolarizzazione della scienza che hanno avuto luogo durante l’epidemia. Nonostante la visibilità pubblica di alcuni scienziati non sia un fenomeno nuovo, l’epidemia ha dato alla comunità scientifica un’esposizione mediale inedita. Gli stessi media, inoltre, hanno in gran parte “premiato” proprio gli scienziati maggiormente noti e visibili nel dibattito pubblico, nonché tendenti a comportarsi come “attori mediali” (quindi più “televisivi”), inclini all’assertività, alla polemica o alla dichiarazione a effetto (anche a scapito della chiarezza informativa); spesso al mero fine di aumentare l’audience. Inevitabilmente, ciò ha portato a esasperare ulteriormente il livello di conflittualità.

A tal fine, Nucci e Scaglioni (2022) hanno parlato di “iatrodemia”, cioè epidemia di medici in TV: «gettandosi nell’arena tra polemisti, nani e ballerine, hanno portato la medicina sul terreno delle opinioni. Il problema è che la scienza non è un’opinione. E che questa percezione cambia il nostro modo di considerare il rischio e la malattia» (p. 11).

Secondo gli autori, il risultato è la perdita di autorevolezza dei medici, a favore del rafforzamento del pensiero antiscientifico, proprio nel momento in cui la fiducia nella classe medica sarebbe cruciale. Infatti, essi sostengono che dalle prime fasi della pandemia abbiamo assistito, da un lato, alla depoliticizzazione delle decisioni sanitarie, presentate come scelte ‘tecniche’ dettate da ‘esperti’, dunque indiscutibili; dall’altro, alla politicizzazione dei medici, che alle prime opinioni divergenti sono diventati i principali alfieri di questa o quella battaglia. Così arriviamo a oggi, gli autori concludono, con medici onnipresenti in tv, che ormai danno anche chiari segni di appartenenza politica.

 

LO SCIENZIATO PASSE-PARTOUT

Ma c’è ancora un altro fenomeno, ancor più recente: lo scienziato prêt-à-porter o passe-partout.

Infatti, sempre più e soprattutto nelle scienze naturali, fisiche, matematiche e anche mediche, gli scienziati esprimono pubblicamente le loro opinioni a proposito di ambiti che esulano dalla loro specifica area di competenza.

E se un fisico (Giorgio Parisi, ad esempio), anziché un epidemiologo, si mette a parlare di previsioni sul virus; un virologo (Burioni) - e non un medico di famiglia o ospedaliero - parla di pazienti e terapie anti-Covid; una farmacologa (Cattaneo), un virologo (Burioni), un fisico (Parisi) o una immunologa (Viola), un biochimico e biologo molecolare convertito all’analisi di Big Data e Reti Sociali per lo sviluppo biofarmaceutico (Bucci) - e non un agronomo - parlano di agricoltura biodinamica;  una biologa molecolare (Gallavotti) o un neurologo - e non uno psicologo o sociologo - di cosa passa per la mente di un no-vax, i loro interventi potrebbero (indirettamente e inconsapevolmente) veicolare il tacito messaggio che gli stessi scienziati non ritengono le competenze così fondamentali e che ognuno può cimentarsi in temi che sono altri rispetto al suo oggetto di studio.

Questo fenomeno si ripresenta ormai con modalità simili a ogni nuovo tema che conquisti l’agenda setting.

Un tempo erano i sociologi a essere accusati di parlare di tutto; ora il ruolo del tuttologo lo stanno, pian piano, assumendo i fisici e i matematici (Rovelli, Odifreddi) che si esprimono su tutto. Anche sulla guerra in Ucraina o in Israele.

Facendo il verso ai giornalisti, che sono ormai diventati i campioni di tuttologia: lo stesso giornalista ormai scrive di vaccini, guerra, antisemitismo, cambiamenti climatici, femminicidi, patriarcato ecc.

Non ci credete? Fate una prova: prendete il nome di una nota firma, e guardate di cosa ha scritto negli ultimi tre mesi. Scoprirete delle menti enciclopediche in formato tabloid. Per cui, forse, sono proprio loro ad ammazzare la competenza.

In conclusione, la crisi delle competenze e della legittimità dei saperi sembra essere non solo il prodotto di forze esterne alla scienza, ma anche degli scienziati mediali stessi (Gobo e Campo, 2021).

 

 

NOTE

[1] Gobo G., Serafini L., Campo E., e Caserini A. (2022), Covid-19 e fiducia negli scienziati. Uno studio pilota sui lettori di due giornali online, in Comunicazione Politica, 23(1), pp. 19-38.

[2] Di ricerche ce ne sono molte, con esisti opposti. Alcune dicono la fiducia è calata, altre che è cresciuta o è rimasta stabilmente alta. Sono ricerche non comparabili perché condotte con domande molto diverse. In altre parole, sono le domande dei questionari a costruire (almeno parzialmente) le opinioni degli intervistati. Osservazione banale, ma quasi sempre dimenticata.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Campo, E., Gobo, G., Galeotti, M. e Parra Saiani, P. (2021). Limiti e fallimenti dei modelli epidemiologici e previsionali nell’epidemia di SARS-COV-2, in A. Favretto, A. Maturo e S. Tomelleri (a cura di) L'impatto Sociale del Covid-19 (pp. 39-48). Milano: Franco Angeli.

Collins, H. and Evans, R. (2007) Rethinking Expertise, Chicago, University of Chicago Press.

Eyal, G. (2019) The Crisis of Expertise, Cambridge, Polity Press.

Gobo, G. e Campo E. (2021). Covid-19 in Italy: should sociology matter? The European Sociologist, 46 (12).

Gobo G., Serafini L., Campo E., e Caserini A. (2022), Covid-19 e fiducia negli scienziati. Uno studio pilota sui lettori di due giornali online, in Comunicazione Politica, 23(1), pp. 19-38.

Leggere di più


Sostenibilità - Una sfida scientifica, tecnologica e sociale per le aziende

Da qualche anno si parla tantissimo di sostenibilità e di sviluppo sostenibile, ma di cosa parliamo esattamente?

Il concetto di sviluppo sostenibile è stato fissato dalla Commissione Brundtland (Onu) nel rapporto “Our common future” del 1987. In quel rapporto si parlava della necessità di garantire il benessere delle generazioni future, letteralmente: “Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.

A partire da quegli anni ci si è resi conto che gli squilibri tra il nord e il sud del mondo non erano più accettabili e che il modello di sviluppo del mondo industrializzato non poteva durare per i danni ambientali e sociali che portava con sé.

È nato quindi il concetto di sostenibilità basato su tre pilastri: la sostenibilità economica, ambientale e sociale; tre aree di intervento che sono chiaramente interconnesse fra loro. E dai primi anni 90 in poi l’argomento è diventato sempre più al centro del dibattito internazionale e sempre più diffuso anche tra il grande pubblico.

Vediamo di fare qualche considerazione sull’oggi centrata sul nostro Paese:

  • La sostenibilità è uscita dal recinto del dibattito per tecnici ed è diventata anche un driver di business per le imprese
  • Per le imprese è un elemento di rafforzamento della corporate reputation ma può diventare argomento pericoloso e scivoloso, quelle che sbandierano le loro virtù sostenibili sono anche le più vulnerabili ad attacchi mediatici per come agiscono
  • Se ne parla tanto, forse troppo, se ne parla male, con superficialità o ideologicamente; c’è un interessante rapporto del Marco Frey (un’autorità in materia) che spiega come ci sia saturazione nell’opinione pubblica verso il tema

In altre parole, il sovrautilizzo della parola e dei concetti che rappresenta rischia di svuotare la stessa di significato, rende difficile per il cittadino capire chi opera correttamente e chi fa greenwashing e soprattutto la banalizzazione di certi temi – insieme alle discutibili manifestazioni dell’ambientalismo estremista – fanno sì che l’opinione pubblica si stia dividendo e polarizzando.

Ci sono molti gruppi di attivisti, che spesso operano con una carica emotiva che esclude la razionalità, e c’è una larga parte di popolazione ormai indifferente se non infastidita da un tema che sembra per molti versi lontano dai “problemi reali”. Questa situazione aggiunge incertezza per come affrontare un cambiamento già di per sé è tutt’altro che facile.

-------------

In un interessante intervento al Salone della CSR - che come ogni anno dal 2012 si svolge ai primi di ottobre in Bocconi a Milano - il professor Stefano Zamagni ha illustrato una tesi (che sostiene da tempo) sul concetto di Sostenibilità, che trovo particolarmente interessante.

Zamagni è un economista decisamente poco allineato: laureatosi alla Cattolica di Milano e da sempre vicino al mondo cattolico e del non profit, ha insegnato in università italiane (Parma, Bologna, Bocconi), inglesi e spagnole. Ha collaborato con Joseph Ratzinger prima e dal 2013 con Papa Bergoglio e oggi dirige la Pontifica Accademia delle scienze sociali. Ma Zamagni è conosciuto soprattutto per la riscoperta dei concetti dell’Economia civile che affonda le sue radici nel pensiero della scuola economica napoletana del 700.

In estrema sintesi (mi perdonerete…) l’Economia civile si pone come alternativa all’Economia politica che nasce con Adam Smith nel 700 e che è il paradigma che ha dominato e permeato lo sviluppo del capitalismo in occidente. A differenza del pensiero economico di matrice anglosassone che è sfociato nel liberismo prima e nel neoliberismo di Milton Friedmann negli anni 60 del secolo scorso, l’Economia civile si basa sul concetto di “bene comune” in cui i soggetti economici non lavorano solo per il mero profitto.

Si capisce quindi come delle tre gambe della Sostenibilità, a Zamagni interessi maggiormente quella sociale. Egli pensa che siano le imprese a trainare la riflessione e l’azione su questo tema, anche più delle istituzioni.

Quindi è sulla sostenibilità sociale il challenge maggiore per le imprese oggi.

Infatti la sostenibilità economica non può che essere un prerequisito, impossibile da bypassare, l’unica problematica della sostenibilità economica è creare regole condivise per tutti, ed evitare situazioni di vantaggio per singoli paesi o aziende.

Il caso più classico è la Cina, il maggior produttore al mondo di batterie per la mobilità elettrica per noi europei è anche il più grande inquinatore del pianeta. Il mix energetico cinese infatti si basa per l’85% sulle fonti fossili e per il 15% sulle fonti rinnovabili ed è il maggiore consumatore di carbone al mondo con una quota del 50,2%. (Fonte Crea)

È giusto far notare comunque che certe fughe in avanti prospettate dagli ambientalisti duri e puri prescindono totalmente da valutazioni economiche, come se le risorse finanziarie fossero una variabile indipendente dalla realtà, una situazione questa che è la premessa per creare, appunto, le diseguaglianze di cui si diceva.

Quanto alla sostenibilità ambientale, essa può essere normata e misurata (pur con tutte le difficoltà, le polemiche e la complessità di trovare soluzioni condivise). La sostenibilità ambientale alla fine è un insieme di regole, si tratta di decidere quali applicare e come, ma una volta individuate c’è poco da discutere, si è dentro o fuori dal set definito.

Eccoci quindi alla terza area della sostenibilità, quella sociale, che è senza dubbio quella di cui è più difficile definire i contorni concettuali e le regole, ma è anche quella che impatta in modo più diretto sulla vita delle persone.

L’osservatorio della Fondazione Sodalitas sulla Responsabilità Sociale d’Impresa ha condotto una ricerca su un campione di 100 imprese appartenenti alla Fondazione per capire “a che punto siamo”.

Ne viene fuori un quadro di notevole sensibilità e responsabilità che poggia su alcuni pilastri:

  • l’ascolto degli stakeholder interni ed esterni all’impresa
  • il benessere dei dipendenti
  • l’attenzione e l’integrazione con il territorio
  • l’importanza del fare rete

Certo fa piacere sentire che le aziende sono concentrate su questi temi e che spingono verso una situazione virtuosa, tuttavia è anche facile pensare che si tratti di un’indagine su un campione “drogato” in senso positivo; tutte imprese che fanno parte della Fondazione e che quindi sono molto sensibili al tema.

Ma si potrà dire altrettanto del complesso delle aziende italiane? Non credo proprio di sbagliare se dico che la risposta è no e che c’è ancora molto da fare in questo senso.

Purtroppo, al di là dei molti codici etici, bilanci di sostenibilità, compunte dichiarazioni di CEO molto attenti alla propria immagine, la sostenibilità sociale pare essere un lusso per imprese economicamente molto solide.

Il vero scatto in avanti si farà quando i comportamenti di Corporate Social Responsibility non dipenderanno dalla sensibilità dei singoli ma saranno frutto di una cultura condivisa e di regole riconosciute. Ci vorrà del tempo ma la sfida è questa, non può esistere sostenibilità senza la sua componente sociale.


Distopia tecnoscientifica e immaginazione - Il mondo nuovo di A. Huxley

Non sono un romanziere - soleva dire Huxley - ma un saggista che scrive fiabe.

Perché, allora, affidare alla forma del romanzo una previsione sul futuro?

Per quale ragione proprio la «superorganizzazione» dell’ardito mondo nuovo e dei suoi fantasmagorici prodotti tecnoscientifici, frutto della più fervida capacità immaginativa, sembrano annunciare l’estinzione di quest’ultima?

Perché, infine, il mondo d’Utopia gravita sopra di noi con fare minacciosamente distopico?

 

  1. Utopia, distopia e tecnica

 «Il secolo delle macchine comincia a farsi sentire»[1]. Sono le parole dell’architetto Charles-èdouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (1887-1965). Sempre lui, nel medesimo volume Urbanistica (1925), scriveva con il suo solito ottimismo quasi messianico che «crollava soltanto un mondo vecchio. Su dalle rovine stava arditamente spuntando un mondo nuovo»[2].

È questo lo spirito che anima certe frange avanguardistiche dei primi decenni del secolo scorso, come quando un giovane Antonio Sant’Elia (1888-1916) dichiarava che «come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi - materialmente e spiritualmente artificiali - dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico»[3].

Ancora, è il medesimo mondo che anni più tardi il filosofo Gunther Anders (1902-1992) avrebbe dipinto con tinte fosche e apocalittiche nel

suo L’uomo è antiquato I (1956): «mondo della «matrice»[4] e del «dislivello prometeico»[5], asincronia della psiche umana rimasta irrimediabilmente indietro rispetto alla lineare, efficiente e funzionale perfezione dei «suoi» prodotti tecnoscientifici. Una psiche debole e imperfetta che arranca dietro alla perfezione macchinica, e che modella il suo «umiliante ideale»[6] sulla fredda perfezione che contraddistingue la macchina, «il suo sogno, va da sé, sarebbe quello di diventare uguale alla sua divinità: agli apparecchi, o meglio, di essere compartecipe - in certo modo consustanziale - della loro natura»[7].

-----------

Qualche decennio prima, sempre nella prima metà del secolo scorso, apparve per la prima volta nelle librerie Brave New World (1932) dell’autore inglese Aldous Huxley (1894-1963), racconto fiabesco di una società ideale in cui domina una superorganizzazione di natura tecnoscientifica secondo i tre canoni della «Comunità, Identità e Stabilità»[8]. Utopia o distopia?

 

Di distopie non si è sempre parlato.

La parola stessa, a essere generosi, non ha più di duecento anni. Ma quand’anche facessimo della distopia l’immagine in negativo dell’utopia, ci accorgeremmo, forse con imbarazzo, che neppure di quest’ultima abbiamo una definizione tanto chiara.

È Thomas More a costruire il neologismo e ad affidarlo al suo omonimo racconto del 1516[9].

A seconda dell’etimo l’utopia è un «non-luogo» (U-topia) o un «buon-luogo» (Eu-topia).

Tuttavia, il «non» dell’utopia nulla ha a che spartire con la recente caratterizzazione dell’antropologo Marc Augé (1935-2023)[10]: il «non» di un’utopia definisce il «luogo» come ciò che non è ma dovrebbe essere, «città ideale», come quella descritta dal frate domenicano Tommaso Campanella (1568-1639) ne La città del sole (1623).

 ----------

 Huxley aveva a cuore queste distinzioni, tutt’altro che quisquilie o eruditismo da scaffale: egli scrisse una «distopia», Il mondo nuovo, e una «topia»[11], l’isola (1962), ma non si intrattenne mai con l’utopia.

Perché ciò è determinante?

Il «non» dell’utopia, si è detto, non ha alcunché di negativo: è come la storia della tensione amorosa in Platone, immagine a cui tendere.

Perciò, propriamente parlando, l’etimo è una fusione piuttosto che un’alternativa: «non luogo» che, correlativamente, è un «buon luogo».

Si potrà forse obbiettare che un tale racconto è, nonostante tutto, frutto di una mente o di un cervello, che «l’idealità» dell’utopia è frutto della «dannata immaginazione» che ci lega a terra.

Tuttavia, More e Campanella fanno dell’immaginazione un veicolo di purificazione, l’immagine «ideale» dev’essere intimamente legata a una simbologia teologica, garante di un’intima e sacra connessione con il cosmo, «cosmo in piccolo».

In Brave New World nulla di tutto ciò: non è l’immagine della città in armonia con il cosmo, ma piuttosto lo schema di un’ingegnosa macchinazione, di uno schema-mondo, «comunità che grazie all’identità realizza la stabilità»[12].

Non è soltanto l’inversione dell’utopia. Nella narrazione distopica c’è una riformazione della «funzione immaginativa».

Non si tratta più di un veicolo verso l’idealità, ma di un’estensione immaginativa della scienza stessa.

L’immaginazione estende il prodotto tecnoscientifico nelle sue possibilità d’insieme, all’estremo.

Anders da ciò impara il fondamentale principio metodologico dell’«esagerazione», per cui il «dislivello» dell’uomo rispetto ai suoi prodotti richiede, per essere capace di controbattere, una metodologia altrettanto esagerata; insomma «esistono fenomeni che non si possono trattare senza accentuarli e ingrandirli»[13].

L’esagerazione consiste allora nell’estrema immaginazione del prodotto tecnoscientifico: la nascente eugenetica diviene catena di montaggio per esseri umani a base di «ipnopedia» e «persuasione chimica», la nascente farmacologia diviene il soma, «la droga perfetta…euforica, narcotica, gradevolmente allucinante…tutti i vantaggi del Cristianesimo e dell’alcol; nessuno dei difetti»[14].

Ogni prodotto è sviluppato, attraverso l’immaginazione, nella sua singola possibilità utopica: droga senza effetti collaterali, eugenetica senza errori - o quasi -, vita senza tristezza, coraggioso mondo nuovo scevro dal peso del passato; anche la casa, «psichicamente squallida» e fonte degli «attriti della vita che vi si ammucchiavano»[15], è stata scongiurata.

Eppure, di distopia si tratta, e quest’ultima vive un gemellaggio singolare con lo sviluppo tecnoscientifico: che si possa «estendere il presente» è il vago principio comune che li anima.

 

  1. Immaginazione

 Se l’immaginazione tecnoscientifica è indeterminata nel campo del futuro (ragion per cui si «cerca di immaginare cosa accadrà in questo o quel caso»), se l’indeterminatezza è, per così dire, il «campo base» dell’immaginazione, allora Huxley giunge a un esito volutamente paradossale: l’immaginazione approda al tempo futuro della sua estinzione, laddove nulla può essere indeterminato, là, nella «tirannia del benessere di Utopia»[16].

È il tratto più profondo del Mondo nuovo: se il silenzio è potenziale fonte d’indeterminazione[17], allora è necessario sostituirlo con la musica continua e sensuale dei «sessofonisti», con gli spettacoli ipnotici del «cinema odoroso»; se il processo ontogenetico fatto di genitori «vivipari» è fonte d’imprevedibilità, allora bisognerà sostituirlo con un processo di produzione umana che non lasci spazio al dubbio. Osserviamo un altro elemento, altrettanto profondo.

Se uno dei personaggi principali, tale Bernard Marx, è capace di guardare con una dose di sospetto il mondo in cui vive, ciò è dettato dal suo essere «errore» della catena di montaggio: «dicono che qualcuno si sia sbagliato quando era ancora nel flacone»[18].

Possiamo spingerci ancora più in là: nel mondo di Huxley è in atto una sistematica eliminazione del passato, nutrita dalle stesse ragioni di fondo. La «riserva dei selvaggi del New Mexico» dove esseri umani imperfetti e retrogradi «conservano le loro abitudini e i loro costumi ripugnanti»[19] è uno spazio esterno a Utopia.

La riserva sta al di là della città dell’efficienza, percepita da chi vive nel mondo nuovo con un misto di disgusto e timore.

La memoria storica è esternalizzata e rigettata, racchiusa nella riserva che dista diversi giorni di viaggio - non ci sono vecchi nella città ideale. Diversamente, i ricordi custoditi nella città dei civilizzati è pura «memoria operativa», «memoria che ripete senza immaginare», una «memoria priva di passato»[20]; la storia - ripetono i bambini «in training» - «è tutta una sciocchezza»[21].

La vuota memoria fa tutt’uno con l’esclusione dell’imprevedibilità, «la macchina gira e rigira, e deve continuare a girare, sempre. È la morte che si ferma»[22].

Nel mondo nuovo, prendendo in prestito le parole di un saggio apparso di recente, si può dire che «si è liberi di scegliere tutto quello che c’è in menù»[23].

Insomma, tra utopia e distopia avviene una sorta di ritorcimento temporale: il «non luogo» dell’utopia come immagine ideale e principio morale è scivolato nel «non luogo» della distopia come timore che, effettivamente, questa possa realizzarsi.

Perciò, in esergo, Huxley riporta un passo del filosofo Nikolaj Berdjaev (1874-1948), «le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva?»[24]

Se l’utopia è una freccia rivolta verso un futuro ideale, la distopia tecnoscientifica è il tentativo di figurarsi ciò che potrebbe avverarsi già domani, incubo imminente, o come osservava Huxley nella prefazione del 1946, «oggi sembra quasi possibile che l’orrore possa ricadere su di noi nell’arco di un secolo»[25].

Insomma, l’espediente narrativo del genere utopico è sempre stato il «distacco onirico»: è necessario risvegliarsi nel mondo nuovo. Nuovamente, c’è una differenza profonda tra utopia e distopia: se nel primo caso il distacco permette, per così dire, di rendere i piedi leggeri e fare del mondo ideale qualcosa a cui elevarsi, nel secondo caso il sogno si fa angoscioso, rischia di filtrare nello stato diurno.

 

  1. Complottismo e immaginazione

Ecco alcuni fatti curiosi: se Huxley avesse scritto Brave New World nel secolo nuovo, nulla ci impedirebbe di supporre che, come altri, sarebbe finito nel circondario della categoria fittizia di «complottista».

C’è di più, poiché proprio coloro che finiscono per essere gettati, volenti o nolenti, all’interno di questa «categoria», si adoperano per una costante riappropriazione del racconto distopico tecnoscientifico come modo di reazione al presente - «siamo in 1984!»

Ma, se da una parte chi sente l’invivibilità del presente si rifugia nella razionalizzazione che un racconto può fornire, questa stessa azione di appoggio a un auctoritas alternativa rischia di adombrare la «chiamata originale» del racconto distopico, immaginare.

Giungiamo così a una stazione singolare: la militarizzazione della vuota parola «complottismo», ma potremmo inserirvi anche «negazionismo», punta dritto contro il carattere immaginativo che fa di queste forme narrative un’arma contrapposta frontalmente all’utilizzo politico della tecnoscienza a fini di controllo[26].

Anche la scienza - dice il governatore di Utopia in una tranquilla confessione - deve essere imbavagliata, «la scienza è pericolosa»[27] e ancora, «la nostra scienza è una specie di libro di cucina, con una teoria ortodossa dell’arte della cucina che nessuno ha il diritto di mettere in dubbio»[28].

La «narrazione ufficiale» così precipua in Brave New World - ma vale anche per racconti come 1984 di Orwell, che Huxley elogia profusamente[29] - non solo non sa che farsene dell’immaginazione, deve escluderla sistematicamente. E così, per principio, deve escludere i fuochi d’indeterminazione da cui quest’ultima possa germinare: il silenzio, lo spazio incolto, il discorso svicolato dalla legiferazione; è un «conformismo dinamico», laddove «la riduzione teoretica della molteplicità ingestibile a unità comprensibile si muta in pratica in riduzione della diversità umana a uniformità subumana, della libertà a schiavitù»[30].

Huxley aggiunge: «dobbiamo ritenere più possibile qualcosa che somigli al mondo nuovo e non qualcosa che somigli a 1984»[31]. Infatti, se nel secondo l’immaginazione rimane una possibilità latente di colui che soffre e vuole immaginare qualcosa di diverso - «quando l’individuo sente, la società è in pericolo»[32] -, nel primo la stabilità, alimentata dall’incessante soddisfazione di vuoti piaceri passeggeri, fa dell’immaginazione una scomodità.

-------

Era il 1958 quando Huxley, in conversazione con Mike Wallace, annunciava l’imminente avverarsi delle sue più fantasiose immaginazioni[33].

Sotto la spinta delle forze impersonali della superorganizzazione e della pressione demografica, prolungate a loro volta dal condizionamento «neopavloviano», chimico e subconscio, il mondo nuovo non sembrava più la fantasiosa fiaba di un futuro remoto.

Eppure, non possiamo fermarci a questo: fare di Brave new world la cartina tornasole del reale significa alzare bandiera bianca.

D’altra parte, ridurre le parole di Huxley a finzione significa misconoscerne l’originale chiamata al prolungamento immaginativo che con tanta insistenza, vediamo tutt’ora scoraggiato.

 

Qual è, quindi, il linguaggio della nostra superorganizzazione?

«Reale», solamente ciò che è stato approvato.

«Possibile e desiderabile», ciò che ne consegue con fredda deducibilità.

«Immaginazione» ciò che vi si adagia sopra come un pacchetto o una copertina,
l’involucro policromo del prodotto perennemente unico.

 

 

NOTE

[1] Le Corbusier, Urbanistica (1925), Il Saggiatore, Milano 2017, p. 92.

[2] Ivi, p. 236.

[3] A. Sant’Elia, Architettura futurista, Abscondita, Milano 2022,  p. 25.

[4] Si veda G. Anders, L’uomo è antiquato I (1956), Bollati Boringhieri editore, Torino 2003,  pp. 97-199.

[5] Ivi, pp. 31-94.

[6] Sulla «vergogna prometeica» si veda Ivi, pp. 40-72.

[7] Ivi, p. 43.

[8] A. Huxley, Il mondo nuovo (1932), Mondadori Editore, Milano 2015, p. 9.

[9] Secondo Françoise Choay è proprio il racconto di More a inaugurare la letteratura utopica. Si veda F. Choay, La regola e il modello (1980), Officina Edizioni, Roma 1986, pp. 181-220.

[10] Per un testo introduttivo si veda M. Augé, Disneyland e altri nonluoghi (1997), Bollati Boringhieri editore, Torino 2009.

[11] Per questa distinzione si veda l’intervista del 1958 tra il poeta John Lehmann (1907-1987) e Huxley, disponibile al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=pXS5yWatuE8

[12] A. Maurini, “Il mondo nuovo e i suoi ‘ritorni’, in A. Huxley, Il Mondo Nuovo, cit., p. 364.

[13] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., p. 23.

[14] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., pp. 52-53

[15] Ivi, p. 38.

[16] “Prefazione del 1946” in, A. Huxley, Brave New World, cit., p. 246.

[17] Si veda https://www.controversie.blog/indi-gregory-lopzione-del-silenzio/

[18] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 46.

[19] Ivi, p. 94.

[20] R. Ronchi, Bergson, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 127.

[21] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 36.

[22] Ivi, p. 42.

[23] B. Castellane, In terra ostile, Signs Publishing, 2023, p. 14.

[24] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 7.

[25] A. Huxley, “Prefazione del 1946” in, Il Mondo Nuovo, cit., p. 246.

[26] Scrive Huxley ne “Ritorno al mondo nuovo”, in Il mondo nuovo, cit., p. 267, «noi vediamo dunque che la tecnologia moderna ha portato alla concentrazione del potere economico e politico, e alla formazione di una società controllata (spietatamente negli stati totalitari, in modo più pulito e nascosto nelle democrazie».

[27] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 202.

[28] Ivi, p. 204.

[29] si veda A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo, in Il mondo Nuovo, cit., in particolare pp. 265-275.

[30] A. Huxley, “Ritorno al mondo nuovo”, in Il Mondo Nuovo, cit., p. 269.

[31] Ivi, p. 252.

[32] A. Huxley, Il mondo nuovo, cit., p. 87.

[33] Si veda: https://www.youtube.com/watch?v=alasBxZsb40&t=951s


La carne coltivata come «cibo del futuro»? - Controversie tra scienza e pubblici

Il 16 novembre scorso è stata approvata dal parlamento italiano una legge che, tra le altre cose, mette al bando la carne coltivata in laboratorio, prevendendo multe da 10.000 a 60.000 euro per chiunque la somministri, produca o distribuisca sul territorio italiano. Questa legge rende anche illegale qualsiasi riferimento a terminologie legate alla carne e alla macelleria per prodotti a base vegetale che “imitano” quelli tradizionalmente legati ai cibi animali[1]. La mossa del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Lollobrigida (sostenuto dal principale sindacato agricolo italiano, Coldiretti) va chiaramente nella direzione della difesa di un’industria che – per quanto nascosta sotto l’idea del “made in Italy” – di italiano ha ben poco, dal momento che importiamo fino al 60% del fabbisogno nazionale di carne.

Va innanzitutto ricordato che si tratta di una legge di per sé vuota, dal momento che la carne coltivata in laboratorio non ha ancora l’approvazione dell’EFSA, l’agenzia europea che vaglia i cosiddetti novel food prima che siano immessi sul mercato. Qualora invece dovesse essere approvata, la legislazione europea avrebbe la priorità su quella nazionale, per cui la legge italiana diventerebbe una barriera alla libertà di commercio all’interno dell’UE. Si potrebbe in ogni caso aprire una procedura di infrazione nei confronti dello stato italiano.

Vale tuttavia la pena ragionare attorno alle ragioni e ai posizionamenti che emergono dal dibattito su questa legge. Il governo Meloni, conservatore e reazionario, si pone a difesa della salute dei cittadini, delle “tradizioni” e dell’agricoltura “buona” che (in questa costruzione) si pratica nel nostro paese. Coloro che osteggiano la legge, e che invece favoriscono questo nuovo cibo, suggeriscono che l’Italia perda così l’occasione di investire e fare ricerca su una “materia” che diventerà sempre più centrale nel mercato alimentare, fornendo delle risposte ai problemi legati all’industria della carne, tra cui quelli ambientali, di salute e di benessere animale[2].

Ciò che maggiormente colpisce di questo dibattito pubblico è la sua polarizzazione, ossia come sia possibile essere o dalla parte della carne tradizionale, dell’allevamento animale e di una dieta onnivora o dalla parte dell’innovazione alimentare sotto l’egida del biocapitale. In realtà, entrambe le parti sono schiacciate su ciò che c’è: da un lato, il paradigma esistente (e romanticizzato) della produzione agricola e delle tradizioni, dall’altro il dogma scientifico del progresso e della “soluzione” tecnologica alle sfide del presente[3]. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si tratta di una forma di protezione nei confronti dell’ansia che le crisi odierne ci pongono di fronte, una reattiva e una che vede nelle “narrazioni promissorie”[4] dell’innovazione la possibilità di mantenere lo status quo pur di fronte agli sconvolgimenti dell’Antropocene.

Nella polarizzazione del dibattito sulla carne colturale si discute se sia meglio quella animale o quella fatta nel bioreattore. Tertium non datur. Eppure, un discorso circa la riduzione del consumo di carne e derivati animali, se non addirittura la loro eliminazione, è non solo disponibile ma anche supportato scientificamente per i suoi benefici sulla salute umana e del pianeta[5]. Nell’Occidente a capitalismo avanzato non abbiamo nessuna deficienza proteica a livello di popolazione, anzi, siamo in marcato sovrappiù. Non c’è nessuno bisogno “nutrizionale” di inventare alternative alle proteine animali, perché possiamo già fare senza, o con quantità estremamente ridotte. L’avvento di forme di carne o proteine “sostenibili” tende ad accreditare l’importanza, la piacevolezza e il significato stesso di questi prodotti. Potrebbero addirittura, per un ironico effetto di rimbalzo, aumentarne il consumo complessivo. È necessario allora approcciare in modo critico, ma al contempo complesso, questo tema, oltre la polarizzazione ma favorendo il senso critico.

La “cassetta degli attrezzi” dell’ecologia politica può essere utile dal momento che, pur non demonizzando l’innovazione e la tecnologia come mediazione e strumento imprescindibile di convivenza tra umano e non umano, ne considera i regimi di potere e sapere, di dominio ed esclusione, di proprietà e accesso[6]. In quest’ottica non esistono forme di relazione neutre, innocenti o naturali: non lo sono le pratiche di allevamento “tradizionali” (in costante ri-definizione a seconda di tecnologie emergenti e fortemente determinate da materie di sintesi come i farmaci), non lo è la carne coltivata, che non è una mera “risposta” ai problemi delle proteine animali ma un dispositivo che ridefinisce piuttosto che pacificare la questione.

 

L’ecologia politica, in ottica intersezionale, pone alcuni nodi di attenzione. Quello della classe, ad esempio: può un’innovazione supportata da capitali ad alto rischio e multinazionali del bigtech o della carne tradizionale garantire l’accesso a cibo nutriente per i settori più fragili della popolazione? Chi avrà accesso a questo alimento? Inoltre, la carne colturale promette di riarticolare i rapporti di genere, razza e classe – superando la cultura del macello che rende gli animali non umani mera “cosa” disponibile, e così anche problematizzando quelle analogie che supportano il dominio su soggetti femminilizzati e razzializzati in quanto “animali”, “bestie da soma”[7], “carne da macello”[8].

Tuttavia, un’innovazione di per sé non sarà capace da sola di riarticolare questi assi di dominio, che potrebbero anzi riproporsi su scala diversa se le radici sociali, politiche e culturali che la supportano non sono problematizzate. Similmente, è da chiedersi se la promessa di liberare spazi agricoli oggi dedicati alla produzione animale possa davvero intendersi nei termini di una “liberazione” dei territori, o invece come una loro messa a disposizione per nuove recinzioni e valorizzazioni. Tanto più che la carne colturale oggi non si delinea come una sostituzione della carne tradizionale, ma un’aggiunta sul mercato.

Tocca chiedersi allora: a che cosa e a chi serve l’innovazione? Viene presentata come necessaria per soddisfare una richiesta globale in aumento, nell’evidenza che una riduzione del consumo non si è verificata negli ultimi decenni. Tuttavia, questa premessa è basata su un presente in cui il consumo di carne è favorito a livello culturale, economico, scientifico. L’utilità sociale reale in questo contesto non è per nulla data, ma eventualmente da verificare collettivamente, così come la distribuzione delle risorse che ne sostengono la ricerca e la produzione.

La prospettiva dell’ecologia politica in questo senso problematizza l’innovazione alimentare ma non per dismettere qualsiasi tecnologia o idealizzare delle pratiche contadine “tradizionali” come depositarie di un rapporto idilliaco e naturale con l’ambiente. Al contrario, mettendo in discussione la dicotomia naturale/artificiale, pone delle domande politiche circa quali tecnologie possano aiutarci a ristabilire dei rapporti di equilibrio dinamico con il resto della biosfera nel senso di una giustizia non solo ecologica ma anche sociale.

Le destre si collocano in uno spazio di critica al capitale globale in modo populista: indicando in astratte “multinazionali” e “capitale del big-tech” le responsabili dei rischi, della standardizzazione alimentare, e della perdita di sovranità alimentare della popolazione. Questi discorsi intrecciano paure e risentimenti reali, che si intensificano in momenti di incertezza e precarizzazione quali quelli che viviamo. Si possono però nominare e criticare le radici sistemiche delle ingiustizie alimentari: capitalismo, patriarcato, colonialismo, razzismo e specismo sono la matrice di potere che attraversa e dà forma non soltanto all’innovazione alimentare ma alle diete del presente nel loro complesso (carne “tradizionale” inclusa). L’ecologia politica propone allora una lotta per la giustizia ambientale e alimentare nella contestazione di questi assi di potere, e in una riappropriazione dei mezzi tecnologici per sperimentare nuove relazioni sociali, ecologiche, interspecie.

 

NOTE

[1] https://www.corriere.it/politica/23_novembre_16/carne-coltivata-divieto-legge-il-governo-rispetta-agricoltori-3b7998e6-84c0-11ee-87a1-ab403d0b1b3f.shtml

[2] https://www.wired.it/article/carne-coltivata-sintetica-camera-approva-divieto/

[3] https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/

[4] Jönsson, E. (2016) ‘Benevolent technotopias and hitherto unimaginable meats: Tracing the promises of in vitro meat’, Social Studies of Science, 46(5), pp. 725–748. Available at: https://doi.org/10.1177/0306312716658561.

[5] Mazac, R. and Tuomisto, H.L. (2020) ‘The Post-Anthropocene Diet: Navigating Future Diets for Sustainable Food Systems’, Sustainability, 12(6), p. 2355. Available at: https://doi.org/10.3390/su12062355.

[6] Per un approfondimento su questo e ciò che segue, si veda il già citato articolo https://effimera.org/di-carne-post-animale-e-altre-forme-di-innovazione-alimentare-appunti-di-ecologia-politica-per-una-lettura-critica-e-intersezionale-di-alice-dal-gobbo/, o: Dal Gobbo, A. (2023) ‘Of post-animal meat and other forms of food innovation: a critical and intersectional reading from the perspective of political ecology’, Consumption and Society, 1(aop), pp. 1–10. Available at: https://doi.org/10.1332/RVDO1043.

[7] Taylor, S. (2021) Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale. Edizioni degli Animali; si veda anche Ko, A., & Syl, K. (2020). AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero. VandA edizioni.

[8] Adams, Carol. Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana (2020).


La vicenda di Indy Gregory - Chi ha paura del dubbio?

La vicenda di Indi Gregory si può esaminare da varie angolazioni.

Quella che mi interessa di più - a posteriori - non è nel focus principale del caso, ovvero se fosse giusto o meno staccare le macchine e a chi spettasse la decisione ultima.

Su questi punti è stato detto e scritto moltissimo nei giorni scorsi e possiamo trovare tutte le sfumature di opinioni che vanno da “vita a tutti i costi” fino a “staccare le macchine al più presto” [1].

Ognuno di noi avrà la sua posizione in proposito che deriva da sensibilità e background.

Si è parlato molto poco, invece, di come queste argomentazioni siano state presentate all’opinione pubblica e di come abbiano parlato gli “addetti ai lavori”.

Secondario? Non credo, perché nel modo di porre le questioni si gioca una partita di potere culturale.

Diciamo comunque che abbiamo assistito a polemiche feroci decisamente brutte. Decisamente brutte perché il rispetto per il dolore avrebbe suggerito toni diversi e una minor divisione in fazioni con sentori partitici.

Ma torniamo al punto che più mi interessa; mi è dispiaciuto vedere che tutta la vicenda è stata trattata con molta intransigenza da coloro che hanno sostenuto la decisione del tribunale inglese di staccare le macchine, come se una posizione che nasce dalla conoscenza scientifica e dal suo approdo legale, non potesse essere messa in discussione. Naturalmente sto generalizzando, ma chiunque abbia letto i giornali credo convenga con me che “la scienza” ha sdegnosamente rifiutato le ragioni del “sentimento”, forse anche ingenuo.

Abbiamo sentito e letto molte affermazioni tranchant da parte dei medici sull’inutilità e disumanità di prolungare una vita come quella di Indi.

Ma qui sorge una questione non da poco: se sei medico sicuramente valuti meglio la situazione di un paziente e le sue prospettive, ma questo ti dà realmente maggior voce in capitolo sulla decisione finale? Ovvero il tuo giudizio vale più di quello di un cittadino normale? Ovvero appartieni a una categoria eletta (insieme ai giudici) che da sola può stabilire il punto di non ritorno?

Sembrerebbe, in molti addetti ai lavori, che la decisione sia solo un saldo tra voci attive e voci passive. La riduzione in voci attive e passive di sentimenti, emozione, dolore, appare come qualcosa di assurdamente freddo.

Tutto il mondo che ha spinto per lo stacco immediato delle macchine mi è sembrato come arroccato su posizioni che non potevano essere messe in discussione per nessun motivo.

Posizioni col bollino della scientificità, quindi indiscutibili, e voi che scienziati non siete dovete stare zitti, tanto non capite.

Il refrain costante dei giorni che hanno preceduto il distacco delle macchine è stato “quella non è vita e va chiusa al più presto”, affermazione categorica senza possibilità di replica, e chi replicava veniva tacciato di visione oscurantista e reazionaria. Per contro, lasciando da parte gli ultras delle posizioni ultra cattoliche, non si può non notare la prudenza di un giornale come l’Avvenire, che notoriamente riflette le posizioni della CEI, e dello stesso Papa Francesco.

Dietro questa rigidità nel voler chiudere la questione Indi al più presto tacciando di ignoranza reazionaria idee diverse, vedo un brutto fantasma, la soddisfazione di sentirsi categoria eletta (da chi?) e quindi “migliore”.

C’è una grande differenza tra spiegare perché - forse - staccare le macchine sia la decisione migliore e l’atteggiamento di chi non ha voluto neppure prendere in considerazioni opzioni diverse.

E ancora, contesto i molti che hanno detto “con migliaia di bambini sani che muoiono in guerre di cui sono vittime sacrificali, occuparsi di Indi è una sorta di perdita di tempo”.

Non è vero. La tragedia dei bambini di Gaza e dei mille altri posti dove sono vittime, non sminuisce la questione Indi. La vicenda della bambina di Nottingham non interferisce con lo sdegno per le morti innocenti a Gaza; questa argomentazione sembra un pretesto per chiudere in fretta la questione senza rompiscatole che si fanno prendere da dubbi pietistici.

In definitiva, credo che se le ragioni della scienza non tengono conto anche delle ragioni del sentimento si sfocia nell’arroganza di chi si sente investito dalla ragione e sfugge al confronto. Insopportabile.

 

 

NOTE

[1] Ecco, in proposito, alcuni link a diverse posizioni:
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/indi-gregory-nella-scelta-tragica-i-veri-esclusi-sono-stati-i-genitori

https://www.quotidianosanita.it/cronache/articolo.php?articolo_id=118216

https://www.nicolaporro.it/indi-gregory-deve-morire-tre-motivi-per-cui-nicola-porro-sbaglia/
https://www.scienzainrete.it/articolo/caso-indi-qualche-domanda-riflettere/giovanni-boniolo/2023-11-12
https://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/indi-gregory-la-disumanita-di-una-societa-che-tratta-la-vita-come-carta-straccia-271155/
https://www.repubblica.it/cronaca/2023/11/12/news/borgna_intervista_caso_indi_gregory-420134627/
https://www.imolaoggi.it/2023/11/14/remuzzi-per-indi-scelta-giusta/

 


La vicenda di Indi Gregory - L'opzione del silenzio

«Ciò che viene di solito impedito non è l’espressione,
bensì la formazione di un opinione propria»

(G. Anders, La catacomba molussica).

 

Ciò che diverrà la norma, ammoniva Deleuze all’inizio degli anni ’90, sarà avere un'opinione su tutto, necessariamente. Significa essere forzati allo schieramento, per quanto grottesco esso sia.

Come resistere a questa fiumana d’inumanità?

Non lasciandosi trascinare dal tempo della responsabilità, precedente all’atto, e neppure da quello successivo delle colpe, proprio del fatto compiuto.

Abbiamo perso la memoria dello spazio di mezzo, eroso dal richiamo quasi militaresco al giudizio forzato,
adombrato dal costante accanimento della cacofonia mediatica:
il silenzio.

Le religioni (dal latino religāre, unire insieme) fanno del silenzio (dal sancrito Si-nâmi, il lego) una legatura. Raccoglimento invisibile per sua stessa costituzione.

Perciò stesso, effimera fonte d’umanità.

Se credete di perdere l’occasione di dire la «cosa giusta», di farvi scappare l’opinione migliore su ciò che «bisognava fare», allora non avrete compreso di condannare in tal modo una vita infranta alla parodia, di fare delle vostre parole una commedia «all’italiana» dipinta su di un corpo inerme.

Il silenzio è la madre del dubbio, il dubbio la sorgente del pensiero.


La vicenda di Indy Gregory - Paradossi nascosti

La storia triste e dolorosa della fine di Indi Gregory occulta alcuni paradossi:

  • Il primo è – a mio avviso - il più clamoroso: il giudice, per decidere nel miglior interesse del soggetto [1], come impone la legge britannica, ha deciso di sopprimere sia l’interesse che il soggetto.
  • Il secondo paradosso è che i tutori del minore, che dovrebbero avere il dovere e anche il diritto di tutelare, come prima cosa, la vita della figlia minore e, come seconda cosa, i suoi interessi, per decisione di medici e di un giudice non hanno potuto farlo
  • Il terzo paradosso è che i medici che dovrebbero tutelare la vita dei pazienti – come detta la deontologia professionale, che si rifà ad Ippocrate - medici che hanno dichiarato che la bambina non era in condizioni di sofferenza e probabilmente non aveva funzioni cerebrali, hanno optato per non difendere la vita, pur non trovandosi in condizioni di accanimento terapeutico.
  • Ultimo paradosso: se le funzioni cerebrali (in ottica riduzionista) sono la condizione necessaria alla coscienza di piacere e di dolore, allora la bambina non aveva coscienza (consapevolezza) del dolore.
    Se invece le sensazioni (in ottica meno riduzionista) possono essere oggetto di coscienza anche “fuori” dalle funzioni cerebrali, allora la bambina aveva coscienza del dolore, ma anche del piacere, e l’equilibrio tra le sue sensazioni non poteva essere noto.
    In entrambe le opzioni la scelta del miglior interesse è opaca e paradossale.

 

 

NOTE

[1] Di seguito due estratti della motivazione del giudice inglese, Robert Peel:

«With a heavy heart, I have come to the conclusion that the burdens of invasive treatment outweigh the benefits. In short, the significant pain experienced by this lovely little girl is not justified when set against an incurable set of conditions, a very short life span, no prospect of recovery and, at best, minimal engagement with the world around her. In my judgment, having weighed up all the competing considerations, her best interests are served by permitting the Trust to withdraw invasive treatment in accordance with the care plan presented»

«The evidence clearly establishes that she experiences significant pain and distress several times a day, and each painful episodes lasts up to ten minutes. It has been observed by Dr E, other clinical team members, the nursing staff, and the Guardian, all of whose evidence I accept. The descriptions of her wincing, struggling to breathe, gasping and developing tears in her eyes are vivid. Such pain is caused by her multiple treatment interventions including invasive ventilation, suctioning, use of IV lines, blood tests and the like. It will continue for as long as the interventions continue»