Le mani e la techne - Storia di un’origine mancata, da Platone a Latour

1. TECHNE E PREGIUDIZIO

Una delle eredità più durature di Platone è il sospetto nei confronti della techne. La necessità di separare il vero sapere dall’arte dei sofisti è il movente di questo pregiudizio: Protagora, Gorgia, Lisia, e i loro colleghi, inventano tecniche di persuasione di cui vendono la padronanza, o i prodotti, al miglior offerente, senza mostrare alcun interesse per la verità. La manipolazione persegue il vantaggio egoistico di chi la pratica, mentre il logos della filosofia (della scienza) è guidato dalla physis, segue la forma e le prescrizioni di ciò che rimane stabile nell’Essere. L’atteggiamento con cui si pretende di mostrare l’appartenenza all’aristocrazia del gusto e del senno attraverso il rifiuto dell’innovazione tecnologica, e tramite l’ostentazione di disorientamento tra le pratiche e i prodotti digitali, ancora oggi è un atto di accusa contro la corruzione sofistica della techne, e una proclamazione di fedeltà alla purezza dello spirito.

2. MANCANZA DI ESSENZA

Platone proponeva lo scavo interiore per partecipare alla natura inalterabile della verità: l’anamnesi riporta alla luce le idee, la cui eternità si rispecchia in quella dei cieli che insegnano al sapiente la via per la disciplina del sapere e del decidere. La metafisica ha fissato nell’opposizione tra physis e techne, o tra logos e doxa (ma questo significa anche tra trascendentale ed empirico, tra origine e decadenza) il criterio di separazione tra il filosofo e il sofista, anche quando la tesi dell’accesso ad una sfera di universali eterni ha perso la sua presa sulla comunità scientifica, e la moda ha imposto a tutti un atto di fede nell’empirismo. Come insegna Stiegler (1994), il dibattito seguito all’atto di nascita dell’antropologia moderna, con il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau, avrebbe dovuto mettere in guardia da tempo sulla validità di questa disgiunzione, introducendo almeno un nuovo genere di sospetto, che colpisce l’autonomia della natura da un lato, la strumentalità reificante della techne dall’altro lato, e la loro opposizione reciproca.

L’uomo delle origini viene descritto da Rousseau come quello moderno: ha mani e piedi e cammina eretto. Leroi-Gourhan (1964-65) dimostra con la paleontologia che la deambulazione bipede permette la liberazione della mano per la costruzione di utensili e strumenti. E l’affrancamento della mano per la tecnica stabilisce un nuovo rapporto tra la mano, il volto e la parola. Quindi Rousseau immagina un uomo delle origini che ha già le caratteristiche di quello tecnicizzato; ma nel suo errore (molto istruttivo) lo descrive come un quasi-animale che non pensa e non si sposta, usa le mani per afferrare e non per produrre, cogliendo tutto ciò che la natura gli offre in modo spontaneo. Nell’origine il tempo (lo spazio, il mondo) non esiste, proprio perché l’uomo non frequenta alcun presagio cosciente della morte, e in generale nessuna forma di programma: non ha desideri né preoccupazioni, ma solo bisogni soddisfatti immediatamente da ciò che è a portata di mano. Il pensiero e il lavoro non vengono alla luce se non per placare passioni e paura – che a loro volta irrompono nella vita dell’uomo solo se la previsione ha aperto un mondo dove gli strumenti materializzati dalla tecnica sono programmati per proteggere dall’incombenza della morte. 

L’istinto è costrittivo per gli animali: il gatto non mangia i tuberi o la frutta, in assenza di carne, e l’oca non mangia la carne in assenza di tuberi. L’uomo invece è libero di imitare il comportamento di qualunque animale, aprendosi la via alla soddisfazione del bisogno con la carne o con i tuberi, secondo la disponibilità. La libertà è una potenzialità dell’origine che annienta l’origine stessa nel momento in cui passa all’atto, perché la ragione che la realizza innesca quel mondo di tecnica e passioni che allontanano dall’immobilità e indifferenza originari. La libertà è la seconda origine dell’uomo, o la sua assenza di origine, la scomparsa o la mancanza di un’essenza. Le conclusioni speculative di Rousseau finiscono comunque per coincidere con quelle della paleontologia di Leroi-Gourhan.

Le passioni di Nietzsche, le pulsioni di Freud, la ragione di Hegel, la società di Hobbes, il lavoro di Marx non possono aspirare a descrivere la condizione essenziale dell’uomo, la sua origine, che invece è sempre già annullata nel momento stesso in cui l’ominazione viene messa in moto da progettazione e tecnica, e che procede con la storia del loro sviluppo: l’interiorità è un ripiegamento del programma di gesti con cui le mani fabbricano utensili, dello schema della loro applicazione per gli usi futuri, del piano per la loro disponibilità contro gli agguati della morte. Ma questa stessa filogenesi precipita nell’oblio (persa di vista da Rousseau e persino da Heidegger), dimenticata nell’eccesso di prossimità degli oggetti tecnici, resa invisibile nella disponibilità con cui i dispositivi sono sempre sottomano, cancellata nell’esperienza che in ogni epoca essi pongono in essere. Eppure, affinché intellettuali, politici e artisti possano ostentare il loro distacco dall’innovazione digitale e dalle tendenze delle comunità virtuali, affinché la spiritualità che effonde dal loro intimo possa segnalare a tutti la loro nobiltà d’animo, è necessaria tutta la storia delle tecniche, dalle tradizioni della coltivazione di tuberi e alberi da frutta, fino all’impaginazione di libri e riviste con InDesign e alla programmazione delle ALI che sviluppano testi e immagini pubblicati sui giornali internazionali. No techne, no party.

3. DISASTRI E SFERE

Sloterdijk (1998 e 1999) ricostruisce il processo con cui Copernico ha scoperchiato la Terra lasciandola esposta al freddo del cosmo, senza più l’involucro delle stelle fisse, e l’impegno con cui gli uomini hanno progettato sfere che tornassero ad avvolgerla e a riscaldarla. Eliminare la stabilità degli astri equivale a rimuovere l’architettura stessa della physis, il primo grande schema di design del mondo, che Platone ha posto come senso dell’universo, e come sistema di orientamento del saggio e della comunità: un vero e proprio disastro, cui è stato necessario rimediare attraverso la pianificazione di nuovi globi che hanno a più riprese protetto e dissolto i territori dei regni dell’Occidente, fino alla globalizzazione del mondo contemporaneo. 

L’uomo non esce mai in una natura spontanea che si dispiega in un «fuori» dalle sfere in cui agiscono le tecniche di immunità e comunità programmate dalla tecnica. Nell’universo di Platone le stelle fisse sono attori della strategia politica che salda la società ateniese, almeno quanto lo è l’istituto degli arconti o quello della bulè: a loro è assegnata la regìa ideologica della forma di vita nella città e l’ontologia dell’uomo greco. Latour (1984) mostra come i miasmi siano attori della struttura civile che compie la trasformazione sei-settecentesca dello Stato dalla configurazione feudale a quella burocratica moderna: la nascita degli uffici di igiene pubblica, l’educazione della famiglia e la cura dei figli, la nuova morale borghese, la ristrutturazione urbanistica delle grandi città, la modellazione della rete dei servizi fognari e idraulici, sono le mosse della costruzione di più sfere immunitarie contro la diffusione di peste e colera, e il contesto di formazione delle metropoli della rivoluzione industriale e del primo capitalismo. La vittoria del movimento di Pasteur coincide con l’introduzione di un nuovo attore sociale, il microbo, che in parte prende il posto dei miasmi, ma che di fatto sviluppa un nuovo mondo di istituzioni mediche e di welfare, quella che conduce all’antropologia occidentale moderna e postmoderna, dove alla cura dell’individuo si sostituisce il presidio di un’intera tassonomia di agenti patogeni. 

Il contributo sui Comunelli di Ferriere su Controversie mostra come un bosco non sia il «fuori» del villaggio, ma sia l’attore che ne consolida la comunità, arrestando il suo processo di disgregazione; quello su Gagliano Aterno evidenzia come la sfera di appartenenza alla comunità sia inscritta nella ripresa della tradizione della coltivazione dei tuberi e nell’innovazione della posa dei pannelli solari. Tuberi e alberi da frutto possono incrociare il programma genetico di alcune specie di animali, ed essere obbligati ad una simbiosi da cui non possono svincolarsi; per gli uomini il programma è tecnico, non è costrittivo ma deliberato, e come ogni gramma si iscrive negli attori coinvolti e viene regolato da una grammatica. Latour (2005) la tratteggia sul modello della grammatica attanziale di Greimas (1966), mostrando che ogni forma di vita si istanzia in una rete di relazioni tra ruoli registrati in attanti (malati, contadini, miasmi, batteri, canali fognari, tuberi – a pari diritto umani o non umani), il cui grado di integrazione nella sintassi del programma misura il livello di tenuta o di dissoluzione della società in cui esso si esprime. La struttura di rapporti da cui è disegnata la rete manifesta un significato, come le isotopie narrative di Greimas, che può essere tradotto nel programma di comportamento di altri sistemi: a loro volta, questi possono essere intercettati e arruolati – l’interazione dei turisti con la foresta di Ferriere si traduce nell’inserimento in una sfera di appartenenza territoriale, il contatto tra la nuova urbanistica del Settecento e la privatizzazione dei terreni agricoli (Enclosure Act 1773) alimenta la prima rivoluzione capitalistica, l’incontro tra il movimento della «pastorizzazione» e l’espansionismo coloniale apre la globalizzazione moderna.

Ora che il cielo non è più la cupola delle stelle fisse e delle scorribande degli dèi iperurani con le loro bighe, ma una sfera della quale ci dobbiamo prendere cura rammendando i buchi nella maglia di ozono – l’Actor Network Theory di Latour invita ad abbandonare la ricerca della verità in una psyché che, comunque interpretata, continua a macinare la metafisica delle idee di Platone: chiede di imparare a osservare un mondo dove l’uomo non esce mai in spazi non pianificati, ma progetta ambienti e tempi che sono sottoposti a revisioni continue. Rivendica la necessità di rendere questa attività di design finalmente consapevole e condivisa.

 

BIBLIOGRAFIA

Greimas, Algirdas Julien, Sémantique structurale: recherche de méthode, Larousse, Paris 1966.

Latour, Bruno, Les Microbes. Guerre et paix, suivi de Irréductions, Métailié, «Pandore», Paris 1984.

Latour, Bruno, Reassembling the social. An introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, Oxford 2005.

Leroi-Gourhan, André, Le Geste et la Parole, Albin Michel,Parigi 1964-65.

Sloterdijk, Peter, Sphären I – Blasen, Mikrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1998.

Sloterdijk, Peter, Sphären II – Globen, Makrosphärologie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1999.

Stiegler, Bernard, La Technique et le temps, volume 1: La Faute d’Épiméthée, Galilée, Paris 1994.


Programma dei Seminari di Controversie - I semestre 2024

Ecco il programma dei
Seminari di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie organizzati da Controversie per il I semestre 2024

 

16 gennaio
Immagine analogica ed intelligenza artificiale
Relatore: Diego Randazzo, artista visivo

20 febbraio:
Pannelli fotovoltaici e tuberi
- Una storia di ibridazione tra tecnologia e ripopolamento
Relatore: Gianluca Fuser, Unimi

19 marzo:
La società tecnocratica - Un confronto tra Anders e Deleuze

Relatori: Daniel Gianatti, Unimi, 
              Filippo Adussi, SNS

9 aprile:
Ambiguità della salute
- Riappropriarsi del fatto sociale
Relatore: Jacopo Gibertini, Unimi

29 maggio:
Modelli matematici e politica
.
Relatore: Andrea Saltelli, Universitat Oberta de Catalunya, UOC

11 giugno:
Il nuovo ruolo dell’OMS nelle politiche sanitarie nazionali
- Vantaggi e rischi
Relatrice: Gioia Locati, giornalista de «Il Giornale»

 

I seminari si terranno dalle 17:00 alle 19:00 presso l'Università degli Studi di Milano, in via Festa del Perdono 7, Milano

 

 


Neuralink e la nuova aristocrazia della salute - Silicio e bulimia di potenza

1. Le mani, i piedi, il logos

Non so se Elon Musk conosca la ricerca paleontologica di Leroi-Gourhan (1964-65, Le Geste et la Parole), ma di sicuro ne condivide l’intuizione di fondo: la ragione, l’essenza e il destino dell’uomo (e anche di qualunque cosa debba sopraggiungere dopo di lui) non risiede nel cervello, ma nei piedi e nelle mani. L’andatura bipede ha reso possibile la liberazione degli arti superiori per la fabbricazione di utensili e per lo sviluppo delle tecniche: sono queste la natura dell’uomo, la sua origine, che ha trasformato il suo volto e il suo cranio di primate nella sede della parola. Neuralink è il progetto, nato nel 2016, che Musk ha finanziato in prima persona con 100 milioni di dollari; ha come obiettivo l’impianto di interfacce neurali capaci di curare gli effetti di patologie del sistema nervoso, anzitutto la tetraplegia. In altre parole, l’installazione nel cervello di un piccolo hardware, governato da un’intelligenza artificiale, permetterebbe di ripristinare l’uso di gambe e braccia nei malati di paralisi, in misura almeno parziale. La simbiosi tra fisiologia e tecnologia per finalità mediche non è proprio una novità: in fondo la sperimenta ogni giorno chiunque indossi un paio di occhiali. Ma per Elon Musk, che aspira a raggiungere l’infinito (e oltre) come Buzz Lightyear, l’AI di Neuralink rappresenta il primo passo del programma transumanistico di potenziamento degli esseri umani fino al limite delle loro risorse fisiche e intellettuali – per poi oltrepassare la soglia della singolarità, verso un destino non più assimilabile a nulla che sia depositato nell’esperienza della storia, e su cui siano impossibili previsioni di qualunque genere.

2. Il famedio dei macachi nel paradiso della scienza

Fino a qui, in apparenza, tutto bene. Lo scorso 29 gennaio Musk ha annunciato su X il primo innesto di Neuralink su un paziente tetraplegico: la sperimentazione si è trasferita dagli animali agli esseri umani. Può turbare questo clima di entusiasmo la notizia che la Securities and Exchange Commission (SEC) ha aperto un’inchiesta contro l’azienda e il suo fondatore per la morte dei macachi su cui sono stati testati i dispositivi. L’accusa è di non aver allevato martiri gloriosi e necessari per il progresso della scienza, ma di aver perpetrato agonie atroci, provocate dal desiderio di Musk di installare il chip al di sotto della rete vascolare, al fine di raggiungere una larghezza di banda superiore a quella delle società concorrenti. Contro le accuse sollevate dalla stampa americana, il magnate ha dichiarato che i laboratori di Neuralink sono una specie di «paradiso per le scimmie». In attesa che gli investigatori verifichino quanto la potenza del segnale sia qui sinonimo di santità o di crudeltà, formuliamo un paio di riflessioni sul significato che il progetto Neuralink può rivestire per la nostra società, assumendolo come un esempio del tipo di progetti su cui non solo Elon Musk, ma tutti i giganti della Silicon Valley stanno investendo, con una prodigalità di fondi con cui nemmeno le finanze degli stati sovrani possono competere.

3. L’agenda politica

In prima istanza, occorre sottolineare che Elon Musk, come altre Big Tech, coltiva un progetto antropologico, cioè una vera linea politica, attribuendosi un compito cui le classi dirigenti dei principali paesi occidentali hanno abdicato da anni. Il transumanesimo sogna un futuro di superuomini con ipertrofia di prestazioni fisiche e intellettuali, dovuta ad un doping permanente di innesti tecnologici, elargito a pochi o a molti (secondo l’opportunità comunicativa del momento) – ma comunque assicurato all’élite più smart del mondo, quella degli innovatori con sede in Silicon Valley. D’altra parte sono loro a prevedere e a pianificare l’evoluzione della salute, dell’abitazione, della convivenza, attraverso la rivoluzione delle applicazioni smart della wearable technology, della smart home e della smart city. Meritano il meglio della bulimia di potenza che sopraggiungerà con le AI, inclusa l’immortalità con (versione Kurzweil) o senza (versione Musk) il trasloco della personalità in un corpo di silicio.

Si può ironizzare su questo disegno per il futuro dell’umanità, che sembra estratto dai cartoon dei supereroi, ma bisogna riconoscere anzitutto che, contrariamente alla vacuità a corto raggio delle agende politiche delle classi dirigenti internazionali, Musk dispone di un piano con una visione di ampia portata, declinato in progetti che dal punto di vista finanziario camminano con le proprie gambe, senza attendere interventi pubblici – e spesso in grado di rastrellare investimenti da fonti terze. La forza economica e l’ambizione delle sue imprese sono in grado di attirare i ricercatori di maggiore talento, e di configurare la salute e i servizi del futuro. Dal Rinascimento gli intellettuali sanno di poter scorgere un orizzonte di verità più ampio, perché la posizione del loro sguardo è sorretta dalle spalle dei giganti del passato, di cui ereditano l’esperienza. Noi oggi dobbiamo sospettare di essere scesi dalle spalle ai piedi, dal momento che la ricerca cammina con le gambe di Musk, di Kurzweil e dei loro alleati. Poiché sono tutti soggetti privati, e il loro intervento sta sostituendosi al welfare pubblico, reimpostandone la definizione e i contenuti, è legittimo domandarsi se ci dobbiamo preparare ad un futuro prossimo in cui l’umanità (anche occidentale) avrà una nuova struttura sociale: sarà divisa in una piccola élite che può aspirare ad una qualità della vita altissima e ad una longevità di larghe falde – ancorché non infinita – e in una massa di individui esclusi da questa prospettiva, e dipendenti dal tipo di formazione culturale, di offerta di intrattenimento, di selezione commerciale, che proverrà da questi stessi soggetti privilegiati.

4. Lussi che non ci possiamo permettere

All’inizio degli anni Settanta lo psicologo comportamentista Burrhus Skinner aveva dichiarato senza reticenze che la libertà è un lusso che non ci possiamo permettere. Il condizionamento operante che aveva sperimentato ad Harvard (e non solo, secondo le tesi di chi lo considerava molto integrato negli apparati della CIA e della NATO) doveva condurre ad una società ordinata, dove la libertà era consentita a tutti coloro che condividevano l’ideologia dello Stato, pronta a respingere qualunque seduzione della propaganda bolscevica. Qualora davvero riuscisse a funzionare, anche solo in parte, Neuralink potrebbe riuscire dove il metodo di Skinner ha fallito: un chip di AI innestato direttamente nel cervello, con un potenziale di innervazione a banda larga, può agire come uno strumento di controllo e di condizionamento di massima efficacia. Le gambe ci porteranno dove l’ordinamento sociale programma che le nostre attività saranno di maggiore utilità, e le mani cliccheranno sui pulsanti che saranno indicati dalla pubblicità veicolata dalle concessionarie di Musk. Uno scenario distopico molto più spaventoso, e comunque meno irrealistico, di quelli che Elon Musk si impegna a propagandare sull’intelligenza artificiale generale – in particolare quella non dominata da lui in prima persona, o dagli amici della setta degli Altruisti Efficaci.


Le società tecnocratiche della disciplina e del controllo - Deleuze, Foucault e Kafka

LA SOCIETÀ DELLA DISCIPLINA

La società della disciplina è qualcosa del passato.

È una conclusione che si può trarre sia da dagli ultimi capitoli di Sorvegliare e punire (Foucault M., 1975) che dall’analisi di Michel Foucault ne La volontà di sapere (1976) ed esplicitata una terza volta da Gilles Deleuze nel Poscritto sulla società di controllo (1990), «le società disciplinari erano già qualcosa del nostro passato, qualcosa che stavamo smettendo di essere» (cit., p. 234).

Provo a ricordare i tratti funzionali della “società della disciplina”: la funzione principale è “disciplinare in stato d’internamento attraverso la sorveglianza e la punizione”, operata da un campo di tecnici appoggiati a saperi extra giuridici: il medico, il militare, la guardia, l’insegnante di scuola.

La questione in gioco nella riflessione sulla società disciplinare non è tanto se vi siano esperti, tecnici, o se costoro occupino le sale del potere, ma, piuttosto, «come si esercitano quel sapere e quel potere» (Deleuze G., 2018, Foucault, p. 88), come l’esercizio del potere produca degli esperti. Come suggeriva Foucault, non possiamo vedere il potere, ma soltanto i suoi effetti (cit.).

Questo, oltre a riguardare ad un tempo oppressi e oppressori, riguarda anche gli strumenti tecnici, le architetture, le invenzioni tecno-scientifiche, che rappresentano «sintomi» di una macchinazione sociale più complessa.

È qualcosa, diceva Deleuze, che aveva in mente anche Kafka, che «non ammira affatto una semplice macchina tecnica, ma sa bene che le macchine tecniche sono soltanto degli indizi per un concatenamento più complesso che fa coesistere macchinisti, pezzi, personale e materiali, carnefici e vittime, potenti e impotenti» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p. 88).1

Sorta all’alba della nostra modernità occidentale (XVII secolo), la disciplina ha impiegato circa due secoli per arrivare al suo stesso apogeo nell’architettura fantastica del Panopticon, l’utopico carcere immaginato alla fine del Settecento da Jeremy Bentham, «macchina per dissociare la coppia vedere-essere visto: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutti, senza mai essere visti» (M. Foucault, 1975, Sorvegliare e punire, p. 220).

Si tratta di una società che muove i primi passi con la rifunzionalizzazione del confinamento: «la prigione aveva un’esistenza marginale nella società di sovranità, ma nella società di disciplina oltrepassa una soglia tecnologica» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p. 55).2 Disciplinare riesce in condizioni di internamento tramite la punizione corporale e la divisione e ristrutturazione cellulare dello spazio e del tempo. Eppure, da principio è necessario che vi sia la possibilità stessa di pensare l’internamento e di formare un diagramma che ne permetta l’applicazione: tecnica sociale, prima ancora d’essere tecnica materiale.

L’internamento panottico è di tutt’altra natura rispetto agli internamenti della prima modernità: la punizione non deve essere più applicata, ma tramutata in funzione deterrente; la sorveglianza non agisce direttamente, ma si proietta all’interno di ogni detenuto; di qui «l’effetto principale del Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere. L’obiettivo è: “Far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione; che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità dell’esercizio […] in breve, che i detenuti siano presi in una situazione di potere di cui sono essi stessi portatori” (Foucault M., 1975, Sorvegliare e punire, p, 219).

Allora, cosa fa sì che la società della disciplina sia qualcosa del passato?

Foucault, diceva Deleuze, è stato frainteso come teorico dell’internamento. Certo lo è stato, ma «la prigione rimanda a una funzione agile e mobile, a una circolazione controllata, a tutta una rete che attraversa anche ambiti liberi, e che può insegnare a fare a meno della prigione» (Deleuze G., 2018, Foucault, p.57).

Insomma, si è scambiato l’essenziale per il contingente, ciò che c’è a monte con ciò che c’è a valle, la causa per l’effetto.

Non si può rispondere alla domanda sul potere se non si guarda a ciò che l’architettura panottica produce, a come il potere si esercita, appunto, al diagramma.

Difatti, senza materiale umano il panottico è nulla. Con un materiale umano, è un meccanismo di soggettivazione che produce un calco.

La sorveglianza e la punizione, operate in seno all’architettura di visibilità quale è quella del panottico, si tramutano da azione sul corpo a induzione psicologica. Porre l’internato in costante posizione di visibilità attraverso lo stato di attenzione persistente induce un disciplinamento, reso a sua volta possibile dalla divisione cellulare dello spazio e del tempo. Ne risulta la produzione di un calco: il malato, l’operaio, l’internato, ossia gruppi discreti “a metà” tra l’individuo singolarizzato e la massa indiscriminata.

Eppure, dalla fine della Seconda guerra mondiale - è sempre Deleuze a parlare - «siamo in una crisi generalizzata di tutti gli ambienti di internamento» (G. Deleuze, 1990, Poscritto, p. 235).

LA SOCIETÀ DEL CONTROLLO

Questa crisi è ciò che aveva già messo in scena Kafka nel Processo, lo stesso Kafka che rappresenta una «cerniera tra la società della disciplina e la società di controllo» (cit. p. 237). Perché in quel romanzo scritto tra il 1914 e il 1915, «Kafka ha descritto le forme giuridiche più temibili: l’assoluzione apparente della società disciplinare (tra due internamenti), il differimento illimitato delle società di controllo in continua variazione» (cit. p.237).

E Foucault, sempre in Sorvegliare e punire, scriveva che c’è una «proliferazione dei meccanismi disciplinari», una tendenza a «disistuzionalizzarsi», ad «uscire dalle fortezze chiuse dove funzionavano, ed a circolare allo stato libero» (G. Deleuze, 1975, Sorvegliare e punire, p. 230).

Aprite il Processo. Nelle primissime pagine trovate una rappresentazione piuttosto lucida di tutto ciò. Il protagonista, “K.”, si trova due guardie in casa che trasformano una stanza  in tribunale, «il comodino adesso era stato allontanato dal letto e spinto nel centro della camera, per servire come banco da udienza, e l’ispettore sedeva dietro di esso» (Kafka F., 1973, Il processo, p. 20).

L’aula di tribunale può essere dappertutto. L’imputato non sa perché sia imputato, da chi è imputato, e può comunque vivere “liberamente” la propria vita. È in arresto o è libero? «Lei è in arresto, certo, ma a cosa non deve impedirle di svolgere la sua professione» (cit. p. 25).

Il processo è dappertutto e coinvolge tutti, è costantemente differito, e tutti danno vita al grande processo, anzi, tutti non sono che soggetti collaterale di quest’ultimo, «i personaggi del Processo appaiono in una generale serie che prolifera senza sosta: tutti in effetti sono o funzionari o ausiliari di giustizia» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p. 83).

Dunque, che vi sia una «crisi degli internamenti» ha un significato piuttosto inusuale. Se c’è crisi, non è perché l’internamento non ha funzionato, ma perché - come si diceva - le forze disciplinanti che adoperavano il confinamento e la scomposizione cellulare trovano punti d’applicazione che non necessitano più la forma d’applicazione del potere necessario precedentemente. Deleuze lo descrive con una frase molto semplice, «gli internamenti sono stampi, dei calchi distinti, ma i controlli sono una modulazione, qualche cosa come un calco auto deformante che cambia costantemente» (G. Deleuze, 1990, Poscritto, p. 236).

Cambia fondamentalmente la posizione della disciplina, che da funzione principale per l’estrazione della forza lavoro scivola in secondo piano, diventa funzione collaterale o derivata.

Per il controllo, l’internamento diventa superfluo perché a monte è diventato superfluo produrre l’individuo disciplinato della società precedente.

La linea direttrice della società di controllo è «un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto» (cit. p.240),  e come scriveva Deleuze già nel 1990 «l’impresa ha sostituito la fabbrica […]  la formazione permanente tende e a sostituire la scuola, e il continuo controllo ha sostituito l’esame» (cit. p.240).

Osserviamo il diagramma della società di controllo: non produce più calchi, ma dividui, che non sono più singoli soggetti facenti parte di un gruppo (medico o paziente, guardia o internato, a “metà” tra individuo e massa), ma una divisione temporalmente mutevole in seno all’individuo stesso.

Insomma, il controllo non solo è ora capace di estrarre valore dalle pulsioni multiple che sottendono l’individuo, ma come onnipresenza silente, è ora capace di modellare in modo continuativo ciò a cui in precedenza applicava calchi discontinui, il desiderio. Perciò più che formare un individuo fisso ha interesse nel direzionare i corsi multipli del desiderio che “fanno un individuo”, costringe all’espressione più che reprimere le pulsioni.

Tuttavia, il controllo non ha un interesse capillare, non deve lavorare direttamente sul singolo individuo, è un metodo statistico.

 

ATTUALITÀ DELLA SOCIETÀ DEL CONTROLLO

È sufficiente intercettare e ridistribuire un numero necessario di dividui per generare una massa critica: Cancel Culture, bolle mediatiche, grandi proclami di pro e contro, sono tutti prodotti di un sistema fluttuante che si avvale di grandi masse di desiderio per la creazione di temporanee forme dicotomiche che l’attimo dopo si sono già disfatte a favore di qualcosa di nuovo.

Non c’è più un calco fisso di gruppi, formati a “metà” tra la massa e l’individuo. La massa statistica dei dividui assomiglia, più che semplice fluido, ad un materiale non newtoniano: liquido e penetrabile in uno stato di quiete, solido e mortale appena è messo in moto.

Ahimè, non esiste il mondo contemporaneo in cui grandi forze ingenuamente rivoluzionare hanno sconfitto o sono in procinto di sconfiggere il tremendo mondo patriarcale delle restrizioni e dell’oppressione.

Quello che esiste è un mondo diverso dalla società della disciplina, è un mondo del controllo che si nutre del fatto stesso che qualcuno creda ancora alla liberazione delle passioni. Uno è un calco, l’altro è una modulazione. La disciplina determina dei comportamenti, il controllo sviluppa degli spettri d’azione. Ma proprio perché tutto ciò, ora, avviene in condizione di apparente apertura, e non più di internamento, e avviene non più attraverso il deterrente della punizione, ma con la modulazione di desideri apparentemente spontanei e liberi - perché ancora ci convinciamo vi sia «un desiderio esterno al potere» - l’azione e gli effetti del potere diventano ad un tempo più pervasivi ed invisibili. E tanto più il desiderio si dichiara assolutamente spontaneo, tanto più possiamo sospettare che ciò che vi sottostà sia il più capillare dei poteri.

Perciò, prendendo in prestito le parole di Kafka, Deleuze e Guattari scrivevano che bisogna «essere non uno specchio ma un orologio che anticipa» (Deleuze G, Guattari F., 1975, Kafka, p.92). Perché al tempo sempre-ora delle fluttuazioni di desiderio bisogna opporre la precisione di un orologio che immagazzina la struttura presente per anticiparne il futuro, perché chi agisce con perfetta spontaneità, vedendo nella buona società che immagina un riflesso dei propri intenti migliori, non si accorge che è il controllo l’immagine reale, e lui o lei l’immagine riflessa.

 


NOTE

1 In Foucault, p. 54, si legge «le macchine sono sociali prima di essere tecniche».

2 Foucault ne parla in Sorvegliare e punire, p. 244.


La conoscenza pratica dei “non esperti”: le empeiria kai tribé e lo strumento della retorica

Con questo terzo post1 andremo a completare la ricostruzione del pensiero di Platone che riguarda la conoscenza finalizzata alla pratica. Nel primo abbiamo visto come egli descrive la facoltà della Memoria e il ruolo che questa svolge nella conservazione del sapere dall’essere umano; nel secondo post abbiamo visto che cosa è definibile come “arte tecnica” (techne) e perciò che cosa sia un sapere pratico strutturato e disciplinato.
Qui ci occuperemo di comprendere meglio quelle forme del sapere pratico che come il sapere tecnico sono il frutto dell’esperienza e guardano all’utilità, ma che, diversamente da questo, non si strutturano in una disciplina e rimangono perciò un “saper fare” di possesso individuale, “al portatore”.
In conclusione verranno proposte al nostro lettore alcune riflessioni e domande che possono essergli di spunto per avviare una propria lettura di questo tema nel mondo attuale.

Le «empeiria kai tribé»2

Nei suoi dialoghi Platone ci avverte che vi sono “tecniche propriamente dette” e altre pratiche che, anche se da molti son chiamate “tecniche”, non lo sono affatto, poiché prive di un rigore disciplinare, ossia di teoria, metodo, pratica e/o finalità produttive precisabili.
Il termine utilizzato per indicare questi saperi pratici ma non tecnici è quello di empeiria kai tribé, ossia quei tipi di esperienza empirica (empeiria) che, grazie all’esercizio (tribé) pratico, vengono raffinati fino ad assicurare al loro esecutore l’ottenimento di un effetto. La loro efficacia o meno viene esperita di volta in volta da chi le pratica, che, attraverso la formulazione di congetture necessarie all’occorrenza, si doterà man mano dell’esperienza bastevole a produrre l’effetto desiderato.

Le empeiria kai tribé sono quelle forme del “saper fare”, possedute da chi viene detto “bravo a fare” qualcosa e che appare agli occhi dei non esperti un “tecnico”, anche se privo di una vera competenza nel campo in cui “fa”, ma ritenuto tale in virtù della sua sola capacità, abitudine e disinvoltura “nel fare”, che ha acquisito autonomamente (senza essere stato adeguatamente formato) esercitandosi nel tempo per “tentativi ed errori”.

Questa è la condizione di possesso della forma di conoscenza empirica più semplice, ossia quella della sola memorizzazione di meccaniche dell’azione in vista della produzione di un effetto.

Platone dedica una riflessione apposita3 a queste forme del sapere perché, per questa loro natura di grado conoscitivo insufficiente perché siano strutturabili in una forma disciplinare, rimangono un semplice “saper fare” frutto dell’esperienza individuale e nulla di più.

Per usare un esempio non platonico, il portatore della sola empeiria kai tribé somiglia al famoso “cugino” che “è bravo a fare”, i cui risultati non sono evidentemente il frutto di una conoscenza tecnica, anche se talvolta (si spera) equipollenti sul piano del prodotto finale. Egli “è pratico”, ma non è “un esperto” o un cosiddetto “professionista”.

Per comprendere meglio questa differenza tra arte tecnica ed “esperienza frutto dell’esercizio”, prenderemo ora in esame tre esempi che ci ha fornito lo stesso Platone nei suoi dialoghi.

Il flautista del Filebo

La “arte” del flautista «armonizza gli accordi non secondo misura, ma secondo congetture dedotte dalla pratica e da tutta la musica» e che «ricerca la misura della vibrazione di ciascuna corda andando per tentativi» (56 a).

Questo flautista a cui si riferisce acquisisce la propria esperienza in chiave dilettantistica. Egli prima prende tra le mani il flauto per capirne la struttura, poi, come ha visto fare ad altri, soffia nell’imboccatura e prova a emettere un suono. Procede sviluppando una sua successione di movimenti che corregge finché corrispondono a una serie di suoni tonali e ripete così l’esercizio fino a memorizzarli. Egli compone la sequenza di gesti - e non di note, visto che non le conosce, né le sa definire – imitando le melodie che ha già udito dai musicisti, forse scegliendo tra quelle che ritiene essere gradevoli in quanto ha udito essere maggiormente apprezzate tra le persone. Quando finalmente il flautista uscirà dal suo privato per esibirsi di fronte a un pubblico, ne guarderà e valuterà la risposta per capire se la propria esecuzione “funziona”, ossia viene da esso accolta favorevolmente.
Ripete poi tutte queste cose dette fino a quando non giungerà a formulare una propria esecuzione (di gesti e soffi!) che avrà come effetto l’approvazione della maggior parte degli ascoltatori che incontra e che, per questo motivo, di esso diranno essere “un bravo flautista”.

Il musicista, diversamente da questo flautista, è invece un vero “teknos”, ossia un esperto, perciò un tecnico professionista dell’esecuzione e della composizione musicale. Questo poiché ha intrapreso un percorso di studi specializzandosi nel tempo sotto la guida dei maestri di musica, perciò dei tecnici esperti che insegnano quest’arte, imparando a conoscere cosa sia la materia sonora nei suoi elementi e la tecnica necessaria a produrre armonie musicali. Inoltre, il musicista ha appreso l’arte attraverso tutti gli strumenti musicali, anche quelli più difficili da suonare e da governare rispetto al flauto.

Platone ci dice che il musicista si differenzia poi a sua volta dal musico, il quale ha invece conoscenza scientifica (episteme) della musica, in quanto si occupa non di produrre le armonie sonore, bensì di conoscere il loro rapporto armonico numerico (Platone,Phil. 17 c - d, cfr. Phaedr. 268 e). Ai tempi di Platone la Musica è infatti, oltre che l’arte della composizione di suoni come è oggi intesa, anche una seconda disciplina che studia le armonie numeriche secondo il rigore dell’aritmetica e del logismos,4 in questo caso nel campo di studio dei matematici.5

In conclusione, il procedere per tentativi senza il supporto di una conoscenza tecnica, fa sì che il flautista del Filebo sia un mero esecutore di gesti e non invece di note musicali, le quali saranno solo una conseguenza del suo soffio nello strumento e del movimento delle sue dita su fori dello stesso, che egli ha imparato corrispondere all’erogazione dei suoni desiderati. Compie tutto ciò pur non sapendo né dare un nome a ciò che fa né una spiegazione tecnica o matematica delle note di cui fa uso.

Il cuoco e il medico del Gorgia

Il medico è colui che si occupa del corpo pensando al bene che deve procurargli, mentre il cuoco ha come scopo quello di procurare al corpo un piacere fine a sé stesso.6

Se l’esempio del flautista pone l’accento sullo scarso rigore e la totale assenza di conoscenza specialistica nel campo di azione in cui egli opera, nell’esempio del cuoco e del medico emerge la problematica del grado di conoscenza che chi opera possiede dell’oggetto su cui agisce.

Entrambi, medico e cuoco, mirano a produrre un effetto sul medesimo oggetto, ossia il corpo, ma ciò che manca nella teoria e nella pratica del secondo è la conoscenza di questo oggetto per ciò che esso è, interessandosi ad esso solo come oggetto che patisce.
Il cuoco ha di mira il procurare la “sensazione di benessere”, il medico quella di ripristinarne il benessere inteso come “salute”.7 Il medico può infatti trovarsi a dover operare in seguito al danno prodotto dagli eccessi del cibo, però, nel suo caso, con una conoscenza rigorosa e “scientifica” del corpo, dunque in coerenza con e nel rispetto dell'oggetto su cui agisce.

La retorica del sofista nel Gorgia

Il buon politico ha di mira la produzione di un effetto tecnico, precisamente quello amministrativo, e utilizza la retorica come strumento per indirizzare i propri cittadini verso il bene derivante dal rispetto per le leggi della città. L’effetto ricercato dal sofista attraverso la retorica è sempre quello di indirizzare il pensiero e le passioni del cittadino, ma non verso un punto preciso. Piuttosto egli ricerca l’accrescimento della propria fama grazie al suo “saper parlare bene”, nel senso del “saper fare” leva sul pensiero del suo uditorio attraverso il discorso parlato, spesso superficiale e privo di contenuti, dunque mirato alla sola produzione di un effetto fine a sé stesso: la persuasione (peithó)8 attraverso l’espediente dell’adulazione (kholekheia) (Gorg. 463 a – b).

Inoltre, se il filosofo si occupa di indagare scientificamente gli oggetti della conoscenza e utilizza la retorica per coinvolgere il proprio interlocutore a partecipare nella costruzione di un pensiero comune, il sofista spesso non conosce ciò di cui parla benché ne parli e guarda all’uditorio solo per monitorare gli effetti che producono le proprie parole.

Il sofista “sa parlare bene” e lo fa perseguendo scopi e fini estranei ai temi di cui parla. Ricerca il favore del pubblico modificando man mano i propri discorsi sulla base degli effetti che le parole hanno su di esso.

Più in generale, leggendo il Gorgia, il Protagora e il Sofista, emerge che il sofista non è un teknos, non essendo in possesso né di un’arte né di contenuti specialistici. Egli possiede le sole strategie discorsive personali che gli sono utili per produrre l’effetto desiderato sul proprio pubblico.

Egli “è bravo a” incantare l’uditorio e vincere con le parole. Solo in questo appare possedere una tecnica.

Alcuni spunti di riflessione guardando al mondo contemporaneo

Ora che abbiamo preso confidenza con il tema delle forme di sapere pratico ma non tecnico, proporrò due campi di riflessione su cui concentrare la nostra analisi: 1) le empeiria kai tribé di oggi e 2) il ruolo odierno della retorica.

1) Sulle forme attuali di empeiria kai tribé abbiamo in parte già suggerito alcuni spunti riflessivi nel post sulla tecnica in Platone, dove proponevo al nostro lettore di considerare le dinamiche di ritorno alle pratiche analogiche contro il diffondersi di quelle digitali e di pensare al ruolo che svolge il fiorente mercato dell’accesso rapido alle conoscenze pratiche, ad esempio i “workshop”, nella formazione di nuove forme del “saper fare”. Ripensiamo ora a questi aspetti nella chiave del flautista del Filebo, ossia a quali siano le forme di conoscenza e competenza possibili per una stessa pratica e quali i percorsi che portano invece a formare i veri saperi tecnici e teorici o il semplice “saper fare”.

2) Il “saper parlare” è sicuramente una dote o una capacità che suscita fascinazione nel prossimo. Questo fenomeno non è cambiato dai tempi di Platone ad oggi e accompagnerà il genere umano probabilmente lungo la sua intera esistenza. Questo è un motivo che mi induce a pensare che sia necessario soffermarsi qualche riga in più su questo tema.

Già ai tempi di Platone, e dunque non solo di recente, la retorica era vista come una pratica ambigua e potenzialmente problematica nel campo comunicativo per la sua capacità alterante e distorsiva. Essa può mutare la direzione che prendono i discorsi in base ai contesti e alle caratteristiche dell’uditorio, divenendo, grazie alla sua forza plasmatrice, un potenziale mezzo di manipolazione degli stati d’animo.

Se il suo utilizzo è di per sé neutro, potremmo invece ricercare le cause del suo risvolto “negativo” o “dannoso” nelle competenze e nelle intenzioni di chi la utilizza.

Benché anche per essa sia possibile astrarre delle “regole”, la retorica rimane forse ancora oggi un solo strumento più che una tecnica. La sua possibilità di utilizzo per fini poco costruttivi potrebbe derivare anche dalle caratteristiche che ne individua Platone: essa è acquisibile attraverso l’emulazione dei discorsi fatti dagli altri (impostazione dei toni, utilizzo di frasi “fatte” o “ad effetto”, riproposizione di contro-argomentazioni e fallacie logiche versatili per ogni “avversario”, etc.) e rafforzabile con l’esercizio autonomo. Tant’è vero che non deve la sua efficacia alla propria applicazione di per sé, mentre è efficace per le doti di chi ne fa uso.

Sempre seguendo Platone, domandiamoci poi se potrebbe essere anche che i suoi risvolti problematici derivino dalla sua intrinseca possibilità di essere acquisita senza il possesso da parte del suo utilizzatore di particolari conoscenze o competenze, o anche dal fatto che la sua efficacia sia completamente svincolata dall’applicazione di regole e dall’esistenza di reali contenuti interni al discorso che dirige.

Nell’epoca in cui visse Platone, quella della grande esperienza democratica della città di Atene, il sofista è stato il massimo rappresentante di questa problematica incontrollabilità degli scopi, dei fini e degli effetti della retorica, tanto che l’appellativo e i termini che da esso abbiamo derivato hanno preso oggi una valenza negativa. Pensiamo a quando si aggettiva qualcosa o qualcuno col termine “sofisticato”, o si parla di “sofismi” e “sofisticazioni”: tutti questi termini si riferiscono a forme di modificazione, alterazione e complicazione inutili e/o potenzialmente dannose.

Cosa potremmo fare qualora volessimo sottrarci a diventare noi stessi un facile bersaglio di persuasione delle parole più che dei contenuti di un discorso?

Conclusioni

Oggi, questo problema dell’efficacia della retorica di stampo sofistico e del diffondersi di forme di approccio dilettantistico (verbale e fattuale) alle pratiche che richiederebbero la preparazione di un esperto (il tecnico, lo scienziato e, Platone direbbe, anche il filosofo), sembrerebbe essere correlato con l’instaurarsi di ritmi sempre più frenetici a cui l’esperienza deve adeguarsi a farsi spazio. Per spiegarmi meglio, il rispettivo decremento del tempo che l’individuo può dedicare all’approfondimento delle proprie conoscenze potrebbe andare a discapito di un percorso continuativo che gli permetterebbe di passare dall’essere un semplice uditorio fino a quello di studioso esperto, passando per i campi applicativi del “saper fare” e della “conoscenza pratica tecnica”, per culminare infine nel possesso reale di un bagaglio di conoscenze.

Il “tutto e subito” sembrerebbe essere preferito al “più lento” percorso di studi e di ricerca dedicato.

Pensiamo a come questa “preferibilità” possa essere corrisposta e nutrita dalle nuove forme e proposte di veicolazione rapida del sapere, e a come queste ci possano potenzialmente portare ad essere sempre più spettatori e utilizzatori improvvisati di strumenti tecnici che reali conoscitori.
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Ciò che possiamo chiederci è in che modo permangano ancora oggi i livelli della conoscenza e i rispettivi “ranghi” dei loro possessori (l’umanista, lo scienziato, il tecnico, il “bravo a fare”, lo spettatore) identificati da Platone. Quanto i soli “aver udito qualcosa”, “saper fare” e “saper parlare” avanzano tra le preferenze degli individui a discapito del formarsi di una teoria e una pratica proprie di una “conoscenza autentica”?

E ancora, la diffusione delle empeiria kai tribé a discapito delle forme della conoscenza approfondita è dovuta anche alla appetibilità del proprio “raggiungere comunque un risultato”?  Di possesso di una conoscenza “quanto basta”, bastevole a farci produrre immediatamente un effetto che ci permetta anche di poter dire di noi “saper fare” qualcosa?

 


NOTE

1 I precedenti due post sono 1) “La memoria e la sua corruzione nell’era digitale - A confronto con il pensiero di Platone“ e 2) “La conoscenza tecnica – Meditazioni a partire dal pensiero di Platone".

2 «empeiria kai (tini) tribé» è una definizione che compare esplicitamente sia nel Gorgia (463 b) che nel Filebo (55 e). Il tema compare anche nel Fedro (270 b).

3 I passi di riferimento Phil. 55 e - 56 a, Gorg. 500 e - 501 a, sviluppano e affrontano parallelamente, ma con una sorprendente coincidenza, la differenza tra techne ed empeiria.

4 Disciplina matematica che si occupa dello studio dei rapporti numerici. In senso matematico “Logos” significa “rapporto”, “relazione” o “proporzione”.

5 La “Musica” così intesa è una disciplina teorica e scientifica in senso forte, che rientra, assieme all’aritmetica, alla geometria piana, alla stereometria (geometria delle figure solide) e all’astronomia, nella lista delle discipline matematiche fatta da Socrate e Glaucone nella Repubblica (533 c – d).

6 Parafrasi dei passi in Gorg. 465 d - e, 500 e - 501 a.

7 Il medico non corrisponde esattamente a ciò che intendiamo oggi con questa professione, piuttosto egli è una sorta di filosofo dell’oggetto anima-corpo, che ne studia gli effetti (le malattie) per comprenderne le cause. Chi si occupa invece delle pratiche per il mantenimento della salute è il maestro di ginnastica, che ha come obiettivo non quello del ripristino ma quello del mantenimento della salute.

8 Nel Gorgia 453 a, si arriverà ad affermare che la retorica non è di per sé un’arte tecnica e che il fine della retorica è la sua stessa essenza: la persuasione di un pubblico.


La politica dopo l’emergere di Gaia, il migliore dei mondi possibili

«
Noi amiamo il bello, ma con misura; amiamo la cultura dello spirito, ma senza mollezza. Usiamo la ricchezza piú per l’opportunità che offre all’azione che per sciocco vanto di parola, e non il riconoscere la povertà è vergognoso tra noi, ma piú vergognoso non adoperarsi per fuggirla. […] Sola infatti, tra le città del nostro tempo, si dimostra alla prova superiore alla sua stessa fama ed è pure la sola che al nemico che l’assale non è causa di irritazione, tale è l’avversario che lo domina; né ai sudditi motivo di rammarico, come sarebbe se i dominatori non fossero degni di avere il comando. Con grandi prove, dunque, non già senza testimoni, avendo noi conseguito tanta potenza, da contemporanei e da posteri saremo ammirati; non abbiamo bisogno di un Omero che ci lodi o di altro poeta epico che al momento ci lusinghi, mentre la verità toglierà il vanto alle presunte imprese, noi che abbiamo costretto ogni mare e ogni terra ad aprirsi al nostro coraggio; ovunque lasciando imperituri ricordi di disfatte e di trionfi
»

Con il celebre epitaffio di Pericle (Tucidide 1971, La guerra nel Peloponneso, vol. 1, pp. 121-128) si può dire che la natura faccia il suo primo ingresso nella politica.

O, meglio, in questo discorso, in cui il politico ateniese tesse le lodi della costituzione proto-illuminista e liberale della propria città ed elogia le virtù dei suoi cittadini, confrontandole con quelle dei nemici spartani, educati al rispetto dell’ordinamento castale della propria monarchia arcaica e conservatrice, emerge in maniera inedita una matrice retorica che imposta l’argomentazione politica come uno scontro fra civiltà, un conflitto in-group/out-group, o fra amico e nemico come direbbe Carl Schmitt, in breve, la politica come un inevitabile scontro fra nature opposte e inconciliabili.

Infatti, è improprio dire che siano stati i movimenti ambientalisti e i partiti verdi dell’ultimo quarto del secolo scorso ad introdurre la natura nella politica. Niente è mai stato più politicizzato della natura, e viceversa nessuna politica ha mai potuto prescindere dal ricorrere alla naturalizzazione per legittimarsi (Latour B. 2000, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze).

La circolarità della logica emerge chiaramente dal discorso di Pericle, dove la potenza e le conquiste di Atene, addirittura nella stessa frase, divengono fatti necessari, poiché rispecchiano la Verità che eventi storici accidentali non avrebbero potuto impedire, ma soltanto ostacolare o ritardare dall’affermarsi.

La politica della natura, in analogia con la concezione del sacro della tradizione cristiana, ha prodotto così una biforcazione del mondo fra le peripezie e i conflitti di opinioni degli umani, sul piano dell’azione storica e contingente, e il regno dei fini, collocato su quello ultraterreno, o metafisico, della Verità e della Giustizia (con la maiuscola), emanate dal fondo eterno e immutabile dell’universo o stabilite dal verbo divino. Esattamente come delle icone religiose acheropite, che sono rivelate, e non realizzate dal lavoro umano.

Ancora oggi, che si tratti di “Make America Great Again” oppure, più surrettiziamente, di “affermare i diritti umani”, non siamo in grado di fare a meno di ancorare la nostra politica ad una forma qualsiasi di giusnaturalismo (laico o volontaristico è indifferente). In altre parole, non rinunciamo all’immagine della caverna platonica, secondo la quale deve essere intrapresa la ricerca, o la progressione, verso la luminosa realtà delle cose in sé, uscendo da una condizione di illusione, o momentanea deviazione, rispetto a ciò che sarebbe vero e giusto.

Così possiamo distinguerci intellettualmente da quello che, senza mezzi termini, consideriamo un esercito di stupidi di riserva, che si crogiola in una falsa rappresentazione del mondo. Per inciso, spesso e volentieri, nella politica progressista come in quella reazionaria, fa la sua comparsa come espediente retorico “l’uomo ad una dimensione”, il “servo dei poteri forti”, così “banale nella sua malvagità”, che tiene al proprio vestito culturale, rimanendo incurante dei fatti della natura, la realtà dietro l’apparenza.

Ebbene, come diceva Eco, «la critica della cultura di massa è il peggior prodotto della cultura di massa» (1964, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa), il cliché più trito e ritrito che esista.

Tuttavia, adesso abbiamo l’occasione di redimerci da questo classismo tascabile, dato l’avvento dell’Antropocene, o quello che Chakrabarty chiama l’emergere del planetario (2021, The Climate of History in a Planetary Age): questa etichetta per una nuova era geologica, in cui l’attività umana supera, letteralmente, quella delle altre biomasse, fino a sconvolgerne completamente la costituzione, segnala non già “la ribellione di madre natura”, ma proprio la morte della natura stessa. Infatti, con questa svolta, non si può piú fare riferimento a un fuori di alcun tipo.

Date le ingenti trasformazioni dell’ambiente, esso non può più essere ripreso come invariante naturale, cioè come posizione terza nella ripartizione fra il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, all’interno del quale ci andremmo a posizionare, compiendo delle azioni e delle scelte dentro a delle condizioni prestabilite. In altre parole, si tratta di scoprire ciò che abbiamo sempre saputo, ma al tempo stesso ignorato perché troppo impegnati a separare la natura dalla cultura: a pensarci bene, che senso ha dire che le formiche nel formicaio da loro costruito, o gli uccellini nel loro nido, si trovano nel loro habitat? È chiaro che invece l’habitat non è che un’estensione degli esseri viventi e della loro attività. Per cui non è davvero possibile ordinare il mondo come una matrioska, il contenuto non appartiene al contenitore: sono proprio la stessa cosa.

Questo è l’avvincente cambio di prospettiva suggerito dalla teoria di Gaia, sviluppata dai lavori di James Lovelock e Lynn Margulis, le cui scoperte contestano l’idea che la vita sulla terra si sia sviluppata perché erano già presenti le condizioni adatte, il famoso contesto: al contrario, sarebbero stati i primi microrganismi, attraverso la cooperazione, e non la competizione, a plasmare l’ambiente adatto alla propria sopravvivenza. Ciò significa che la natura ha una storia, essa non è un sistema indipendente di cui avremmo turbato l’equilibrio (tipo il mercato autoregolantesi).

Ma allora, come possiamo passare dall'essere al dover essere, se «Dio, fra tutti i mondi possibili, avesse scelto proprio il migliore, ovvero quello col maggior grado di perfezione»? Cioè se dovessimo restare nel mondo che abbiamo, rinunciando ad andare altrove? Come possiamo essere nel vero e nel giusto senza riferimenti a valori assoluti? In questo caso, dobbiamo ricordarci, come dice Deleuze, che aldilà del bene e del male non vuol dire aldilà di buono e cattivo. L’esistenzialismo infatti non ha niente a che vedere col nichilismo, ma con la trasformazione di tutti i valori: noi possiamo sempre odiare la guerra e amare la pace, avversando le forze che reprimono la vita e cospirando con quelle che la favoriscono. E se la vita è un collettivo di cui prendersi cura, un condivenire multispecie (Haraway, 2023, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto), il suo benessere è rimesso alla risonanza fra le entità, umane e non-umane, che sanno vivere attraverso le une attraverso le altre, accogliendone le esigenze in unità sempre provvisorie e discutibili.

Allora, ci occorre una nuova definizione del bello, una nuova costituzione assurda e controversa: l’estetica potrebbe essere intesa come l’esercizio della sensibilità alle altre modalità di vita, altri modi possibili di articolare, modificare ed espandere la società, oltre la distinzione fra natura e cultura. Così più “nemici” e “stranieri” saremo in grado di includere nel nostro mondo, più saremo pluralisti e rappresentativi con esigenze aliene alle nostre, e più quello che potremo costruire sarà solido, vero e giusto (con la minuscola).


La cattura del regolatore - Come l’industria piega le regole alle proprie necessità

Per cattura del regolatore si intende quella pratica attraverso la quale un settore regolato dell’industria si impossessa del regolatore, e lo piega alle proprie necessità.

Per l’economista Ernesto Dal Bó, «la cattura del regolatore è quel processo attraverso il quale interessi particolari influenzano l’intervento dello stato in ciascuna delle sue forme, in aree diverse come l’imposizione di tasse, le scelte di politica estera o monetaria, o le leggi che regolano la ricerca e lo sviluppo».

L’attività regolatoria viene studiata in economia seguendo due diverse scuole di pensiero. La prima è quella dell’Interesse Pubblico e la seconda quella della Cattura del Regolatore.

Secondo la prima scuola il mercato fallisce nel conseguimento di politiche orientate al bene comune, per esempio per la formazione di monopoli, ed è quindi necessaria una istituzione, il regolatore appunto, che difenda i cittadini ed i consumatori.

All’estremo opposto la seconda scuola vede l'istituzione di un meccanismo di regolazione come il risultato di una cattura istituzionale: gli interessi industriali ed economici favoriscono essi stessi la creazione di un regolatore che li difenda dalla concorrenza. La seconda scuola non vede questa creazione come risultato di un fallimento dei mercati.

Il lettore italiano ricorderà il motto di Giovenale: ‘Quis custodiet ipsos custodes’, cioè chi custodisce i custodi, a significare che se il regolatore deve regolare, ci si deve accertare che non venga esso stesso regolato a seguito di un fenomeno di cattura.

Il fenomeno osservato da Giovenale nel secondo secolo dopo Cristo è probabilmente antico quanto lo stabilirsi di prime forme di controllo tese ad assicurare il corretto svolgimento della vita pubblica. Tanto ciò è vero che la cattura del regolatore viene considerata come ineluttabile in entrambe le scuole summenzionate.

George J. Stigler, esponente della scuola della cattura del regolatore, e uno dei padri fondatori della Chicago School of Economics, ritiene che «la regolamentazione viene richiesta principalmente dall’industria ed è disegnata ed operata principalmente per il beneficio della stessa». Questa teoria si occupa dei meccanismi che conducono a leggi di regolamentazione identificando i gruppi che traggono profitto dagli effetti redistributivi della legislazione medesima.

Anche per gli economisti Marver H. Bernstein e Beryl R. Crowe la cattura è ineluttabile. Questi prevedono l’esistenza di cicli, laddove una agenzia regolatrice viene creata inizialmente per rispondere ad un allarme o preoccupazione sociale, in seguito gruppi di interesse ben organizzati ne prendono il controllo con la conseguenza che l’operato dell’agenzia li favorisce. Nella fase finale del ciclo l’agenzia regolatrice fornisce rassicurazioni e soddisfazioni simboliche al pubblico mentre “l’attività e le decisioni giornaliere dell’agenzia contribuiscono, rafforzano e legittimano le richieste di piccoli ma ben organizzati gruppi".

In conclusione, per Stigler, meglio non creare affatto i regolatori e lasciare al mercato mano libera, nell’ottica di small government tipica della scuola di Chicago, mentre i sostenitori della regolamentazione insistono sulle strategie di controllo per evitare la cattura – quali ad esempio migliori compensi per i regolatori, maggiori controlli governativi e la creazione di gruppi di interesse pubblico fra i cittadini che si occupino di monitorare l’azione delle agenzie.

La cattura può anche essere culturale: in tal caso il regolatore non viene sedotto dalle offerte dei lobbisti, ma finisce per vedere il mondo come lo vedono i settori regolati. La scienza al servizio degli interessi privati può giocare un ruolo importante in questo tipo di cattura. Secondo alcuni, un caso evidente degli effetti della cattura culturale, politica e cognitiva è proprio l’ultima recessione, resa possibile dalla conquista delle autorità di supervisione finanziaria da parte delle banche medesime.

Un concetto più recente è quello del capitalismo della regolamentazione, come parte di un mondo globalizzato all’interno del quale l’esistenza di regole e standards favorisce il potere degli incumbents (cioè di coloro che dominano il mercato al momento dato)  – si parla in questo caso anche di tragedia della mercificazione. Un esempio di questo tipo di evoluzione trova la sua dimostrazione nel passaggio della tutela della conoscenza da organizzazioni quali UNESCO e la UNCTAD all’Organizzazione per il Commercio Mondiale, World Intellectual Property Organization ed al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), dove la conoscenza è trattata come un bene privato da proteggere per consentirne il commercio.

Un importante caso di cattura è quello relativo alla scienza aperta, dove aspirazioni ad una democratizzazione della conoscenza sono state catturate dalla potente macchina lobbistica degli editori scientifici, finendo per aggravare disuguaglianze e squilibri globali nord-sud e favorire – a detta di alcuni – una ulteriore concentrazione del potere delle mani di pochi giganti del settore.


Papa Francesco e l'Ideologia Gender - Uno scivolone etico e politico?

Papa Francesco si è recentemente scagliato contro la cosiddetta “ideologia gender”, apostrofandola come «il pericolo più brutto del nostro tempo». A suo dire, essa abolisce le differenze e «rende tutto uguale», dichiarando inoltre, in modo lapidario, che «cancellare la differenza è cancellare l’umanità».

Ma che cos’è il gender? E poi, cos’è tale “ideologia gender”?

Gender e sesso biologico

In prima approssimazione e a grandi linee, è possibile intendere il genere (in inglese “gender”), come «orientamento psicosessuale che l’individuo acquisisce su basi culturali»; pertanto, esso è una costruzione sociale che investe, e condiziona, i nostri corpi, le nostre identità e le nostre vite.

Il genere è quel dispositivo che viene attivato a partire dal nostro sesso anatomico e ci indirizza verso i ruoli che la società ha già preparato per noi. Infatti, «mentre il termine sesso viene […] usato per indicare la dimensione biologica dell’essere donna o uomo, [genere] implica la variabilità delle interpretazioni che culture, tra loro diverse, hanno costruito a partire dal dato di partenza biologico». Pertanto, sesso e genere sono distinti: anatomico-biologico il primo, culturale-sociale il secondo.

Prendiamo, come esempio, i sessi femminile e maschile. La società impone a donne e uomini di conformarsi a quello che si ritiene essere il modo “naturale” di esser femmine e il modo “naturale” di esser maschi; l’assegnazione alla nascita dell’uno o dell’altro sesso, dunque, indirizza da subito verso un genere definito.

La costruzione sociale è decisamente pervasiva; è facile pensare subito a temi e oggetti destinati a un pubblico femminile e i relativi equivalenti che, invece, sono indirizzati a un pubblico maschile, con rigide distinzioni e confini che non devono essere superati per non incappare nella discriminazione, nell’esclusione sociale, nel giudizio negativo. Infatti, ha una connotazione di genere un numero considerevole delle cose con cui entriamo in contatto ogni giorno, sia concrete che astratte: capi d’abbigliamento, accessori, giocattoli, interventi sul corpo, desideri, professioni ecc.

Tuttavia, affrontare il tema del genere in modo critico è una via che può permettere la decostruzione dei condizionamenti sociali, in quanto porta a riflettere sui rapporti che distinguono tra femminile e maschile, aprendo così a diverse narrazioni e a maggiori libertà individuali.

Infatti, «il [genere] si inscrive in un più ampio ripensamento dei temi legati all’identità, al soggetto, alla sessualità, alla corporeità, che si coniugano con possibilità di espressione e trasformazione, in rapporto critico e innovativo con categorie che tendono a fissarsi e ad assumere forza regolativa e normativa». Non dimentichiamo che le costruzioni sociali sono rinegoziabili.

Dunque, sembra chiaro che il genere è un dispositivo costruito in parte dai condizionamenti sociali e in parte dalle scelte e dalle storie personali, [1] con tutte le possibilità che ne derivano.

LA COSIDDETTA "IDEOLOGIA GENDER"

L’oggetto dell’invettiva papale, l’Ideologia Gender, è, in realtà, un concetto-ombrello nato verso la fine degli anni ’90 nell’ambiente cristiano cattolico conservatore statunitense, e precisamente ad opera del “Family Research Council, una lobby familiarista cattolica statunitense, attivista dell’Opus Dei, e vicina ai Narth (Associazione nazionale per la ricerca e terapia dell’omosessualità) cioè ai sostenitori delle terapie riparative per l’omosessualità”.

Perché questi gruppi di cattolici conservatori hanno “inventato” questo concetto-ombrello?

Il fine – abbastanza evidente nella prima pubblicazione, “The Gender Agenda: Redifining Equality” di Anne O’Leary  – è quello di comprendere sotto lo stesso termine e contrastare l’ampio spettro di pensieri e pratiche di quegli anni, pensieri e pratiche che non rientravano nelle posizioni cristiano-cattoliche più tradizionaliste; in questo spettro troviamo, secondo gli estensori della “Gender Agenda”, chi “si occupa del controllo della popolazione; i libertari della sessualità; gli attivisti dei diritti dei gay; i promotori multiculturali del political correct; la componente estremista degli ambientalisti; i neo-marxisti/progressisti; i decostruzionisti/postmodernisti.”

Una crociata “contro”, insomma, in cui la componente di contrasto verso delle pratiche di tolleranza e di normalizzazione sociale degli orientamenti sessuali e di genere “non tradizionali” è solo una piccola parte.

L’Ideologia Gender sembra, quindi, non esistere se non nelle intenzioni di chi non ne fa parte.

Sembra essere un altro argomento fantoccio, creato per sostenere teoreticamente un’operazione di rafforzamento di confini molto ampi, tra il tradizionale e “l’altro”, di esclusione di ciò che è “strano”.

Sotto questo concetto-ombrello, però, si riparano dalla pioggia delle posizioni “strane” anche, nell’ordine:

  • i vertici della dottrina cristiano-cattolica, il Consiglio Pontificio pubblica un corposo testo, il “Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche” (2003), che studia e critica la fantasmatica “Teoria del Genere”;
  • alcune frange dell’associazionismo cattolico;
  • il cardinale Ratzinger;
  • militanti conservatori e associazioni familiariste cattoliche come «Manif pour Tous-Italia», «Sentinelle in piedi», «Hommen-Italy»;
  • il Forum delle Associazioni familiari [2] e un’ampia serie di soggetti tradizionalisti.

Dall’altra parte, sono invece seri e ampi studi sociologici, psicologici e medici sul genere, sulla sessualità e sulla relazione tra persona e orientamenti comportamentali, affettivi e sessuali.

LA POSIZIONE DI PAPA FRANCESCO

Ora, sull’affermazione di Jorge Mario Bergoglio, è opportuno fare delle puntualizzazioni preliminari:

  • Bergoglio parla nella veste di Papa, massima autorità della Chiesa Cattolica;
  • il contesto in cui parla è quello del Convegno Internazionale "Uomo-Donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni" promosso dal Centro di Ricerca e Antropologia delle Vocazioni (CRAV); [3]
  • la famiglia tradizionale uomo-donna-figli è, secondo la dottrina cristiano-cattolica, un pilastro, la cellula fondamentale della società. [4]

Non credo, quindi che ci si possa scandalizzare se il Papa difende questo elemento, storicamente alla base della dottrina della religione di cui è massima autorità.

Né, tantomeno, credo che si possa criticarlo se lo fa di fronte ad una platea di cattolici che si appresta a riflettere sul ruolo dei cristiani cattolici nella società contemporanea, sulla vocazione e sulle relazioni che i cristiani e la chiesa devono intrattenere con posizioni “altre”, diverse e variegate, non allineate all’ortodossia dottrinale.

Ancora meno, credo, che si possa lamentare una discrasia, una contraddizione, tra queste affermazioni e le recenti aperture nei confronti delle relazioni affettive e delle coppie “in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso”: il mondo cattolico è ampio, complesso, poliedrico e ci vuole un ombrello molto grande per contenerlo tutto.

Quello che sembra fare Bergoglio, con quelle parole e in quel contesto, è un’operazione – me lo si passi – di marketing affiliativo, di legittimazione della propria autorità di fronte ai partecipanti al convegno, richiamandosi alle posizioni dottrinali tradizionali. Posizioni da cui ritengo normale, direi quasi opportuno, che una organizzazione inizi per pensare il confronto con la diversità.

Insomma, il papa Francesco fa il suo mestiere e lo fa, mi pare, abbastanza bene.

Stupiscono, però, due fatti, che sembrano veri e propri scivoloni di Bergoglio:

  • L’uso del concetto dell’Ideologia Gender che, seppur strumentale all’operazione di auto-legittimazione, ha esposto il capo della chiesa cattolica ad ampie critiche da parte dei media e di tutti coloro che ne conoscono genesi e storia: Bergoglio, di fatto, ha attaccato un prodotto della chiesa, il cui referente empirico è fumoso;
  • Il secondo scivolone, a mio avviso moralmente più grave, è il comparativo di maggioranza associato all’Ideologia Gender: “il pericolo più brutto del nostro tempo”; riesce difficile pensare che il fantasma delle minacce alla famiglia tradizionale siano, in questo momento, più pericolose e più  brutte – ad esempio - della strage di famiglie israeliane compiuta da terroristi nei cosiddetti territori occupati il 7 ottobre del 2023 e il successivo massacro di dimensioni spropositate di altre famiglie, palestinesi questa volta, ancora in corso, nella striscia di Gaza.

 


NOTE

1 Nel parlare di scelte individuali, assumo una posizione neutrale rispetto alla questione che vede contrapposti il libero arbitrio e il determinismo materialista, con tutte le posizioni e sfumature intermedie. In questa posizione, pertanto, mi disinteresso temporaneamente della genesi della scelta e ne osservo solo il risultato.

2 Il quale ha diffuso via internet un «vademecum strumenti di autodifesa dalla teoria del gender per genitori con figli da 0 a 18 anni».

3 L’obiettivo del convegno è di discutere apertamente della vocazione al sacerdozio cristiano, della “trasmissione del patrimonio culturale e spirituale dei cristiani richiede ai credenti di tutto il mondo di riposizionarsi di fronte a un ambiente che è diventato estraneo, indifferente o addirittura ostile, anche nei Paesi tradizionalmente cattolici”. “Dobbiamo pensare in altri termini al futuro del cristianesimo, in un contesto che si aspetta che i cristiani trovino un nuovo paradigma per testimoniare la loro identità”. Obiettivo e scopo del Simposio a cui parteciperanno specialisti internazionali di Sacra Scrittura, filosofia e teologia, scienze umane e pedagogia, è “offrire una visione aggiornata dell’antropologia cristiana in un’epoca di pluralismo e dialogo tra le culture, per sostenere il significato della vita come vocazione” (Cardinale Ouellet, vedi qui).

4 «La Famiglia è costituita dall'unione indissolubile tra un uomo e una donna, aperti al dono della vita. Questa istituzione ha il suo fondamento nel disegno di Dio, ovvero nella legge naturale e perciò precede qualsiasi riconoscimento da parte della pubblica autorità. Per questo è considerata la "cellula fondamentale della società"», recita Cathopedia, l’enciclopedia cattolica.


Quando un esperimento non basta: il regresso dello sperimentatore

Un risultato sperimentale da solo è sufficiente per dare credibilità ad a un asserto scientifico?

Sì, secondo l’epistemologia classica. La conoscenza prodotta in un laboratorio è “la realtà” perché gli scienziati, seguendo il metodo scientifico, riescono a cogliere la rappresentazione esatta del mondo. Ma chiunque abbia messo piede in un laboratorio di biologia, fisica, chimica ecc. si accorge che questa è una rappresentazione idealistica e normativa della scienza ideologica. Basti pensare a quante volte all’interno di un gruppo di ricerca gli scienziati discutono davanti a un esperimento, prodotto da loro o da altri laboratori, o si confrontano di fronte a un risultato sperimentale che non è in linea con quanto si aspettavano.

Dunque, cosa succede nel momento in cui risultati di un esperimento sono in disaccordo con una teoria già consolidata?

Secondo il sociologo della scienza Harry Collins, un risultato sperimentale non è sufficiente per dare credibilità a un asserto scientifico. Nel suo libro Changing Order (1985) ha analizzato una controversia scientifica avvenuta verso la fine degli anni ’60 e inizi degli anni ‘70 sulla rilevazione delle onde gravitazionali.

Collins osserva come nel 1969 il fisico Joseph Weber affermò di essere riuscito a rilevare grandi quantità di radiazioni gravitazionali. Progettò personalmente il suo rilevatore, costituito da una grossa barra in lega di alluminio sulla quale poteva misurare le deformazioni e le vibrazioni provocate dalle onde attraverso dei rilevatori. Molti scienziati non credettero alle affermazioni di Weber, perché in quel periodo la maggior parte della comunità scientifica era d’accordo nel sostenere che i corpi massivi in movimento producessero onde gravitazionali ma con intensità molto deboli, dunque difficilmente rilevabili. Non solo. Lo strumento progettato da Weber presentava alcune criticità. Un primo aspetto critico era che rilevatori registravano delle vibrazioni e non le onde gravitazionali; dunque, non erano in grado di distinguere fra vibrazioni causate da radiazioni gravitazionali e vibrazioni causate da altre forze o fonti di disturbo. Nel 1969 Weber affermò di aver rilevato sette picchi al giorno non generati da fonti esterne di rumore. Queste affermazioni furono accolte con scetticismo dalla comunità scientifica perché si trattava di una quantità troppo alta di radiazioni rispetto alle teorie cosmologiche dell’epoca. Nonostante ciò, Weber riuscì comunque a convincere altri scienziati a prendere seriamente in considerazione i suoi risultati, anche se non ufficialmente accreditati. Dunque, non basta semplicemente riportare i risultati di un esperimento per trasformarne l’esito in un fatto scientifico consolidato in grado di “uscire dai confini” del laboratorio che lo ha prodotto. Infatti, nel 1972 altri laboratori avevano costruito altre barre in lega di alluminio per captare le radiazioni gravitazionali: in questo momento inizia quello che Harry Collins chiama regresso dello sperimentatore, ovvero un ciclo di interdipendenza tra teoria ed evidenza.

Lo scienziato che proverà a replicare l’esperimento di Weber dovrà alla fine confrontarsi con una serie di iscrizioni grafiche su carta prodotte da un registratore. Il problema sarà capire se fra quelle iscrizioni ci sono dei massimi che rappresentano impulsi di onde gravitazionali, oppure semplicemente segni prodotti dal rumore. La posizione maggioritaria della comunità scientifica dell’epoca riteneva che quei picchi non fossero causati da onde gravitazionali, e per accettare questa tesi bisognava replicare l’esperimento di Weber.

Se però le repliche dell’esperimento avessero dato un risultato negativo, sarebbe stato giusto pubblicare i risultati sperimentali e affermare che non c’erano grandi flussi di gravità da trovare? E di conseguenza dichiarare errate le affermazioni di Weber?

La risposta non è semplice, perché il risultato negativo di un esperimento potrebbe essere dovuto anche a ragioni diverse (per così dire “esterne”) da quelle relative al contenuto dell’asserto scientifico stesso, che l’esperimento vorrebbe provare. Ad esempio, l’amplificatore utilizzato nella replica dell’esperimento potrebbe essere diverso, o meno potente, rispetto a quello utilizzato da Weber. Infatti Weber sosteneva che i suoi rivali non avessero preparato l’esperimento nel modo più appropriato per lo studio di un fenomeno così sfuggente. Anzi, la mancanza di risultati poteva essere dovuta all’imperizia dei rivali di Weber, che non potevano certo vantare la sua esperienza nella progettazione di strumenti così sofisticati

In questo caso le onde gravitazionali esisterebbero realmente ma lo strumento usato in quel particolare esperimento potrebbe non essere in grado di rilevarle e lo scienziato, nel registrare la non esistenza dei flussi gravitazionali, mostrerebbe la propria incompetenza a livello tecnico-sperimentale.

Dunque, se non si conosce il risultato, il corretto svolgimento dell’esperimento non può essere valutato facendo riferimento soltanto al risultato sperimentale perché non c’è un consenso su cosa sia considerato un “risultato corretto” o sull’esistenza di un fenomeno. Per cui la domanda da porsi diventa “qual è il risultato corretto?”.
Afferma Collins:

« 

La conoscenza del risultato corretto non può fornire la risposta. Il risultato corretto è la rivelazione delle onde gravitazionali o la non rivelazione delle onde gravitazionali? Dal momento che l'esistenza delle onde gravitazionali è il punto in questione, è impossibile conoscere la risposta all'inizio. Quindi, quale sia il risultato corretto dipende dal fatto che ci siano o no onde gravitazionali che colpiscono la Terra attraverso flussi rivelabili. Per scoprirlo, dobbiamo costruire un buon rivelatore di onde gravitazionali e guardare. Ma non sappiamo se abbiamo costruito un valido rivelatore fino a che non lo abbiamo messo alla prova e ottenuto il risultato corretto. Ma non sappiamo quale sia il risultato corretto fino a che... e così via, ad infinitum (Collins e Pinch, 1995, Il Golem. Tutto quello che dovremmo sapere sulla scienza, p. 132).

»

L’attività sperimentale può essere valutata facendo riferimento al risultato soltanto se si riesce ad interrompere questa spirale. Nella maggior parte dell’attività scientifica (che Kuhn chiamerebbe “scienza normale”) questa catena circolare viene interrotta perché sono già noti i limiti entro cui un esperimento si può considerare “corretto”. Invece, nelle controversie in cui il regresso dello sperimentatore non può essere evitato, gli scienziati ricorrono ad altri criteri per valutare la qualità di un esperimento, che sono indipendenti dal risultato stesso dell’esperimento. Collins, intervistando gran parte degli scienziati coinvolti nell’attività di ricerca sulle onde gravitazionali, ha messo in luce gli elementi che entrano in gioco per valutare gli esperimenti e i risultati sperimentali degli altri scienziati:

1- fiducia nelle capacità sperimentali e nell'onestà dello scienziato, basata su una precedente collaborazione di lavoro;
2- la personalità e la capacità intellettiva degli sperimentatori;
3- la fama dello scienziato ottenuta attraverso la gestione di un grande laboratorio;
4- l’aver o meno lavorato nel settore dell'industria o in un ambiente universitario;
5- il curriculum di uno scienziato, in relazione ai suoi eventuali precedenti fallimenti;
6- «Informazione confidenziale», cioè riservata e non destinata ad essere divulgata all’intera comunità scientifica;
7- lo stile dello scienziato e la sua capacità di presentare i risultati;
8- l'«approccio psicologico» dello scienziato all'esperimento;
9- l'importanza e il prestigio dell'università d'origine dello scienziato e di quella dove lavora;
10- il grado di integrazione dello scienziato in svariate reti di collaborazione scientifica;
11- la nazionalità dello scienziato.

Dunque, quando i risultati di un esperimento sono in disaccordo con una teoria consolidata, la pratica scientifica non segue mai soltanto criteri metodologici nel decidere se a essere sbagliato sia l’esperimento o la teoria. Ma anche criteri sociologici, come quelli appena elencati. Dunque, fare scienza richiede sia un’abilità retorica che tecnica (Collins 1995). ). Al termine di una controversia vengono definiti quali sono gli “esperimenti validi” – ad esempio gli esperimenti che rilevano le onde gravitazionali o quelli che non le rilevano – stabilendo così la competenza di alcuni scienziati a discapito di altri. In altre parole,

« 

Riuscire (...) a definire che cos'è un buon rivelatore di onde gravitazionali, e determinare se le onde gravitazionali esistono, sono lo stesso processo. Gli aspetti sociali e scientifici di questo processo sono inscindibili. È questo il modo in cui viene risolto il problema del regresso dello sperimentatore (ivi, p. 136).

» 

In conclusione, il concetto di regresso dello sperimentatore ha il merito di aver messo in luce come la veridicità di un asserto scientifico dipenda anche da “meccanismi di risoluzione” (ivi, p. 143)(in grado di chiudere una controversia) che generalmente non vengono considerati come costitutivi dell’attività scientifica, perché non fanno parte di argomentazioni di natura tecnica, ma elementi sociali. Tuttavia, senza questi la scienza non potrebbe esistere.

Come andò a finire la controversia sulle onde gravitazionali?
In questo modo: Joseph Weber e le onde gravitazionali – Vittime illustri di modi ideologici di fare scienza.


PAST 19.03.2024 - La società tecnocratica - Un confronto tra G. Anders e G. Deleuze | Daniel Gianatti, Unimi & Filippo Adussi, SNS

La società tecnocratica
Un confronto tra G. Anders e G. Deleuze

Relatori: Daniel Gianatti, Laureato in Scienze Filosofiche, Università degli Studi di Milano & Filippo Adussi, Dottorando in Filosofia, Scuola Normale Superiore, Pisa 

Coordina Giampietro Gobo, Docente di Sociologia delle Scienze e delle Tecnologie, Università degli Studi di Milano

 

Martedì 19 marzo 2024 ore 17:00 – 19:00

Aula 517, Settore Didattico – Università degli Studi di Milano, Via Festa del Perdono 7 - Milano