SARTI E ANTROPOLOGI
Alle volte un vestito bisogna smantellarlo per intero perché dalla sua stoffa si possa far nascere qualcosa di nuovo. Altre volte, piuttosto che disfare è meglio tagliare per intromettervi quanto basta, un singolo filo che ne alteri certe piegature, le enfatizzi, produca nuove forme. Per usare un concetto recentemente espresso dall’antropologo Tim Ingold, tra la veste e questo nuovo filo non c’è un rapporto di determinazione quanto piuttosto un’attività di corrispondenza[1]: tra tessuto e filo ci devono essere tensione e risposta reciproca. È come per la costruzione di un cesto di vimini[2], dove progetto prefigurato e materialità dello stelo si incontrano nel reciproco rapporto di corrispondenza attraverso l’arco di tempo della sua realizzazione.
È il medesimo rapporto che c’è tra la domanda che dà il titolo al presente articolo e il saggio de Il riso pubblicato da Henri Bergson nel 1907: Ridiamo delle macchine? Posta la questione, è necessario ripercorrere il testo del filosofo francese. E sì, è una domanda che l’opera originaria non contiene, eppure è altresì erroneo proporla come domanda nuova: è in qualche forma presagita. Se dovessimo parlare per immagini semplici, forse potremmo dire che più che andare per una nuova via è scoprire una traccia sotterranea.
DEFINIZIONE DEL COMICO
Ridiamo delle macchine? Partiamo dal basso, direbbe Bergson (Il riso. Saggio sul significato del comico, Feltrinelli, 2017, p. 69), dalla disamina di alcuni esempi: all’apparenza, non troviamo nulla di risibili e comico nel meccanico andamento di una catena di montaggio, o nel funzionamento regolare delle nostre apparecchiature elettroniche. Per quanto ci sforziamo, questi singoli casi rimangono muti: non destano il riso, e ancor meno sono in grado di mostrarci la ragione precisa di questa mancanza. Insomma, non soltanto non ne ridiamo, ma non sappiamo spiegarci perché.
Variamo leggermente gli esempi: se immaginiamo un tale che, tornato a casa dal lavoro in fabbrica, tratta le vicende familiari con la medesima meccanicità con cui lavora, ecco che avremo creato il tipo squisitamente comico del distratto (Cit. p. 9): mette il pannolino al cane al posto del figlio, invece degli avanzi di cibo butta via i piatti, e alla moglie che richiede le sue tenere attenzioni replica innervosito «cara, non è ancora finito il mio quarto d’ora di pausa» (Questa è definita da Bergson come la forma comica dell’indurimento professionale; H. Bergson, Il riso, p. 89).
Ancora, quando in certe apparecchiature interviene un malfunzionamento, tutt’a un tratto la scena può diventare comica: ridiamo della lentezza del motore di ricerca paragonandolo ad un anziano – «who wins in a speed competition: internet explorer or Joe Biden?»; ancora, c’è qualcosa di risibile nell’apparente ostinazione con cui alcune aspirapolveri automatiche continuano a battere sul medesimo muro senza «voltarsi».
Ripartiamo dalle parole di Bergson: non è comico ciò che è meccanico, ma lo è «il meccanico applicato a qualcosa di vivente» (Cit. p. 9), poiché «non v’è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano» (Cit. p. 9). Da ciò derivano due principi, condizioni sufficienti del riso: anzitutto, perché vi sia riso è necessaria una momentanea insensibilità, una soppressione di empatia, «dove la persona altrui non più ci commuove, là solamente può cominciare la commedia» (Cit. p. 70)[3]; e, secondariamente, «sembra che il riso abbia bisogno d’un eco»(Cit. p. 7), di un pubblico reale, potenziale o implicito – alle volte siamo soli e ridiamo, ma non è mai un ridere solitario.
Se dovessimo rileggere la batteria d’esempi appena proposti alla luce di queste considerazioni diremmo: la comicità della situazione casalinga è prodotta dall’ineliminabile presenza di una componente umana «meccanizzata». Diversamente, ma in fondo secondo un meccanismo similare, negli esempi riguardanti il malfunzionamento degli apparecchi, si potrebbe forse far valere un’antropomorfizzazione della macchina, la proiezione di una volontà umana sull’ostinazione dell’aspirapolvere, e una rappresentazione dell’atrofia della volontà senile sulla lentezza del motore di ricerca.
Detto ciò ci si potrebbe lasciare andare ad una conclusione provvisoria: non ridiamo delle macchine perché nella loro meccanicità (o oggettività) non c’è nulla di umano, così come «un paesaggio potrà essere bello, grazioso, sublime […], non mai ridicolo» (Cit. p. 6). Si tratta, ovviamente, di una petizione di principio: definiamo ciò che è comico in base ad un supposto e ineliminabile «ingrediente umano», escludendo poi le macchine in quanto non partecipi.
Come uscire dal circolo vizioso? È lo stesso Bergson a predisporre la via: dalla ricerca dal «basso» tramite gli esempi bisogna passare alla ricerca “dall’alto” che ricostruisca una definizione genetica, ossia l’individuazione di una ragione che intenda definire «il comico» non chiedendosi «cosa ci fa ridere», ma andando a individuare una connessione tra comico e riso, una «ragion sufficiente che risponda alla domanda perché ridiamo?» (Cit. p. 69)
Ripartiamo dunque da un esempio, questa volta dello stesso Bergson: «un uomo che corre sulla via, inciampa e cade: i passanti ridono» (Cit. p. 8).
Cos’è successo? Secondo Bergson all’andamento mutevole che dovrebbe contraddistinguere l’abitudine acquista del «camminare» si è sovrapposta un’abitudine «indurita», una «celerità acquisita» (Cit. p. 8), incapace di accordarsi al mutare delle circostanze, una «rigidità di meccanismo» (Cit. p. 9). I passanti ridono, ma perché ridono? Perché non piangere? Perché ci dovrebbe essere un collegamento essenziale e non contingente tra la «meccanicità» sovrapposta a qualcosa di vivente e il riso che ne risulta?
RISO E CASTIGO
Bergson, nel rispondere a questi interrogativi è in apparenza molto chiaro. Nella sua forma più contratta, la spiegazione di questa connessione essenziale è la seguente: «questa rigidità è il comico, ed il riso ne è il castigo» (Cit. p. 14). Ma appunto, perché la meccanicità o artificiosità di una volontà umana dovrebbe suscitare un castigo? Da parte di chi? E perché nella specifica forma del riso?
Per il nostro autore ci sono due ordini di risposta, che tuttavia tendono a sovrapporsi in una definizione unitaria: «la società e la vita esigono da ciascuno di noi un’attenzione costantemente sveglia» (Cit. p. 12). Il riso ha una funzione castigante, messa in atto da e per il funzionamento della società. I due ordini di risposta, quelli che l’autore francese fa coincidere, possono in vero essere separati: una spiegazione metafisica, laddove Bergson parla di «vita», e una spiegazione di ordine sociale, laddove menziona esplicitamente la «società».
Per distinguerle, ripartiamo dall’esempio dell’inciampo. Anzitutto, scrive Bergson, «la legge fondamentale della vita è di non ripetersi mai» (Cit. p. 18), dacché conseguenza che ogni ripetizione meccanica della camminata è da una parte interdetta e interrotta dalla variabilità della realtà, dall’altra suscita immediatamente il castigo di quella parte più variabile della «vita»che richiede ed anzi, è fatta, della maggior flessibilità. I viventi, in quanto viventi, ridono dei sonnambuli in quanto sonnambuli. Come ripete più volte Bergson, «l’automatismo in opposizione all’attività libera, ecco insomma ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere»[4]. È come se affermassimo che l’acqua castiga il fuoco: non c’è ragione dell’opposizione se non nella «natura» dei due elementi.
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D’altra parte, la spiegazione sociale caratterizza il rapporto tra comico e riso in modo, almeno apparentemente, differente: «ogni rigidità» scrive Bergson «sarà sospetta alla società, perché essa è il segno di un’attività che si isola e tende a scostarsi dal centro comune» (Cit. p. 65).
La «vita» castiga ogni ripetizione, la «società» castiga ogni rigidità, e rigidità e ripetizione meccanica sono, nella visione di Bergson, equivalenti. Eppure emergono due differenti connessioni tra la funzione castigante del riso e ciò che è comico: nella spiegazione metafisica, la vita variabile è ipso facto avversa a ogni ripetizione, dacché consegue che il riso è, in quanto atto della vita, opposto a ogni rigidità. Nel secondo caso, e utilizzando gli specifici termini usati da Bergson, la rigidità non è più punita per sua stessa «natura», ma in quanto «segno di ciò che si isola», segno di «insociabilità»(Cit. p. 18): seconda questa seconda spiegazione, la società non castiga «ogni rigidità», ma unicamente ciò che, ripetendosi in una forma che dovremo ancora spiegare, dimostra un discostamento dal «centro comune».
(1 /continua)
NOTE
[1] Cfr. Ingold T., Corrispondences, John Wiley and Sons Ltd, 2020
[2] Cfr. Cit.
[3] A p. 72, “il riso è incompatibile con l’emozione”.
[4] H. Bergson, p. 65.
Autore
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Laureato Magistrale in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, costruisce dentro e fuori il pensiero filosofico. Logico, feroce, le sa tutte. Non lo cogli in fallo. Soprattutto sulla modernità.