IL DISTRATTO E L’OSTINATO

Torniamo, per un’ultima volta, all’esempio dell’inciampo. Chiediamoci: quando affermiamo, nel corso dell’analisi, che la corsa dell’uomo che inciampa è fin troppo meccanizzata? Soltanto quando è già intervenuto un elemento di disturbo – un ciottolo, un’irregolarità, un imprevisto – che interrompe il regolare corso di un’abitudine. Fino a quel momento, fin quando egli non era caduto, l’idea o la sensazione di ridere non ci aveva minimamente sfiorato. Sarebbe evidentemente contro fattuale asserire che ridiamo di ogni abitudine, benché le abitudini siano, in qualche grado, una ripetizione. Con la caduta, l’abitudine contratta diventa immediatamente risibile, ma contemporaneamente è diventata «troppo meccanica», «abitudine irrigidita», e così via. L’elemento di disturbo non ha semplicemente «mostrato» l’abitudine troppo meccanica, ma l’ha in qualche modo determinata, l’ha resa per ciò stesso troppo meccanica per la realtà con cui è entrata in contrasto: la «rigidità di meccanismo» e «l’elemento di disturbo» nascono in unisono, laddove fino all’attimo prima operavano congiuntamente.

Tutto ciò ci permette di proporre una questione alternativa, nata in seno alla divisione delle due ragioni precedentemente espresse: il riso, in questa sua funzione squisitamente sociale, non è forse, piuttosto che essere il castigo di ciò che è umanamente troppo meccanizzato, il meccanismo sociale ad un tempo di razionalizzazione e oggettificazione per carpire e respingere ciò che di imprevedibile tocca l’abitudine?

Consideriamo i due casi del «distratto» e dell’ «eccentrico» o «ostinato», entrambi citati da Bergson[1]. Quando rido del distratto, in superficie irrido ciò che c’è di troppo meccanismo nei suoi atti, mentre in profondità la risata è l’atto stesso con cui allontano e oggettivo da me, singolo o società, l’evento dell’imprevedibilità che colpisce «qualcuno sino ad allora come me». Il riso è un atto di differenziazione non da ciò che è “troppo meccanico”, ma da ciò che è stato reso “troppo meccanico”, e dalla forza che è responsabile d’essersi “impossessata” di quell’abitudine: non allontano solamente il soggetto divenuto oggetto, ma in pari tempo la forza che ha reo possibile quell’oggettificazione. È qualcosa che Bergson tocca, seppur fugacemente e con gran dose d’ambiguità, nelle battute finali dell’opera: il riso, come il sogno, «è distacco».

Quando, diversamente, irrido colui che è ostinato oltre ogni ragione, in superficie posso sì affermare che, nuovamente, sto deridendo ciò che v’è di troppo meccanico in questi atti, ma la risata è, in profondità, il preciso meccanismo con cui allontano e dissacro ciò che v’è di imprevedibile negli atti di qualcosa che si «discosta dal centro comune».

Dell’ostinato non ridiamo per via della sua ostinazione, ma per il timore che ispira l’inintelligibilità delle sue ragioni, come il «raccapricciante e imprevedibile» citato da Friedrich Nietzsche (Aurora, p. 17) Infatti, si dovrà pur spiegare perché il folle ispiri così profondamente la coscienza comica.

Con buona pace di Bergson, la vergogna e la colpa impiegate dal riso, «intimidire umiliando» (Cit, p.98) della società non sarebbero dunque la vita vivente e mutevole che castiga ciò che c’è di «troppo automatizzato nella volontà» (Cit. p.94), ma i mezzi diretti per la gestione dell’imprevedibilità. Il riso è strumento dell’economia dell’imprevedibile.

Ridiamo del distratto e dell’ostinato, ma mentre nel primo caso l’evento comico è separato dal soggetto – «Giovanni non è la sua caduta», ma rido contemporaneamente di «Giovanni caduto» e della forza che ha fatto sì che egli divenisse quella forma oggettiva e meccanica -, nel secondo caso l’ostinazione fa tutt’uno con il soggetto – la forza che ha oggettificato il distratto è esterna, la forza che ha stravolto l’ostinato è interna. Non ci vendichiamo dei distratti ma degli ostinati.

Se dovessimo dare una semplicistica differenziazione basata sul binomio volontà-mondo, il distratto intimorisce l’intromissione del mondo negli eventi che provocano un errore, l’ostinato intimorisce per l’intromissione di qualcosa di imprevisto o irregolare nella volontà stessa del soggetto, più che del mondo.

Il riso diretto al distratto distanzia il ridente dall’oggettificazione di una volontà per via di un elemento di intromissione che se ne è come “impossessato”, il riso verso l’ostinato è esso stesso l’atto con cui si tenta di oggettificare una volontà – sbagliato.

Allora, dopo aver detto tutto ciò, ritorniamo a chiederci: ridiamo delle macchine? La risposta di Bergson è doppia: non ridiamo di ciò che è meccanico in quanto tale, ma se ne ridiamo è all’opera una qualche forma di antropomorfosi, un’analogia. Di conseguenza, nella e della macchina non c’è nulla che spieghi la funzione sociale del riso. Eppure, da ciò che si è scritto consegue un’ipotesi alternativa e correlativa.

Non ridiamo delle macchine, non perché queste non partecipano della variabile variabilità che contraddistingue la vita, ma in quanto non partecipano di ciò che comunemente si intende come essenza della volontà, ossia l’imprevedibilità, e la forza di quest’imprevedibilità di trasformare la stessa volontà in cose.

Perché la volontà vuole per sé quell’imprevedibilità che proviene dalla forza dell’ignoto, essa vuole oggettificare ma non vuole essere oggettificata.

 

NOTE

[1] Cfr, H. Bergson, Il riso

Autore

  • Daniel Gianatti

    Laureato Magistrale in Scienze Filosofiche all’Università degli Studi di Milano, costruisce dentro e fuori il pensiero filosofico. Logico, feroce, le sa tutte. Non lo cogli in fallo. Soprattutto sulla modernità.