La legge di Huang - Recensione di Geopolitica dell’intelligenza artificiale di A. Aresu

«Non abbiamo alcuna meta né qualità spirituali. Tutto quel che vogliamo sono le cose materiali. L'unica cosa che ci importa.» 

«Dagny,» mormorò, «qualsiasi cosa possiamo essere, siamo noi che muoviamo il mondo, siamo noi che lo facciamo camminare.»

Ayn Rand, La rivolta di Atlante

1 RITRATTI

Alcuni libri imprimono sul volto del lettore una maschera di ansia e di malinconia che resta insensibile alle transizioni di tono e di argomento, come quella con cui Buster Keaton affronta qualunque evento nei film di cui è protagonista. Geopolitica dell’intelligenza artificiale di Alessandro Aresu irradia disagio ad ogni ogni pagina accumulata dalla sua movenza narrativa, che si articola sui personaggi dell’attualità tecnologica, più che sui temi economici, sui blocchi continentali e sui confini delle tensioni militari e politiche. Dopo quasi 600 pagine a stampa il lettore sa tutto sulla giacca di pelle del CEO e fondatore di NVIDIA Jensen Huang, sul talento per la falegnameria del premio Nobel Geoffrey Hinton, sull’orologio al polso dell’ex ministro del Commercio USA Gina Raimondo, sul fastidio per il multiculturalismo di Peter Thiel: più che ad una galleria di ritratti, il lettore viene esposto all’apologia delle gesta degli imprenditori e dei computer scientist che hano costruito l’industria contemporanea dell’intelligenza artificiale.

Aresu adotta l’armatura concettuale del Cacciari del Lavoro dello spirito per definire il ruolo che i protagonisti della saga rivestono sullo scenario internazionale. L’essenza del sistema della scienza coincide con una rivoluzione continua, resa possibile dalla tecnica, quindi dalla potenza di calcolo che viene sviluppata dai processori con cui si elaborano i modelli di intelligenza artificiale più avanzati – che a loro volta permettono di progettare e realizzare hardware ancora più potente. L’accelerazione del progresso viene scandita dalla Legge di Moore e dalle formulazioni più recenti del principio, che Aresu etichetta come Legge di Kurzweil e Legge di Huang. In nessun caso si tratta di necessità fisiche, ma di evidenze emergenti dal ritmo di aggiornamento dei prodotti della manifattura tecnologica. Quello più antico risale a Moore, uno dei fondatori di Intel, e fissa il periodo di raddoppio della potenza di calcolo per chip ogni 18 mesi; Kurzweil ha osservato che l’introduzione dell’intelligenza del software modifica la curva di crescita – secondo la regola dei «ritorni accelerati» – convertendola da lineare ad esponenziale. Jensen Huang fissa la misura della nuova curva, che ha andamento logaritmico e che si fonda sulle GPU di NVIDIA, con un miglioramento di 25 volte ogni 5 anni. 

2 LA GRANDE TRASFORMAZIONE

L’I.A. comporta un rinnovamento di tutti i processi industriali, della gestione dell’agricoltura, del consumo di energia, della mobilità, dell’infrastruttura militare. Negli impianti di TSMC, il principale fornitore di NVIDIA, le filiere di produzione sono manovrate da robot e l’intervento degli esseri umani è concentrato sulla progettazione e sul controllo del buon funzionamento delle macchine. Gli stabilimenti principali si trovano a Taiwan, e rappresentano il modello della Grande Trasformazione che ha investito l’Asia negli ultimi decenni – a giudizio di Aresu, più ampia e più radicale di quella che Polanyi ha descritto nell’Europa del XVIII-XIX secolo. La manifattura rappresenta ancora l’asse portante del sistema culturale, scientifico e politico del mondo; ma i settori strategici sono cambiati, così come le modalità di organizzazione del lavoro e la distribuzione geografica delle aree più avanzate. L’Europa ha abdicato da tempo a qualunque ruolo di primo piano: non è in grado di interpretare lo spirito del tempo, di identificare le industry su cui investire e i volumi di capitale necessari per la competizione su terreni come transistor, robotica, I.A. – e non è nemmeno capace di regolarle, dal momento che non ne ha alcuna comprensione reale. Il tentativo eroico di Angelo Dalle Molle e del suo istituto IDSIA a Lugano, o la permanenza di DeepMind a Londra, sono eccezioni da cui si evince solo che, senza l’intervento dei capitali americani, le poche operazioni di eccellenza del Vecchio Continente sono destinate alla marginalità.

Taiwan si trova al centro della rivoluzione tecnologica dell’Asia Orientale: il modello di organizzazione delle fabbriche allestite sull’isola non è riproducibile negli USA, dove tempi di messa a punto e di tassi di produttività non riescono a tenere il passo della madrepatria. Dai chip stampati a Formosa dipende lo sviluppo dell’automazione sia americana, sia cinese: l’interruzione del processo di globalizzazione, e l’introduzione delle logiche di friendshoring da parte di Washington e di Pechino, collocano le imprese taiwanesi sul tracciato del confine geopolitico, con l’obbligo di rinuncia a quasi metà del fatturato per schierarsi dalla parte della sicurezza nazionale di cui sono tributari i clienti maggiori. 

La stessa linea di confine, e le stesse criticità, attraversano società nate e cresciute in pieno territorio americano, come NVIDIA, Intel o AMD, che realizzano l’hardware indispensabile per lo sviluppo di tutti i settori, dai videogame alla ricerca sulle molecole proteiche. Il comparto privato dell’industria, la ricerca avanzata in campo fisico, chimico, biologico, sono il teatro stesso della storia politica successiva all’interruzione del processo di globalizzazione, con l’incertezza sugli ambiti decisivi in uno scenario bellico – ora che la guerra si può manifestare anche come sabotaggio nei sistemi di controllo delle centrali nucleari, negli apparati informatici di funzionamento delle borse, delle transazioni commerciali di ogni genere, degli archivi pubblici, delle infrastrutture, della mobilità, persino delle lampadine e dei termostati nelle case «intelligenti». Secondo Carl Schmitt la dimensione della politica si può riassumere nella decisione su chi è il nemico; quella della tecnologia stabilisce se l’amico può godersi il caldo del divano nelle sere di inverno, e con cosa può distrarsi sul suo cellulare o con la smart TV. Ma anche nella quotidianità estranea alla deflagrazioni militari, la capacità del blocco cinese di riversare sul mercato prodotti di tutti i settori industriali, con un livello qualitativo paragonabile a quello occidentale (se non migliore, come nel caso delle automobili della BYD), e ad un prezzo inferiore, equivale ad un sovvertimento degli equilibri commerciali e di potere ereditati dalla seconda metà del XX secolo: sul divano di casa, quando l’amico scorre le notizie del giorno le compulsa con la maschera di smarrimento alla Buster Keaton.

3 LA RIVOLTA DI ATLANTE

Morris Chang sottolinea nelle interviste che la crescita di TSMC è stata resa possibile dalle politiche di gestione del personale umano negli impianti di Taiwan. Ingegneri e tecnici non possono iscriversi ad alcun sindacato, accedono agli spazi di lavoro il lunedì mattina, vivono e pernottano nelle aree aziendali fino al venerdì sera, quando possono rientare a casa per il fine settimana – purché non sia sopraggiunta qualche emergenza, la cui soluzione richieda la loro presenza in ufficio anche il sabato e la domenica. In ogni caso, la loro disponibilità a raggiungere la sede della fabbrica non prevede limiti di tempo e di orario, perché se una crisi dovesse verificarsi alle due di notte del sabato, l’ingegnere TSMC risponde al telefono, saluta la moglie e parte per la sua missione salvifica all’interno delle pareti della fabbrica.

Solo con questi metodi di devozione medievale all’impresa è possibile obbedire ai ritmi di crescita della Legge di Huang; ed è per questo che anche NVIDIA, Tesla e gli altri stabilimenti di Musk, non ammettono la sindacalizzazione dei dipendenti. Alla maschera di sconcerto di Buster Keaton con cui il lettore accoglie queste informazioni, Aresu aggiunge altri motivi di turbamento, approvando la denuncia di Morris Chang contro il freno allo sviluppo che si deve scontare negli USA, per le limitazioni imposte allo sfruttamento della manodopera, e per il favore accordato all’inseguimento del modello taiwanese da parte dei fondatori delle società nella Silicon Valley. Dalla (giusta) critica nei confronti dell’ignoranza con cui i politici affrontano le questioni del progresso tecnologico e della civiltà digitale, alla giustificazione del turbine insensato del capitalismo contemporaneo e della sua tirannia sociale, il passo è breve. Anche i lettori di Cacciari accolgono questo slittamento nel testo di Aresu con lo smarrimento di Buster Keaton, perché per il filosofo la tensione tra tecnica e politica non può mai risolversi in un lavoro di amministrazione burocratica delle esigenze del profitto economico. 

In Aresu la constatazione che la corsa verso l’incremento della potenza di calcolo è sempre più forsennata in tutto il mondo, e che la sfida tra blocco occidentale e blocco cinese si recita sulla scena dell’avanzamento tecnologico, non viene bilanciata dalla domanda: a quale scopo? La fuga in avanti degli eroi che Aresu glorifica nel suo testo, con un peana che è un tributo ad Ayn Rand più che a Cacciari, finisce per precipitare il mondo in un divenire senza avvenire, nella corsa senza fine di un futuro senza un fine. Geoffrey Hinton si è ritirato da Google nel 2023 sottoponendo a dure critiche il modello di intelligenza artificiale che lui stesso ha contribuito a sviluppare, con la delusione di aver mancato l’obiettivo di conoscere il funzionamento del cervello umano; Demis Hassabis ha vinto il Premio Nobel per la chimica rimanendo in Europa, e utilizzando qui l’I.A. sviluppata in DeepMind. L’emergenza di un significato, o il fallimento della sua ricerca, non obbediscono alla geografia di Aresu, e per la verità non sembrano obbedire ad alcuna regola. L’Autore rimprovera i politici di impedire la libera circolazione dei capitali, dei cervelli e delle idee, frammentando il mondo lungo i confini della sicurezza nazionale; e in effetti senza le GPU di Huang è impossibile avviare progetti di ricerca scientifica o di progettazione tecnologica che aspirino ad un interesse universale. Ma la pressione dell’utilità commerciale conduce a risultati che sono davvero interessanti? Il mondo con l’onnipervasività degli smartphone, del cloud, e ora dell’I.A. – che solo pochi anni fa non è stata in grado di evitare la terapia medievale del lockdown contro un virus che ha contribuito a smistare per i quattro angoli del pianeta – è davvero il luogo in cui vorremmo vivere? L’abrogazione della separazione tra lavoro e tempo libero, la proibizione delle pause nella reperibilità, l’esposizione allo scivolamento nella depressione che è endemica nella «società della stanchezza», sono un prezzo che siamo disposti ad accettare per conversare con ChatGPT?

Non dovrebbe la politica poter decidere su questo

 

 

BIBLIOGRAFIA

Aresu, Alessandro, Geopolitica dell’intelligenza artificiale, Feltrinelli, Milano 2024.

Cacciari, Massimo, Il lavoro dello spirito. Saggio su Max Weber, Adelphi, Milano 2020.

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Kurzweil, Ray, The Age of Spiritual Machines: When Computers Exceed Human Intelligence, Viking Press, New York 1999.

Polanyi, Karl, The Great Transformation, Ferrar&Rinehart, New York 1944.

Schmitt, Carl, Der Begriff des Politischen, Duncker & Humblot Verlagsbuchhandlung, Berlino 1932.


Robert F. Kennedy Jr ministro della Sanità USA. Perché non è necessariamente una brutta notizia

Il 13 febbraio 2025, Robert F. Kennedy Jr è stato nominato ministro della sanità. Avrà anche la supervisione della Food and Drug Administration, la potente agenzia federale che vigila su cibo e farmaci, e il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), che si occupa espressamente anche di vaccinazioni.  Il suo intento sarebbe quello di rendere l’America più sana (MAHA – Make America Healthy Again https://www.maha.vote/), combattendo il cibo-spazzatura e lo strapotere delle Big Pharmas.

Sì è molto parlato di lui, nei media mainstream. Generalmente male.

71 anni compiuti, avvocato di molte cause ambientaliste (ne ha vinte alcune contro importanti industrie accusate di inquinamento) e dei diritti delle tribù native, è figlio di Robert Francis Kennedy (candidato alla Casa Bianca mentre fu ucciso a 43 anni) e nipote di John Fitzgerald Kennedy (che invece Presidente era riuscito a diventarlo, ma anche lui fu ucciso, a 46 anni).

Contro la sua nomina si sono scagliate più di 80 organizzazioni, numerose scienziate (sempre usando il femminile sovraesteso), 25.000 professioniste dell’American Public Health Association, 15.000 mediche.

Il (risicatissimo – 14 a favore e 13 contrarie) parere favorevole alla sua nomina da parte della commissione Finanze del Senato, è coinciso con un vistoso calo del titolo Pfizer (-2,3%) e Moderna (6,2%) sulla borsa di Wall-Street. E anche in Senato la sua conferma è passata per soli 4 voti: 52 senatori/trici repubblicani/e a suo favore (di cui 2 incerti fino all’ultimo), e 48 contrari (di cui 45 democratici/che, 2 indipendenti e Mitch McConnell, senatore repubblicano, per decenni alla guida dei repubblicani del Senato, in forte contrasto con Trump e che si definisce “un sopravvissuto alla poliomielite”.

 Le accuse, tutte vere, nei confronti di Kennedy sono di:

  • essere un traditore del Partito Democratico (il quale però ostacolò fortemente la sua corsa alle primarie nel partito);
  • essere stato un consumatore di droghe per molti anni (sembra però che ora abbia smesso, mentre molte altre politiche continuano…)
  • aver avuto una relazione extraconiugale con una nota reporter di sinistra (ma noi di queste cose non ci scandalizziamo, avendo avuto un Presidente del Consiglio sicuramente molto più esperto in materia)
  • aver confessato di aver ucciso un orso per poi abbandonarne il cadavere a Central Park (almeno in Trentino queste cose le fanno dopo una delibera)
  • essere un nemico dell’industria agroalimentare e farmaceutica (cosa però stranamente apprezzata sia a destra che a sinistra, e in particolare da giovani, ambientaliste radicali, salutiste, new age, ultras dell’anti-capitalismo tipo Occupy Wall Street)
  • voler contrastare la diffusione di prodotti chimici inquinanti e pesticidi (che idea balzana)
  • voler abolire le pubblicità dei farmaci, danneggiando così le TV (non lo sa che sono soltanto dei “consigli per gli acquisti”, come li chiamava Maurizio Costanzo?)
  • voler imporre normative per la messa al bando di vari additivi alimentari tossici o di organismi geneticamente modificati (direttive peraltro già adottate nell’Unione Europea e nella California, governata dai democratici).
  • abbracciare teorie complottiste senza fondamento (tra cui gli assassinii del padre e dello zio, da lui attribuiti alla Cia, agenzia che mai ha commissionato omicidi o organizzato colpi di stato da quanto è stata costituita nel lontano 1947).
  • essere un anti-vaccinista e di credere che alcuni vaccini possano causare (indirettamente) l’autismo nelle bambine. Con queste convinzioni, numerose scienziate prevedono il ritorno negli Usa di malattie scomparse o fortemente ridimensionate proprio per merito delle vaccinazioni. Non tutte le scienziate però la pensano così e il tema è molto più complesso delle semplificazioni proposte da molte scienziate e giornaliste (vedi Gobo e Sena 2019).

Complessivamente, però, se Kennedy riuscisse a mettere in pratica solo metà del suo programma (almeno quella metà che trova d’accordo tutte le persone di buon senso), ne vedremo delle belle.

Ma le vere domande sono: lui è in grado di farlo? Ha le competenze necessarie?

Alla prima è difficile rispondere. Per quanto motivata e decisa, una persona sola non è in grado di imprimere tutti questi cambiamenti. C’è bisogno della collaborazione di molte altre persone e istituzioni. Occorrono quindi capacità manageriali oltre che vision.

Veniamo quindi alla seconda domanda. Che competenze dovrebbe avere una ministra della sanità? Essere un’esperta di sanità? E chi è un’esperta di sanità: una medica? Una paziente? Una manager della sanità? Forse nessuna di queste.

La prima laurea di Sergio Marchionne era in filosofia. Poi si laureò in giurisprudenza. Successivamente in Discipline Commerciali e poi ottenne un Master in business administration. È stato, nell’ordine: direttore finanziario al Lawson Group, società di consulenza su salute e sicurezza (1992); amministratore delegato si Lonza Group Ltd, azienda operante nel settore della chimica farmaceutica e biofarmaceutica (2000); amministratore delegato della SGS, azienda attiva nei servizi di ispezione, verifica e certificazione (2002); nel CdA del gruppo biotecnologico Serono; nel 2008 vicepresidente non esecutivo e direttore indipendente senior di UBS (banche) e amministratore delegato FIAT.
Marchionne era forse un esperto dei settori dove operavano le “sue” aziende? No.
Eppure non pare abbia fatto peggio (anzi…) di Carlos Tavares, che è un ingegnere e ha fatto tutta la sua carriera nel settore automobilistico.

In Italia, come ministre delle sanità abbiamo avuto di tutto e di più. Nell’ordine: Nicola Perrotti (psicoanalista), Mario Cotellessa (medico), Tiziano Tessitori (avvocato), Angelo Giacomo Mott (medico), Vincenzo Monaldi (medico), Camillo Giardina (giurista), Angelo Raffaele Jervolino (avvocato e giurista), Giacomo Mancini (avvocato penalista), Luigi Mariotti (commercialista), Ennio Zelioli-Lanzini (avvocato), Camillo Ripamonti (Ingegnere), Athos Valsecchi (insegnante di scuola media), Remo Gaspari (avvocato), Luigi Gui (insegnante di filosofia), Vittorino Colombo (dirigente d’azienda), Antonino Pietro Gullotti (avvocato), Luciano Dal Falco (giornalista), Tina Anselmi (insegnante elementare e sindcalista), Renato Altissimo (dirigente d’azienda), Aldo Aniasi (pubblicista), Costante Degan (ingegnere), Carlo Donat-Cattin (giornalista e sindacalista), Francesco De Lorenzo (medico e accademico), Raffaele Costa (avvocato e giornalista); Mariapia Garavaglia (insegnante di lettere e giornalista), Elio Guzzanti (medico), Rosy Bindi (giurista), Umberto Veronesi (oncologo), Girolamo Sirchia (medico accademico), Francesco Storace (giornalista), Livia Turco (insegnante elementare), Maurizio Sacconi (funzionario), Ferruccio Fazio (medico e accademico), Renato Balduzzi (giurista), Beatrice Lorenzin (giornalista), Giulia Grillo (medico legale), Roberto Speranza (laureato in scienze politiche) e Orazio Schillaci (medico e accademico).

Eppure, almeno fino a poco tempo fa, il sistema sanitario italiano era considerato un’eccellenza mondiale.

Ma allora, che competenze servono per fare la ministra della sanità (o di un altro dicastero)? Non competenze specifiche, bensì trasversali come la capacità di: scegliersi le collaboratrici (queste sì) competenti nel settore, leadership, gestire i gruppi, mediare tra le diverse istituzioni, gestire i conflitti, motivare le collaboratrici e farle lavorare ecc. Insomma capacità gestionali, relazionali e comunicative.

Kennedy le ha? Molte persone lo dubitano…

Vedremo se riuscirà davvero a rendere l’America più sana.

Sempre che non lo uccidano prima…

  

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Gobo, G. e Sena B. (2019), Oltre la polarizzazione "pro-vax" versus "no-vax". Atteggiamenti e motivazioni nel dibattito italiano sulle vaccinazioni, in SALUTE E SOCIETÀ, XVIII, 2, pp. 176-190.


Le teorie del complotto, terza parte - Che si tratti di ossessione per la verità?

Questa è la terza puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte). Qui ci interroghiamo sulla corrente, ed epidemica, ossessione per la verità scientifica e per i (presunti) deficit cognitivi dei rispettivi oppositori politici, malattia che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.

ROVESCIANDO LA PROSPETTIVA: E SE IL PROBLEMA FOSSE INVECE L'OSSESSIONE PER LA VERITÀ?

Un rovesciamento di prospettiva dalle potenzialità decisamente più fertili ci viene indicato da Dotson (2021), quando, rifiutando l’intera lettura basata sull’avvento dell’era della post-verità, suggerisce che il problema non sia tanto che le persone trascurerebbero i fatti privilegiando pregiudizi e opinioni soggettive, ma consista proprio nella corrente, epidemica, ossessione per la verità scientifica.

La malattia contemporanea da cui ben pochi di noi possono sinceramente dirsi immuni, che provoca polarizzazioni estreme e mette a repentaglio ogni possibilità di confronto democratico, consisterebbe, nella sua prospettiva, proprio nell’abitudine a dare per scontato che solo una fazione – la propria, ovviamente – sia quella in grado di pensare razionalmente e con la scienza a supporto delle proprie tesi. Quindi l’altra, inevitabilmente, è in errore, s-ragiona, è in preda a deliri, allucinazioni e alle “buche” del complottismo. È così che siamo diventati ossessionati dai (presunti) deficit cognitivi dei nostri oppositori politici.

Una malattia, questa, che colpisce entrambi i fronti degli schieramenti politici: come le persone preoccupate per i cambiamenti climatici accusano i cosiddetti “negazionisti” di ignoranza e anti-scienza, specularmente chi contesta la matrice umana o l’emergenzialità della questione climatica si richiama a ricerche scientifiche ritenute più affidabili per dimostrare che la scienza mainstream sarebbe prona a interessi politici/economici e rea di soffocare il dissenso interno alla comunità scientifica. Tuttavia, questo atteggiamento così sprezzante e liquidatorio è particolarmente prevalente nelle retoriche liberal nei confronti dei conservatori, perché si sa, «the facts have a liberal bias» (Dotson 2021, p. 42): i fatti tenderebbero cioè per loro stessa natura a dare ragione ai progressisti.

Questo atteggiamento mentale, che viene indicato come scientismo politico, ha come corollario il diagnostic style of politics di cui parla lo storico Ted Steinberg (2006, cit. in Dotson 2021, p. 43), ovvero la tendenza a liquidare il dissenso politico come conseguenza di deficit cognitivi o problemi psicologici. In questo modo, il dissenso non è più dissenso: non più posizioni differenti e contrapposte con cui cercare un dialogo o esplorare, almeno, margini di compromesso. Anzi, la possibilità stessa del compromesso diventa un anatema. Perché con quella gente non si può, né si deve, ragionare. In questo modo il fanatismo scientista mina la democrazia, o almeno – suggerirei, ritenendo la democrazia già ampiamente minata di suo – compromette ulteriormente qualunque possibilità di confronto democratico e pure di trattazione con un’ambizione minima di approfondimento dei temi di cui si parla.

Nel trattare quindi in modo meno superficiale e sbrigativo del rapporto complesso tra scienza, “ignoranza” e politica, al cui interno inevitabilmente il tema del complottismo si inserisce, occorre tenere presente almeno tre questioni principali.

LA CORRUZIONE DELLA SCIENZA

La prima, per certi versi la più evidente – anche se tutt’altro che evidente è la portata delle sue conseguenze – ragione per cui dovremmo essere cauti di fronte al “l’ha detto la scienza, e quindi se non sei d’accordo sei ignorante”, riguarda la possibile strumentalizzazione della scienza a opera di interessi industriali e politici. Matthieu Amiech vi dedica opportuno spazio, riferendosi in particolare al bel libro di Foucart, Horel e Laurens, Les guardiens de la raison (2020). Ciò che mi preme mettere a fuoco qui è come sono cambiate le strategie di lobbismo politico: la fase dei “mercanti del dubbio”, quando le multinazionali reclutavano ricercatori e scienziati per produrre conoscenza scientifica solida, cioè capace di mettere in dubbio la credibilità delle ricerche che dimostravano la pericolosità dei loro prodotti, è ampiamente superata.[1] Oggi, infatti, gli interessi dell’industria, e in particolare quelli delle industrie maggiormente nocive, sono sostenuti in nome della scienza e della sostenibilità; come, cioè, se fossero non i desiderata delle corporations, ma verdetti oggettivi della scienza che finalmente ci permettono di superare le parzialità dell’opinione e le fallacie della politica. La professionalizzazione dell’influenza digitale fa poi sì che, grazie a raffinate tecniche di inbound marketing, a ribadire le ragioni dell’industria camuffate da verità scientifiche inattaccabili non siano solo scienziati, politici o celebrità, bensì persone (quasi) comuni, che ci appaiono più credibili perché disinteressate, cioè sinceramente interessate solo a difendere e valorizzare il ruolo della scienza nel dibattito pubblico. È un gioco di specchi, che fa sì che al green/pink/ethics-washing oggi si aggiunga l’insidia del participatory-washing: la sottile arte di far passare gli interessi del settore industriale come se fossero verità scientifiche e per giunta sostenute dal basso, un tappeto di erba sintetica (in inglese astroturf, il termine tecnico per designare questa strategia) a simulare l’erba vera (grassroots, cioè le rivendicazioni popolari, di movimento, genuinamente dal basso).[2]

Credo che non abbiamo ancora preso consapevolezza della portata del problema: della potenza, cioè, con cui il combinato disposto di questi meccanismi consolida ulteriormente il potere delle élite tecnocratiche e parallelamente indebolisce i movimenti e le proteste dal basso, delegittimandoli e sottraendo loro le loro stesse parole.

Perché nel momento in cui movimenti genuinamente emancipativi, grassroots, si battono contro ciò che veste i panni di una scienza addirittura legittimata e richiesta dal basso, le loro parole ancora più facilmente potranno venire negate come forme di partecipazione e invece fraintese, e liquidate, come semplice fatto di ignoranza e complottismo. Siamo consapevoli, giustamente, della repressione sempre più feroce che si abbatte contro chi protesta: fatichiamo invece a scorgere come il dissenso sempre più spesso venga prima ancora sterilizzato a monte, delegittimato sul piano semantico, e quindi non visto, scambiato per altro. Ma la delegittimazione semantica rafforza e giustifica la repressione legislativa e giudiziaria: perché, in fondo, se non è dissenso ma solo odiosa ignoranza, perché scomodarsi a denunciare la sproporzionalità di idranti, misure di privazione della libertà, sanzioni o se a chi protesta viene negato l’accesso al proprio conto bancario (come accaduto con il Freedom Convoy canadese)…?

«Qual è la differenza tra la verità e una teoria del complotto? Tra gli otto e i nove mesi». Questa battuta, che secondo gli estensori del Manifeste circolava all’interno dell’OMS (p. 34), richiama causticamente l’intervallo di tempo che troppe volte è intercorso tra la dismissione di posizioni minoritarie o critiche come mero complottismo e la constatazione che forse queste contenevano qualcosa di più di qualche «nucleo di verità», per riprendere l’espressione coniata da Wu Ming 1 (2021). Peccato che quegli otto-nove mesi siano anche l’intervallo di tempo fatale, quello in cui si sarebbe potuto discutere e agire, e chissà forse anche imprimere un diverso corso agli eventi. Se solo l’etichettamento delle critiche come “complottismo”, e spesso dell’intera controversia come “roba da complottisti”, non avesse reso impraticabile il terreno – troppo alto il rischio di essere scambiati per complottisti, meglio parlare d’altro – minando ogni possibilità di critica e dibattito. Così che la consapevolezza, se arriva, arriva troppo tardi. Quando ormai l’ennesima “innovazione” è diventata elemento del paesaggio del new normal, e indietro non si torna.

Un esempio emblematico è quello della protesta contro i TEA (Tecniche di evoluzione assistita), culminata nel recente episodio di Mezzana Bigli (Pavia), dove il gesto dei falciatori notturni di una coltura sperimentale di riso promossa dall’Università di Milano è stato oggetto di un coro unanime di attacchi dal mondo politico, scientifico e “ambientalista”, che l’hanno dipinto come esito di oscurantismo anti-scientifico, ignoranza e addirittura terrorismo. Impedendo così non solo il riconoscimento della dignità di azione politica a quel gesto, ma sbarrando anche la strada allo svilupparsi di un dibattito intorno a un tema che infatti oggi non mobilita che uno sparuto gruppo di coraggiose/i attiviste/i, laddove non più di vent’anni fa intorno agli OGM una certa compattezza del mondo ambientalista era stata capace di imprimere una svolta significativa sul corso degli eventi.[3]

Ma molti altri esempi possono essere individuati, nel Sud globale, dove i saperi contadini e le resistenze ai programmi di modernizzazione ecologica – targati Monsanto e sostenuti dai filantrocapitalisti alla Bill Gates – diventano superstizioni anti-moderne da estirpare. Nel Sud come nel Nord del mondo, le resistenze contro gli impatti devastanti della corsa ai minerali necessari per la transizione green e digitale, così come le proteste contro le speculazioni legate alle rinnovabili, devono oggi vedersela non più solo con la vecchia accusa di egoismo Nimby, ma anche con lo stigma di essere contro la scienza, negazionisti, ignoranti. Infine, come non evocare l’occasione persa conseguente all’incapacità di cogliere l’importanza (e di rispondere alla domanda di tematizzazione pubblica, prima che sia troppo tardi) di alcune questioni sollevate dalle proteste contro la gestione pandemica – dai rischi dell’ipermedicalizzazione a quelli dell’identità digitale e della sorveglianza tecnologica. Un’occasione persa che è difficile non attribuire all’ansia di non provare nemmeno a parlare di ciò di cui parlano “i complottisti”.

 

 

NOTE

[1] È salutare ricordare che è proprio così che nasce la nozione di sound science: introdotta dall’industria del tabacco, per screditare la trash science (scienza spazzatura) prodotta dalla ricerca indipendente e accademica che metteva in luce la pericolosità del fumo passivo.

[2] Ne abbiamo parlato in modo più articolato in Lello e Saltelli (2022).

[3] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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