Scienza Post Normale – Due casi concreti di applicazione delle prescrizioni
Un paio di settimane fa abbiamo parlato – in linea molto generale – del concetto di Scienza Post Normale, che abbiamo definito un “approccio normativo per la complessità e l’incertezza”. Un approccio che può guidare il lavoro di scienze e scienziati quando vengono chiamati in soccorso dalle istituzioni in condizioni, appunto, di incertezza, di rischio elevato, di conflitti valoriali e di urgenza.
Funtowicz e Ravetz sostengono che questo approccio – normativo, ricordiamolo - è utile quando la scienza normale, quella della soluzione di rompicapo all’interno di un paradigma stabile e consolidato[1] non può essere applicata perché le condizioni sfuggono alle classificazioni standard; e quando nemmeno le esperienze anche tacite, maturate dagli esperti nel corso della loro pratica, l’area della Professional Consultancy, non trovano un terreno solido su cui poggiare, a causa – soprattutto - delle condizioni di incertezza e della complessità ed intreccio delle poste in gioco.
Diagramma della scienza post-normale. Fonte: Scienza, politica e società, 2022
Può essere interessante, per comprendere la portata e l’applicabilità di questo approccio, di vedere due casi pratici, uno in cui le raccomandazioni sono state applicate in modo consapevole e uno in cui – rileggendone la storia a posteriori – si riscontrano le tracce di un utilizzo inconsapevole delle norme PNS.
L’INCONTRO PERSONALE DI ANDREA SALTELLI CON LA SCIENZA POST NORMALE
Nella sua vita “pre-post-normal-science”, Andrea Saltelli lavorava per la Commissione Europea, sullo sviluppo e sul controllo della qualità di modelli quantitativi da utilizzare nello studio e nella valutazione delle politiche comunitarie, in particolare, sull’educazione. Stimolato dal dibattito sull’approccio fondato da Funtowicz e Ravetz – comprese che il suo lavoro di controllo dei modelli “presupponeva” i modelli stessi, come se questi fossero scontati, naturali e la loro genesi non fosse affatto problematica.
C’erano domande sulla genesi dei modelli, racconta Saltelli, che fino allora non si era posto erano di questo tenore: “Perché è stato sviluppato questo modello? Chi l’ha richiesto? Con quali obiettivi e aspettative?”; e, ancora: “Quali voci sono state ascoltate nella costruzione del modello? Qual è la nozione di progresso che lo anima?”.
Tutte domande che lo spingevano a situare il focus del suo lavoro in un contesto socio-politico e in una visione del mondo, a cercare di comprenderne le distorsioni, le influenze e – soprattutto a valutarne gli effetti positivi e negativi sui programmi educativi e sui rapporti di forza tra stati o fra regioni.
In poche parole, l’approccio della PNS ha suggerito a Saltelli che i modelli quantitativi sviluppati per simulare lo sviluppo delle politiche, controllarne e monitorarne l’applicazione, a volte già contenevano quelle stesse politiche e il loro sviluppo era una forma di legittimazione delle politiche stesse. In poche parole, l’obiettivo silente dei modelli poteva in certi casi risultare nella riduzione delle politiche nelle loro dimensioni quantitative e – in questo modo – farne risaltare l’immagine oggettiva e neutrale: “lo dicono i numeri”[2].
Numeri che, volutamente, per evitare la proliferazione di scenari alternativi - con i relativi impatti socio-politici – e garantire la linearità, tralasciano i fattori di incertezza e le potenziali condizioni di deviazione. Di tanti possibili scenari, ne “scelgono” uno, quello che legittima e conferma le scelte iniziali e le assunzioni di valore della politica che descrivono.
Applicare alcune delle raccomandazioni della PNS quali, ad esempio, la ricerca del pedigree dei dati e delle assunzioni preliminari di valore, contaminando la modellistica “ufficiale” non trovò un terreno fertile ma, al contrario, incomprensione e ostilità. Questo genere di contaminazione, racconta Saltelli, significava mettere in discussione il candido positivismo e la convinzione nella neutralità della scienza verso cui inclinano la maggior parte delle istituzioni comunitarie.
Le linee di ricerca che si sono aperte dopo questa presa di coscienza, tuttavia, si sono rivelate costruttive e produttive: è iniziato per questo ricercatore un periodo di “cooperazione con statistici che guardavano con interesse alla crisi della riproducibilità in termini di problemi epistemologici e normativi, che provavano diversi approcci all’interpretazione dei legami tra scienze, tecnologie e nuovi mezzi di comunicazione, che correlavano questi approcci alla cosiddetta post-verità e alle istanze dell’integrità delle scienze”
Oggi non sembra possibile, per questi ricercatori, sviluppare e adottare modelli statistici che non prendano in considerazione le incertezze, l’origine dei dati, le diversità valoriali e la molteplicità delle voci coinvolte.
IL CASO DELLA PANDEMIA DI H1N1 NEL 2009
Nel caso della pandemia influenzale del 2009-2010, causata dal virus H1N1[3], possiamo rintracciare alcuni elementi caratteristici delle prescrizioni della Scienza Post Normale, probabilmente messe in atto in modo non consapevole.
Vediamo qualche elemento chiave che delinea questa storia[4] come esempio di applicazione della PNS. Come prima cosa va ricordato che 1) solo la WHO (World Health Organisation) può dichiarare che la diffusione di una malattia è una pandemia e 2) che la dichiarazione dovrebbe seguire un percorso quasi meccanico, in cui i fatti sono stabili e chiari, il processo e le nozioni che lo delineano sono ben definiti e le risposte sono nette, quasi da manuale.
Nel caso della diffusione del H1N1, invece, i fatti scientifici emersi – come la ampiezza della diffusione della malattia, la sua velocità di riproduzione e il suo grado di gravità - furono tutt’altro che chiari e stabili, e la nozione stessa di pandemia venne messa in discussione nel corso del processo di studio del fenomeno.
Quello che accadde nel primo periodo epidemico fu che la diffusione - apparentemente ampia e veloce - e la gravità della malattia furono difficilmente misurabile a causa dell’incertezza dei dati sul numero di persone infette nelle diverse nazioni o regioni colpite e sul numero di morti, e della evidente divergenza di percezione che si verificò tra area ed area.
In questa situazione di incertezza, il processo che portò – nel giugno 2009 - alla dichiarazione di pandemia da parte della WHO, porse il fianco a una serie di critiche, sia da parte di numerosi scienziati che non riscontrarono nel fenomeno i caratteri epidemiologici necessari per chiamarlo pandemia; che da parte del Consiglio d’Europa, il quale ritenne non giustificabile l’effetto di paura collettiva generato per una malattia che – dopo alcune settimane – si rivelò molto più lieve di quanto prospettato ; sia, infine, da parte di molti altri osservatori, per l’approccio ondivago della WHO[5]
Nel corso del processo, infatti, la WHO dovette rivedere più volte – sotto la pressione delle critiche di numerose nazioni e istituzioni, e di fronte al grado di incertezza sull’andamanto quantitativo e qualitativo della diffusione – sia la nozione di pandemia, che progressivamente incluse i fattori di novità, mutazione, diffusione, attività della malattia, e quello di imprevedibilità. Il fattore gravità fu anch’esso oggetto di discussione: prima fu escluso, a favore della dimensione della diffusione[6], poi fu reintrodotto tra i parametri di valutazione.
Ora, questa vicenda sembra avere tutte le caratteristiche di una situazione di scienza post normale: l’incertezza sui dati e sul fenomeno, la rilevanza della posta in gioco, quella della salute di grandi parti della popolazione mondiale, i conflitti tra attori e istanze valoriali, e l’urgenza di prendere decisioni.
Se, in un primo momento, la WHO si appellò al principio di precauzionalità, dando priorità al fattore urgenza, in un secondo momento diede ascolto alla pluralità di voci che si manifestarono a favore e contro la controversa dichiarazione di pandemia e, progressivamente, de-costruì e ricostruì la nozione di pandemia, includendo – tra gli altri - i fattori critici della imprevedibilità e le istanze delle istituzioni delle aree colpite.
Si tratta, quindi e con evidenza, di una costruzione sociale di un concetto che – secondo il mito della scienza intonsa (ne parla Elisa Lello qui) – dovrebbe avere confini scientifici chiari e ben definiti ma che, in realtà, è facile che non li abbia affatto e debba essere oggetto di negoziazione e di decisioni pluraliste.
QUALCOSA DI NUOVO SOTTO IL CIELO DELLA SCIENZA?
Forse no, forse l’analisi delle problematiche scientifiche proposta da Funtowicz e Ravetz non è nulla di nuovo, né di eccezionale; i critici della PNS sostengono – infatti - che la PNS non ha scoperto nulla, ma ricalca temi noti da sempre alla sociologia della scienza.
Però, posto che sia così, senza la traduzione intelligente di questi temi proposta dalla Scienza Post Normale, il messaggio – quello della necessità di organizzarsi con una nuova e più variegata cassetta degli attrezzi per affrontare i grandi temi scientifici - non sarebbe arrivato né agli scienziati naturali, che non hanno una formazione sociologica o filosofica, né alla sfera politica.
NOTE
[1] Cfr.: Kuhn H., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 2009
[2] “I formed the opinion that there is a political economy of quantification whereby epistemic authority is purchased via recourse to models whose role is to objectify—and possibly sterilize—political issues making them appear determined and solvable through impersonal objectivity” Saltelli, A. What is Post-normal Science? A Personal Encounter. Found Sci 29, 945–954 (2024). https://doi.org/10.1007/s10699-023-09932-x
[3] Fu chiamata, erroneamente, influenza o febbre suina poiché «il virus sembra essere un nuovo ceppo di H1N1, che risulta da un precedente riassortimento triplo tra virus influenzali di maiale, uccello e umano, successivamente ulteriormente combinato con l'influenza euro-asiatica dei maiali,[4] da cui deriva il nome "influenza suina"» (Wikipedia, Pandemia influenzale del 2009-2010)
[4] La vicenda della dichiarazione della pandemia da H1N1 è analizzata dettagliatamente da Sudeepa Abeysinghe, in Global Health Governance and Pandemics: Uncertainty and Institutional Decision-Making,
[5] Oltre a questi fatti, fu ampiamente criticato il rilievo che – sembra di leggere una storia più recente – la WHO diede alla prevenzione vaccinale, ignorando altre misure di contenimento come – ad esempio - lavarsi frequentemente le mani, controllare le frontiere, utilizzare degli antivirali, che fu interpretata come un tentativo di favorire le grandi case farmaceutiche.
[6] Questa scelta fu il risultato di un tentativo di neutralizzare le critiche dello European Centre for Disease Control (ECDC) che non conveniva sulla gravità della malattia.
Scienza ed arte - Per una rinnovata sinergia
Oggi, il rapporto tra arte e scienza è oscurato e perduto. L’han detto e scritto in molti: Feyerabend e Thomas (1989), Greco (2013), Odifreddi (2023), solo per citare che pochi autori. Un tema enorme, su cui un post può solo abbozzare alcune considerazioni.
Nel 1929, Norbert Wiener, il matematico che sarebbe poi diventato noto come il padre della cibernetica, affermava che la scienza dei numeri è, in senso stretto, un'arte. Secondo Wiener, la matematica poteva (e doveva) essere considerata parte integrante della storia dell'arte (Odifreddi 2023).
Sul rapporto benefico tra arte e scienza ci sono moltissimi esempi, dalla storiografia alla musica, dall'architettura e alla fisica e alle neuroscienze. Eppure, l’età scientista in cui stiamo vivendo tende a trascurarlo o a nasconderlo. Questa visione scientista è stata contrastata dalla controversia scatenata dallo scrittore e fisico inglese Charles Percy Snow, con il suo libro Le Due Culture e la rivoluzione scientifica (1959). Con esso Snow denunciava la crescente frattura tra la cultura scientifica e quella umanistica. La sua accusa risuonò con forza tra molti intellettuali, poiché questa separazione era estranea a figure come Dante, Galileo, Empedocle, Leonardo, Cartesio, Goethe, Einstein, gli anonimi architetti delle cattedrali gotiche e Michelangelo. Ancora oggi, questa divisione è sconosciuta ad artigiani esperti e fisici che affrontano i misteri dell'ignoto (cfr. Greco 2013).
Per mostrare concretamente l’utilità di questa sinergia, farò tre esempi.
SINERGIE TRA ARTE E MEDICINA
Non è sempre facile stabilire quando alcune malattie sono sorte per la prima volta. A tal fine i romanzi ci ha fornito informazioni importanti relativamente alla peste, il colera, il vaiolo etc. che si sono manifestati nel corso dei secoli. La pittura è un’altra fonte inesauribile. Infatti, nei personaggi ritratti nei quadri si possono ritrovare i segni di una malattia: la sindrome di Mondor nella Betsabea di Rembrandt (1654); l’esadattilismo nell’Uomo vitruviano di Leonardo (1490), nella Madonna di Casa Santi (1498) e nella Madonna Sistina (1513-14) di Raffaello; la neurofibromatosi di tipo I ne La Camera degli Sposi di Mantegna (1465-1474); l’ipertricosi nel Petrus Gonsalvus di un anonimo pittore tedesco (1580 circa); il tumore al seno nella scultura La notte di Michelangelo (1534). E così via per molte altre malattie come la tubercolosi, l’herpes zoster, la depigmentazione cutanea, il rinofima, l’artrite etc.
Un caso esemplare è il Bacchino malato di Caravaggio (1593), affetto dal morbo di Addison, dal nome del medico britannico che per primo lo descrisse. Ma solo nel 1855, ben 250 anni più tardi!
Bacchino malato, Caravaggio (1593)
Come ha scritto il chirurgo vascolare italiano Paolo Zamboni, nelle pagine del Journal of Thrombosis and Haemostasis (28 April 2020), il modello è pallido, con riflessi scuri in alcune aree della cute; forse ha anche dolori addominali, come fa pensare la posizione curva in avanti; si sta cibando di uva come se avesse bisogno di zuccheri a causa di una possibile ipoglicemia. Inoltre, l’angolo interno dell’occhio, poco irrorato, depone per un’anemia. Il pollice scuro e l’unghia nerastra e opaca (anziché entrambi rosei) rivelano una acantosi nigricans (una condizione in cui la pelle si presenta iperpigmentata, ispessita, vellutata e di colore più scuro rispetto alle zone circostanti).
LETTERATURA E TECNOLOGIA: QUANDO FANTASIA E SCIENZA SI FONDONO
Jules Verne (1828-1905) è considerato, uno dei padri nobili della fantascienza moderna o, come veniva definita all’epoca, “narrativa d’anticipazione”. Guidato da una forte passione per la tecnologia, con i suoi racconti ambientati nell’aria, nello spazio, nel sottosuolo e nel fondo dei mari ha ispirato molti scienziati delle epoche successive.
Nel romanzo Dalla Terra alla Luna (1865), Verne descrive un viaggio a bordo di un proiettile sparato da un gigantesco cannone e uno sbarco sulla Luna. All’epoca questa idea fu contestata da molti scienziati ma, dopo tutto, si trattava di un romanzo d’avventura e di fantascienza. Un po' più tardi fu pubblicato Intorno alla Luna (1869); questo romanzo va oltre il viaggio e segue le avventure degli eroi sulla Luna.
In Ventimila leghe sotto i mari (1869-1870), Verne immagina un grande sottomarino elettrico, il Nautilus. E il Nautilus non vi ricorda forse il DSV Alvin varato nel 1964? Il Nautilus, come il DSV Alvin, era una propulsione esclusivamente elettrica. Infatti, Verne rifiutò il carbone come combustibile, proponendo invece batterie elettriche (di una composizione chimica sconosciuta) per azionare il congegno. Ciò rende Verne un precursore dei carburanti alternativi. Nello stesso libro scrive di una pistola che dà una forte scossa elettrica, molto simile all'attuale taser.
Gli studi per creare macchine volanti risalgono agli schizzi di Leonardo da Vinci, ma fu verso la fine dell'Ottocento che l'elicottero, come lo conosciamo, cominciò a prendere forma. Nello stesso periodo, Jules Verne pubblicò Robur il conquistatore (1886), un romanzo in cui il personaggio principale costruiva un velivolo di truciolato (quindi aveva grande resistenza e leggerezza allo stesso tempo) che volava tramite rotori, proprio come fanno gli elicotteri moderni. Rotori aggiuntivi a prua e a poppa servivano a spingere il velivolo verso il cielo. Verne prese i prototipi di elicottero esistenti e immaginato come si sarebbero sviluppati.
In un breve racconto scritto nel 1889, La giornata di un giornalista americano nel 2889, Verne descrive un'alternativa ai giornali: “ogni mattina, invece di essere stampato come nell'antichità, l'Earth Herald viene 'parlato'. È attraverso una vivace conversazione con un giornalista, un personaggio politico o uno scienziato che gli abbonati possono apprendere tutto ciò che capita di interessarli”. Ci vollero molto meno dei mille anni previsti da Verne per avere i primi giornali radio (negli anni Venti) e poi i primi telegiornali (negli anni Quaranta).
Jules Verne era ben lungi dall’essere uno scienziato, ma le sue opere e i progressi che si stavano realizzando all’epoca servirono a introdurre molte delle invenzioni che sarebbero arrivate successivamente e che, nel tempo, sono finite per diventare elementi ordinari della nostra vita quotidiana. Si può quindi sostenere che la letteratura ha fornito la vision alla scienza e tecnologia.
ARTE, SCIENZA E AMBIENTE
La nefologia è una branca della meteorologia che studia le nuvole (dal greco nephos che significa appunto nube, nuvola). Gli cloudspotters (osservatori di nuvole) classificano accuratamente le nuvole una a una, dando loro un’identità (con tanto di descrizione) e seguendo uno schema simile a quello degli organismi viventi, basato su aspetto e altitudine. Si contano 10 gruppi principali o generi (stratus, cumulus, stracumulus, nimbostratus, cumulonimbus, altocumulus, altostratus, cirrostratus, cirrocumulus e cirrus), che a loro volta si suddividono in specie e varietà.
Moltissimi pittori come John Constable, Joseph Mallord, Caspar David Friedrich, Gustave Courbet si sono cimentati all'interno delle loro opere nella raffigurazione delle nuvole. Il primo fra tutti fu Andrea Mantegna.
Il greco Christos Zerefos, specialista in scienze atmosferiche, sostiene che attraverso l'analisi dei colori (soprattutto le quantità di rosso e di verde) dei cieli delle pitture dei paesaggisti si può calcolare lo spessore ottico dell'atmosfera, cioè la quantità di aerosol presente nell'atmosfera al momento in cui la tela è stata dipinta. Conoscere la qualità dell'aria prima della rivoluzione industriale permette di comprendere l'impatto delle attività umane sull'inquinamento. Zeferos si è concentrato, in particolare, sul pittore e incisore inglese William Turner. I pigmenti rossi e verdi che hanno colorato i cieli dei suoi dipinti sono la prima testimonianza dei livelli di inquinamento dell'aria di un paio di secoli fa. All'epoca si sapeva poco e niente circa l'inquinamento e, anzi, nessuno scienziato fino al 1829 si preoccupò di tracciare le polveri nocive che fluttuavano nel cielo. Ai tempi di Turner le fabbriche (con i loro fumi) si moltiplicavano, le locomotive a vapore si diffondevano velocemente, i vulcani continuavano ad esplodere ― come nel caso dell'indonesiano Tambora, che nel 1815 scagliò 36 miglia cubiche di roccia frantumata nell'atmosfera ed ebbe ripercussioni sull'intero pianeta poiché le ceneri fecero più volte il giro della terra trasformando l’anno successivo (il 1816) “nell'anno senza estate”. I ricercatori hanno infatti osservato che i cieli dipinti negli anni successivi alle eruzioni vulcaniche contenevano una maggiore dose di rosso. Dura doverlo ammettere, ma, spesso, i tramonti dai colori bellissimi quanto curiosi che vediamo nei dipinti di Turner - un po' rossi, un po' arancioni - sono il frutto dell’inquinamento…
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Feyerabend, Paul K. e Christian Thomas (1989), Arte e scienza, Roma: Armando.
Greco Pietro (2013) (a cura di) Armonicamente. Arte e scienza a confronto, Milano: Mimesis
Odifreddi, Piergiorgio (2023), Arte e matematica, due visioni complementari per descrivere la realtà, in “Le Scienze”, 18 agosto,
Snow, Charles P. (1959), trad. it. Le due culture, Milano: Feltrinelli, 2017.
Le teorie del complotto, quarta parte – I miti della scienza intonsa e della politica senza bias
Questa è la quarta puntata della riflessione avviata due settimane fa. (prima parte, seconda parte, terza parte). Qui ci parliamo del fatto che una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non è altro che un mito, alimentato anche dalla credenza che possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi. Il testo completo è stato pubblicato come prefazione al volume Matthieu Amiech, “L’industria del complottismo. Social network, menzogne di stato e distruzione del vivente” (Edizioni Malamente, 2024).
Elisa Lello.
IL MITO DELLA SCIENZA INTONSA
Se quella appena vista – la scienza può venire corrotta e strumentalizzata – è la ragione in fondo più facile da individuare tra quelle che dovrebbero indurci alla prudenza nel mettere la scienza al centro della politica, il problema è però decisamente più complesso. Perché il punto è che non è solo quando è corrotta, o volutamente strumentalizzata, che la scienza è influenzata da valori, interessi economici o politici, condizionamenti di tipo culturale, sociale o religioso. Anzi, in ogni sua fase – dalla scelta del tema, a quella dei metodi e della prospettiva, fino alla produzione e interpretazione dell’evidenza empirica – la produzione di conoscenza scientifica è condizionata da fattori altri, extra-scientifici. Molte/i colleghe/i all’interno delle scienze sociali, per parlare del mio campo disciplinare, rivendicano la propria identità di ricercatrici/tori militanti partendo proprio dalla consapevolezza che la posizione di chi fa ricerca non possa essere neutrale e dall’acquisizione che ogni sapere non possa che essere “situato”. Anche e forse soprattutto quello che si pretende oggettivo. Quello di una scienza intoccata, intonsa, libera da vincoli e condizionamenti, e quindi guidata solo dalla pura curiosità intellettuale, non sarebbe che un mito, come fa notare Sarewitz (1996), sulla scia di lunghe tradizioni di ricerca in diverse discipline.
Un mito pericoloso, tra l’altro: perché mentre certi tipi di condizionamento vengono stigmatizzati e destano scandalo (per esempio, le ricerche che dimostrano l’innocuità del fumo passivo o di certi pesticidi, di cui risulti la sponsorizzazione a opera delle lobby dei rispettivi settori), altre forme di influenza non meno importanti non destano alcun allarme, anzi sono naturalizzate come parte del normale così vanno le cose. Per esempio, il fatto che gli investimenti per la ricerca si concentrino nelle direzioni dove si addensano importanti interessi del complesso militare-industriale (per esempio, la costruzione di armi, la digitalizzazione, l’IA) lasciando sprovvisti aree e filoni di indagine che pure sarebbero più rispondenti alle esigenze di vita di ampi settori della popolazione mondiale; o la sproporzione di investimenti nella ricerca medica a favore di patologie che colpiscono i paesi più ricchi e bianchi rispetto a quelli più poveri e abitati da maggioranze con altre gradazioni del colore della pelle. Ecco: proprio il mito di una scienza intonsa, non condizionata, “pura”, impedirebbe, sottolinea ancora Dotson (2021), l’avviarsi di un dibattito circa le misure che potrebbero continuare a condizionare, ma questa volta in modo più democratico, equo ed emancipativo, la produzione della conoscenza scientifica. Per esempio, aprendo una discussione su quali aree e filoni di ricerca serve effettivamente privilegiare, e su chi sia chiamato a prendere decisioni in merito; o favorendo la partecipazione di scienziati e cittadini di paesi del Sud del mondo nell’elaborazione dell’agenda di ricerca. E molti altri esempi potrebbero seguire.
I BIAS INTRODOTTI DALLA PRETESA DI UNA POLITICA SENZA BIAS (SCIENTIZZATA)
La credenza fasulla e insidiosa che dovremmo aggredire è dunque quella secondo cui ci sarebbe una netta separazione tra scienza e politica, laddove è vero piuttosto il contrario, cioè che è difficile capire dove l’una finisca e l’altra inizi. Anche perché proprio questa falsa credenza costituisce il presupposto della crescente scientizzazione della politica (Pielke 2005) – da qui discendono le aporie e contraddizioni che questa pone.
Con scientizzazione della politica si intende la tendenza che si va affermando sempre più a descrivere controversie che contemplano aspetti sociali, etici e politici in termini esclusivamente scientifici; pretendendo che una scienza suppostamente oggettiva possa dirimere le questioni in una maniera scevra da pregiudizi (unbiased): meglio, dunque, di quanto farebbe quel vecchio e screditato arnese della politica, ambito della ricerca di sintesi e compromessi.
Se è vero che la ricerca scientifica può essere di utilità nell’elaborazione delle politiche, il punto è mettere a fuoco le criticità che si aprono qualora si decida di mettere la scienza al centro della politica e dei processi decisionali. Per iniziare, se è facile dire che è la scienza che deve decidere, le cose si complicano quando ci chiediamo quali expertise mobilitare, o quali discipline. È evidente come la controversia legata agli OGM – di vecchia o di nuova generazione che siano – venga letta in modo differente, e dia quindi risposte sempre scientifiche ma diverse e contrapposte, a seconda se utilizziamo le lenti dell’ingegneria genetica o quelle dell’ecologia (Dotson 2021). Altro effetto nefasto della scientizzazione della politica è la tendenza a marginalizzare conoscenze differenti da quelle degli esperti. Il non tenere conto, per esempio, che persone che non hanno titoli di studio specifici in un determinato campo detengano conoscenze, expertise, informazioni che possono essere non visibili alla disciplina scientifica degli esperti di turno, eppure decisamente rilevanti. Nella storia dei disastri e delle nocività industriali è una costante la denuncia, da parte delle popolazioni colpite, del diffondersi anomalo di patologie che vengono a lungo screditate come mera “aneddotica” (o isteria e fobia, dalla “radiofobia” dei cittadini di Černobyl, alle patologie delle vittime del piombo e dell’amianto… e che dire della mancanza di sorveglianza attiva e quindi di dati affidabili sull’epidemia di “nessuna correlazione” recente?)[1] dagli esperti di turno, e che saranno poi riconosciute come fondate e reali solo molto più tardi, solitamente quando è troppo tardi.
Infine, la scientizzazione in sé introduce a sua volta bias e distorsioni. Perché induce a dare importanza solo agli aspetti che più facilmente possono essere analizzati, misurati e tradotti in numeri e grafici.[2] Un punto, questo, di cui dovremmo essere consapevoli sia per imparare a maneggiare le narrative del potere, sia – e questo forse è ancora più cruciale, e meno evidente, ci torno in chiusura – nel mettere a punto le nostre risposte e resistenze.
Per esempio, basare le decisioni politiche sugli OGM (o sui TEA) su una valutazione puramente scientifica della loro pericolosità accertata per la salute umana o per l’ambiente significa far slittare verso i margini altre questioni che non sono certo meno importanti. Significa, per esempio, non vedere né prendere in considerazione i diritti dei coltivatori biologici, o delle società tradizionali o indigene, a coltivazioni non contaminate e alla conservazione, trasmissione e scambio non monetario di sementi tradizionali. Significa preferire la via del soluzionismo tecnologico – manteniamo il modello agroindustriale che mina la biodiversità e impone abuso di diserbanti e pesticidi e poi tamponiamo (forse) il problema creando varietà che ne richiedano minori quantità – anziché mettere in discussione il modello di agricoltura che è all’origine di quei problemi. Significa marginalizzare valutazioni circa la perdita di autonomia – e quindi la dipendenza sempre più forte dalle multinazionali, la diminuzione del numero di aziende e la concentrazione della proprietà etc. – che queste tecnologie impongono al settore, assestando l’ennesimo colpo ferale all’agricoltura contadina, che poi è la stessa direzione verso cui spinge la digitalizzazione dell’agricoltura 4.0.[3] E significa escludere qualunque possibilità di discutere circa la desiderabilità della visione del mondo che è sottesa a quelle tecnologie.
Ma anche il riduzionismo climatico può essere individuato come esempio. Se quella che attraversiamo è una crisi ecologica estremamente complessa, data dall’intrecciarsi di più dimensioni dell’inquinamento – dell’aria, delle acque superficiali e delle falde, del suolo, luminoso, elettromagnetico… – con i cambiamenti climatici, con la perdita di biodiversità e con questioni come il consumo e l’impermeabilizzazione del suolo, le nocività industriali, le servitù e l’industria militari, l’agroindustria, il sistema della logistica e della distribuzione (eccetera), è arduo mettere a punto strumenti di misurazione così come è politicamente scomodo e complicato elaborare risposte: perché queste, per essere efficaci, non possono eludere l’intreccio con la dimensione sociale né evitare di mettere al centro della critica il modello di sviluppo e quindi l’idea stessa di crescita.
Di fronte a tutto questo, isolare invece il cambiamento climatico dal suo contesto ambientale e sociale è una strategia che, se da una parte si presta meglio all’elaborazione di indicatori quantitativi, parametri e scenari predittivi che possano fungere da base per politiche evidence-based, dall’altra supporta una narrativa utile a un capitalismo che sussume nella sua logica di espansione perpetua la crisi ecologica stessa. Non solo la crisi ecologica non basta a mettere in discussione l’espansione capitalista: essa diventa un pretesto per la creazione di nuovi mercati e per dare nuovo slancio all’estrattivismo dipinto di green.
NOTE
[1] Un aspetto rilevante di questa vicenda è relativo ai cambiamenti nelle procedure e negli algoritmi utilizzati in seno all’OMS per rilevare il nesso di causalità tra vaccini ed effetti avversi, un tema trattato da Osimani e Ilardo (2022).
[2] Per di più, la colonizzazione da parte dell’industria degli ambiti di governance della scienza fa sì che il principio di precauzione venga scalzato da quello di innovazione: in questo modo, l’onere della prova slitta dall’industria verso coloro che dovrebbero dimostrare la pericolosità di sostanze e prodotti. L’assenza di evidenza del danno diventa così evidenza della sua assenza (Lello e Saltelli 2022).
[3] Si veda il contributo de l’Atelier Paysan, Agricoltura 4.0 e nuovi OGM: la tecnoscienza all'assalto del vivente, 1 novembre 2023, <www.laterratrema.org>.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Anonimo (2022), Manifeste conspirationniste, Parigi, Seuil.
Attwell K., Smith D.T. (2017), Parenting as politics: social identity theory and vaccine hesitant communities, “International Journal of Health Governance”, 22(3): 183-98.
Bazzoli, N., Lello, E. (2022), The neo-populist surge in Italy between territorial and traditional cleavages, “Rural Sociology”, 87(1): 662-691.
Bordignon, F. (2023), Alternative science, alternative experts, alternative politics. The roots of pseudoscientific beliefs in Western Europe, “Journal of Contemporary European Studies”, 31(4): 1469-1488.
Bucchi, M., Neresini, F. (2002), Biotech remains unloved by the more informed, “Nature”, 416: 261.
Chalmers J. (2017), The transformation of academic knowledges: understanding the relationship between decolonizing and indigenous research methodologies, “Socialist Studies”, 12(1): 97-116.
Coniglione, F., eds. (2010), Through the mirrors of science. New challenges for knowledge-based societies, Heusenstamm, Ontos Verlag.
Consigliere, S. (2020), Favole del reincanto: molteplicità, immaginario, rivoluzione, Roma, DeriveApprodi.
de Sousa Santos, B., Nunes, J. A., Meneses, M.P. (2022), Opening up the canon of knowledge and recognizing difference, “Participations”, 32(1): 51-91.
Dentico, N., Missoni, E. (2021), Geopolitica della salute: Covid-19, OMS e la sfida pandemica, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Dotson, T. (2021). The divide: how fanatical certitude is destroying democracy, Cambridge, MIT Press.
Foucart, S., Horel, S., Laurens, S. (2020), Les gardiens de la raison: enquête sur la désinformation scientifique, Parigi, La Découverte.
Gigerenzer, G. (2015), Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Milano, Cortina.
Goldenberg, M. (2016), Public misunderstanding of science? Reframing the problem of vaccine hesitancy, “Perspectives on Science”, 24(5): 552-81.
Goldenberg, M.J. (2021), Vaccine hesitancy: public trust, expertise, and the war on science, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press.
Grignolio, A. (2016), Chi ha paura dei vaccini?, Torino, Codice.
Harambam, J. (2021), Against modernist illusions: why we need more democratic and constructivist alternatives to debunking conspiracy theories, “Journal for Cultural Research”, 25(1): 104-122.
Harambam, J., Aupers, S. (2015), Contesting epistemic authority: conspiracy theories on the boundaries of science, “Public Understanding of Science”, 24(4): 466-480.
Jasanoff, S. (2021), Knowledge for a just climate, “Climatic Change”, 169(3): 1-8.
Kahneman, D. (2012), Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori.
Keren, A. (2018), The public understanding of what? Laypersons’ epistemic needs, the division of cognitive labor, and the demarcation of science, “Philosophy of Science”, 85(5): 781-792.
Lello, E. (2020), Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 3: 479-507.
Lello, E., Raffini, L. (2023), Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 705-732.
Lello, E., Saltelli, A. (2022), Lobbismo scientifico e dirottamento dello spazio pubblico, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 187-203.
Lolli, A. (2023), Il complottismo non esiste o Miseria dell’anticomplottismo, in M.A. Polesana, E. Risi (eds.), (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis, 239-271.
Nunes, J. A., Louvison, M. (2020), Epistemologies of the South and decolonization of health: for an ecology of care in collective health, “Saude e Sociedade”, 29(3): e200563.
Osimani, B., Ilardo, M.L. (2022), “Nessuna correlazione”. Gli strumenti per la valutazione del nesso causale tra vaccinazione ed evento avverso, in E. Lello, N. Bertuzzi (eds.), Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Roma, Castelvecchi, 167-186.
Pielke, R.A.J. (2005), Scienza e politica, Roma-Bari, Laterza.
Quijano, A. (2005), Colonialidade do poder, eurocentrismo e América Latina, in A colonialidade do saber: etnocentrismo e ciências sociais. Perspectivas latino-americanas, Buenos Aires, Clacso, 117-142.
Reich, J.A. (2014), Neoliberal mothering and vaccine refusal: imagined gated communities and the privilege of choice, in “Gender and Society”, 28(5): 679-704.
Sarewitz, D. (1996), Frontiers of illusion: science, technology, and the politics of progress, Philadelphia, Temple University Press.
Saurette, P., Gunster S. (2011), Ears wide shut: epistemological populism, argutainment and Canadian conservative talk radio, “Canadian Journal of Political Science”, 44(1): 195-218.
Schadee, H.M.A., Segatti, P., Vezzoni C. (2019), L’apocalisse della democrazia italiana: alle origini di due terremoti elettorali, Bologna, Il Mulino.
Smith, P.J., Chu, S.Y., Barker, L.E. (2004), Children who have received no vaccines: who are they and where do they live?, “Pediatrics”, 114(1): 187-95.
Steinberg, T. (2006), Acts of God: the unnatural history of natural disaster in America, Oxford, Oxford University Press.
Taussig, M.T. (1986), Shamanism, colonialism, and the wild man: a study in terror and healing, Chicago, University of Chicago Press.
Wei, F., Mullooly, J.P., Goodman, M., McCarty, M.C., Hanson, A.M., Crane, B., Nordin, J.D. (2009), Identification and characteristics of vaccine refusers, “BMC Pediatrics”, 9(18): 1-9.
Wu Ming 1 (2021), La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema, Roma, Alegre.
Ylä-Anttila, T. (2018), Populist knowledge: post-truth repertoires contesting epistemic authorities, “European Journal of Cultural and Political Sociology”, 5(4): 356-388.
Zagzebski, L.T. (2012), Epistemic authority: a theory of trust, authority, and autonomy in belief, Oxford, Oxford University Press.
Zografos, C., Robbins, P. (2020), Green sacrifice zones, or why a green new deal cannot ignore the cost shifts of just transitions, “One Earth”, 3(5): 543-546.