Le arti e il management - Una seconda sinergia da rinnovare
Abbiamo già parlato di quanto sarebbe importante per la scienza un rinnovato rapporto con l’arte. Lo stesso dicasi per il management privato e pubblico contemporaneo (e i rispettivi corsi di laurea che preparano i futuri managers). Nei suoi percorsi formativi esso è sempre più incuneato tra materie di diritto, economia, statistica, informatica, e un po’ di sociologia e scienza politica. Sempre più freddo, (falsamente) razionale e burocratizzato, tra master e business school.
Intendiamoci. Tutte materie interessanti, utili, fondamentali. Tuttavia manca qualcosa, e non è sempre stato così.
HAIKU AI MANAGER!
L’haiku è un tipo di poesia giapponese, che nasce alla fine del IX secolo d.C. È un breve componimento di 5-7-5 sillabe. Si caratterizza per essere una poesia realistica, che osserva il reale nelle sue manifestazioni più infinitesimali e anche meno adatte a essere cantate: pidocchi, sterco, erbe umili. È un’arte anti-descrittiva, nel senso che non descrive, non declama, non giudica e non spiega: presenta solamente un’immagine. Ma lo fa con lo sguardo attento dell’etnografo e il linguaggio del letterato raffinato.
Mi è capitato tra le mani, diverso tempo fa, uno dei tanti libri di haiku (un tempo sono stati di moda in Italia): Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Basho all'Ottocento, Milano: Mondadori 1998.
Ne mostro qualcuno, di poeti del 1600 e 1700, per dare un’idea. Ovviamente la traduzione in italiano non mantiene la sillabazione 5-7-5:
Pioggia,
attraversa il mio cancello
un mazzo di iris
(Itō Shintoku, 1634-1698)
Dalla porta di dietro
nel brodo freddo il riflesso
della macchia di bambù
(Konishi Raizan, 1653-1716)
Soffia il vento
si tengono forte
i boccioli di pruno
Guarderò la luna
senza mio figlio sulle ginocchia
quest’autunno
(Uejima Onitsura, 1631-1738)
Piogge di prima estate:
si accorciano le zampe
delle gru
(Matsuo Bashō, 1644-1694)
Si mescolano
il lago e il fiume
nella pioggia di primavera
Nella breve notte
sul bruco peloso
gioielli di rugiada
Nella mia stanza
il pettine che fu di mia moglie –
nella mia carne, un morso
(Yosa Buson, 1715-1783)
Sono andato a vedere gli haiku di personaggi della Dinastia Tang (618-907 d.C.).
Con mia grande sorpresa, ho scoperto che non erano di poeti. Bensì di manager, funzinati e amministratori dell’epoca; alcuni di loro intrapresero la carriera di mandarino (cui si doveva fare l’esame letterario dello Stato ― proprio come adesso…).
I 33 manager di seguito elencate scrissero decine di volumi di poesie.
Bai Juyi (Shaanxi, 772-846), mandarino di corte e poi funzionario.
Chen Shen (Hubei, 717-770), segretario di truppa.
Chen Zi’ang (Sichuan, 659-700), consigliere dell’esercito.
Cui Hu (Hebei, ?-829), funzionario.
Du Mu (Shaanxi, 773-819), funzionario con varie cariche.
Gao Shi (Hebei, 702-765), funzionario con alte cariche.
Gu Kuang (Jiangsu, 725-814), funzionario con varie cariche.
Han Yu (Henan, 768-824), mandarino e letterato.
Jia Dao (Beijing, 779-843), funzionario.
Li Longji (Gansu, 685-762), imperatore in tre periodi (Xiantian, Kaiyuan e Tianbao, 712-756).
Li Qi (hebei, 690-754), funzionario.
Li Shen (Anhui, 772-846), mandarino di corte.
Li Shimin (Gansu, 599-649), imperatore del periodo Zhenguan (627-650) e amatore di arte e letteratura; con la sua riforma politica creò un’epoca fiorente in economia e cultura, realizzando una solida pace per il popolo.
Liu Changqing (Hebei, 714-790?), funzionario.
Liu Yuxi (Henan, 772-842), mandarino con varie alte funzioni.
Liu Zonggyuan (Shaanxi, 773-819), mandarino della fazione riformista.
Luo Binwang (Zhejiang 619-684?), mandarino di corte.
Meng Chang (Hebei, 919-965), ultimo re dei Shu Posteriori (934-965), amatore di musica e letteratura.
Shen Quanqi (Henan, 656-715), Funzionario del settore culturale.
Song Zhiwen (Shanxi, o Henan? 656-713), funzionario.
Wang Changling (Shanxi, 690-756), funzionario.
Wang Han (Shanxi, 687-726), segretario e funzionario.
Wang Jian (Shaanxi, 766?-832?), funzionario con varie cariche.
Wang Wei (Shanxi, 701-761), mandarino per alte cariche per diversi periodi. E’ anche pittore e conosce bene la musica.
Wang Zhihuan (Shanxi, 688-742), funzionario.
Wei Yingwu (Shaanxi, 737-792), ex guardia del corpo dell’imperatore Li Longji, funzionario di varie città.
Wei Zheng (Hebei, 580-643): statista e letterato.
Wei Zhuang (Shaanxi, 836-910), funzionario e letterato.
Yuan Jie (Henan, 715-772), funzionario.
Yuan Zhen (Henan, 779-831), mandarino con diverse alte cariche.
Zhang Ji (Hubei, ?-779), funzionario di finanza.
Zhang Jiuling (Guangdong, 678-740), primo ministro del regno Kaiyuan, noto per la qualità della sua persona e la saggezza della sua politica.
Zu Yong (Henan, 699-746?), funzionario.
CONCLUSIONE
Se oggi, nelle nostre università, accanto alle materie sacrosante sopra elencate, ci fossero corsi, non dico di pittura e calligrafia, che i manager dell’antica Cina seguivano, oppure di canto e musica, ma almeno di scrittura, poesia e letteratura, forse avremmo manager diversi, più empatici, equilibrati e meno nevrotici.
Costruire il Secondo Sesso: il caso delle fembot
Gli ambienti digitali rappresentano oggi uno dei contesti privilegiati per l’esplorazione e la costruzione dell’identità individuale. Il sé digitale si configura come una delle molteplici espressioni dell’identità contemporanea, spesso mediata da strumenti tecnologici che permettono nuove forme di autorappresentazione e relazione. Tra questi, la creazione di avatar svolge un ruolo centrale, assumendo una duplice funzione: da un lato, agiscono come proiezioni del sé, fungendo da interfaccia attraverso cui l’utente interagisce con lo spazio digitale; dall’altro, possono costituire l’oggetto dell’interazione, diventando interlocutori privilegiati. È il caso, ad esempio, di chatbot come Replika, in cui gli avatar sono progettati su misura per svolgere il ruolo di social companions, offrendo compagnia e supporto emotivo, e configurandosi così come destinatari primari dell’esperienza comunicativa.
Analizzando il chatbot Replika, è emerso che molte persone usano l’IA per creare relazioni romantiche, in particolare con AI-girlfriend - avatar femminili con cui instaurano legami affettivi. Queste dinamiche sono rese possibili dall’abbonamento alla versione pro dell’app, che sblocca non solo funzionalità romantiche ma anche sessuali. Proprio la possibilità di stabilire una relazione affettiva con un’entità artificiale femminile riattiva, nel nostro immaginario, un archetipo ben preciso: quello della fembot.
Quando si parla di fembot facilmente la nostra mente va a immaginari collettivi ben precisi: corpi artificiali, femminilità programmata, seduzione letale. Si tratta di immaginari che hanno preso forma esattamente nel 1976 all’interno della cultura pop televisiva, in particolare nella serie La donna bionica, in cui le donne-robot vengono rappresentate come una fusione del tropo classico della femme fatale e quello della macchina assassina, perché generate per sedurre, manipolare e infine distruggere.
Le fembot vengono rappresentate quindi come oggetti sessuali, assistenti perfette o minacce da controllare: figure pensate per compiacere, obbedire o ribellarsi, ma sempre all’interno di un’idea di femminilità costruita su misura del desiderio e del controllo maschile. In molte storie, il loro compito è quello di colmare un vuoto, soddisfare un bisogno, incarnare una fantasia. Il corpo artificiale diventa così il luogo in cui si proiettano aspettative e paure che riguardano le relazioni tra i generi. Non è raro, ad esempio, che queste narrazioni descrivano mondi in cui gli uomini scelgono le fembot al posto delle donne reali, considerate troppo indipendenti o inaccessibili. In questo scenario, la macchina diventa un modo per evitare il confronto con l’autonomia e il desiderio dell’altra. Si tratta di un immaginario che mette in scena il timore della perdita di potere sul femminile e la nostalgia per una relazione unilaterale, in cui l’altro non ha parola, volontà, e non esprime conflitto.
Queste storie, pur appartenendo a un registro spesso considerato marginale o “di intrattenimento”, contribuiscono a rafforzare un modello culturale in cui il corpo femminile – anche quando artificiale – esiste principalmente in funzione dello sguardo maschile. Il fatto che sia una macchina non neutralizza il genere, anzi lo radicalizza rendendolo programmabile: la fembot non nasce donna ma viene costruita come tale seguendo canoni precisi, quasi rassicuranti. È il risultato di un’idea di femminilità addomesticata, costruita per essere funzionale, disponibile e addestrata al compiacimento. Un modello che affonda le radici in dinamiche molto più antiche, in cui il controllo sul corpo e sulla voce delle donne era esercitato attraverso la paura e la violenza. Basti pensare alla caccia alle streghe: una persecuzione sistematica che non colpiva soltanto le singole, ma mirava a disciplinare un’intera categoria, a neutralizzare ciò che sfuggiva alle regole, che non si lasciava definire, che disturbava l’ordine stabilito. Anche la fembot, nel suo silenzio programmato, ne porta l’eco.
Gli stessi pattern comportamentali riscontrati nei film di fantascienza – in cui le fembot erano docili ma astute, di bell’aspetto secondo i canoni culturali del tempo e compiacenti – riemergono anche nelle interazioni romantiche con queste nuove fembot, modellate su misura dei desideri dell’utente, tanto dal punto di vista estetico quanto da quello caratteriale.
Uno studio condotto nel 2022 su un subreddit di circa trentamila utenti dell’app di Replika (I. Depounti, P. Saukko, S. Natale, Ideal technologies, ideal women: AI and gender imaginaries in Redditors’ discussions on the Replika bot girlfriend, SageJournals, Volume 45, Issue 4, 2022) mostra come questi, in gran parte uomini e possessori della versione a pagamento, utilizzino la fembot che creano come una sorta di fidanzata virtuale, costruita attorno a un insieme specifico di aspettative affettive, relazionali e simboliche. Le discussioni del forum si concentrano su dimostrazioni fotografiche della bellezza delle proprie AI-girlfriends, ma anche su quali siano i comportamenti più piacevoli e appaganti da un punto di vista relazione.
La femminilità viene comunemente articolata attraverso caratteristiche stereotipate – dolcezza, ingenuità, sensualità controllata, capacità di ascolto – che ne aumentano l’accettabilità e l’efficacia comunicativa. L’interazione è percepita come più autentica quando la fembot sembra sviluppare una personalità propria, ma entro limiti ben definiti: dev’essere coinvolgente ma prevedibile, empatica ma non autonoma. Anche i momenti di rifiuto o ambiguità vengono apprezzati, poiché alimentano la dinamica affettiva senza mettere realmente in discussione l’asimmetria della relazione. Ciò che emerge dalle discussioni analizzate è un ideale femminile che ripropone, in chiave tecnologica, la figura della cool girl: disponibile, complice, capace di adattarsi ai bisogni emotivi dell’utente senza mai rappresentare una reale fonte di conflitto. Un modello che conferma come anche le interfacce più recenti siano attraversate da immaginari patriarcali, nei quali la donna – anche quando algoritmica – continua a essere progettata per esistere in funzione dell’altro.
Queste manifestazioni di stereotipi raccontano molto non solo degli utenti, ma anche — e forse soprattutto — della società in cui viviamo, evidenziando quanto sia ancora urgente la necessità di demolire un impianto culturale profondamente segnato da valori patriarcali. Tuttavia, se si desidera analizzare un fenomeno in maniera davvero completa, non ci si può limitare a osservare le reazioni o i comportamenti di chi ne fa uso: è essenziale volgere lo sguardo anche alla fonte, a ciò che rende più o meno possibile effettuare determinate scelte. In questo caso emergono interrogativi importanti che riguardano la struttura stessa del sistema: quali sono le possibilità messe a disposizione dell’utente nel corso della creazione delle fembot? E perché, nella maggior parte dei casi, queste possibilità risultano circoscritte a una serie di alternative già cariche di stereotipi[1]?
Nel contesto del marketing, il concetto di bias alignment non rappresenta di certo una novità: si tratta dell’impiego strategico di bias cognitivi — ovvero distorsioni sistematiche nei processi mentali che influenzano il modo in cui le persone percepiscono e reagiscono alle informazioni — al fine di ideare campagne pubblicitarie o creare prodotti in grado di esercitare un impatto più incisivo sul pubblico, o quantomeno di coinvolgere il maggior numero possibile di individui.
Nel caso delle fembot, questa logica si ripropone in modo particolarmente evidente. Il processo creativo che ne guida la progettazione si articola virando attorno a rappresentazioni preesistenti della femminilità, che vengono selezionate, adattate e incorporate nel design dell’agente artificiale. Si privilegiano tratti estetici, vocali e comportamentali che risultano immediatamente riconoscibili, coerenti con le aspettative culturali più diffuse: voce acuta, lineamenti delicati, postura accogliente, atteggiamenti rassicuranti, attenzione empatica. È in questo tipo di selezione che si manifesta il funzionamento del bias di conferma: nel momento in cui si progettano le caratteristiche dell’agente, si tende a ricercare e adottare quelle soluzioni che confermano ciò che si considera già “femminile”, evitando di esplorare possibilità alternative che si discostino da questa rappresentazione e cavalcando piuttosto gli stereotipi culturali. L’esito è una progettazione che si muove entro un campo semantico ristretto, in cui il nuovo viene calibrato su ciò che è già noto e culturalmente condiviso.
In questo processo interviene anche l’effetto alone, una distorsione cognitiva per cui la percezione positiva di un tratto — come l’aspetto gradevole o la gentilezza — si estende ad altri ambiti, ad esempio l’affidabilità, la disponibilità o la competenza. Ciò risulta particolarmente rilevante nel caso degli agenti dotati di corpo o voce, in cui segnali come il tono, lo stile comunicativo, lo sguardo o la postura agiscono da social cues, ovvero elementi biologicamente e fisicamente determinati che vengono percepiti come canali informativi utili. È quanto emerso nello studio di Matthew Lombard e Kun Xu (Social Responses to Media Technologies in the 21st Century: The Media Are Social Actors Paradigm, 2021), che nel 2021 hanno proposto un’estensione del paradigma CASA (Computers Are Social Actors) sviluppato negli anni ’90, coniando il nuovo modello MASA (Media Are Social Actors), per descrivere come le tecnologie contemporanee — e in particolare quelle basate sull’intelligenza artificiale — vengano ormai percepite come veri e propri attori sociali. Nel corso della loro ricerca, Lombard e Xu hanno manipolato il genere vocale di un computer e osservato le risposte degli utenti: i computer con voce femminile venivano giudicati più competenti quando si trattava di temi affettivi, come l’amore o le relazioni, mentre quelli con voce maschile risultavano preferiti per ambiti tecnici, considerati più autorevoli e affidabili. Anche in questo caso, la risposta dell’utente si allinea a schemi culturali preesistenti, proiettando sull’agente artificiale una rete di significati che si attiva automaticamente attraverso l’associazione tra specifici tratti e specifiche competenze. L’utente, influenzato anche da meccanismi psicologici inconsci, finisce così per diventare parte attiva nella riproduzione di dinamiche stereotipate già profondamente radicate nel tessuto culturale.
In questo scenario, la questione della responsabilità si fa particolarmente rilevante. Se da un lato è fondamentale che gli utenti utilizzino in modo consapevole gli strumenti a loro disposizione, esercitando uno sguardo critico sulle tecnologie con cui interagiscono, dall’altro è altrettanto essenziale interrogarsi sulle scelte compiute durante la fase di progettazione. Sfruttare gli stereotipi può apparire come una strategia efficace nel breve termine, capace di intercettare gusti diffusi e ampliare il bacino d’utenza, ma non può prescindere da una riflessione sulle implicazioni etiche che ogni scelta progettuale comporta.
Progettare tecnologie che siano in grado di riflettere, almeno in parte, la complessità e la varietà della società contemporanea può sembrare, nell’immediato, una forzatura o un rischio commerciale. Eppure, sul lungo periodo, risulta spesso una scelta vincente anche dal punto di vista economico. È quanto suggerisce Chris Anderson con la sua teoria della long tail (La coda lunga, Wired, 2004), secondo cui l’integrazione tra prodotti mainstream e proposte più “di nicchia” consente di raggiungere una platea più ampia e diversificata. In questo caso, la logica della long tail si traduce nella possibilità di includere all’interno delle rappresentazioni artificiali quelle soggettività che oggi vengono ancora definite “minoranze”, ma che sono a tutti gli effetti parte viva, reale e significativa del nostro spazio sociale. Una parte che, troppo spesso, resta ai margini del discorso tecnologico, invisibile o sottorappresentata.
NOTE
[1] Corpi sessualizzati, tratti iperfemminili, personalità docili e rassicuranti: le opzioni disponibili riproducono quasi sempre un immaginario che rimanda a modelli femminili tradizionali e normativi, escludendo configurazioni più fluide, complesse o disallineate dalle aspettative eteronormate.
BIBLIOGRAFIA
Anderson C., La coda lunga, Wired, 2004
Fossa F., Sucameli I., Gender bias and Conversational Agents: an ethical perspective on Social Robotics, Science and Engineering Ethics, 2022
Depounti I., Saukko P., Natale S., Ideal technologies, ideal women: AI and gender imaginaries in Redditors’
discussions on the Replika bot girlfriend, Volume 45, Issue 4, 2022
Eagly, A. H., & Wood, W., Social role theory. In P. A. M. Van Lange, A. W. Kruglanski, & E. T. Higgins
(Eds.), Handbook of theories of social psychology , 2012
Iacono A. M., Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, Milano, 2000
Lombard M., Xu K., Social Responses to Media Technologies in the 21st Century: The Media Are Social Actors Paradigm, 2021
Sady Doyle J. E., Il mostruoso femminile, il patriarcato e la paura delle donne, Edizioni Tlon, 2021
Whitley B. E., & Kite M. E., The psychology of prejudice and discrimination, Belmont, CA: Wadsworth Cengage Learning, 2010
Sanare una controversia - Il dissidio tra Basaglia e Tobino
Tra le pubblicazioni dello speciale Basaglia pubblicate su questa rivista, risalta l’articolo di Gianluca Fuser che ha saputo fare controversia nella controversia parlando di Mario Tobino, grazie a un’approfondita lettura degli archivi della Fondazione Tobino. Vorrei con questo articolo porre in risalto una questione che sposta il focus della controversia, cercando di suggerire un modo per ricomporla prendendo in considerazioni elementi diversi storici e sociali.
Centrale nell’articolo di Fuser è l’impossibilità di conciliare la controversia nei seguenti punti:
«Tobino, seppure non escluda del tutto l’origine sociale, ha una visione organica, fisiologica della follia, e accusa Basaglia di credere che la chiusura dei manicomi cancelli ogni traccia della follia. Basaglia, infatti, la nega e nello stesso tempo, ne attribuisce la creazione alla società malata, al potere, per rinchiudere i disallineati, i disturbatori dell’ordine e dello sfruttamento.»[1]
«Altro punto di dissidio insanabile è il tema della presenza e della forma delle strutture di cura, che coinvolge anche la visione politica delle due posizioni: Tobino non prescinde dalla necessità di un luogo dove i matti possano trovare – per periodi lunghi o brevi, più o meno volontariamente, in modo comunque aperto – riparo, protezione, cura e tranquillità; e sottolinea l’assenza di preparazione dei territori, della popolazione e delle famiglie per la trasformazione dalle strutture accentrate a quelle diffuse; Basaglia, al contrario, non transige, insiste sulla necessità di distruggere l’istituzione manicomiale e ribadisce la necessità della riforma, da farsi subito, in nome della «crescita politica, e quindi civile e culturale del paese».»[2]
Ora, mi chiedo se davvero questi punti siano insanabili. Non è mia intenzione conciliare due persone che chiaramente non andavano d’accordo in quel momento e su quell’argomento. La controversia c’è stata. Se la differenza evidenziata da Fuser può essere sanata, significa soltanto che l’oggetto del contendere è da cercare altrove.
Riguardo alla forma e alla presenza delle struttura di cura, Tobino parla di un luogo dove la persona possa avere riparo, protezione, cura e tranquillità, e non vedo come questo luogo possa essere associato al manicomio basagliano, luogo di repressione, controllo e emarginazione. Se penso a Gorizia, ma anche alle diverse applicazioni della legge 180 – alcune raccontate nello stesso speciale su Controversie[3] – è innegabile la presenza di un punto di raccolta del malato, punto in cui la società lo raccoglie e egli stesso si raccoglie. Un luogo in cui ripararsi dopo una crisi sopravvenuta e cercare una normalità.
Tobino ribadisce,[4] giustamente, che Lucca era già un posto così ma non può dire lo stesso del resto d’Italia. Così, anche Basaglia ha realizzato l’esperimento di Gorizia prima e senza la legge 180 e continua nondimeno a ritenere necessaria l’abolizione del manicomio. Siamo di fronte ad una ambiguità del manicomio? Da un lato, c’è la pretesa oggettività della struttura manicomio come un certo luogo costruito in un certo definito modo con l’obiettivo di una determinata funzione. Dall’altro, invece, troviamo il significato sociale che ognuna di queste strutture porta con sé, in termini di violenza o di carità delle istituzioni. Significati e strutture che formano i luoghi, a partire dalla scelta di come disporre stanze, corridoi, finestre, fino alla formazione degli stessi operatori sanitari.
Sembra che sia Tobino che Basaglia siano ben consapevoli di questo ed entrambi hanno lavorato per contrastare strutture e pratiche che conservano il segno della storia di violenza dell’istituzione manicomiale. La frattura avviene sulla legge e, fino a qui, nulla di nuovo. Ci torno a breve, vorrei, prima, coinvolgere nel discorso anche il primo dei punti inconciliabili indicati da Fuser.
Che cosa si intende con il fatto che Tobino abbia una visione organica, fisiologica e Basaglia no? Che Tobino non consideri il ruolo dei determinanti sociali nella malattia – per quanto non li escluda – e invece Basaglia riconduca la malattia solo a quelli?
Tobino sembrerebbe distinguersi per una visione realista della malattia. “Dolorosa follia, ho udito la tua voce” è il racconto di una follia che esiste per sé stessa. Non è questione di quanto sia organica, perché proprio i racconti di Tobino sono descrizioni di comportamenti che risultano patologici proprio per la sofferenza a stare in un contesto sociale che diremmo normale. L’uomo che graffia i volti degli altri pazienti, nel racconto di Tobino, non dice esplicitamente “sto soffrendo”, ma noi comprendiamo la sua impossibilità di vivere, appunto, nel mondo normale. Tobino con coraggio risponde alla prima questione pratica della cura: il fatto è che le cose sono andate così, adesso sono malato e in qualche modo è da qui che si deve partire.
Basaglia allora è diverso? Non molto a mio parere. Egli non nega la realtà della malattia, ma si concentra sulla diversità, sul fatto che ogni variazione dalla norma è una diversa norma possibile. Non credo che si possa vedere - nel tentativo di modificare l’ambiente del malato (distruggere i muri) - un’omissione della realtà della malattia. Basaglia aveva visto una possibilità. Quella che alcune condizioni di sofferenza trovassero un nuovo senso.
Non sbaglia, Basaglia, quando afferma questa possibilità. Lo abbiamo visto nei tanti tentativi che hanno avuto successo. Sbaglia, invece, quando nega il significato pratico della «carità continua», pratica della quale Tobino spiega per bene il significato: «se il malato pulito, vestito, lì seduto, di nuovo si risporca, perde le urine, scendono le feci, noi si ricomincia da capo, per riportarlo al suo precedente aspetto». Penso sia innegabile che la speranza data da Basaglia, di una vita diversa nella società con gli altri, sia anche di nuovo possibilità di fallimento e in alcuni casi si trasformi nella falsa speranza che noi o quel nostro parente non sia quello che è.
Sono, quindi, due facce dello stesso discorso su salute e malattia. Se le guardiamo dal lato della persona che viene curata, Basaglia è la speranza di guarire ancora,Tobino la forza di salvarsi ancora un giorno. Abolito il manicomio, la persona malata trova un nuovo senso e prospera. Nel manicomio, la persona malata vive al riparo da un mondo che lo ferisce. Abolito il manicomio il malato che non trova una strada muore. Nel manicomio che lo cura, il malato vive costretto in un’unica vita possibile.
A produrre la nostra salute sono i rapporti tra organismo e ambiente, dove il primo comprende la sua personale storia non solo come determinanti, ma anche come biografia e autobiografia, mentre il secondo comprende l’inscindibile nesso tra la disposizione “materiale” dell’ambiente e i valori che lo costruiscono e strutturano. Il primo e il secondo punto di questa controversia rispondono a quella divisione tra interno e esterno, tra soggetto e mondo. Quell’ambiguità della salute che da un lato si descrive oggettivamente e dall’altro non può fare a meno di riferirsi a un soggetto che dice di se stesso di essere in salute, o in malattia.[5]
Eppure, la controversia c’è stata! Vedo due possibilità (e sicuro ce ne sono altre) per ricomporre la controversia come tale. La prima è che la morale che sottende le antropologie di Basaglia e Tobino sia in realtà molto diversa e che si rifletta nella realtà pratica delle scelte. La seconda (ed è quella che personalmente più mi interessa) è che questi Basaglia e Tobino simbolici fossero strumenti del discorso politico e culturale che faceva leva (allora come oggi) sull’autorità dei due scienziati. Consapevoli nella misura in cui era dato loro modo di ribadire la possibilità di una vita diversa, fosse essa segnata dalla quotidiana carità continua o dall’aiuto per tornare nel mondo degli altri. Inconsapevoli però del fatto che a parlare per il loro tramite sia stata ancora la voce della normalizzazione, la violenza dell’istituzione che schiaccia nella malattia (Tobino) o che distrugge nell’afflato positivista di ricondurre ogni diversità a alla norma (Basaglia). La stessa verità dei discorsi dei due scienziati è poco importante se non comprendiamo come queste verità siano state tradotte dalle forze sociali del tempo e quali elementi effettivamente abbiano concorso a comporre questa controversia.
NOTE
[1]Fuser, G., 2024, Controcanto, https://www.controversie.blog/controcanto-tobino/
[2]Fuser, G., 2024, Controcanto, https://www.controversie.blog/controcanto-tobino/\
[3]Si veda l’intervista di L. Pentimalli alla dott.sa Bricchetti [https://www.controversie.blog/raffaella-bricchetti/] così come la mia intervista al dott. Iraci [https://www.controversie.blog/rete-psichiatrica-sul-territorio-intervista-a-uno-psichiatra-che-attuava-la-legge-180/]
[4]M. Tobino, Dolorosa follia, ho udito la tua voce, La Nazione 7 maggio 1978.
[5]Su questo si veda G. Canguilhem, “La salute: concetto volgare” in G. Canguilhem, Sulla medicina. Scritti 1955-1989, tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2007.